Obama fa il duro con Israele, non con i palestinesi
domenica 2 agosto 2009 Il Giornale 3 commenti
Il Giornale, 2 agosto 2009Va bene, adesso è quasi sicuro, Bibi Netayahu ha intenzione di dichiarare un “congelamento” temporaneo degli insediamenti, proprio come gli hanno chiesto tutti gli inviati, dal segretario della difesa Robert Gates, all’incaricato per il Medio Oriente George Mitchell, al Consigliere per la Sicurezza James Jones, giunti in processione dagli Stati Uniti. Ma questo aiuterà a fare la pace? Sembra quasi che la linea Obama, di cui le concessioni israeliane sono il perno, stia creando una specie di scivolamento inerziale verso una strana, pericolosa neghittosità palestinese, e un altrettanto automatico riflesso antisraeliano da parte dell’Europa. Insomma: come se Israele dovesse far tutto e i palestinesi, e anche il mondo arabo, richiesto invano di un gesto di buona volontà, solo quel che gli pare. Obama, al contrario di quello che si sapeva, non ha più voglia di presentare un piano di pace per il Medio Oriente. Gli USA ora tenderebbero semplicemente a puntare su ciò che sembra a portata di mano, ovvero un accordo con Israele per lo sgombero di alcuni “out post” illegali e per il “congelamento” temporaneo degli insediamenti , in attesa che Abu Mazen batta un colpo. Per spingere il mondo arabo a un gesto di buona volontà, Mitchell ha visitato gli Emirati, la Siria, l’Egitto: cerca una pace onnicomprensiva, ma per ora Obama dovrà approfittare della sola buona volontà israeliana. E così, tutti spingono su Bibi che vuole buoni rapporti con Obama a causa della minacciosità dell’Iran. La repressione e i toni degli Ayatollah lasciano pochi dubbi: Israele e gli USA tornano a discutere su come si possa fermare la bomba; ma gli USA giocano la loro parte agli occhi del mondo arabo premendo Israele, e tutti li seguono.
Il ministro degli esteri francese Bernard Kouchner aveva convocato, proprio come ha fatto il governo americano con l’ambasciatore Michael Oren, l’ambasciatore israeliano Daniel Shek per chiedergli un “alt” a qualsiasi costruzione a Gerusalemme est. Di fatto, prima gli Stati Uniti e poi la Francia, col coro europeo di fondo, hanno riprodotto con grande drammaticità la protesta di Abu Mazen per la costruzione a Gerusalemme Est di 20 appartamenti nella zona di Sheich Jarrah: si tratta dell’area dell’Albergo del Pastore, costruito negli anni trenta da Haj Amin Al Husseini, il mufti amico di Hitler, che poi fu acquistata da un americano, Irving Moskowitz, nel 1985 e da allora è stata affittata alla Polizia di Frontiera. E’ una zona mista e complicata. La sensibilità dell’amministrazione americana è certo legata alla delicatezza dello status di Gerusalemme, ma non si sfugge alla sensazione che sia un gesto molto roboante mobilitare i ministri degli esteri di fronte al diritto degli israeliani di, come ha detto Netanyahu, “acquistare case dove vogliono dal momento che, negli ultimi anni, centinaia di appartamenti sono stati acquistati o affittati da residenti arabi in quartieri ebraici, e nessuno ha interferito”.
Ma soprattutto, se la sensibilità internazionale è così grande, molte cose non si spiegano. Come può essere che la scorsa settimana l’Autonomia Palestinese (non Hamas) abbia annunciato la sua intenzione di dare alle sue strade i nomi di terroristi assassini ora ospiti della celle israeliane, senza che nessuno vi rilevi un incitamento al terrore che lede ogni processo di pace? E poi, perché le cancellerie non chiedono spiegazioni di fonte alle dichiarazioni di Rafik Natshe e altri membri del Comitato Centrale di Fatah che, nell’imminenza della Conferenza nazionale del 4 agosto, la prima da vent’anni, ha affermato che “Fatah non riconosce il diritto ad esistere di Israele, né abbiamo mai chiesto ad altri di farlo, tantomeno a Hamas”. Davvero? Abu Mazen ha più volte fatto sapere che la richiesta era sul tavolo. Quanto alla lotta armata, Natshe e altri dicono che“essa non finirà mai”. Lo confermano voci autorevoli come quella del leader Mohammad Dahlan: gli accordi di Oslo, che firmò, dice, non riconoscevano l’esistenza di Israele. Sullo sfondo, la risposta di Abu Mazen al Washington Post nel maggio scorso, quando ha detto che il 98 per cento dei territori offertogli da Olmert più uno “swap” del 2 mancante era “inaccettabile” e anche che esigeva il “diritto al ritorno”, escluso da ogni precedente accordo.
Per allargare lo sguardo: stiamo ancora aspettando che qualcuno reagisca alla scelta giordana di revocare ai cittadini palestinesi la cittadinanza per “non creare l’illusione che la questione palestinese si possa risolvere in una confederazione Giordano-palestinese”. Che si direbbe a Israele se strappasse la cittadinanza ai suoi cittadini arabi! Razzismo, apartheid…. E che dire dell’incontro fra Fatah (non Hamas) con il ministro degli esteri iraniano Manoucher Mottaki? Saeb Erakat, noto negoziatore palestinese, dice: “Serve a favorire l’incontro fra Fatah e Hamas”. Può darsi, ma come mai nessuno ne chiede conto e dice che, se gli israeliani devono smetterla con le loro costruzioni di mattoni, essi devono piantarla con quelle mentali che suggeriscono odio?
lunedì 14 settembre 2009 17:14:00
Ben presto gli americani e in particolare gli ebrei che hanno votato Obama apriranno gli occhi sulla sua politica estera. E comunque non temo molto il suo filoislamismo perchè egli è mal visto dal mondo arabo integralista anche se continua imperterrito a volere dialoghi impossibili con Iran e Palestina
cesare Albanesi , roma
martedì 4 agosto 2009 13:52:30
Anche in precedenti occasioni ho affermato che ben presto l'opinione pubblica ed in particorare quella italiana inizierà a provare delusioni per la politica di obama.Non credo che ad esempio il mondo arabo abbia reagito positivamente al discorsto molto distensivo e dai più ritenuto epocale di Obama.Non vsedo d'altra parte eccessiva chiarezza nella politica estera italiana. nei confronti di Israele, della Palestina e dell'Irancesare albanesi
andrea , italia
lunedì 3 agosto 2009 15:57:18
Direi articolo perfetto: impeccabile da un punto di vista argomentativo; scritto benissimo.