E' giusto e doveroso chiedere la depenalizzazione universale dell'omosessualità
"In merito alla proposta francese all’Onu di depenalizzazionedell’omosessualità e alle critiche che ha sollevato nelle nostresocietà democratiche, dove il legittimo dibattito sull’omosessualità èperlopiù circoscritto all’equiparazione dei diritti degli omosessuali aquelli degli eterosessuali, vorrei segnalare che forse non ci rendiamo conto che in vastearee del globo la questione è ancora ai prodromi e riguarda la tuteladel banale diritto all’esistenza. Non dimentichiamoci che il PresidenteIraniano Ahmadinejad ebbe il coraggio di dire nel 2007, alla ColumbiaUniversity, che nel suo paese gli omosessuali non esistono. Infatti liimpicca. L’omosessualità è considerata reato in 80 paesi nel mondo, conpene variabili dalle multe, al carcere, alla morte. Siamo testimoni diautentiche campagne di odio nei confronti degli omosessuali, che noi inEuropa non possiamo nemmeno immaginare. Quindi, qualunque idea si abbiasui matrimoni gay o sulla morale sessuale individuale, chiedere, comeha fatto la Francia in sede Onu, che le persone omosessuali non venganoperseguite, giudicate e condannate “in quanto omosessuali” non è sologiusto, ma è - o dovrebbe essere - per tutti doveroso. Ci permettiamoquindi, con tutto il rispetto, di osservare che la convinzione dimonsignor Celestino Migliore, per la quale definire discriminata lacategoria del omosessuali significa invitare a nuove discriminazioni, èquantomeno eccessivamente ottimista e, se mi si consente, un po’pretestuosa. La questione è ben più primitiva e grave: qui è in ballola vita di migliaia di persone che rischiano di venire giustiziate oimprigionate, a causa del loro orientamento sessuale."
Ebrei sempre nel mirino
Fra i 26 stranieri innocenti trucidati a Mumbai, otto, anche se i numeri sono ancora tutti da verificare, sono ebrei. Se fossero israeliani o meno non importava niente ai terroristi che avevano messo la casa dei Chabad «Nariman House» fra gli obiettivi. I macellai avevano due scopi generici: uccidere gli occidentali, specialmente americani e inglesi, i nemici imperialisti dell’islam; uccidere i cittadini dell’India, Paese traditore asservito all’imperialismo. E poi, un obiettivo specifico, uno solo: uccidere gli ebrei. Fra dieci obiettivi di massa come la stazione, due ospedali, svariati centri cittadini, i grandi hotel Oberoi e Taj ce n’era uno, invece, apparentemente insignificante, la casa ebraica dei Chabad, un centro guidato da un rabbino ventisettenne con una moglie di 26 anni e un bambino di 2. Una casa dei Chabad è un punto di raccolta per pecorelle smarrite, diremmo noi, un luogo in cui persone molto religiose, in questo caso appunto i Chabad, cercano di raccogliere ragazzi in viaggio, che spesso sono israeliani, che si perdono dentro il fascino troppo profumato dell’India; là si dorme, si mangia kosher, si canta insieme, si viene richiesti di stare tranquilli (niente musica rock, niente sesso) e di unirsi a qualche preghiera. A Pasqua e a Kippur, per le grandi feste, questo è un rifugio per ebrei di ogni età e provenienza. [...]
Siamo ciechi e sordi alla minaccia integralista
Mentre scriviamo, a più di 24 ore dal suo inizio, l'attacco terroristico di Mumbai è ancora in atto, come per rappresentare quello che il mondo intero vive ormai da parecchi anni senza rendercene conto: una vera guerra del terrorismo contro tutto quello che viene ritenuto parte dell'egemonia occidentale, tutto ciò che appare un ostacolo sulla strada della vittoria della Jihad mondiale. L'ammirevole India, il grande protagonista democratico del subcontinente asiatico, spaccato e povero ma fieramente avviato sulla via della democrazia e dello sviluppo, è in questo momento il teatro della marcia terrorista che se non ci affretteremo a combatterla, lambirà le nostre porte. Lo scontro mussulmano-indù, sempre latente con una minoranza di 160milioni di mussulmani, è ritornato a galla nel 2002. I mussulmani, all'attacco hanno subito severe repressioni: ma l'attuale conflitto per il Kashmir con il Pakistan è di fatto condito di moltissime venature fondamentaliste, che hanno reso i giovani islamici massa di manovra per i più grandi disegni jihadisti. [...]
Per sopravvivere Amman cambia rotta e avverte Israele
Nella notte di martedì scorso, nelle tenebre mediorientali, Ehud Olmert e il ministro israeliano della Difesa Ehud Barak sono andati in visita al palazzo di re Abdullah ad Amman, invitati d’urgenza. Il giovane sovrano ha poi convocato nel palazzo di Aqaba giovedì il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen. Cose importanti? Per carità. Il primo ministro israeliano ha persino negato che l’incontro abbia mai avuto luogo, ma l’implacabile stampa israeliana ha scoperto tutto: Abdullah ha chiesto drammaticamente a Olmert di trattenersi dall’entrare a Gaza con l’esercito nonostante la pioggia di Kassam lanciati da Hamas che di nuovo perseguita le città di Sderot, Ashkelon e i kibbutz (ieri ci sono stati altri lanci): sappiamo che ponderate l’invasione di Gaza anche per aiutare Abu Mazen, ha detto il re, ma non fatelo, questo metterebbe la Giordania in grave pericolo, forse darebbe fuoco a tutte le polveri del Medioriente. I palestinesi, ha detto, che rappresentano il 75% della popolazione, si rivolterebbero contro la nostra pace con voi; la Fratellanza islamica egiziana, gli Hezbollah, la Siria e l’Iran, tutte le forze estremiste affiancherebbero Hamas. Olmert ha risposto che a Israele la sorte del regno hashemita sta molto a cuore, e che la valutazione dell’intervento eventuale terrà ben presente i desideri dell’unico Paese che ha firmato una pace con Israele, oltre all’Egitto. [...]
Necessario un ripensamento della missione Unifil
19 novembre 2006
Signor Presidente, onorevoli colleghi, mi associo alle considerazioni generali svolte dall'onorevole Pianetta e non ritorno, quindi, sullaquestione. Però, è per me un obbligo morale svolgere due osservazionigenerali e una specifica.
Prima di tutto, ritengo sia giusto che le nostre missioni siano tali inquanto rivolte alla ricerca della pace e della stabilità mondiale.Tuttavia, voglio riaffermare qui che è anche in corso, in parecchi deiteatri di guerra in cui ci troviamo ad agire, un'autentica guerracontro la Jihad islamica. Si tratta di un fatto che non dobbiamodimenticare, perché altrimenti, se le nostre intenzioni non vedonochiaro, al di là di questa volontà complessiva - che approvo -dell'intera comunità europea, rischiamo di non avere chiaro l'obiettivodelle nostre missioni.
In secondo luogo, sempre come considerazione di carattere generale, èmolto importante per tutti noi evitare il sacrificio dei civili; anchequesto è un compito morale di prima grandezza. Bisogna, però, ricordareche il sacrificio dei civili deriva, per la gran parte, dal fatto checi troviamo in teatri in cui la guerra asimmetrica è di uso generale.Da parte di elementi della guerriglia e del terrorismo, l'uso deicivili come scudo umano (che è un crimine di guerra di prima grandezza,attribuito, secondo le Convenzioni di Ginevra, unicamente a chi lomette in atto) è la pratica comune. Dobbiamo studiare questo argomentoanche a partire da questa considerazione, altrimenti non possiamovenirne a capo. [...]
La tregua rotta a Gaza, la strategia segreta di Hamas
Dal 19 giugno scorso l’infernale vita dei cittadini di Sderot, su cui surrealmente giorno dopo giorno dallo sgombero da Gaza nell’agosto 2005, si sono abbattute migliaia di missili kassam, era gradualmente migliorata. La Tahadiya, una tregua di sei mesi e che quindi avrebbe dovuto concludersi il prossimo 19 gennaio, si era stabilizzata in circa un mese: il tempo per Hamas, che governa Gaza, di imporre uno stop anche alle altre organizzazioni terroriste nella sua giurisdizione per impedire che uomini dal volto mascherato andassero con i lanciamissili in spalla fino presso il confine a sparare, per poi sgombrare il campo e sfuggire alla risposta israeliana. Adesso, la tregua sembra alla sua conclusione: in pochi giorni Sderot, le cittadine e i kibbutz del sud vicino al confine, di nuovo tremano per i bambini, mancano i rifugi, quando suona la sirena nessuno sa dove mettersi al riparo mentre arriva il missile. Israele tutta si domanda se alla fine sia stata una buona idea consentire che Hamas utilizzasse questi mesi per scavare tunnel dall’Egitto, autentiche autostrade oltre che di generi di consumo di ogni tipo, soprattutto di armi avanzate e abbondanti per milizie sempre meglio addestrate. Il premier Ehud Olmert ha detto ieri che non ci sono equivoci: Hamas è responsabile della rottura della tregua, le azioni di Israele sono solo risposte che diventeranno sempre più serie e puntuali ad ogni attacco. Anche Ashkelon venerdì è stata preso di mira da missili Grad, di migliore stabilità e più lunga gittata dei Kassam. [...]
Barack e quei timori a Gerusalemme
È la vulnerabilità della politica della speranza, il tradimento dei pensieri carichi di buone intenzioni, il colpo della strega che proviene dall’alzarsi dalle belle poltrone dei colloqui di Camp David per trovarsi d’un tratto nell’Intifada del terrore che fa esplodere bar, ristoranti, autobus, supermarket, ciò che oggi crea ansia in Israele sulla futura politica di Obama. Obama piace istintivamente allo spirito ebraico liberal, alleato dei neri nella lotta contro il razzismo e per i diritti umani: il 74% degli ebrei americani l’ha votato, ma in Israele il futuro è più importante delle appartenenze e delle civetterie.
Obama potrebbe non tenere conto della storia della speranza in Medio Oriente, storia tragica, con tante occasioni volutamente perdute da un mondo arabo che sogna la distruzione di Israele mentre dice "land for peace". Obama, si vede nei suoi discorsi, non ritiene primario l’integralismo religioso, il problema del terrorismo, e desidera distanziarsi da Bush prima possibile. Israele l’ha sperimentato soprattutto con Arafat, designato illusoriamente come partner di pace prima del premio Nobel fra i peggio assegnati della storia. Israele, e lo dicono decine di dichiarazioni e commenti, inclusa la telefonata di Olmert a Obama e persino un messaggio molto affettuoso di Netanyahu, non pensa che il presidente eletto sia ingenuo, che possa avventurarsi in passi fatali. Ma l’Iran incombe. Non si scherza con il pericolo iraniano: meglio di tutti lo ha scritto lo storico Benny Morris che ha dipinto Israele devastata dall’atomica, la sua arida terra restituita ai frutti e ai fiori, di nuovo una terra desolata; le case, le scuole, i ristoranti, gli ospedali tombe invece che segnali di civiltà e di vita. [...]
Alla prova del Medioriente
Non c’è zona del mondo più immediatamente investita del Medio Oriente dalla svolta fatale che Obama potrebbe portare: qui, un cambiamento della politica degli Stati Uniti potrebbe implicare, in primis, la revisione del mitico, intimo rapporto fra i popoli e i governi di Israele e degli USA. Il mondo arabo spera che venga a cadere il sentimento di un’indispensabile Israele, unico Paese democratico, Paese modello nell’area, promosso a bandiera e baluardo degli USA nella sua larga, criticatissima guerra contro il terrorismo e per la democrazia. Bush ha promosso l’affermazione americana del diritto alla difesa di Israele al tempo dell’Intifada del terrorismo suicida. Gli USA hanno anche rovesciato l’idea che il teorema “land for peace” significhi rinuncia territoriale con conseguente, e magari eventuale, impegno palestinese; visti i risultati dello sgombero di Gaza, ha statuito che ritirarsi per Israele non significa pace e sicurezza, ma che per arrivarci occorra una “road map”come quella di Annapolis. Obama potrebbe tornare a Annapolis, e si sa che Condi Rice ha già cercato di convincerlo, ma Obama ha una linea di politica internazionale che innanzitutto vorrà porsi in antagonismo con quella di Bush, svoltare rispetto alle caratteristiche del suo predecessore, fare qualcosa di spettacolare che potrebbe essere, dato che l’Afghanistan e l’Iraq non sono terreni in cui si possano fare passi avventati, l’apertura di un tavolo di discussione con un Iran solo avido di guadagnare tempo per le sue strutture atomiche in costruzione. [...]
A noi mancano gli eroi positivi
Il Giornale, 3 novembre 2008
Amare Obama da destra non è un fenomeno strano, ma ha un contenuto profondo, e un po’ preoccupante. Non è infatti semplicemente il desiderio di fare un surf, all’occasione, sulla grande onda del corrente modello della bontà mondiale, così larga, così iconograficamente giovane e attraente; è semmai la pulsione, sempre forte in Italia, di fare qualcosa di sinistra.
La mancanza di uno sfondo teorico e estetico sufficiente per la cultura conservatrice, la incapacità a divenire padroni del discorso pubblico, legittimato dagli intellettuali e dagli artisti, è una malattia italiana. Non è così nella storia degli Stati Uniti: lo spirito conservatore conta eroi positivi alla John Wayne fra gli scrittori, i teorici, gli economisti... La sua storia è profonda, si fonda sulla lotta per la sopravvivenza, la cultura della frontiera, il capitalismo individualistico, la mancanza di vincoli con qualsiasi ancien régime, la mistura fra guerra e Costituzione (Washington era un generale); l’Inghilterra ha prodotto parecchi Churchill; la Francia vanta un De Gaulle, in Israele un Begin o uno Sharon, gente di guerra che la guerra e il valore personale non hanno mai ripudiati teoricamente, ma che sa sgomberare l’Algeria, il Sinai e Gaza.
Da noi, nonostante l’innegabile sforzo di tanti conservatori, il peso delegittimante dell’identificazione della Chiesa (che ha conteso allo Stato la cosa pubblica, non l’ha nutrito) e del fascismo con la destra, impedisce alla cultura conservatrice di decollare. Con Obama per un attimo puoi illuderti di vivere nel consenso, puoi mescolarti con una folla che chiede il Nuovo, grande categoria, per un attimo ti puoi dire Yes! you can nel momento in cui invece la delegittimazione sale fino al naso, la piazza ti urla contro, e il tuo modo d’essere, anche quando Berlusconiha il 70% dei consensi, in società risulta sempre delegittimato [...]
Il meticciato non c’entra
L'entusiasmo che ha accompagnato anche da noi la campagna elettorale di Barack Obama è quasi commovente, perché è l'unica "cosa di sinistra" su cui l'opinione pubblica appunto di sinistra abbia avuto ultimamente l'occasione di esercitare la sua fiducia nel futuro. E a ragione: Obama è di sinistra sui temi economici e sociali e in politica estera, dall'aumentare le tasse e ridistribuire, fino al giudizio sull'Irak e sul parlare con l'Iran e senza precondizioni. Barack Obama è comunitario e messianico nei toni e nella sua storia personale, sua moglie ha dichiarato che è la prima volta, da quando il marito è candidato, che ha fiducia negli States, le foto della sua cena con Edward Said, molto cordiale, potrebbero figurare in qualsiasi album di ricordi di un rappresentante della sinistra intellettuale americana, così come il suo gesto di togliersi la spilletta con la bandiera a stelle e strisce per protestare contro la guerra in Irak. E' legittimo e logico che la sinistra e l'Europa che crede nell'appeasement e che ha odiato Gorge Bush sbagliando in toto, secondo noi, il giudizio che ne darà la storia, ne faccia il suo campione: quello che non si può invece accettare è che si attribuisca alla figura di Obama un ruolo palingenetico, salvifico, legato soprattutto al colore della sua pelle, alla sua storia personale di "meticcio", una specie di messia che porta un soffio di cultura nuova al mondo. Così lo qualifica Gad Lerner nell'articolo che ieri appariva in prima pagina di Repubblica. Per due ragioni: Obama non è il primo afroamericano sulla strada del grande potere, né, per altro, è un meticcio culturale. Fra l'altro era questo il meticciato pericoloso cui si riferiva il senatore Marcello Pera, quello delle usanze e delle convinzioni politiche inaccettabili dalla nostra civiltà (condizione della donna, mutilazioni, poligamia, jihad islamica), non certo quello delle origini o del colore della pelle. [...]