La Cina "unisce" Hamas e Abu Mazen
Il Giornale, 24 luglio 2024
Wang Yi, ministro degli Esteri cinese, ha conferito ieri un tocco surreale al grande teatro della guerra mediorientale: col vestito rigato e il volto delle grandi circostanze ha fornito a Pechino il palcoscenico per un accordo di pace e collaborazione che non si realizzerà mai, quello fra l’organizzazione terrorista di Hamas, padrona di Gaza, e Fatah, padrona dell’West Bank, insieme a altri numerosi gruppi, almeno 12, fra cui la Jihad Islamica che ha subito dichiarato di essere contraria a qualsiasi dichiarazione che riconosca l’esistenza di Israele. Al momento Musa Abu Marzuk, uno dei capi di Hamas (già, come mai è in giro per il mondo come niente fosse dopo il 7 di ottobre?) e Mahmoud el Aloul, vicepresidente di Fatah, fra molte strette di mano hanno intenzione solo di mettere un cappello sulla sedia del potere a Gaza verso la fine della guerra e di dimostrare che hanno un potente sponsor, ricco e aggressivo come e più degli Stati Uniti.
I rapporti fra i due gruppi e anche gli altri, non sono buoni: chi era alla riunione riporta che le voci alterate provenienti dalla discussione bucavano le porte e le mura, i due gruppi hanno dal 2007 quando Hamas gettava dai grattacieli di Gaza gli uomini di Fatah che cercavano di prendersi la Striscia dopo lo sgombero e elezioni in cui peraltro Hamas era risultata vincente, ricordavano gli accordi falliti del 2011 e del 2022. La Cina stavolta, data l’estrema debolezza di Hamas, mentre Sinwar non ha più a suo fianco l’indispensabile Deif, il suo capo di Stato maggiore, però potrebbe richiedere un comportamento disciplinato da due valvassini che hanno interesse alla sua sponsorizzazione e in generale a una sua presenza significativa nell’area, che è ciò cui essa punta, nell’ordine post-bellico che altrimenti rischia di riflettere interessi diversi da quelli palestinesi. E dell’asse antioccidentale: la Cina si muove con determinazione nell’area, con la sua forza ha portato nei mesi scorsi a un inusitato accordo (vedremo in futuro quanto solido) fra l’Iran e l’Arabia Saudita, in sua compagnia e sotto la sua ala figurano, insieme a Hamas, l’Iran, gli hezbollah, le altre forze “proxy” iraniane come gli Houthi e gli iracheni, e la Russia è la sua compagna di strada, pronta a difendere Hamas all’ONU e a invitarla a casa sua insieme allo sponsor iraniano.
Questo, a fronte delle forze democratiche occidentali e incidentalmente ad alcuni Paesi sunniti che aspettano il segnale per rientrare in scena. L’accordo palestinese dovrebbe, secondo le dichiarazioni dei protagonisti, disegnare un futuro post-bellico in cui a fianco dei residui di Hamas, ormai pacificati, si erge a protagonista, pronto a entrare nella gestione prossima ventura della Striscia, quel Fatah “moderato” e anche, come disse Biden “riformato”, per cui la carneficina di Sinwar dovrebbe ricevere il premio della formazione di uno “stato palestinese” non contrattato con Israele né nei confini né nelle intenzioni. Questo, contro gli accordi di Oslo e ogni buon senso. Hamas e Fatah insieme a Gaza significherebbe la preparazione del prossimo 7 ottobre, e peggio.
Nell’Autorità palestinese almeno il 70 per cento della popolazione voterebbe oggi per Hamas, e non per Abu Mazen, che peraltro non ha mai condannato la carneficina del 7 ottobre. L’entità composta dai due gruppi non avrebbe la minima intenzione di abbracciare il concetto di democrazia, ma al contrario sarebbe un sostenitore di un regime teocratico e di nuovo, terrorista come quello attuale. La Cina ne è ben consapevole, ed è contenta di potere mandare il suo segnale, forte e chiaro, concreto e duro, quello di una inaccettabile proposta di caos, proprio mentre Netanyahu sbarca negli USA e si prepara a spiegare che Israele è solo il capofila di uno scontro mondiale, in cui la libertà e la pace sono un premio tutto da conquistare.
Bibi va negli Usa. In mente l'Iran, il vero nemico
Il Giornale, 22 luglio 2024
Netanyahu vola stamattina verso Washington: se fossimo nella sua mente avremmo davanti tutte e cinque i fronti di guerra che potrebbero costringerlo a tornare di corsa a casa prima di incontrare Biden, prima di parlare al Congresso, prima di vedere, forse, anche Trump. Tutti e cinque portano, alla fine, un solo nome: Iran. Iran si chiamano i Houti che da decenni ormai, a 1800 chilometri di distanza da Israele, per ordine degli Ayatollah scrivono sulla loro bandiera, e non è un modo di dire, “morte all’America e morte agli Ebrei”; gli Houty dal 7 di ottobre hanno bombardato un Paese con cui non hanno niente a che fare con 200 fra missili e droni; dopo aver colpito e ucciso a Tel Aviv, venerdì adesso ardono nella indispensabile rappresaglia. Si chiamano Iran, in realtà, gli Hezbollah che uccidono e distruggono ogni giorno dal confine del Libano e che hanno costretto allo sgombero le città e i kibbutz israeliani; Iran si chiama Hamas, rimpinzato di armi e soldi da Teheran e dal Qatar, che ha portato a compimento la più grande e sanguinosa violenza individuale su donne bambini e vecchi ebrei dalla Shoah, e il cui capo Mohammed Deif finalmente ieri è stato dichiarato morto; Iran sono le milizie che agiscono e colpiscono dalla Siria e dall’Iraq; Iran, ultimo ma non meno importante fronte, sono i fiumi di denaro che raggiungono i movimenti di studenti e attivisti woke antisemiti che inondano le piazze europee e americane.
Bibi va in America a spiegarlo e a dire che comunque Israele ha il dovere di difendere i suoi cittadini, anche nel caso debba farlo da solo: Blinken ha detto che in un paio di settimane la Repubblica Islamica avrà l’uranio arricchito per le bombe atomiche che persegue da tempo. Esse terranno prigioniero, proprio come oggi Hamas tiene prigionieri gli ostaggi israeliani, il resto del mondo. Bibi parlerà al Congresso anche di loro, della crudeltà con cui sono ancora trattenuti nell’inferno sotterraneo dell’integralismo islamico mentre l’ONU in quella che ormai appare come una forma di demenza seguita a non capire niente e a condannare Israele, e l’America tentenna, e l’Europa si occupa d’altro. Da Israele allo Yemen ci sono 1800 chilometri: e Israele li ha volati tutti da solo per colpire i Houti, come ha dichiarato Kirby, rappresentante del Consiglio Americano per la sicurezza nazionale. C’era ammirazione nelle sue parole. Israele ha scelto finora di non volare con gli F15 le poche centinaia di chilometri fino a Beirut o i 1600 chilometri fino a Teheran. Ciò che è accaduto sabato dimostra che a volte la misura si riempie, che comunque un Paese deve difendere i suoi cittadini, che prima della politica viene la vita, al primo posto.
L’Iran mette a rischio la sopravvivenza di ciascuno, da ogni lato. Quei milleseicento chilometri prima o poi devono essere compiuti, in un modo o nell’altro, con gli F15 o con una chiara presa di posizione deterrente di un fronte mondiale che dica basta alla prospettiva di una guerra messianica globale; meglio sarà se a Washington ci si renderà finalmente conto che anche a Gaza Israele combatte nel nome del buon senso comune come lo intende l’Occidente. Si chiama democrazia, libertà, e Israele è stata costretta a difenderle volando fino in Yemen.
L’odio cieco dei giudici. Deliri sull’occupazione
Il Giornale, 21 luglio 2024
Che piacevole brivido, il consenso su un luogo comune acquisito, gli artigli legali sull’”Occupazione” “Occupation” “Kibbush”… il più saldo e condiviso pregiudizio: Israele è un occupante illegale ha detto l’ICJ, Alta Corte onusiana che batte così sul bollente incudine dell’antisemitismo mondiale. Già un paio di mesi fa decise che Israele ha caratteristiche genocide, quale maggior piacere di presentare al mondo intero una sentenza che Hamas ha subito ritenuto un dono di cui ringraziare, e di cui i palestinesi dell’Autorità nazionale palestinese hanno dichiarato che si tratta di una storica svolta? “Occupation”: basta dirlo e sei un difensore degli oppressi e i diseredati. Sei per il diritto all’autodeterminazione, parola magica. Non importa se l’autodeterminazione è quella di Hamas, di uccidere e scavare gallerie dove incatenare ostaggi come è accaduto nel 2005 con lo sgombero. Non importa se non sai la storia: António Guterres dopo la giornata di sterminio del 7 ottobre, allungò l’occupazione e “la sofferenza palestinese” a 75 anni fa, cioè alla nascita sancita dall’ONU dello Stato Ebraico. E allora perché non al 1917, al 1920, Balfour, San Remo, ai tanti documenti in cui la legalità internazionale ha trasformato l’ovvia appartenenza di Israele alla terra che vede gli ebrei suoi pertinaci protagonisti dai tempi della Bibbia in Stato.
Ma questo è negato da tutti quelli che appiccicano su Israele etichette: colonialismo, suprematismo bianco, imperialismo, anche apartheid, in regalo. Tutto nella mente popolare è “occupazione” non importa se gli ebrei stanno là dai tempi del re David, e se il concetto di occupazione che esiste solo nel caso di due stati sovrani con confini riconosciuti qui non c’entra niente. Il solito giudice dell’ICJ Nawas Salam, con quattordici dei quindici giudici a maggioranza automatica, allenato a leggere con tediosa lentezza centinaia di pagine di bugie, l’ex ambasciatore libanese all’ONU che già aveva dichiarato Israele paese di apartheid, è così equidistante da non vergognarsi di giudicare un Paese con cui il suo è in guerra (ieri 45 missili sulla Galilea). Nel 1967 Israele fu costretto per motivi di autodifesa vitale, come sempre nelle sue guerre, a entrare nell’area amministrata dalla Giordania, mai stata territorio palestinese, né mai i confini giordani erano stato riconosciuti tali. Se si dovesse ricostruire i motivi di autodeterminazione, Israele avrebbe ottime carte, ma chi lo farà mai.
L’area ha legami storici molto solidi con la storia ebraica. Chi ha voglia, legga la Bibbia, non con intenti messianici ma storiografici, o impari che dall’Impero Romano in avanti, durante i Califfati, o l’Impero Ottomano. gli ebrei mai se ne sono andati dalla loro terra. Anche dopo la caduta di Masada gli ebrei rimasero maggioranza per 600 anni. Anche col ‘67 non appare una risoluzione che dichiari che i territori sono “occupati”, o appartengono ai palestinesi. Invece Israele subito si offrì di ritirarsi, ma i famosi “tre no” di Khartum del 29 agosto lo bloccarono. Le risoluzioni ONU in merito stabilivano che solo un accordo fra le parti avrebbe portato a una risoluzione sui “territori disputati”. Quanto a coltivare la terra e a costruire case, le limitazioni stabilite dagli accordi di Oslo, sempre un accordo ad interim che non assegnava le terre a nessuno e le divideva in tre zone, rispettano la legge internazionale: si può farlo in territori non privati. Israele dopo Oslo ha sgombrato le sue forze civili e militari: l’Autonomia Palestinese è una vera autonomia, e nel 2005 Gaza è stata sgombrata del tutto. Il risultato, mentre fallivano tutti i tentativi di Israele di cedere territorio, compresa Gerusalemme est, è stato missili da Gaza e attentati da ogni parte, compresa la Seconda Intifada. L’intenzione palestinese non è mai stata quella di costruire uno stato accanto a Israele come da accordi di Oslo, dimostratisi vuoti e illusori per la sicurezza, ma di eliminare Israele. Anche l’ICJ certo non mira alla pace, ma favorisce il vantaggio armato di Hamas e dell’Autorità nazionale palestinese.
VIDEO Presentazione del mio nuovo libro “7 ottobre 2023. Israele brucia”
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L’Iran minaccia: cancellare Israele. E l’Occidente tace
Il Giornale, 30 giugno 2024
Denuncia anche il nervosismo iraniano la dichiarazione vulcanica di Amir Saed, ambasciatore dell’Iran all’ONU, per cui se Israele attaccherà con forza gli Hezbollah, il Paese degli Ayatollah perseguirà la “cancellazione” di Israele, e che per questo scopo “sono sulla tavola tutte le opzioni, incluso il pieno coinvolgimento di tutti i fronti della resistenza”. Lo scopo: uccidere tutti gli ebrei, una strategia pratica per un’idea iraniana classica. Ma che cosa vuol dire? Che l’attacco a tenaglia che dal 7 di ottobre ha aggredito Israele da ogni parte, per cui persino la vacanziera Eilat al sud estremo è sconvolta dai bombardamenti degli Houti dal remoto Yemen (lezione sul paradosso che rappresentano le accuse di colonialismo e di quanti missili e droni l’Iran è capace di distribuire in giro) si sostanzierà di centinaia di miglia di missili da ogni parte e di feroci infiltrazioni di terra, stile Sinwar: gli Hezbollah, gruppi dalla Siria e dall’Iraq oltre a Hamas e alla Jihad Islamica assaliranno insieme Israele, mentre l’Iran, come ha chiaramente minacciato, lancerà in prima persona un attacco missilistico maggiore di quello del 14 aprile, e ogni angolo di Israele sarà preso di mira.
Dal 7 di ottobre quando sono scesi in campo, gli Hezbollah avrebbero potuto decidere l’attacco generale. Un gruppo pacifista israeliano che vorrebbe un accordo totale che cominci a Gaza e si saldi in Libano, prevede 15mila morti se la guerra scoppiasse. Per ora gli Hezbollah hanno terrorizzato, svuotandolo, il nord d’Israele con i suoi kibbutz e le sue città, e di fatto hanno messo Israele in una posizione cui non può sottrarsi: deve riportare 100mila cittadini a casa. Non a caso l’uscita iraniana risponde al viaggio di Gallant, ministro della difesa, che negli Stati Uniti ha cercato un’alleanza che cerchi di evitare la guerra obbligando Hezbollah a accettare di allontanarsi dal confine secondo la risoluzione dell’ONU, ma anche a stringere forti patti in caso di guerra. L’Iran è il vero nemico qui, è difficile che gli USA possano sottrarsi. La posta è grossa, la distruzione di Israele, il dominio del Medio Oriente, persino un conflitto mondiale. Il Ministro ha ripetuto che se Nasrallah attacca il Libano sarà ridotto all’età ella pietra, gli Hezbollah sanno che nel Paese tutte le etnie che compongono il mosaico libanese, sono furiosi all’idea della distruzione e della miseria che porterebbe di nuovo la milizia terrorista sciita.
Per questo Hezbollah va piano. Ma il sogno di distruzione è grande quanto sanno esserlo le ideologie messianiche, quanto può esserlo l’antisemitismo e l’eccitazione per la lentezza dell’operazione di Gaza contro Hamas e la paura degli hezbollah nel mondo. E certo non crea deterrenza il fatto che i due candidati americani Biden e Trump, uno di fronte all’altro giovedì sera, non abbiano trovato, nessuno dei due, l’ispirazione sufficiente per disegnare un mondo occidentale vittorioso a fronte del rischio di vita che corre l’unico Paese democratico del medio oriente; non una parola sui rapiti, se non di striscio, solo espressioni ; non una parola sulla nuova piaga dell’ideologia antisemita che inquina tutto il mondo e specialmente proprio gli USA, non sulla stupefacente crudeltà del 7 di ottobre. Mentre l’Iran arrota le spade, sembra riprodursi la situazione precedente al 7 di ottobre, quando si vide tutto e non si fece niente. Stavolta, però in dimensione mondiale.
Occidente ignavo. È una questione di vita o di morte
Il Giornale, 28 giugno 2024
Il ritratto della debolezza del mondo occidentale è stato ieri completato dalla richiesta degli USA ai suoi cittadini di lasciare il Libano di fronte al rischio di guerra fra gli Hezbollah e Israele. Si è un rischio terribile, meglio scappare… buona idea. Biden segue una serie di altri Paesi in fuga, fra loro grandi nazioni come la Germania e il Canada, piccoli Paesi come l’Olanda. Il mondo che non ha trovato niente da ridire al fatto che una grande forza terrorista pilotata dall’Iran si sia lanciata nel combattimento contro Israele al fianco di Hamas subito il 7 di ottobre, dopo la peggiore strage antisemita dalla Shoah… scappa. Da nove mesi è sembrato normale che dal nord gli Hezbollah cogliessero l’occasione di un’alleanza pratica fra sciiti e sunniti con Hamas, dunque sull’uccidere i bambini davanti alle madri, le madri davanti ai figli, sullo stupro e l’incendio.
E che ne dovesse derivare, insieme alla tragedia dell’attacco da Gaza, anche lo sgombero dei kibbutz e delle città del nord, così che Israele fosse stretto in una morsa di terrore e miseria e i suoi soldati fossero costretti a dividere la loro solitaria, instancabile difesa del Paese fra due fronti. Normale, imbattibile anche il destino di distruzione possibile della bellissima terra del Libano nelle grinfie di Hezbollah: tutti hanno avuto paura del loro odio e riverenza per il loro nesso con l’Iran, nessuno ha saputo e voluto affrontarlo, neanche a parole. Fa specie pensare che la visita di Hochstein, l’inviato americano, abbia avuto un punto alto nella richiesta di una “Urgent descalation” a Nabib Berri, il presidente del Parlamento che in realtà è notoriamente molto legato a Nasrallah.
Nel 2006, dopo una guerra seguita a un’aggressione accompagnata da crudeli rapimenti, l’11 agosto l’ONU votò all’unanimità la risoluzione 1701 secondo la quale Nasrallah avrebbe ritirato le sue forze dal confine con Israele oltre il fiume Litani, per essere rimpiazzato dall’esercito libanese e dall’UNIFIL. Ma non è accaduto, anche se Hezbollah dichiarò di accettare l’accordo: il confine ha seguitato a essere il luogo da cui la minaccia si affaccia direttamente su Israele sopra e sottoterra attraverso una fitta rete di gallerie e porta missili e un terrorismo feroce come quello di Hamas. Dal confine viene lanciato un campionario dei 250mila missili, almeno, che l’Iran ha fornito anche agli Hezbollah, il suo braccio destro della conquista non solo del Medio Oriente ma nell’attacco messianico al mondo ebraico e cristiano. Dal sette di ottobre lo sport internazionale più diffuso è stato quello di cercare di fermare Israele, non di far pesare la forza dei Paesi più importanti per far rispettare la risoluzione. Questo nel mentre invece l’ONU si agitava in tutte le direzioni per bloccare Israele dal rispondere a Hamas, a Hezbollah, e quindi sullo sfondo all’Iran.
Quello che accadrà adesso è difficile da prevedere: di certo Israele non può permettersi di seguitare ad avere, piccola com’è, quasi centomila sfollati, kibbutz e città importanti come Kiriat Shmona abbandonate, le case e le scuole vuote, gli uffici, le ricerche, le cliniche, la magnifica agricoltura locale in rovina. La gente è importante per lo Stato Ebraico, e nessuno veramente fuori di Israele capisce che quando Gallant dice che il Libano sarà il primo a soffrirne e minaccia la guerra, non lo fa a cuor leggero, ma non può fare altrimenti. Altrimenti è la vita stessa del Paese in pericolo, un’aggressione dal cielo e sulla terra molto peggiore di quella di Hamas. Questo è il tavolo da gioco, per la vita e per la morte: basta far tornare a casa i propri cittadini alla coscienza occidentale?
Netanyahu chiude il fronte di Rafah. E apre quello con Hezbollah. Un’intesa o la guerra
Il Giornale, 25 giugno 2024
Fra Gaza e il Libano, fra urgenti e impietose scelte di sopravvivenza, destinato ma deciso a combattere l’aggressione su sette diversi fronti di guerra, fronteggiato dagli Hezbollah in assetto di battaglia: così si disegna la situazione di Israele, come l’ha descritta Netanyahu durante un’intervista domenica. L’idea è quella di ridurre fino a spengerla la guerra di Rafah puntando sull’occupazione completa del confine con l’Egitto, lo “tzir Philadelphi”, il polmone di Hamas col mondo arabo, così da poter gestire le truppe e le armi per affrontare, al bisogno, un nemico peggiore di Hamas, gli Hezbollah. Cercare al Nord, dice Bibi, un accordo; altrimenti, combattere per vincere: la gente sgomberata da casa dovrà pure tornare a casa, gli Hezbollah devono restare oltre il Litani secondo la risoluzione dell’ONU. Ma Nasrallah soppesa i suoi interessi, non vuole buttare via otto mesi di sostegno militante a Hamas, minaccia Israele con più di 250mila missili, è il rappresentante del vero nemico, l’Iran, con lui minaccia di distruzione totale Israele e soppesa di fatto una terza guerra mondiale.
Osservano il comportamento americano: non è solo un fatto tecnico che il generale Charles Q. Brown, capo dei Capi di stato maggiore, ha dichiarato che gli USA avranno difficoltà a difendere Israele da un attacco missilistico potente. A aprile per i missili iraniani ci fu tempo di organizzarsi, qua la gragnuola sarebbe ravvicinata, incessante, i sistemi di difesa entrerebbero, è stato detto, in crisi. Netanyahu ha solo scelte di sopravvivenza: combattere, puntare sullo spirito di unità che dal 1948 vince guerre impossibili, premere sugli USA, l’amico e alleato. Anche Churchill disse a Roosevelt “let me finish the job” chiedendogli armi. Gli israeliani l’hanno fatto mille volte con gli USA. L’insistenza degli ultimi giorni era giustificata da un effettivo rallentamento: Biden vede Bibi come un potenziale alleato di Trump, e aspetta con fastidio il suo prossimo discorso al Congresso, il 24.
In piena guerra e mentre forse si apre il peggiore dei fronti, Israele ha di nuovo aperto la porta allo scontro interno sul nome di Netanyahu: parlare di elezioni e responsabilità è non solo legittimo ma necessario in democrazia, ma Sinwar e Nasrallah ascoltano e deliberano misurando la forza sull’unità interna di Israele, e sui suoi rapporti internazionali. Quando i terroristi con l’Iran, progettavano il 7 di ottobre, sentivano alla Knesset, alle tv, nelle piazze, gli slogan anti-Bibi, accompagnati dall’invito a non presentarsi al servizio di riserva. Il pogrom di Hamas ha però poi aperto una fase di intensa solidarietà, i riservisti e i ragazzi di leva si sono precipitati tutti insieme a combattere il nemico, unica è stata la resistenza delle famiglie orbate, mogli, madri, delle centinaia di migliaia di profughi al sud e al nord. Anche il “don’t” di Biden ha aiutato a resistere, ma poi è impallidito nella proibizione di Rafah, e nella pressione per gli aiuti umanitari che ci sarebbero stati comunque. Ha temuto le manifestazioni antisraeliane alla viglia delle elezioni, le continue accuse atroci a Israele (genocidio, apartheid, crimini di guerra) nelle sue università. Hezbollah, cauto all’inizio, memore della guerra del 2005, si è poi sempre più identificato col ruolo messianico religioso, l’emissario principe della Scia iraniana (che ha dietro anche la Russia) con un braccio sunnita insieme in una guerra che distruggerà Israele. Intanto, i fuochi in Israele, nelle strade, davanti alla casa stessa di Netanyahu, sono tornati ad accendersi, in piazza lo hanno chiamato “Satana” promettendogli la morte con la moglie e il figlio. Per i dimostranti e non solo, Bibi non accetta la tregua definitiva per liberare i rapiti perché la guerra prolunga il suo potere. Ma è vero il contrario: la guerra, così lunga e terribile, certo non dona alla biografia del PM già crivellata dal 7 ottobre. Netanyahu cerca un epilogo, ma gli Hezbollah sono imprevedibili e crudeli come Hamas, e hanno gli stessi burattinai. I sette fronti di Israele, riguardano tutti.
La bimba ebrea stuprata è una minaccia per tutto il mondo
Il Giornale, 20 giugno 2024
La bambina ebrea violentata a Parigi aveva commesso due peccati mortali secondo i suoi accusatori: era ebrea, e quindi una creatura degna del peggior male; e, inoltre, non ne aveva avvisato quei ragazzi. Ovvero, non aveva ostentato la sua stella gialla ideale, non aveva confessato la sua abiezione. Così esigeva il nazifascismo, gli ebrei dovevano denunciare il proprio virus, così da potere essere maltrattati, violentati, deportati, uccisi. Oltre che della Shoah, lo stupro come si disegna nelle testimonianze dei giovani criminali francesi, ha le caratteristiche di quelli di Hamas. Se non è arrivata all’omicidio, è per mancanza di armi: ma il rapimento, la violenza sessuale, le urla che ripetevano alla vittima offese antisemite, urlavano Yehud, come i terroristi della Nukba. Un esempio ormai per i giovani antisemiti, from the river to the sea.
Sul telefonino di uno dei giovani stupratori c’è una bandiera israeliana bruciata, e lui spiega che la ragazza ha detto qualcosa che non gli è piaciuto sulla Palestina. Ovvero, nella società di massa i bambini terroristi imparano in massa l’abominio più antico, l’attacco violento contro il genere femminile, di concerto con quello contro gli ebrei senza udirne una sanzione generale. Al contrario i ragazzi, nelle scuole, nelle strade, nei luoghi di divertimento, giocherellano con un messaggio culturale e sociale complessiva che permette l’uso del maggiore fra tutti gli esplosivi a disposizione contro la democrazia e per la guerra: l’antisemitismo. Questi ragazzi hanno ascoltato e letto negli ultimi mesi a bizzeffe parole di odio e disprezzo contro il popolo ebraico e Israele: razzista, colonialista, oppressore, stato di apartheid, affamatore, assassino di bambini, genocida, suprematista… nemico dell’umanità. Da cancellare. IL libro è sempre aperto: la Francia ha Dreyfus nel suo passato, ha Pétain e i treni di bambini ebrei spediti soli a morire, De Gaulle che rifiutò l’aiuto a Israele nel ’67, e più avanti un atteggiamento post-coloniale cauto e colpevolizzato verso gli islamici estremi in crescita sempre più decisi e padronali. Dopo decine di assassini di ebrei come Jan Halimi nel 2006, i tre bambini di Tolosa fucilati col maestro a Tolosa nel 2012, e tanti altri… Oggi il partito di Mélenchon alle prossime elezioni potrebbe guadagnare centinaia di seggi e vede in Hamas un movimento di resistenza. I ragazzi che hanno violentato la bambina oggi in gravi condizioni a Parigi sanno quello che urla la propaganda e che tutte le istituzioni che dovrebbero difendere i diritti umani riverberano, come un definitivo tribunale antisemita. È condanna a morte per gli ebrei, e loro gli esecutori. Persino Macron che non è un nemico, per tenere quieta la sua constituency musulmana si concede di affermare che “Israele non deve uccidere donne e bambini”, come se fosse sua intenzione.
Questo conferma la visione dell’ebreo colpevole, malevolente, incurante degli altri. È ora di capire quanto la politica incurante ha creato antisemitismo assassino. Per quei ragazzi Hamas, dunque, è un movimento di resistenza, ha violentato e ucciso perché le vittime non erano vittime, erano sporchi ebrei, violenti, cattivi. Non sarà la cultura a bloccarli, ma solo la politica.
L'IDF sapeva dei piani di Hamas. E si incendia il fronte con il Libano
Il Giornale, 19 giugno 2024
Il 29enne reporter Suleiman Maswadeh, un bel ragazzo arabo israeliano che dal primo canale della TV racconta ogni giorno la politica israeliana, ha fatto di nuovo mettere le mani nei capelli a tutti gli israeliani rendendo pubblico un incredibile documento dell’esercito venuto nelle sue mani. Vi si raccontava due settimane prima del pogrom, nei minimi particolari, quello che l’IDF sapeva sulla prospettiva dell’attacco di Hamas effettivamente poi realizzatosi, la Nukba, la maggiore strage di ebrei in un giorno dal tempo della Shoah. Sia il New York Times che il programma tv “Uvda (Prova)” di Ilana Dayan avevano raccontato di notizie raccolte e poi archiviate, messe da parte per spocchia, pigrizia, burocrazia. Il lunghissimo documento nelle mani di Suleiman fu a suo tempo dichiarato degno di una riunione subito dopo il 7 di ottobre, e lascia senza fiato perché l’Unità dell’Intelligence Militare 8200 sapeva tutto nei particolari.
È intitolato “Esercitazioni per il raid, dettagliate da capo a fondo”, ed è così. Il 19 di settembre vennero consegnate a non si sa quale responsabile militare o politico: vi sono annotate le esercitazioni della Nukba minuto per minuto, cosa mangiavano a colazione, come pregavano col loro capo spirituale preparandosi a uccidere, tutti gli obiettivi dei kibbutz e delle città, e anche il preciso ordine di portarsi via dopo l’eccidio 250 rapiti, quasi il numero esatto, 25, di uomini vecchi donne e bambini realmente trascinati a Gaza il 7 ottobre. Il documento racconta come alle 12, dopo aver mangiato, i terroristi ricevevano equipaggiamento e armi per le esercitazioni, e poi ogni compagnia, alle due precise, provava le sue aggressioni a una struttura, a un luogo specifico (caserma, kibbutz, città, quello che è realmente accaduto insomma) secondo i piani... Venivano approntate finte forze armate israeliane, si consegnavano mappe dettagliate delle stanze di controllo, delle sale di riunione, di mense e dormitori.
Sono state rivelate istruzioni specifiche, l’ordine di non lasciare tracce degli ordini scritti, di verificare che gli ostaggi non portassero un telefono, e anche di ucciderli se disturbavano o tentavano di fuggire, previo permesso del comandante. L’indicazione di bendarli portandoli a Gaza comprende anche i bambini come anche quella di cosa farne, dove metterli. L’unico errore rispetto alla storia dell’attacco è che si dice che dozzine di terroristi vi saranno impegnati, e non i tre o addirittura quattromila usati. Suleiman riporta che negli alti gradi qualcuno ha letto il documento, e ha mostrato che su una pagina qualcuno ha scritto “Voglio piangere, gridare, imprecare”. L’esercito ha aggiunto questo rapporto alle responsabilità da verificare e punire, e ha dichiarato che la commissione lo farà. Poca soddisfazione rispetto allo scandalo e ai suoi micidiali punti interrogativi.
Nel frattempo la guerra seguita a presentare i suoi conti: percorrono le strade principali e bloccano il traffico di Gerusalemme le manifestazioni contro Netanyahu nell’atmosfera dolente che infuoca l’aria da Gaza a Kiriat Shmone sul confine del Libano. La polizia reagisce all’assedio alla Knesset e alla casa del Primo Ministro arrestando alcuni manifestanti, le accuse volano pesanti, Netanyahu ha risposto chiedendo di evitare la “guerra fratricida”. A Gaza, la guerra ha un ritmo lento per consentire l’ingresso degli aiuti umanitari e per evitare il solito biasimo internazionale. Macron, sulla base di accuse poi rivelatesi fuorvianti, aveva chiuso a Israele la mostra Mercato della Difesa Eurosatory, e persino, poi, a tutti gli israeliani. Ieri si è registrata una marcia indietro ancora non completa, ma significativa. Il cartello di divieto d’ingresso è stato tolto. L’inviato di Biden Amos Hochstein si adopera in Libano per evitare l’escalation. Mentre Hezbollah circolava un minaccioso video in cui pubblicizzava i suoi obiettivi su tutta la carta di Israele e rinnovava le sue minacce. Il ministro deli Esteri israeliano Israel Katz ha avvertito: “Se ci fosse una guerra totale, Hezbollah sarebbe distrutto”.
Basta Gabinetto di guerra. Ultima parola a Netanyahu
Il Giornale, 18 giugno 2024
Lo hanno chiamato ieri “la cucinetta” “hamitbahon” come lo chiamava Golda Meir: è il nuovo gruppetto di ministri che con Netanyahu deciderà dell’andamento del conflitto in corso, dopo che il Primo Ministro ha dissolto il Gabinetto di guerra da cui si sono dimessi il 9 giugno Benny Gantz e Gadi Eisenkot. La decisione è stata presentata come una conseguenza dello stato di fatto: chi se ne va e chi resta, ovvero il ministro della Difesa Yoav Gallant, quelli degli affari strategici Ron Dermer e il presidente del Partito moderato religioso Shas, Arieh Dery. La verità, si dice, è che si tratti di un garbato rifiuto della proposta dei discussi ministri di destra, Itamar Ben Gvir e Betzalel Smotrich, di entrare a far parte del sancta sanctorum del conflitto. Le loro idee creano sempre tsunami in Israele e all’estero.
Comunque le decisioni più importanti, come per esempio la dichiarazione di guerra agli hezbollah devono essere comunque prese dal Governo nel suo complesso. Al momento, la situazione è incerta e delicata, richiede prudenza e stabilità, e questo oltre l’impegno ripetuto per una vittoria su Hamas, è quello che sembra dominare le decisioni di Netanyahu. Il PM si prepara alla visita negli Stati Uniti praticando un atteggiamento equilibrato, che non alieni l’interesse degli USA né lo sforzo di Biden di far piacere la sua alleanza con Israele ai suoi elettori: ci vuole quindi prudenza sul campo, specie a Rafah dove l’operazione è a buon punto, e aiuti umanitari. Ma deve anche rispondere alla naturale spinta dell’esercito e del Paese a agire sul campo, i dodici eroici soldati uccisi in 24 ore, le loro storie di gioventù, il sogno irrealizzato di liberare un grande numero di ostaggi e di cancellare la leadership mostruosa di Sinwar, si disegnano molto lentamente; Israele si batte eroicamente ma soffre all’aperto, da democrazia ferita, infrangendo i normali riti di guerra; al nord la situazione è esplosiva, i cittadini sfollati chiedono di intervenire. La sfida è tre fronti: la battaglia di Rafah procede molto bene, ma troppo lenta per timore di colpire la popolazione civile. C’è chi calcola che solo poco più di cinquecento armati su 10mila là acquartierati siano stati eliminati; l’esercito si ferma per far passare i camion di aiuti, ma su sedici undici finiscono nelle mani di Hamas che li cattura e ne rivende le merci.
Le gallerie infinite e di cui molte imboccano dal confine egiziano rallentano le operazioni e gli Usa con il consesso internazionale sin dall’inizio hanno imposto a Israele di combattere con una mano legata dietro la schiena. Al confine libanese, da due giorni Israele rispetta la festa musulmana del Chorban, il Sacrificio, e Hezbollah è quasi fermo, dopo però uno sbarramento di 96 missili e droni da Metullah fino a Haifa, a Tiberiade e a Safed. In uno di questi, 160 grossi proiettili sono stati lanciati in 90 minuti. Centomila cittadini hanno dovuto abbandonare la loro casa, le scuole, il lavoro, i morti e i feriti sono storie quotidiane. L’emissario americano Amos Hochstein ieri si incontrato con Netanyahu e altri, la missione di Biden è no al conflitto. Hochstein cerca un generale cessate il fuoco anche con la liberazione degli ostaggi, Gaza più Hezbollah. Poco credibile. Nasrallah rifiuta la realizzazione dell’accordo che prevede il ritiro degli Hezbollah al fiume Litani, La decisione incombe, il veto americano è totale.
Il terzo fronte è una folla non grande ma compatta che fa della defenestrazione di Bibi il suo primo scopo, e chiede le elezioni anticipate, descrivendolo come un cinico politico che non vuole i rapiti a casa: ma la proposta Netanyahu è proprio quella che Biden auspica e che solo Hamas non vuole.