Diritti umani e contro-terrorismo al Consiglio d'Europa
E’ possibile rispettare i diritti umani quando le forze armate intervengono in operazioni contro il terrorismo? Per rispondere al quesito l’On. Fiamma Nirenstein, membro della delegazione parlamentare italiana presso il Consiglio d’Europa di Strasburgo, ha organizzato assieme al suo collega polacco Tadeusz Iwinski, una tavola rotonda. Oltre a numerosi parlamentari e giornalisti, hanno preso parte al dibattito in qualità di esperti “sul campo” il colonnello inglese Richard Kemp, comandante delle forze britanniche in Afghanistan nel 2003, e il professore Barry Rubin, direttore del Global Research in International Affairs di Tel Aviv. A moderare l'incontro è stato Alexander Guessel, Coordinatore delle attività di contro-terrorismo del Consiglio d'Europa.
Tutti gli interventi sono partiti dal presupposto basilare che una delle maggiori violazioni di diritti umani consiste nell'attacco consapevole della popolazione civile da parte di autentici eserciti di terroristi in quasi tutti i teatri di guerra apertisi nel mondo, che hanno come obiettivo principale i civili del nemico e che usano i priopri civili come scudi umani. Gaza e l'Afghanistan sono gli esempi che stanno quotidianamente di fronte all'opinione pubblica di tutto il mondo. I vari interventi – tutti molto appassionati e sentiti – hanno purtroppo evidenziato come, nonostante i buoni propositi, non vi siano risposte certe a questa domanda, e hanno auspicato un aggiornamento degli strumenti giuridici e delle tecniche di guerra che possano consentire il minore danno alle popolazioni civili e la più larga garanzia di rispetto dei diritti umani. [...]
LEGGI RAZZIALI: FINE DI UN DOLOROSO EQUIVOCO PER CITTADINI ITALIANI VITTIME DI DISCRIMINAZIONE
Dichiarazione dell'On. Fiamma Nirenstein, Vicepresidente della Commissione Esteri della Camera
Tutti ricordano certamente la vicenda del signor Bert Vorchheimer, che sul Corriere della Sera ha occupato per diversi giorni intere pagine.
Il signor Vorchheimer, nato a Milano ed emigrato nel 1944 negli Stati Uniti, denunciava l'impossibilità di riacquistare la cittadinanza italiana, che gli fu revocata in seguito alle leggi razziali del 1938. All'epoca seguimmo assiduamente la vicenda e sollevammo la questione rivolgendoci al Ministro dell'Interno Maroni e al sottosegretario Mantovano, che mostrarono ambedue grande sensibilità.
Apprendiamo ora che il Ministero dell'Interno, con una circolare del 15 giugno, ha provveduto a fare chiarezza su questa dolorosa vicenda.
La sorte del signor Vorchheimer fu quella di tutti quei cittadini che avevano acquisito la cittadinanza italiana dopo il 1 gennaio 1919. Il Regio decreto n. 1381/38 e il RDL 1728/38 prevedevano infatti la revoca delle "concessioni di cittadinanza italiana fatte a stranieri ebrei posteriormente al 1 gennaio 1919". Questi cittadini, a fronte delle persecuzioni, sono stati costretti in molti casi ad emigrare all'estero, facendo domanda di cittadinanza ai paesi che li avevano accolti. Nonostante nel 1944 tali leggi furono abrogate, questi cittadini, nel momento in cui si sono rivolti alle rappresentanze diplomatiche italiane all'estero per vedere ripristinata la loro cittadinanza italiana, si sono trovati ad affrontare lunghe trafile burocratiche, spesso con esito negativo, come denunciato dal signor Vorchheimer.
La circolare ministeriale di questi giorni chiarisce che "poiché non si trattò di una scelta volontaria in quanto determinata dalle tragiche vicende storiche, i nostri ex connazionali, salvo espressa rinuncia, non hanno mai perso la cittadinanza italiana, trasmettendola dunque ai loro discendenti".
Si pone così fine a un equivoco che ha amareggiato la vita di cittadini sui cui già nel passato si era accanita la sorte di un'odiosa discriminazione razziale.
In piazza per la democrazia in Iran

Sono con tutto il cuore al fianco del popolo iraniano, contro gli orrori di un regime antisemita e guerrafondaio, e spero che i governi democratici di tutto il mondo, sappiano finalmente porgere quell'aiuto sostanzioso e decisivo, che sino a oggi purtroppo è mancato, ai dissidenti che difendono i diritti umani e che sono contro la bomba atomica.
Per questo aderico e sarò presente alla manifestazione promossa da Il Riformista e Radio Radicale, oggi, mecoledì 17 giugno, dalle 18:30 a Piazza Farnese a Roma.
Spero di incontrarvi lì.
GUARDA IL VIDEO DELLA MANIFESTAZIONE:
DIAMO UNA MANO AI RAGAZZI DI TEHERAN
di Antonio Polito
Dobbiamo dare una mano ai coraggiosi di Teheran. Sfidare il regime, in così tanti, per chiedere elezioni libere senza brogli, è una prova che l'Iran può cambiare, se il mondo gli dà una mano a cambiare. Spedite la foto che pubblichiamo in questa pagina all'ambasciata iraniana a Roma, la troverete sul nostro sito www.ilriformista.it insieme con l'indirizzo mail. Venite a Piazza Farnese domani sera, alle 19, dove il Riformista e Radio radicale terranno una no-stop di solidarietà col popolo iraniano. Mettete qualcosa di verde, un nastro, una t-shirt, un berretto, per dire ai ragazzi di Teheran che non sono soli. Gli europei e gli americani hanno una responsabilità nei confronti dell'Iran. E si comportano invece spesso in modo schizofrenico. I governi passano da minacce di intervento armato, per fermare la corsa al nucleare di un regime fanatico e pericoloso, a profferte di dialogo e di strette di mano. Negli ultimi tempi l'Italia si è distinta in questo secondo atteggiamento, e ancora ieri Frattini ha detto che sì, l'Europa è preoccupata della sorte dei ragazzi che protestano a Teheran, sì, è preoccupata dei brogli elettorali, sì, è preoccupata delle violenze del regime: ma la priorità resta l'Afghanistan, e quindi resta anche l'invito al governo iraniano per i colloqui di Trieste. [...]
La sfida di Netanyahu: ora tocca ai palestinesi decidere
Il Giornale, 16 giugno 2009
Per pronunciare quelle tre parole, Stato palestinese smilitarizzato, Bibi Netanyahu ha sofferto i dolori del parto. La casa del padre, lo storico Benzion, il sacrificio del fratello Yoni capo dell’operazione di Entebbe, la sua stessa vicenda di membro della Saieret Mathal, l’unità speciale antiterrore, i libri che fanno di lui un antesignano nel disegnare i pericoli del terrorismo, tutto gli vietava di promettere lo Stato ai palestinesi. Eppure l’ha fatto, non ha detto né «autonomia» né «confederazione con i giordani», ha proprio parlato di Stato palestinese a fianco dello Stato ebraico. E qui sta l’altro punto di novità: Netanyahu ha spostato il tema alla questione reale, quella che nel corso di questi anni ha impedito la pace con i palestinesi. E non si tratta di territorio: si tratta del rifiuto arabo. Bibi l’ha gettato sul tappeto come questione politica, e adesso non ci sarà più chi potrà ignorarlo. Adesso, la palla è nel campo palestinese e arabo, ma anche nelle mani di Obama. Il presidente americano ha fatto sapere di ritenere il discorso un importante passo avanti, ma in realtà il passo deve farlo lui e chiedere ad Abu Mazen: ma voi lo Stato degli ebrei accanto al vostro, lo accettate davvero? Fino a che punto desiderate il vostro Stato? O desiderate di più la scomparsa di Israele? [...]
L'esodo dimenticato degli ebrei
Oggi, in un’audizione alla Commissione Esteri della Camera, è stata per la prima volta affrontata la questione dei profughi ebrei dai paesi arabi. La Commissione ha ascoltato il Prof. Irwin Cotler, già Ministro della Giustizia Canadese e presidente onorario dell'organizzazione "Justice for Jews form Arab Countries" e il Prof. David Meghnagi dell'Università Roma Tre, lui stesso scappato dalla Libia nel 1967.
E’importante portare alla conoscenza degli italiani quello che nessuno sa: ovvero che oltre alla ben nota nakba palestinese, esiste una ben più voluminosa, e prolungata nei tempi, nakba ebraica, che è nata dal cuore dell’antisemitismo arabo nei confronti degli ebrei, una realtà che si contrappone al mito della tolleranza islamica nei confronti delle minoranze religiose.
Il numero di profughi ebrei cacciati dai paesi arabi si aggira intorno al milione, superando quindi quello dei palestinesi. La portata delle persecuzioni e dei sequestri di beni fu ben più duratura: ebbe il suo apice nel periodo 1945-48 e poi di nuovo nel 1967.
La nakba palestinese fu causata dall’invito arabo ad andarsene e da una guerra contro Israele da parte di cinque eserciti che si opposero alla risoluzione di partizione dell’Onu del novembre 1947, mentre l’espulsione degli ebrei dai paesi arabi era rivolta a una popolazione che non aveva mai adottato un atteggiamento ostile verso quelle che consideravano le loro patrie.
E' impressionante come questi fatti storici siano del tutto ignorati: siamo abituati ad assistere alla commozione generale per i discendenti dei profughi palestinesi del 1948, il cui status è mantenuto artificiosamente come alibi e arma per una politica anti-israeliana, mentre tutti ignorano invece questo enorme esodo ebraico, che è costato vite e sofferenze.
Dopo la proposta del premier israeliano Netanyahu, nel suo discorso di domenica, di trattare sulla base di due stati per due popoli, si capisce quanto ci sia di attuale in questa questione: oltre all’evidente necessità di non invadere Israele con un numero sovrastante di nipoti e pronipoti di profughi palestinesi, così come accadrebbe se si applicasse il - peraltro univoco - diritto al ritorno, di nuovo la leadership palestinese solleva la questione dell’impossibilità di riconoscere Israele, la patria degli ebrei, come Stato ebraico. Questa è la negazione dell’identità degli ebrei come nazione, che va a braccetto con la negazione dell’identità della sofferenza ebraica provocata direttamente dall’antisemitismo arabo e che ha prodotto quest’altra nakba ignota ai più, che è giunto il momento che il mondo metta almeno alla pari di quella dei palestinesi.
La nostra iniziativa non è di rivendicazione, ma di memoria, verità e giustizia nella speranza che il riconoscimento delle reciproche sofferenze serva alla causa della pace.
Potete riascoltare l'audizione qui:
e la conferenza stampa che è seguita, qui:
Il mondo diventa vittima impotente dell’odio di piccoli e grandi dittatori
Chavez, kim Jong-li, Ahmadinejad: il comune desiderio d'umiliare l'Occidente
Quale orribile risultato. Mettiamo pure che i brogli elettorali riducano la proporzione della vittoria di Ahmadinejad, mettiamo anche che gli scontri a Teheran possano modificare o condizionare la leadership iraniana. È molto difficile tuttavia evitare il pensiero che le preferenze per il futuro, ed anche ex, presidente iraniano, sono il doppio di quelle per Hossein Moussavi, la pallida stella di un cambiamento che tuttavia avrebbe avuto un carattere interno. È anche interessante, e denota il consueto ottimismo pacifista, che la stampa di tutto il mondo e i vari leader mondiali abbiano seguitato a immaginare che Moussavi potesse vincere, nonostante fosse facile prevedere la vittoria di Ahmadinejad: il supremo ayatollah Khamenei, tutta la classe dirigente della Repubblica islamica hanno rinnovato semplicemente la scelta fatta a suo tempo, nel 2005, per l’uomo che avrebbe raddrizzato l’Iran dopo otto anni di tentennamenti del riformista Khatami. Khamenei, che durante la campagna ha tenuto un atteggiamento da Sibilla Cumana, tuttavia alla fine l’ha detto chiaramente: «Noi siamo favorevoli al candidato più capace di contrapporsi all’Occidente». [...]
Un disegno per Ghilad Shalit
questo video è stato realizzato da una scuola elementare di Pistoia, dopo che le insegnanti avevano letto il libro Quando il pesciolino e lo squalo s’incontrarono per la prima volta tratto da una storia che Ghilad Shalit aveva scritto quando era piccolo. Tra due settimane, il prossimo 25 giugno, ricorrerano 3 anni dal rapimento del giovane soldato, e nessuna notizia certa si ha finora sul suo destino, nessun operatore umanitario ha mai potuto fargli visita, contro quanto stabilito da ogni convenzione internazionale.
Renzo Foa: il suo amore per Israele
Martedì sera è scomparso Renzo Foa, dopo aver lottato a lungo con la malattia. Liberal, il giornale che ha diretto fino all'ultimo, gli dedica il ricordo di tanti amici e personalità.
Questo è il mio.
"Il suo amore per Israele"
Liberal, 11 giugno 2009
Prima di raccontarne una sola, lasciatemi dire quante cose belle potrei ricordare parlando di Renzo Foa: a me colpiva particolarmente il suo garbo, la sua gentilezza, la voce bassa e quieta quando si esercitava in osservazioni molto pungenti e ironiche; mi soddisfaceva il fatto che una domanda a lui non rimanesse mai inevasa; aveva il coraggio e la cultura per concentrarsi e rispondere a tutto, per quanto la questione fosse “overwhelming” come dice Thomas Elliott. Renzo era un amico e un intellettuale eccezionale per coraggio e cortesia. Ma, a me, lasciatemi piangere l’amore di Renzo Foa per Israele. Era radicato dentro il suo amore per la vita. La storia del mio venirvi in contatto va da intervista a intervista: la prima, quando Renzo divenne direttore dell’Unità e io lo intervistai insistendo sul Medio Oriente. In tempi di antisemitismo di sinistra, trovai una posizione limpida, con chiarezza morale sapeva già benissimo da che parte stavano il torto e la ragione.
Per tanti anni, prima dell’ultima intervista, l’uno ottobre 2008, abbiamo condiviso l’ottima avventura culturale di Liberal, fin dai tempi del mensile, con le pagine color sabbia. L’ultima intervista la fece Renzo a me. La malattia lo riempiva di dolori, l’esercizio del lavoro e del movimento erano uno spettacolo di incredibile volontà. Con l’aiuto di Luisa Arezzo, sulla sua scrivania di Liberal, Renzo frugò partendo da tutto ciò che può definire un pensiero complesso su Israele; mi mise alla prova in lungo e in largo col suo amore per Israele, esigendo che dai suoi dubbi spremessi la promessa infallibile della sopravvivenza. La pace, voleva sapere, come la si raggiunge? [...]
Visita di Gheddafi: necessaria cautela
Roma, 10 GIU (Velino) - “Forse il Senato non è la sede più adatta per un discorso di Gheddafi: la sua visita di Stato può benissimo articolarsi in una quantità di altre sedi più consone alla cortesia e alla cautela al contempo. La visita di Stato del leader libico Gheddafi fa seguito a un trattato che, sia dal punto di vista della cooperazione che nel contenimento del fenomeno dell’immigrazione clandestina, può portare a importanti risultati. Esso è frutto di un ottimismo politico che, per altro, nei mesi passati è stato condiviso dall’ONU, che ha messo la Libia alla presidenza della commissione per i diritti umani e dall’Unione Africana, che ha posto Gheddafi alla sua testa". Lo afferma Fiamma Nirenstein (Pdl), vicepresidente della commissione Esteri
della Camera.
"Tuttavia, ci sembra che un personaggio dal passato e anche dal presente complicato come quello di Muammar Gheddafi, sia da guardarsi e, di conseguenza, da accogliersi sì con cortesia, ma anche con la dovuta cautela. Il nostro Senato, casa della democrazia, difficilmente può essere considerato come luogo ideale per una concione di un personaggio che viola i diritti umani; sui cui servizi segreti pesa il sospetto di avere imprigionato e torturato quattro ex islamici convertiti al cristianesimo; che nel suo Libro Verde sanziona la libertà femminile nel campo del lavoro e della vita civile, che la vede pari “ai fiori creati per attrarre i granelli di polline e produrre i semi”. Gheddafi ha invitato il mondo arabo a impugnare le armi contro Israele; la sua storia è punteggiata di estremismo e di episodi di terrorismo e solo recentemente nuovi accordi hanno portato all’arresto del programma di sviluppo di armi di distruzione di massa. La proposta poi di un incontro con la comunità ebraica romana di origine libica proprio di Shabbat, il giorno del riposo per gli ebrei, sembra un inconscio ripetersi di quell’atteggiamento di supremazia riservato ai dhimmi nel corso dei secoli.
Auspichiamo dunque che Gheddafi, in Senato e in ogni altra circostanza istituzionale, esprima il suo apprezzamento verso l’apertura di credito che l’Italia gli concede, impegnandosi a rispettare i diritti umani, ad affermare la sua considerazione per la piena libertà della donna, ad assumere un atteggiamento nettamente di contrasto all’estremismo islamista quando si parla dello Stato d’Israele. Per quanto riguarda invece il precedente richiamato dall’On. D'Alema di Arafat che venne alla Camera con la pistola, si trattò - conclude Nirenstein - di un episodio abominevole, certo non da citare come esempio”.
Hezbollah sconfitto non rinuncia alle armi
È difficile credere che il Libano adesso ce la farà. Eppure ci prova ancora, ed è commovente: ieri sera il capo di Hezbollah, lo sceicco Nasrallah, ha ammesso la sconfitta e si è addirittura complimentato con i vincitori. Buona parte dei libanesi, soprattutto per merito dei cristiani risvegliati dal vescovo maronita Nasrallah Boutros Sfeir, andando a votare hanno scelto un Libano ancora arabo, e non dominato da interessi iraniani; pluralista, e non musulmano sciita; in cui una ragazza possa camminare per mano con un ragazzo. L’unico, solitario Paese arabo multietnico, multiculturale e multireligioso tenta ancora di liberarsi del continuo tentativo di asservirlo a una logica totalitaria, come nel ’58 quando i sunniti cercarono di forzarlo nell’orbita ultranazionalista di Nasser, nel ’75 la guerra civile portò l’Olp in posizione dominante e mise in giuoco Israele e la Siria, che solo due mesi fa aprendo l’ambasciata a Damasco ha formalizzato l’idea di non essere il padrone. Nell’82 la rivoluzione iraniana allungò le mani sul Libano con la nascita della forza armata degli hezbollah, che da allora hanno cercato di disegnare il Paese dei Cedri come punta della guerra islamista sciita, asservendolo al gioco bellico che chiamano “resistenza”: ma mentre si disegnavano come la testa di ponte del rifiuto antisraeliano e antioccidentale, un esercito armato di 50mila missili, che ama la morte e scambia con uomini vivi feretri e pezzi di soldati israeliani, l’amico più intimo dell’Iran e il più fedele fratello della Siria, cercavano anche, pazientemente, legittimità interna e internazionale. [...]





