Fiamma Nirenstein Blog

Le illusioni della politica estera americana

domenica 19 luglio 2009 Attivita parlamentari 0 commenti
Pubblicato sul numero di giugno de L'Ircocervo - la rivista della libertà

Il discorso di Obama all´Islam è un mistero per chiunque si occupi con mente fredda e occhio allenato delle questioni mediorientali: è chiara solo la determinazione di Obama a restare fedele al proprio modello, quello che gli ha conquistato la fiducia e oseremmo dire, per una parte, persino qualche idolatria da parte della maggioranza del pubblico americano. Obama è determinato a incarnare, al di là della ratio politica e storica, una figura messianica, post moderna, decisamente relativista. La sua barca veleggia sempre più lontana, decisa a tracciare una nuova scia, dal sogno americano tradizionale, inteso come determinazione, spazio, libertà a ogni costo; trasfigura e modifica nella mente del mondo intero il disegno dei valori americani, della loro letteratura, della loro musica e della loro filmografia. La figura del cow boy, e non solo del tipo duro alla John Wayne, ma persino di quello più solitario e elegiaco alla James Dean, persino la figura del bohemienne newyorkese, alla Bob Dylan, si spengono e si trasfigurano su Barack Hossein Obama, il nuovo americano.
Gli interessa molto di più mostrarsi comprensivo e pieno di buone intenzioni; non frequenta l´ironia amara, democratica e irridente, consapevole dei limiti della natura umana, il poetico disprezzo per il politically correct, e infine anche il coraggio di affermare la leadership americana nel mondo, costi quello che costi, anche quando deve imporsi, certa di farlo per il bene comune. Gli manca la follia generosa e severa dello sbarco in Normandia e anche, ebbene sì, della guerra in Iraq. Gli manca l´imperativo ineludibile di tenere a viso aperto per il coraggio dei manifestanti iraniani, e di aiutarli a vincere. Non si può immaginare né Wayne, né Dean né Dylan nell´atto di inchinarsi di fronte al re dell´Arabia Saudita, o in quello di comparare la condizione delle donne americane a quella delle islamiche col velo o il burka. Come si può farlo dicendo"anche la nostra emancipazione ha qualche problema"?! Certo è così, ma non c´è confronto: il numero troppo basso delle donne nell´alta finanza o nel corpo di polizia certo non è paragonabile alla poligamia, alla vita da reclusa di molte donne islamiche, all´omicidio di onore o alle mutilazioni genitali. E il velo, o peggio, il burka, come si possono giustificare, persino sostenere?
Un americano sa bene, perché è psicanalizzato, che talora le scelte altro non sono che espressione di un´imposizione esterna irrifiutabile. Il velo per noi, gente sia pur faticosamente dedita all´eguaglianza delle donne dall´800, è segno di minorità sociale e culturale della donna, la religione non c´entra, come dicono molti teologi islamici, come può Obama avergli dimostrato addirittura simpatia?  L´inchino al re per un americano anche molto educato, è anch´esso una nota fuori tono. Non c´entra qui la destra o la sinistra: la libertà condita da una certa guasconeria dimostrativa nel comportamento è stata sempre il vessillo della antropologia americana stessa, la passione guerreggiata per la libertà è quello che l´ha distinta da altre civiltà, anche dalla nostra. Ci sono amici americani che mi confessano il loro spaesamento di fronte a un comportamento, a un modo d´esistere che non li fa sentire a casa loro a Washington, in Texas, in California...

L’INTERVENTO AL CAIRO: UN GRANDE ENIGMA


Certamente, nel discorso di Obama al Cairo ha giuocato enormemente, oltre alla buona volontà, alla scelta della mano tesa, anche la sua peculiare individualità, la sua storia: Obama è uomo in cui essere cristiano e mussulmano è un tutt´uno, egli è figlio e nipote di mussulmani e di cristiani, vissuto qua e là, cresciuto nell´Islam indonesiano e non mediorientale, meritoriamente fortunato; il conflitto profondo che oggi disegna senza ombra di dubbio il rapporto fra le due religioni più numerose, con il comma di un odio furioso da parte dell´Islam quasi per intero nei confronti della terza religione monoteista, quella degli ebrei, non lo sfiora. Per lui una possibile dimensione irenica del mondo è evidente, anzi, "selfevident"; perché è lui stesso, la sua esperienza soggettiva e personale. La sua pacificazione, tuttavia, proiettata in politica estera, al momento crea una serie di false credenze e di illusioni molto pericolose, e sinceramente crediamo che Obama lo sappia bene, e sacrifichi al disegno del suo personaggio molte importanti verità.
Il modo in cui Obama ha parlato durante il discorso del Cairo dell´Iran e di Israele direttamente e indirettamente, la concezione politica che definisce il rapporto con questi due poli fondamentali della politica estera odierna, dimostra se non altro un evidente strabismo. Bret Stephens sul “Wall Street Journal” dice che peggio non avrebbe potuto giudicare i due nodi del futuro prossimo. Ha maltrattato il buono e vezzeggiato il cattivo. E si poteva prevedere. Da una parte la sua mano tesa verso l´Iran era già stata accolta dal lancio di un missile capace di coprire 2000 chilometri sulla sua strada verso Tel Aviv o verso qualche capitale europea e dalle dichiarazioni di Ahmadinejad che la questione dell´arricchimento atomico è assolutamente chiuso, fuori discussione. Dichiarazioni ripetute dopo le elezioni frode di Teheran dal premier iraniano nel suo primo discorso. E poi, alle elezioni, il regime di Khamenei e Ahmadinejad in cui Obama aveva in definitiva riposto alcune speranze annunciando che avrebbe tenuto con esso colloqui e inserendoli al Cairo nell´ambito della pacificazione con l´Islam, si è invece subito disegnato come determinato a perseguire la sua linea di classica crudeltà, repressione, spietatezza contro la propria stessa popolazione.
Obama ha detto al Cairo che l´America è fedele ai Paesi il cui governo è eletto democraticamente e ha ricordato, cospargendosi il capo di cenere, che gli USA sono colpevoli di avere aiutato a spodestare Mossadegh; e in seguito a fronteggiare senza una parola chiara, con una evidente scelta di realpolitik, i grandi rivolgimenti seguiti alle elezioni farsa in Iran senza battere ciglio. Il governo cui Obama aveva teso la mano stava reprimendo nel sangue la "scelta democratica" da lui lodata in astratto, e ancor più si batteva sotto i suoi occhi indifferenti per un cambiamento fondamentale della politica del regime degli ayatollah nel senso dell´autodeterminazione popolare: è stato molto contraddittorio che il Presidente degli Stati Uniti giustificasse il suo assenteismo politico dopo un discorso come quello del Cairo, sostenendo ciò che è del tutto irrilevante rispetto allo scontro, ovvero che Moussavi è eguale ad Ahmadinejad quanto a sentimenti nei confronti degli USA.
Vero, ma semplicemente molto insufficiente quando si contesta un regime che impicca gli omosessuali e prepara la bomba atomica; e, anche se apparentemente giustificato dallo scopo di non unificare le forze in campo in una difesa  nazionalista dell´onore persiano contro l´Occidente, pure molto inferiore alle aspettative di moral clarity che si ha il diritto di avere verso il Paese leader del mondo liberal democratico.
Se ci si pensa anche per un attimo, suona assurdo e triste che manchi una parola americana a sostegno dei giovani iraniani alla ricerca delle riforme e della libertà. Sottolinea l´assenza strategica di questa amministrazione su quello che è probabilmente il maggiore di tutti i temi legati all´Islam, e che parla di una cosa che Obama sicuramente non vuole sentire: la sua speranza di ristabilire sulla terra l´Umma dei credenti, di riconquistare il mondo per prepararlo, cosa che peraltro Ahamdinejad spiega spesso, alla venuta del Mahdi.

LA PARTITA IRANIANA


L´Iran, pur nella più grande confusione, ha tuttavia accettato l´invito inviato ad Ahmadinejad al prossimo incontro dei Paesi non allineati; subito, Mubarak ha mandato a dire che non gradisce affatto questo incontro ravvicinato con un interlocutore che è in realtà il nemico dei Paesi sunniti, e che desidera cancellare l´invito stesso. Al Cairo, Obama, quando ha scelto di rivolgersi all´Islam, ha scelto di ignorare che l´Islam non esiste da secoli come entità omogenea, e semmai l´unica componente di fatto unificante è proprio quella che Obama nega, ovvero quella dell´ideologia che Bernard Lewis definirebbe vittimista-trionfalista, quella che si prospetta la battaglia per la sconfitta dell´Occidente. Insomma l´Islam è unito, almeno strategicamente, nella sua larga parte estremista che va da al Qaeda a Hamas (sunniti ma collusi con l´Iran) agli Hezbollah.
Questa parte politica è il blocco anti status quo; è il blocco che Daniel Pipes chiama "rivoluzionario" e che si autodenomina della "resistenza", e comprende l´Iran, la Siria, il Qatar, più, come dicevamo, Hamas e Hezbollah. Comincia anche ad acquistare simpatie turche. Lo status quo è invece rappresentato dal blocco dell´Arabia Saudita che si contende la leadership con l´Egitto, la Giordania, il Libano, la Tunisia, l´Algeria, il Marocco, e Fatah. La Libia segue l´ispirazione o la convenienza del suo leader Gheddafi, che comunque ha una particolare antipatia per l´Arabia Saudita.
I Paesi del blocco moderato combattono fin dal 1979, anno della rivoluzione, contro l´egemonia iraniana: le ambizioni teocratiche dei mullah persiani nascono con Khomeini, si acquietarono un poco dopo la morte dell´Ayatollah padre della rivoluzione nel 1989, ma diventarono incontenibili nel 2005, quando Ahmadinejad al potere, sorretto da Khamenei, accelera la strategia atomica e le crea lo sfondo ideologico antisemita, negazionista e genocida. Intanto, va alla conquista delle istanze internazionali come l´ONU, determinando un declino mai visto prima del discorso politico internazionale. Ma soprattutto Ahmadinejad crea alleanze segrete con Al Qaeda, prende sotto la sua ala e arma i movimenti terroristi dell´area e ne fa strumenti iperattivi, riesce a creare a Israele tre confini iraniani, il Libano, Gaza, e la Siria.
Ahmadinejad è un viaggiatore instancabile, è impressionante il numero dei trattati che riesce a firmare dalla Siria al Qatar alla Turchia, la costante crescita delle grandi relazioni internazionali con la Cina e la Russia, la collaborazione atomica con Pyong Yang: insieme alla Corea del Nord, l´Iran ha costruito, senza che nessuno se ne accorgesse, fuorché Israele che fortunatamente è riuscito a distruggerla, una struttura atomica siriana. Obama sa bene che la strategia iraniana è decisa e consolidata e che solo un cambiamento di regime potrebbe cambiarne il corso; sa anche che il blocco moderato, lungi dal considerarsi parte del medesimo Islam, ha paura e disgusto verso l´Iran. Dopo la guerra del 2006 molti stati arabi condannarono gli Hezbollah per averla inutilmente causata, mentre l´Iran accusava i Sauditi e gli Egiziani di essere cortigiani degli USA e di Israele, cosa che fanno ad ogni momento. L´Egitto ha appena sventato un colpo di stato montato con grande dovizia di mezzi da Hezbollah dislocati sul territorio di Mubarak che avevano come primo compito quello di bloccare Suez. Il Marocco, ha appena rotto le relazioni diplomatiche con Teheran. Molto rilevante il fatto che un buon numero di Paesi moderati, visto che gli USA non fermano il loro nemico persiano dall´acquisire la bomba, stanno alacremente lavorando a progetti atomici. La mano tesa di Obama all´Iran, anche se per mitigare l´effetto il discorso è stato tenuto al Cairo in onore di Mubarak, pure non giova alla sicurezza del Medio Oriente, non contribuisce di certo a una politica di denuclearizzazione, galvanizza gli estremisti che interpretano l´atteggiamento degli USA come una scelta di sottomissione.
L´Islam, inoltre, non ha nessuna possibilità di sviluppare, come Obama desidera, una politica moderata e di riavvicinamento all´Occidente senza praticare due strade: la prima, quella della democrazia, non intesa come elezioni truccate (quante se ne sono viste, in Siria, in Egitto, ora in Iran) o strumenti di arrampicata al potere di gruppi estremisti (come  Hamas), ma come parte di una costruzione della società civile che favorisca senza infingimenti la pluralità di opinioni; Obama, prendendo le distanze dal movimento iraniano, non ha certo spinto questo processo, anzi l´ha scoraggiato. In secondo luogo finalmente, come scrive il grande storico Fuad Adjami, Obama avrebbe dovuto spingere ad accedere ad una fase autocritica, che cessi dalla colpevolizzazione ossessiva dell´Occidente, degli USA, dell´Europa colonialista, di Israele... Questo, e non i complimenti in gran parte fasulli, avrebbe davvero aiutato l´Islam.

L’INCOMPRENSIONE VERSO ISRAELE

Su Israele, Obama ha compiuto i peggiori errori: prima di tutto, ha adottato la narrativa araba che equipara le sofferenze palestinese e ebraiche, come se millenni di persecuzioni culminate con la Shoah fossero paragonabili, con tutto il rispetto, a decenni di esilio di seicentomila persone mantenute nei campi profughi. Intanto, non solo decine di milioni di profughi si risistemavano nel mondo (fra il Pakistan e l´India lo scambio fu di 7 milioni), ma un numero superiore di profughi ebrei veniva cacciato dal mondo arabo, e giunti in Israele si dedicavano a ricostruirsi una vita dopo essere stati cacciati e privati dei loro beni. Oltre tutto, i profughi palestinesi nella maggior parte fuggirono da Israele sulla base della promessa araba che sarebbero tornati a casa sulla punta della baionetta dopo che gli ebrei, contro la risoluzione dell´Onu che fissava la partizione nel novembre ‘47, fossero stati gettati in mare. Obama non solo si è dimenticato della "Nakba" ebraica, ma ha, sempre fedele alla narrativa araba, attribuito la nascita dello Stato d´Israele ai sensi di colpa dell´Europa dopo la Shoah. Si è così dimenticato che il sionismo è un movimento nazionale come tanti altri, nato nell´800, con in più l´indispensabile necessità di fondare lo Stato Ebraico a causa di pogrom e persecuzioni, e la grande tradizione della Bibbia che parla in lungo e in largo delle sue radici geografiche e storiche. La storia d´Israele viene da 3500 anni di storia, in cui troneggia Gerusalemme, coronata da altre città in cui la presenza ebraica non è mai cessata. Da duecento anni ormai nella capitale gli ebrei sono maggioranza.
Un altro errore fondamentale, stavolta strategico, è quello che ha fatto Obama ponendo la soluzione del conflitto nella restituzione ai Palestinesi dei territori conquistati dalla Giordania nella guerra del ´67, e quindi puntando sull´immediata cessazione di ogni attività negli insediamenti. Anche se il tema è importante, è del tutto evidente che il conflitto ha a che fare molto relativamente con i territori: la guerra del ‘67 rifletteva i molteplici "no" alla presenza ebraica che hanno prima creato il terrorismo degli anni ‘30, poi il rifiuto del ‘48 e quindi la guerra, poi le varie guerre compresa quella del ‘67, poi i tre "no" della Lega araba alla restituzione dei territori e all´esistenza di Israele, poi il rifiuto di Arafat a Camp David, quando Barak gli offrì la maggiore porzione di terra che si potesse immaginare, poi la risposta micidiale allo sgombero di Gaza, con il bombardamento continuo di Sderot e il rapimento di Gilad Shalit da parte di Hamas, e infine il “no” di Abu Mazen a Olmert alla cessione del 98 per cento del territorio e parte di Gerusalemme.
L´idea che la cessione di territorio senza precisi impegni di riconoscimento preventivo del diritto di Israele all´esistenza da parte palestinese e araba porti la pace, è negata dalla storia e assolutamente priva di prospettiva. Obama deve affrontare, per ottenere un accordo, il tema vero che l´ha impedita, ovvero il "no" all´esistenza stessa di uno Stato ebraico. Il famoso diritto al ritorno dei profughi, ovvero dei loro bisnipoti in ambito israeliano, è un evidente sotterfugio per cambiarne la natura nazionale. Obama al Cairo ha porto in pegno al mondo arabo un suo eventuale dissenso con la leadership israeliana sull´ammissione dello Stato palestinese: si aspettava che Netanyahu si contrapponesse al suo punto di vista. Ma anche qui Obama ha sbagliato: Israele ha scelto la strada della ricomposizione quando il suo primo ministro ha dichiarato che lo Stato palestinese va bene, purché i palestinesi accettino l´esistenza di uno Stato ebraico. Per ora la risposta palestinese è stata, come al solito, negativa.
Qui dunque, come nel campo della questione iraniana, come nel campo della questione afghana che di quella pakistana che qui non abbiamo lo spazio di trattare, la palla dell´Islam torna nel campo di Obama: ammettendo che sia possibile un strada di pacificazione, cosa su cui ci sono molti dubbi, vorrà adesso il Presidente degli USA prendere in considerazione la questione iraniana e quella israeliana per quello che sono, invece che secondo i criteri di una politica che per essere troppo ideale si fa cinica?
Se Obama sosterrà il dissenso democratico iraniano e indicherà ai palestinesi la strada del riconoscimento di Israele oltre che quella della rivendicazione territoriale, vorrà dire che comincia a superare il discorso del Cairo, e avrà allora cominciato a dimostrarsi di nuovo la guida democratica del mondo.

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