Le tre proposte di Bibi
domenica 12 luglio 2009 Diario di Shalom 1 commento
Shalom, luglio 2009Negli incontri con le diplomazie di Roma e di Parigi, Netanyahu ha illustrato le nuove condizioni per realizzare la formula di pace “due Stati per due popoli”
Quando il Primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu ha visitato l’Italia e la Francia, gli incontri sono stati vissuti dalla stampa internazionale e dai politici europei e americani come una prova da superare per Bibi.
Era una normale visita organizzata secondo i più classici dei criteri, e intanto il vero gigantesco problema sul tappeto era certo la disperata rivoluzione iraniana, già in fase di spietata repressione nei confronti di chi, in quel paese, molto più che un governo capeggiato da un altro clerico come Moussawi, sogna la libertà. La premessa degli incontri era una sorta di diffusa convinzione di colpevolezza nei confronti del premier israeliano, che, scandalo internazionale, era dubbioso rispetto alla tradizionale formula "due Stati per due popoli"; inoltre aleggiava la disapprovazione preventiva legata all’idea che Netanyahu è un presidente “di destra”, un “falco” e che il presidente americano Obama sia deciso a costringerlo a cessare da ogni attività negli insediamenti, quali che siano le idee del governo israeliano.
Di fatto, l’accoglienza che Bibi ha ricevuto sia in Italia che in Francia ha dimostrato che l’Europa ha capito il valore rivoluzionario del discorso che Bibi ha tenuto all’Università di Bar Ilan subito prima del suo viaggio. Forse l’atmosfera che si è percepita durante la visita europea del primo ministro israeliano ha disegnato una nuova e diversa situazione nei rapporti internazionali: l’Europa appare come un lido più amichevole in mezzo alla tempesta della jihad islamica di quanto non lo sia la spiaggia tradizionale, quella americana, per lo Stato d’Israele.
Il discorso di Netanyahu a Bar Ilan ha segnato la svolta, perché l’Europa ha mostrato di apprezzarne e capirne il significato, e anche di aver inteso lo sforzo di Bibi nel costruire una piattaforma più realistica di quella vaga e inconcludente proposta dalla tradizione diplomatica internazionale, che fosse compiacente ma sensata, e quindi condivisa con la maggioranza della sua popolazione. Il discorso era atteso con ansia da tutto il mondo, che, come disteso sul lettino dello psicanalista, attendeva di essere rassicurato in una delle sue più basilari finora, purtroppo, e fallimentari convinzioni degli ultimi decenni: Bibi era atteso alle forche caudine della formula “due Stati per due popoli”, e l’ha detta aggiungendovi una serie di condizioni molto dirette e chiare, con le quali ha presentato il suo piano al mondo: un piano basato sulle tradizioni ma arricchito di condizioni innovative. Non è certo stato facile per lui, sia per motivi politici che per motivi logici.
Perché è vero che Netanyahu ha nel suo governo anche i laburisti, e che il ruolo fondamentale di ministro della Difesa è affidato a Ehud Barak, ma è altrettanto vero che la sua “costituency” lo ha eletto per garantire sicurezza al suo Paese in tempi di aggressività iraniana che da anni alimenta al nord il terrorismo degli Hezbollah e al sud e dentro l’Autonomia Palestinese quello di Hamas. Da troppi decenni, e con questo Bibi ha dovuto fare i conti nel definire la piattaforma che ha poi portato in Europa, ogni gesto di concessione territoriale ha condotto a nuove guerre, compreso lo sgombero di tutte le città palestinesi in base all’accordo di Oslo cui seguì il fallito summit di Camp David da cui scaturì l’Intifada del terrore; compreso lo sgombero di Gaza da cui è scaturito lo strapotere di Hamas e il bombardamento continuo di Sderot; e compreso peraltro anche lo sgombero del Libano nel 2000 da cui è nato il crivello missilistico del nord e la guerra del 2006.
Sullo sfondo, sempre più evidente è apparsa la possibilità che i nemici di Israele non cerchino un compromesso territoriale, come invece gli Egiziani sul Sinai, ma che seguitino a perseguire un sogno di distruzione che ha il suo apice nella costruzione della bomba atomica da parte del regime iraniano. E questo, ha mostrato tutta la sua aggressività contro il suo stesso popolo nelle ultime settimane. Dunque le proposte di Bibi sono quelle di procedere all’idea classica di “due Stati per due popoli” con alcune modifiche. La prima è tesa a diminuire il tasso di pericolosità dell’area imponendo l’idea che il futuro Stato palestinese sia demilitarizzato: “Così da non svegliarsi” ha detto Netanyahu “trovandoci le Guardie della rivoluzione iraniane che tengono sotto mira l’aeroporto Ben Gurion”. In secondo luogo, Bibi ha reso chiaro che la questione dei profughi deve essere risolta nell’ambito dei confini del futuro Stato palestinese: là essi e i loro discendenti potranno vivere, senza venire dentro i confini israeliani e disinnescando la bomba a tempo che anche Abu Mazen sogna. Infine, Israele riconoscerà lo Stato palestinese in cambio del riconoscimento dello Stato ebraico che non è mai venuto da parte di un mondo arabo che non intende la legittimità del popolo ebraico sulla terra che ha visto i 3500 anni della sua storia, per quanto sofferente per diaspore e persecuzioni. Bibi ha visto la sua piattaforma apprezzata e riconosciuta in Europa, e anche se i leader europei hanno seguitato a sottolineare, sulla scia di Obama, che occorre cessare la costruzione degli insediamenti, pure non hanno imboccato la strada dell’imposizione diretta, del tentativo di mettere Israele in ginocchio con la questione della crescita naturale. Bibi non ha, neppure volendolo, la possibilità di fermarla. Può eliminare i check point come ha fatto in questi giorni, e cercare rapporti migliori con l’Autonomia, come ha fatto. Ma negli insediamenti ci sono due fattori incontrovertibili se non nell’ambito di una soluzione onnicomprensiva: la prima riguarda appunto il moltiplicarsi delle famiglie di 300mila persone, difficili da espellere da quartieri che si intrecciano, specie a Gerusalemme, con la vita delle loro famiglie di origine, col loro lavoro, con gli asili, le scuole, le strutture sanitarie, e che in molti casi semplicemente abitano là senza intento ideologico.
Chi si sposa o fa figli, non può essere d’un tratto bloccato dalla vita normale o espulso senza una situazione politica di accoglienza che per ora non trova riscontro nell’atteggiamento dei palestinesi. Come muoversi verso una rivoluzione globale mentre i palestinesi hanno dichiarato che per loro è impossibile riconoscere uno Stato ebraico? Che le trattative non si possono neppure cominciare? In secondo luogo, esiste un accordo siglato al tempo dello sgombero di Sharon da Gaza e in contraccambio dello sgombero, in cui gli americani riconoscono che alcuni insediamenti sono divenuti parti integranti di Israele, quartieri impossibili da distruggere o evacuare, e che in cambio verranno offerte ai palestinesi diverse porzioni di terra: è una accordo di “swap”, sensato e giustificato, oltretutto approvato dal Congresso americano anche se ora Hillary Clinton sembra esserselo dimenticata.
La indisponibilità di Obama ad accettarne la saggezza rende il processo più difficile, e adesso si comincia a parlare della volontà, di nuovo, di Israele di trovare un compromesso con una “moratoria” di alcuni mesi sulla costruzione legata alla crescita naturale, mentre Obama dovrebbe convincere i palestinesi, chiede Israele, a fare a loro volta qualche passo verso la pace. Israele si aspetta un contraccambio, non vuole muoversi in modo isolato, ha detto Netanyahu. Al G8 se ne è parlato. L’Europa della Merkel, di Berlusconi, di Sarkozy tiene conto del fatto che mettere Israele in ginocchio prima che il mondo arabo faccia un passo chiaro di riconoscimento e di pace, non conviene a nessuno. Non si deve dimenticare che da parte iraniana, siriana, degli Hezbollah, di Hamas, seguitano a pervenire, potenziate dall’eccitazione dei mullah in Iran, le consuete voci di guerra. Curiosamente, oggi, gli USA sembrano ignorare questo fondamentale problema strategico, che implica anche la loro salvaguardia.
sabato 29 agosto 2009 19:18:17
Non sono ebreo ma non mi convince la "soluzione" due popoli due Stati. Non c'è un "popolo palestinese". Volevo solo dire che la pubblicazione dei tuoi liberi in englese è una buona cosa, come lo è la publicazione criminalmente tardiva di quelli (non ancora tutti) di Bat Ye'Or in Italia (ed Lindau).Ma sarebbe ancora più importante, cara Fiamma, la pubblicazione dei tuoi libri in spagnolo, per raggiungere la America Latina, dove anche comunità ebraiche importanti come la residente in Argentina sono disarmate o male armate di fronte alla propaganda "progressista" o di sinistra sull conflitto coi palestinesi, ecc. Auguri per il tuo lavoro!