Israele combatte per la sua salvezza nulla può fermarlo

Il Giornale, 21 marzo 2024
Israele non ha nessuna altra scelta se non combattere questa guerra e rimettere in moto la restituzione degli ostaggi. Non ha potuto contare sul sostegno di nessuno, ma oggi il momento è buono per il sostegno americano, che prima non c’era. C’è invece il solito biasimo pieno di odio e di balle mentre Israele di nuovo combatte a Gaza, la solita richiesta inconsulta di cessare il fuoco e prepararsi a farsi macellare. Da Hamas, e poi da Hezbollah, e poi dall’Iran... ma stavolta non accadrà. Si è imparato qualcosa il 7 di ottobre anche sulla ripetitività del biasimo e del veleno che proviene dall’interno stesso di Israele. Ancora nell’ottobre del ’23, sui corpi ancora caldi dei bambini uccisi e delle donne stuprate e fatte a pezzi, il segretario di quella inutile organizzazione che è l’ONU, chiese il cessate il fuoco: già allora.
Adesso, di nuovo. La morte nei tunnel dei rapiti, la quieta ricostruzione del potere di chi aveva assalito Israele e di chi adesso sacrifica di nuovo i suoi figli per prepare, dichiaratamente, la nuova Shoah, non interessa quanto la coesione ideologica sul pacifismo autolesionista di un Occidente asservito a maggioranze in cui l’Islam è determinante. Israele ha dovuto necessariamente di nuovo attaccare Hamas pena la ricostruzione di tutto l’asse dall’Iran ai Houty al Libano. L’attacco terrorista che sotto la cenere delle recenti sconfitte si rinfocola proprio sui rapiti, è sommerso da una marea di chiacchiere che hanno un solo cinico obiettivo: Netanyahu. E’ addirittura interessante quanto l’odio per questo leader accenda una luce accecante su una realtà che si fa fatica a affrontare: quando sei a rischio di vita, ti devi difendere. Gli attacchi a Gaza hanno come primo scopo quello di rompere il rifiuto di Hamas a restituire gli ostaggi e allungare i tempi per irrobustirsi di nuovo. Ieri, coi missili, Hamas ha mandato di nuovo Tel Aviv nei bunker; dalla Giudea e dalla Samaria, centinaia di attacchi sia di hamas che della Jihad Islamica che di Fatah colpiscono ogni giorno. Le famiglie che protestano nelle strade temendo che lo scontro comporti un pericolo maggiore per i loro cari, hanno ragione nella loro angoscia. Ma l’obiettivo deve essere Hamas, non Netanyahu che ha ormai svolto mille trattative, tentato tutte le strade senza successo. Hamas non vuole.
Lo stallo di queste settimane ha reso decisive la sue richieste, aprire la fase che finisce nella conclusione del conflitto restando al potere e godendosi le migliaia di prigionieri assassini liberati, senza dare niente in cambio, mentre ricostruisce armi, tunnel, uomini, insomma la ricostruzione del prossimo sette di ottobre. Bibi ha agito di sorpresa, sfidando l’opinione pubblica, e non è facile: chi dice lo fa per salvare il governo recuperando Ben Gvir, ignora che Netanyahu ha già i voti per governare senza di lui. Chi poi sostiene che licenzia Ronen Bar perché indaga sul suo ufficio e i rapporti col Qatar, non sa che per quanto la magistratura odi il primo ministro, sia stato già escluso un suo coinvolgimento diretto in un’indagine che semmai viene a puntino proprio per Bar che, capo dei servizi segreti dell’interno, lo Shin Beth, ha le responsabilità più immediate del 7 di ottobre. Certo una indagine politica e militare completa dovrà aver luogo presto; ma in democrazia esiste la differenza fra leader eletti e leader scelti dagli eletti, che devono rispondere a chi attua la nomina pena la cesura del rapporto. Se Netanyahu non viene riconosciuto il potere di affrontare il potere degli alti funzionari,è perché il suo colore politico non è quello giusto. Non va bene. Ma Israele combatte per la salvezza, ha imparato finalmente a farlo, e nessuna chiacchiera potrà fermarlo ormai. Quanto al numero dei palestinesi uccisi, a parte che la fonte è Hamas, quindi non credibile, non uno sarebbe morto o morirebbe se Hamas avesse consegnato, o consegnasse, i rapiti.
La pressione su Hamas e un messaggio all'Iran. La forza di Bibi (e Trump)

La memoria trasferita nel deserto

Il Giornale, 13 marzo 2025
Qual è la risposta da parte dei cittadini di un quartiere bene della capitale d’Italia se un’istituzione indispensabile per l’integrità morale del Paese, ovvero il cantiere del Museo della Shoah, viene coperto di escrementi, di svastiche, se una testa di maiale vi viene depositata, se frasi inneggianti a Hamas e all’odio per Israele e gli ebrei lo sfregiano?
È la stessa reazione che hanno avuto in varie città d’Europa i passanti che hanno strappato i manifesti coi volti dei bambini Bibas, della loro mamma Shiri, dei rapiti e degli assassinati da Hamas. Questo hanno fatto i cittadini di Via Torlonia firmando un disgustoso esposto che chiede di spostare il museo “in un’altra area a Roma, più ampia e meno popolata”. Nel deserto. Hanno paura. Della memoria del maggior crimine contro l’umanità della storia non gli interessa nulla, li preoccupa che si possa disturbare la loro passeggiata. Non chiedono di perseguire i delinquenti, di acchiapparli, tantomeno di difendere la memoria della Shoah, che certo non riguarda solo gli ebrei. Anzi, adesso che (scrivono proprio così) il 7 ottobre 2023 ha segnato una svolta, si rivaluti “il momento storico e geopolitico”.
Per loro non è quello dei 1200 innocenti uccisi solo perché ebrei, ma quello che deve cancellare la costruzione del Museo della Shoah. Benvenuto all’antisemitismo perbene. Il comune deve cancellare la delibera, chiedono, la storia della Shoah è pericolosa per la salvaguardia della quiete del quartiere. Chissà se una lettera così vile sarebbe stata scritta se si fosse trattato di un museo sul femminismo vandalizzato, o dell’islam, o dell’immigrazione… la gente di Villa Torlonia non sarebbe intervenuta per salvaguardare nobilmente la pluralità? Ma gli ebrei… non è di moda cercare di capire chi sono gli oppressi e chi gli oppressori, l’antipatia per Israele a cena si porta molto. La Shoah la vadano a ricordare più in là, tanto più che oggi opprimono i palestinesi.
Dunque, il manifesto coi bambini Bibas i firmatari lo avrebbero strappato; quello con un gatto perduto invece lo avrebbero studiato, annotando il numero di telefono dei proprietari infelici.
Gaza, gaffe dell’inviato Usa. Poi Witkoff rilancia la linea: "Ostaggi indietro o guerra"

I massacri della nuova Siria di al Shara pronti a infiammare tutto il Medioriente

Il messaggio ad Hamas sul rilascio degli ostaggi. E la lettera a Khamenei

Alla ricerca di se stesso, Israele rivive l' incubo

Il Giornale, 06 marzo 2025
Eyal Zamir ha la forza calma dei tankisti, non quella funambolica dei piloti, o quella smart dei paracadutisti. Ma sono tempi molto diversi. L’esercito deve riconquistare il suo ruolo essenziale, e questo lui è: essenziale. In questi giorni, come mai nella storia di Israele, nemmeno al tempo della guerra del 1973, Israele cerca sé stessa; si è riaperta la ferita del 7 di ottobre, sono stati mostrati al pubblico i risultati paurosi e sconcertanti delle inchieste che l’IDF e lo Shabbach, il servizio segreto interno, hanno condotto autonomamente.
Ne esce un quadro devastante del fallimento di uno dei migliori apparati di sicurezza del mondo. Due sono le voragini aperte: quella dell’incomprensione dell’evento, di cui pure si conoscevano le tessere del puzzle senza però riuscire a comporre il disegno; durante le giornate e la nottata precedente tutto era chiaro e dispiegato, e non si è capito. E poi, la voragine del ritardo di ore e ore che ha lasciato i disperati sopravvissuti nei rifugi a chiedere un aiuto che non è arrivato. A Kfar Aza, dove l’ultimo terrorista è stato eliminato il 10 ottobre. Così sono stati uccisi 64 dei suoi abitanti e rapiti 19 nella terza delle ondate diverse di Hamas preparate con precisione e dovizia di indicazioni strategiche, mentre l’aiuto richiesto alle 6,29 è comparso in minimi termini alle 13, 15; 33 erano stati uccisi nella prima ora; alle 8 c’erano nel kibbutz 250 terroristi; i rapimenti sono avvenuti alle 10, e ancora non c’era nessuno a impedirli. Alle 10,30 un piccolo gruppo di soldati si è trovato uno contro cinque terroristi, le case dei ragazzi sono state distrutte e disseminate di cadaveri. Le forze in campo erano una ignara dell’altra, totalmente scoordinate. La presa e distruzione dell’avamposto di Nahal Oz sul confine,162 soldati di cui 90 senza armi e solo 81 allenati al combattimento, è stata compiuta in tre fasi, alle 6,30 alle 9 e alle 10.
In base a informazioni precise, Hamas sapeva dove tagliare il recinto dove erano le telecamere, quando passava la ronda, dove dormivano i comandanti, dove erano le ragazze, rapite. 53 sono stati uccisi subito. Mentre eroi solitari arrivavano da ogni parte di Israele in aiuto, l’esercito non c’era ancora se non in gruppi autorganizzati. L’aviazione ci ha messo 4 ore a decollare, le truppe, per esempio a Kfar Aza o a Be’eri, non avevano ordini per agire. La Divisione Gaza allo sbando non forniva indicazioni nemmeno quando ormai il disastro era evidente. Nessuno all’alba ha evacuato i tremila ragazzi al festival musicale, anche se dalla notte si sapeva che sarebbero stati a Reim, un’esca da divorare. I kibbutz erano attrezzati come fossero in Toscana e non attaccati a Gaza, a Kfar Aza per esempio, tutte le armi erano state volontariamente rinchiuse in un ripostiglio. Bambini, anziani, famiglie assediati nei rifugi hanno chiamato i numeri di emergenza per decine di ore. Dunque lo Shabbach e Aman, i servizi dell’esercito, non avevano informazioni? In realtà ne avevano a bizzeffe, ma le hanno snobbate per via della “conceptia”, un misto di prosopopea, pacifismo, presunzione; “Hamas non vuole la guerra, con noi non ce la può fare e lo sa, ha perduto dal 2008 al 2021”. Eppure si sapeva bene che Hamas allenava masse lungo il recinto, che le gallerie crescevano e i finanziamenti iraniani e del Qatar finivano in armi, e anche che Sinwar seguiva la politica e la spaccatura interna di Israele.
Eppure tutti i passaggi delle notizie di quel giorno dall’uno all’altro comandante ripetono che sì, c’è traffico, ma Hamas non vuole la guerra né tantomeno un’invasione territoriale. I vertici sia dello Shabbach che dell’esercito, durante la notte prima dell’invasione aveva saputo che migliaia di terroristi si stavano radunando in battaglioni ordinati e pronti all’attacco con le auto e i kalashnikov, che d’un tratto avevano acceso le SIM israeliane. Il capo di Stato maggiore Herzi Ha levi è stato avvertito alle 4,00 di notte, ma, come i suoi, ha deciso di rimandare al mattino. Persino l’ex ministro della difesa Yoav Gallant ha raccontato che sua figlia l’ha svegliato chiedendogli perché si bombardavano Tel Aviv. Netanyahu non fu svegliato. È dura. Israele cerca consolazione nei magnifici, incredibili eroi che sono corsi da ogni parte del Paese a difendere la gente aggredita, e hanno salvato il Paese. Da allora si combatte su sette fronti con successo, ma il 7 ottobre è ancora qui, il popolo ebraico affronta sempre una nuova avventura. Ancora.
Hollywood certifica la deriva antisemita

Il Giornale, 04 marzo 2025
Il cinema resta sempre un faro. Le sue immagini, i suoi volti, e anche i suoi documentari disegnano la fantasia di milioni di persone, siglano un’epoca. E Hollywood quindi si deve vergognare, oggi, per la sua ignoranza e per le sue bugie. Il vacuo giubilo che emana dalla sua folla pronta a applaudire la più vieta delle interpretazioni che accompagnano la tragedia israeliana dal sette di ottobre, segnala che gli ebrei sono cattivi, forse suprematisti bianchi, certo i palestinesi sono le vittime. Non è successo niente. Il 7 ottobre non c’è stato. Ieri il giovanotto palestinese che proviene da vicino a Hebron, una delle zone più prolifiche di attacchi contro chi va autobus o in pizzeria, premiato con l’Oscar, ha recitato tutto il rosario proPal. Si chiama Basel Abra, con l’israeliano Yuval Abraham ha firmato il documentario “No Other Land” e chiamato sul podio, in cravattino nero, prima ha denunciato “la pulizia etnica del popolo palestinese”, mentre Abraham, israeliano si lanciava sull’ “l’atroce distruzione di Gaza” e bacchettava gli Stati Uniti (e come no, l’antiamericanismo è caro ai figli dell’America più affluente) per aver bloccato la strada a “una soluzione politica senza supremazia etnica”. Poi essendo israeliano ha mostrato di ricordarsi che gli ostaggi israeliani devono tornare e ha auspicato un futuro migliore tutti insieme. Power to the people. Ma questo film coi suoi applausi non aiuterà. È vero che ci sono state demolizioni nella zona di Masafer Yatta, la gente però non è stata sgomberata. Non ho visto il film, ma è facile sapere che quando Tzahal distrugge una casa le ragioni sono dure, difficili, e legali: dipendono in genere dalla necessità di distruggere strutture che servono da rifugio, deposito, base per il terrorismo. Le decisioni vengono sottoposte alla Corte Suprema, che ci ha messo anni, dopo un primo rifiuto, ad accettare la decisione militare, legata all’uso del terreno come zona di esercitazioni. Quella parte dell’West Bank è una zona da cui fuoriescono parecchi attacchi, ogni giorno i terroristi di Hamas e altre organizzazioni locali causano morti e feriti; oppure si riesce a prevenirli, anche smantellandone le strutture. Oppure, le costruzioni violano la legge cui sono soggetti tutti i cittadini: non si può costruire dove è proibito.
Masafer Yatta esemplifica un’acquisizione illegale di terra da parte palestinese nella zona C che, al contrario delle aree A e B, è sotto il controllo civile e militare israeliano secondo gli accordi di Oslo Sono circa 200mila i palestinesi nell’area C; nel 1999 i palestinesi si presero a Masafer Yatta un altro pezzo di terra, e violarono gli accordi di Oslo e i permessi di costruzione. Con baracche, con grotte che nella tradizione sostituiscono le case, con piccole costruzioni di mattoni e di latta piazzate in modo da bloccare le abitazioni israeliane si sono costruite apposta ostacoli per affermare che quella è terra palestinese. L’intenzione provocatoria è evidente. Da notare che nell’area A, sotto il controllo palestinese, Israele proibisce ai suoi persino di entrare, tantomeno di costruire. E una memoria basilare: tutti i territori assegnati a Israele dalla Lega delle Nazioni, Giudea e Samaria, dette West Bank, rimasero occupati dalla Giordania dal 1948 al 1967. Israele sapeva bene che il suo diritto era a tutto il territorio, secondo gli accordi internazionali e la conclusione della guerra: mai i Palestinesi avevano avuto uno Stato. E tuttavia concesse il controllo sull’area A e in comune sull’area B, fino a un accordo di sicurezza che i palestinesi hanno rifiutato sempre. Resta l’aggressione continua, l’educazione scolastica dedicata all’omicidio degli ebrei, uno a uno, ovvero al genocidio.
Eppure l'anno scorso, con in mano l’Academy Award per il suo “La zona d'interesse” Jonathan Glazer disse che accettava il premio rifiutando che l’ebraismo e l’Olocausto fossero sequestrati dall’occupazione che aveva condotto anche al 7 ottobre. Ovvero: Hollywood seguita a affogare nella sua miseria antisemita. Del resto, anche Leni Riefensthal era bravissima, da premio anche quando fotografava Hitler.
Il mondo al contrario: gli ebrei italiani accusano Israele di "pulizia etnica"

Il Giornale, 27 febbraio 2025
È persino interessante che nel giorno in cui Israele lungo tutte le strade del Paese piange i bambini BIbas e la loro mamma Shiri una banda di ebrei ed ebree (anzi prima ebree, perché è più politicamente corretto) accusino Israele di un crimine spaventoso, che deve rovesciare il biasimo e condurre a una perversa concezione della guerra cui invece palesemente Hamas ha costretto Israele. Ieri lungo le strade, abbiamo visto gente di tutte le età, in lacrime per i bambini e per la perdita di più di duemila persone uccise fra assassinati e soldati al fronte, e per i rapiti; era gente triste e fiera delle bandiere e dei canti che definiscono il Paese che i terroristi hanno cercato e prometto di distruggere.
Un Paese democratico in lotta contro la barbarie con cui uno a uno, in seno alle famiglie o rapiti, sono stati strangolati, smembrati, bruciati, stuprati ebrei che avevano la colpa di essere tali. E cosa fa Gad Lerner e i suoi amici, con l’ospitalità di Repubblica? Mentre Israele si concentrare ieri sul suo lutto e sui suoi nemici, e anche i più decisi fautori di una tregua che riporti a casa gli ostaggi in base all’accordo, hanno ripetuto che non c’è altra strada che combattere il male, questo specifico, innegabile male, il documento inventa che sia proprio invece degli ebrei combattere per evitare una supposta “pulizia etnica”. La pulizia etnica nella storia, avviene in base a principi razzisti, o di conquista territoriale, non è mai stata una guerra di strenua difesa contro un nemico che vuole uccidere, e lo ha scritto nella sua carta, un popolo intero al grido di “yehud yehud”. L’espressione è utile perché con una giravolta doppia (cioè, gli ebrei sionisti sono nazisti e io che sono progressista sono invece il vero ebreo) ci si unisce a un movimento di successo, che nelle piazze e ai festival del cinema va forte, quello studiato per primo da Robert Wistrich e da Alvin Rosenfeld, quello dell’“inversione”.
Ovvero, il trasferimento sugli ebrei (quelli israeliani, una trascurabile minoranza senza significato!?) delle caratteristiche dei nazisti. Gli ebrei invece, sono i palestinesi. Pulizia etnica ne ha parlato l’ICC, l’ICJ, mille ONG e la signora Albanese ne hanno fatto una bandiera… è un’espressione vicina a genocidio, crimini di guerra. Nel 1975 il sionismo è stato bollato con una risoluzione dell’ONU come “razzista”: era la costruzione sovietica dell’odio di Israele come stato capitalista-imperialista-colonna dell’egemonia occidentale contro il mondo dei reietti. Alla conferenza di Durban nel 2001, mentre si disegnava il pensiero woke per cui anche gli ebrei diventavano parte del potere “suprematista Bianco”, gli ebrei di sinistra si sono trovati con Amnesty International e compagni a criminalizzare Israele.
Oggi, c’è da domandarsi come siano ancora incapaci di identificare le vittime vere, lo Stato ebraico, parte dell’Occidente democratico, e gli aggressori, parte della barbarie jihadista che impicca gli omosessuali e uccide le donne e i dissidenti. La loro idea di bene e di male non è capace di fare i conti con una realtà in cui Israele non ha aggredito, non occupava, non odia… ma non poteva condurre la guerra altro che distruggendo le armi, i lanciamissili, le gallerie, le case di cui Hamas si serviva per colpire a morte. Non c’è pulizia etnica, gli spostamenti servivano per salvare la popolazione, ma Hamas la usava come scudo umano e Israele ha combattuto a costo anche delle vite dei suoi. E la guerra è un altro tabù per la sinistra pacifista. Ma Israele difenderà la Nazione ebraica, inaccettabile a chi pensa che la Nazione crea nazionalismo, il nazionalismo, autoritarismo. Israele in realtà battendosi difende la cultura della libertà occidentale anche degli ebrei filopalestinesi. Ma il pacifismo ebraico è crollato sulla causa palestinese. Resta il vero popolo ebraico che si batte, se ne faranno una ragione.
Ucraina e Israele il fronte è lo stesso

Il Giornale, 26 febbraio 2025
Israele e l’Ucraina sono sempre stati dalla stessa parte, contro l’aggressione sanguinaria che solo chi vive questa guerre dalla parte della libertà e della democrazia conosce fino in fondo. E’ una verità che tornerà a risplendere. I missili iraniani sparati da Putin contro Kiev, e a Gerusalemme dai fronti dell’odio contro Israele, raccontano tutta la storia vera: c’è un solo grande nemico, e vuole battere l’Occidente. La sconfitta dell’uno o dell’altro degli aggrediti sarebbe un danno irreparabile per il mondo. Le circostanze che hanno portato i due Paesi, talora, su campi separati fanno parte della dimensione tattica delle loro difficili rispettive guerre di sopravvivenza.
Israele ha votato col fronte trumpiano all’assemblea dell’ONU due giorni or sono, e il mondo intero ne ha fatto titoli di testa; l’Ucraina fra il 2015 e il 2025 ha votato contro Israele all’assemblea ONU 122 volte e 41 si è astenuta, mai in favore. Kyev ha votato a gennaio addirittura a favore della mozione egiziana sostenuta dalla Giordania e dall’Autorità nazionale palestinese, sulla quale persino le nazione europee si sono astenute, per il bando del nucleare dal Medio Oriente: l’ambasciatore l’ha spiegato come un gesto di politica abitudinaria. Israele, aveva votato per la condanna dell’invasione Russa nel marzo del ’22. Sharansky che è stato per dieci anni in prigione in Russia come dissidente ebreo racconta oggi che un anno di prima di essere assassinato da Putin, Navalny gli ha scritto che si trovava nella prigionia identica a quella da lui sofferta perché voleva partire per Israele. Israele lo sa, ma finchè la Russia, con minaccia molto consistente e insieme agli Hezbollah e agli uomini di Assad, ha minacciato Gerusalemme dal confine, ha potuto fornire all’Ucraina piuttosto che armi aiuti umanitari, ospedali da campo, strumenti per la difesa. Avrebbe, si può pensare, potuto fare di più, e forse ha fatto di più senza pubblicità, ma non ne sappiamo abbastanza.
I due Paesi hanno mantenuto le distanze, mandandosi segnali di futura collaborazione, appena possibile. Zelensky ha solidarizzato per il 7 di ottobre e ha detto che sarebbe venuto non fosse stato per il viaggio contemporaneo di Blinken. Trump adesso, nega la verità evidente dell’aggressione di Putin, la sua depravata gestione che ha perfino rapito 20mila bambini; Zelensky ha il 57 per cento dell’approvazione, è un leader sostenuto dalla sua gente, e spesso in guerra si ritardano le elezioni. Anche Netanyahu è stato ed è spesso vituperato, anche Biden lo ha fatto ignorando la sua maggioranza. Nel terzo anniversario dell’aggressione di Putin, non c’è giornale in Israele che non esalti l’eroismo degli ucraini, e non condanni i crimini di guerra russi. Israele ha un naturale atteggiamento di vicinanza con l’Ucraina. La necessità di mantenere un rapporto solido con l’amministrazione americana, l’unica che capisce e agisce in base al pericolo di vita che corre Israele, è palese, evidente ed è alla base del voto all ONU. Israele e l’Ucraina si sono talvolta reciprocamente neglette, e invece si devono abbracciare e combattere insieme: la loro è un’unica battaglia. Nel dicembre del 2002, ho ricevuto il premio Irina Alberti per il senso etico della professione insieme a Anna Politkovskaja, eroina assassinata da Putin. Insieme, lei contro Putin, fino all’ultimo, io contro il terrorismo, difendevamo la democrazia. La stessa guerra continua.





