Obama fa il duro con Israele, non con i palestinesi
Va bene, adesso è quasi sicuro, Bibi Netayahu ha intenzione di dichiarare un “congelamento” temporaneo degli insediamenti, proprio come gli hanno chiesto tutti gli inviati, dal segretario della difesa Robert Gates, all’incaricato per il Medio Oriente George Mitchell, al Consigliere per la Sicurezza James Jones, giunti in processione dagli Stati Uniti. Ma questo aiuterà a fare la pace? Sembra quasi che la linea Obama, di cui le concessioni israeliane sono il perno, stia creando una specie di scivolamento inerziale verso una strana, pericolosa neghittosità palestinese, e un altrettanto automatico riflesso antisraeliano da parte dell’Europa. Insomma: come se Israele dovesse far tutto e i palestinesi, e anche il mondo arabo, richiesto invano di un gesto di buona volontà, solo quel che gli pare. Obama, al contrario di quello che si sapeva, non ha più voglia di presentare un piano di pace per il Medio Oriente. Gli USA ora tenderebbero semplicemente a puntare su ciò che sembra a portata di mano, ovvero un accordo con Israele per lo sgombero di alcuni “out post” illegali e per il “congelamento” temporaneo degli insediamenti , in attesa che Abu Mazen batta un colpo. Per spingere il mondo arabo a un gesto di buona volontà, Mitchell ha visitato gli Emirati, la Siria, l’Egitto: cerca una pace onnicomprensiva, ma per ora Obama dovrà approfittare della sola buona volontà israeliana. E così, tutti spingono su Bibi che vuole buoni rapporti con Obama a causa della minacciosità dell’Iran. [...]
La Knesset guarda all'Europa
Questo martedì sono stata invitata a parlare come key-note speaker al Parlamento Israeliano in occasione dell'inaugurazione del Forum Europeo della Knesset, un'istituzione volta a rafforzare i legami e la cooperazione tra i parlamentari israeliani ed europei (sia a livello delle singole assemble ligislative nazionali, sia a livello di Parlamento Europeo).
All’evento, coordinato dall’On. Yohanan Plesner (Kadima), promotore del Forum, ha partecipato anche Presidente della Knesset, Rubi Rivlin, e vi hanno preso parte numerosi parlamentari dei diversi schieramenti nonché oltre una quindicina di Ambasciatori di Paesi Europei (per l’Italia era presente il Vice Capo Missione Davide La Cecilia), un rappresentante della Commissione Europea in Israele, alcuni esponenti del mondo accademico israeliano e coordinatori di organizzazioni non governative.
Dopo il Presidente della Knesset è intevenuto l’On. Plesner che ha moderato la tavola rotonda. Dopo il mio intevento, che trovate per ora in inglese più sotto, sono intervenuti alcuni parlamentari israeliani, tra cui Tzipi Livni, Capo dell’Opposizione e leader del partito Kadima e Majalli Whbee, già Vice Ministro degli Esteri nel precedente Governo Olmert. Erano presenti anche Shaul Mofaz, già Ministro della Difesa, Rony Bar-On, già Ministro del Tesoro, l’On. Daniel Ben-Simon. [...]
Appello all'UNESCO contro la candidatura di Farouk Hosny
Senza l’intervento attivo delle istituzioni e del mondo della cultura, la direzione dell’UNESCO potrebbe essere prossimamente assegnata a Farouk Hosny, attuale Ministro della Cultura egiziano, che, nel corso della sua carriera, si è qualificato per le sue spudorate campagne antisemite e contro lo Stato d’Israele, che è per altro in pace con l’Egitto da 30 anni a questa parte.
L’Italia fa parte dei 58 Paesi del Consiglio Esecutivo che a settembre dovrà scegliere, tra gli aspiranti alla Direzione, il candidato che ad ottobre sarà sottoposto al voto di ratifica della Conferenza Generale dei 193 stati membri dell’UNESCO.
Per questo ho proposto l'appello che segue tra i parlamentari e stiamo raccogliendo le firme, in vista della elezione preliminare di settembre.
Leggi anche:
"Salvare l'UNESCO da Farouk Hosni", di Giulio Meotti
"Ecco la lista nera dei libri banditi al Cairo dal ministro egiziano che 'per l’Italia è il favorito'", di Giulio Meotti
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"Noi parlamentari della Repubblica Italiana ci rivolgiamo ai 58 Paesi che siedono nel Consiglio Esecutivo dell’UNESCO per evitare che le istituzioni delle Nazioni Unite subiscano l’ennesimo oltraggio.
Il prestigioso incarico della Direzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza, la Cultura e la Comunicazione (UNESCO) potrebbe essere affidato a Farouk Hosny, attuale Ministro della Cultura egiziano, che, nel corso della sua carriera, si è qualificato per le sue spudorate campagne antisemite e contro lo Stato d’Israele, che è per altro in pace con l’Egitto da 30 anni a questa parte. [...]
Gioco delle parti fra Usa e Israele
Panorama, n. 31, 30 luglio 2009, pag. 90
Da lontano Israele e la nuova amministrazione americana sembrano in continuo scontro. Il grande dice al piccolo: lascia gli insediamenti. Il piccolo al grande: invece di giocherellare con la politica della mano tesa, attento all'Iran nucleare. Ma il gioco Usa-Israele è complesso, anche perché il nucleare di Mahmoud Ahmadinejad è ormai alle porte e il governo degli ayatollah ha mostrato con la spietata repressione di non avere da parte sorrisi neanche per Barack Obama, che pure vuole dialogare. Notizie riservate mostrano all'orizzonte una visita del segretario della Difesa americano Robert Gates in Israele agli inizi della prossima settimana. Solo pochi giorni fa Gates ha detto all'Economic club di Chicago: «L'iran mi preoccupa più di ogni altra cosa perché non vedo uno scenario in cui si trovino opzioni positive. La mancanza di ottimismo non è solo legata alla sua scelta nucleare, ma anche alla incapacità della comunità internazionale di influenzare la determinazione a portarla a termine». Il programma di Gates in Israele è soprattutto, possiamo arguire, la discussione sull'Iran. Ma attenzione: con lui agli incontri di massimo livello parteciperà (fatto di non piccolo significato) l'inviato del presidente Obama per il Medio Oriente George Mitchell. Mitchell è in realtà il responsabile dei rapporti fra israeliani e palestinesi e quindi degli eventuali sviluppi di un processo di pace. [...]
I muscoli di Hezbollah fanno paura
L’attacco subito nel sud del Libano dalle truppe dell’Unifil mentre tentavano di verificare in che cosa consistesse il deposito d’armi degli hezbollah saltato per aria qualche giorno prima con morti e feriti, è un pessimo segnale per la pace in Medio Oriente. Quel centinaio di abitanti di Kirbat a Silm, che alla fine si sono persino messi a sparare contro le forze internazionali, sono il segno della solida presenza degli hezbollah al sud del fiume Litani, dove hanno comprato, costruito, arruolato; è un segnale della determinazione della milizia sciita a proteggere le armi e le loro infrastrutture nonostante la risoluzione dell’Onu che ne stabilisce lo smantellamento.
La chiave dell’aggressività delle ultime azioni degli hezbollah, che hanno taciuto per lungo tempo e che sembravano determinati a conquistare il potere in Libano tramite un percorso di legittimazione democratica, deve essere letta alla luce dei risultati delle ultime elezioni, anche se è lo scontro con Israele la stella polare intorno a cui costruiscono l’azione e il consenso. [...]
Le illusioni della politica estera americana
Il discorso di Obama all´Islam è un mistero per chiunque si occupi con mente fredda e occhio allenato delle questioni mediorientali: è chiara solo la determinazione di Obama a restare fedele al proprio modello, quello che gli ha conquistato la fiducia e oseremmo dire, per una parte, persino qualche idolatria da parte della maggioranza del pubblico americano. Obama è determinato a incarnare, al di là della ratio politica e storica, una figura messianica, post moderna, decisamente relativista. La sua barca veleggia sempre più lontana, decisa a tracciare una nuova scia, dal sogno americano tradizionale, inteso come determinazione, spazio, libertà a ogni costo; trasfigura e modifica nella mente del mondo intero il disegno dei valori americani, della loro letteratura, della loro musica e della loro filmografia. La figura del cow boy, e non solo del tipo duro alla John Wayne, ma persino di quello più solitario e elegiaco alla James Dean, persino la figura del bohemienne newyorkese, alla Bob Dylan, si spengono e si trasfigurano su Barack Hossein Obama, il nuovo americano. Gli interessa molto di più mostrarsi comprensivo e pieno di buone intenzioni; non frequenta l´ironia amara, democratica e irridente, consapevole dei limiti della natura umana, il poetico disprezzo per il politically correct, e infine anche il coraggio di affermare la leadership americana nel mondo, costi quello che costi, anche quando deve imporsi, certa di farlo per il bene comune. Gli manca la follia generosa e severa dello sbarco in Normandia e anche, ebbene sì, della guerra in Iraq. Gli manca l´imperativo ineludibile di tenere a viso aperto per il coraggio dei manifestanti iraniani, e di aiutarli a vincere. [...]
Israele cacciata dalla Federazione Internazionale dei Giornalisti
GIORNALISTI: NIRENSTEIN, ESCLUSIONE ISRAELE NON GIUSTIFICABILE
Dichiarazione dell’On. Fiamma Nirenstein (Pdl), Vicepresidente della Commissione esteri della Camera
"Consideriamo l'esclusione di Israele dalla Federazione Internazionale dei giornalisti (Ifj) una discriminazione senza giustificazioni plausibili e riteniamo un gesto sbagliato estromettere la stampa libera dell'unica democrazia del Medio Oriente dall'associazione che dovrebbe protegge la libertà e l'etica del giornalismo internazionale.
Non mettiamo in discussione la buona fede di Paolo Serventi Longhi, membro italiano del Comitato Esecutivo della Ifj, che sostiene che i giornalisti israeliani siano stati esclusi per il mancato pagamento di quote associative. Ma appare ai nostri occhi del tutto evidente come questa sia soltanto una scusa di quelle forze che, con molta determinazione e con attività permanente, boicottano Israele, ovunque possono, ma soprattutto nell'ambito delle attività intellettuali, sportive e commerciali.
I giornalisti israeliani da noi interpellati lamentano di non essere nemmeno stati avvisati del fatto che alla riunione di Oslo del giugno scorso, in cui è stata deliberata la loro esclusione, si fosse fissato di discutere delle quote associative: essi ci dicono altresì che la comunicazione è giunta per via epistolare solo a decisioni prese.
Ci sembra convincente l'ipotesi del Foglio, per altro confermata da fonti israeliane, che la decisione di boicottare Israele non abbia nulla a che fare con le quote, ma risalga invece alla guerra del Libano del 2006, quando la Ifj attaccò lo Stato ebraico per aver colpito gli studi televisivi di Al-Manar, organo degli Hezbollah.
Ribadiamo quindi che l'episodio ci appare ispirato alla linea del boicottaggio che ha escluso già più volte Israele dall'abito accademico e dalle competizioni sportive (ultimo caso i Giochi del Mediterraneo) e speriamo che i giornalisti della Federazione italiana insorgano con una chiara presa di posizione, aldilà delle scuse burocratiche, contro una decisione che sa da lontano di antisemitismo e di apartheid".
"Cercasi minoranza giornalistica che non creda alla quota anti israeliana"
Il Foglio, 14 luglio 2009
di Giulio Meotti
Roma. Aidan White, segretario generale della Federazione internazionale dei giornalisti, ieri attaccava chi, come il Foglio di sabato e il Corriere della Sera con Pierluigi Battista, ha denunciato il boicottaggio d’Israele da parte della Federazione, che ha appena espulso dal sindacato la branca israeliana con i suoi seicento giornalisti: “Parlare di boicottaggio di Israele o di antisemitismo o di motivi politici dietro quest’azione è assurdo”, ha detto White. Anche il portavoce di Articolo 21, Giuseppe Giulietti, chiede alla Federazione di chiarire subito sull’espulsione. Haim Shibi, veterano dell’Unione dei giornalisti di Gerusalemme, spiega che la decisione di cacciare gli israeliani non ha nulla a che fare con le quote, risale invece alla guerra in Libano del 2006, quando la Federazione attaccò lo stato ebraico per aver colpito gli studi di al Manar, l’organo di propaganda di Hezbollah. [...]
Reportage: Cisgiordania, viaggio negli insediamenti dove la vita è da tempo «congelata»
Nella fotot: Efrat, con il Sindaco Oded Revivi
Il Giornale, 13 luglio 2009
Quei diavoli negli insediamenti. Anzi: quei diavoli di “coloni”, con la parola che implica truci memorie di sfruttamento e imperialismo. Tutto il mondo ne parla in questi giorni, e lo ha fatto anche il G8, per chiedere il “congelamento” della loro presenza nell’West Bank. E l’idea viene dal presidente Obama in persona. I coloni nell’immaginazione popolare hanno il fucile sempre in mano, devastano gli ulivi palestinesi, sono fanatici religiosi, producono figli come conigli così da rendere la loro “crescita naturale”un’arma devastante. Congeliamoli, non può che far bene, dice oggi la lectio comune.
Ma cos’è in realtà un colono? Siamo andati parecchio in giro a dare un’occhiata, fra ulivi, carte, leggi, storia. Intanto, è una figura minuscola sullo sfondo dei conflitti mediorientali, il suo giganteggiare politico odierno ha ben poco a che fare con una jihad che dagli anni ’20 proibisce agli arabi di considerare Israele come uno Stato definitivamente atterrato nella Umma islamica, che sia vista in termini religiosi o panarabisti è poco importante. Israele è per di per sè, agli occhi di molti fedeli dell’Islam, un grande insediamento. In secondo luogo, anche se ora il delegato americano Mitchell e Netanyahu stanno forse per presentare una sospensione di sei mesi nella crescita interna degli insediamenti, molti villaggi e comunità sono già bloccati da anni. [...]
Journey through the West Bank, where life is "frozen"
Il Giornale, 13 July 2009
Those devils in the settlements. In reality, those “colonist” devils, using a word that evokes the cruel memories of exploitation and imperialism. These days, everyone is talking about them – even the G8 – demanding a “freeze” of their presence in the West Bank. And the idea comes from President Obama himself. In the popular imagination, the colonists keep their rifles by their side, devastate Palestinian olive trees, are religious fanatics, and breed like rabbits, turning their “natural growth” into a devastating weapon. Today, common wisdom says that a freeze is the only way to go. But what exactly is a colonist? We went around quite a bit to check things out, studying olive trees, maps, laws, and history. First, the colonist is a tiny figure in the Middle Eastern conflict. The fact that he is a political giant today has little to do with a jihad that – since the 1920s – has forbidden Arabs to see Israel as a state firmly anchored amidst the Islamic umma. And whether that umma is seen in religious or pan-Arabic terms is of little importance. In the eyes of many of the Islamic faithful, Israel itself is just one big settlement. Second, even though US representative Mitchell and Netanyahu might be on the verge of presenting a six-month suspension in the settlements’ internal growth, many villages and communities have been blocked for years. [...]
Le tre proposte di Bibi
Quando il Primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu ha visitato l’Italia e la Francia, gli incontri sono stati vissuti dalla stampa internazionale e dai politici europei e americani come una prova da superare per Bibi.
Era una normale visita organizzata secondo i più classici dei criteri, e intanto il vero gigantesco problema sul tappeto era certo la disperata rivoluzione iraniana, già in fase di spietata repressione nei confronti di chi, in quel paese, molto più che un governo capeggiato da un altro clerico come Moussawi, sogna la libertà. La premessa degli incontri era una sorta di diffusa convinzione di colpevolezza nei confronti del premier israeliano, che, scandalo internazionale, era dubbioso rispetto alla tradizionale formula "due Stati per due popoli"; inoltre aleggiava la disapprovazione preventiva legata all’idea che Netanyahu è un presidente “di destra”, un “falco” e che il presidente americano Obama sia deciso a costringerlo a cessare da ogni attività negli insediamenti, quali che siano le idee del governo israeliano. [...]
Mediorientale - da Gerusalemme
Ascolta l'ultima puntata di Mediorientale: lil post-G8, le deboli reazioni alla crisi iraniana, Gilad Shalit, la visita di Peres in Egitto, i primi 100 giorni di Netanyahu, la figura della moglie di Netanyahu, il congelamento degli insediamenti e la proposta di moratoria per sei mesi, il ruolo di mediazione di Egitto e Marocco...