Il mondo al contrario: gli ebrei italiani accusano Israele di "pulizia etnica"

Il Giornale, 27 febbraio 2025
È persino interessante che nel giorno in cui Israele lungo tutte le strade del Paese piange i bambini BIbas e la loro mamma Shiri una banda di ebrei ed ebree (anzi prima ebree, perché è più politicamente corretto) accusino Israele di un crimine spaventoso, che deve rovesciare il biasimo e condurre a una perversa concezione della guerra cui invece palesemente Hamas ha costretto Israele. Ieri lungo le strade, abbiamo visto gente di tutte le età, in lacrime per i bambini e per la perdita di più di duemila persone uccise fra assassinati e soldati al fronte, e per i rapiti; era gente triste e fiera delle bandiere e dei canti che definiscono il Paese che i terroristi hanno cercato e prometto di distruggere.
Un Paese democratico in lotta contro la barbarie con cui uno a uno, in seno alle famiglie o rapiti, sono stati strangolati, smembrati, bruciati, stuprati ebrei che avevano la colpa di essere tali. E cosa fa Gad Lerner e i suoi amici, con l’ospitalità di Repubblica? Mentre Israele si concentrare ieri sul suo lutto e sui suoi nemici, e anche i più decisi fautori di una tregua che riporti a casa gli ostaggi in base all’accordo, hanno ripetuto che non c’è altra strada che combattere il male, questo specifico, innegabile male, il documento inventa che sia proprio invece degli ebrei combattere per evitare una supposta “pulizia etnica”. La pulizia etnica nella storia, avviene in base a principi razzisti, o di conquista territoriale, non è mai stata una guerra di strenua difesa contro un nemico che vuole uccidere, e lo ha scritto nella sua carta, un popolo intero al grido di “yehud yehud”. L’espressione è utile perché con una giravolta doppia (cioè, gli ebrei sionisti sono nazisti e io che sono progressista sono invece il vero ebreo) ci si unisce a un movimento di successo, che nelle piazze e ai festival del cinema va forte, quello studiato per primo da Robert Wistrich e da Alvin Rosenfeld, quello dell’“inversione”.
Ovvero, il trasferimento sugli ebrei (quelli israeliani, una trascurabile minoranza senza significato!?) delle caratteristiche dei nazisti. Gli ebrei invece, sono i palestinesi. Pulizia etnica ne ha parlato l’ICC, l’ICJ, mille ONG e la signora Albanese ne hanno fatto una bandiera… è un’espressione vicina a genocidio, crimini di guerra. Nel 1975 il sionismo è stato bollato con una risoluzione dell’ONU come “razzista”: era la costruzione sovietica dell’odio di Israele come stato capitalista-imperialista-colonna dell’egemonia occidentale contro il mondo dei reietti. Alla conferenza di Durban nel 2001, mentre si disegnava il pensiero woke per cui anche gli ebrei diventavano parte del potere “suprematista Bianco”, gli ebrei di sinistra si sono trovati con Amnesty International e compagni a criminalizzare Israele.
Oggi, c’è da domandarsi come siano ancora incapaci di identificare le vittime vere, lo Stato ebraico, parte dell’Occidente democratico, e gli aggressori, parte della barbarie jihadista che impicca gli omosessuali e uccide le donne e i dissidenti. La loro idea di bene e di male non è capace di fare i conti con una realtà in cui Israele non ha aggredito, non occupava, non odia… ma non poteva condurre la guerra altro che distruggendo le armi, i lanciamissili, le gallerie, le case di cui Hamas si serviva per colpire a morte. Non c’è pulizia etnica, gli spostamenti servivano per salvare la popolazione, ma Hamas la usava come scudo umano e Israele ha combattuto a costo anche delle vite dei suoi. E la guerra è un altro tabù per la sinistra pacifista. Ma Israele difenderà la Nazione ebraica, inaccettabile a chi pensa che la Nazione crea nazionalismo, il nazionalismo, autoritarismo. Israele in realtà battendosi difende la cultura della libertà occidentale anche degli ebrei filopalestinesi. Ma il pacifismo ebraico è crollato sulla causa palestinese. Resta il vero popolo ebraico che si batte, se ne faranno una ragione.
Ucraina e Israele il fronte è lo stesso

Il Giornale, 26 febbraio 2025
Israele e l’Ucraina sono sempre stati dalla stessa parte, contro l’aggressione sanguinaria che solo chi vive questa guerre dalla parte della libertà e della democrazia conosce fino in fondo. E’ una verità che tornerà a risplendere. I missili iraniani sparati da Putin contro Kiev, e a Gerusalemme dai fronti dell’odio contro Israele, raccontano tutta la storia vera: c’è un solo grande nemico, e vuole battere l’Occidente. La sconfitta dell’uno o dell’altro degli aggrediti sarebbe un danno irreparabile per il mondo. Le circostanze che hanno portato i due Paesi, talora, su campi separati fanno parte della dimensione tattica delle loro difficili rispettive guerre di sopravvivenza.
Israele ha votato col fronte trumpiano all’assemblea dell’ONU due giorni or sono, e il mondo intero ne ha fatto titoli di testa; l’Ucraina fra il 2015 e il 2025 ha votato contro Israele all’assemblea ONU 122 volte e 41 si è astenuta, mai in favore. Kyev ha votato a gennaio addirittura a favore della mozione egiziana sostenuta dalla Giordania e dall’Autorità nazionale palestinese, sulla quale persino le nazione europee si sono astenute, per il bando del nucleare dal Medio Oriente: l’ambasciatore l’ha spiegato come un gesto di politica abitudinaria. Israele, aveva votato per la condanna dell’invasione Russa nel marzo del ’22. Sharansky che è stato per dieci anni in prigione in Russia come dissidente ebreo racconta oggi che un anno di prima di essere assassinato da Putin, Navalny gli ha scritto che si trovava nella prigionia identica a quella da lui sofferta perché voleva partire per Israele. Israele lo sa, ma finchè la Russia, con minaccia molto consistente e insieme agli Hezbollah e agli uomini di Assad, ha minacciato Gerusalemme dal confine, ha potuto fornire all’Ucraina piuttosto che armi aiuti umanitari, ospedali da campo, strumenti per la difesa. Avrebbe, si può pensare, potuto fare di più, e forse ha fatto di più senza pubblicità, ma non ne sappiamo abbastanza.
I due Paesi hanno mantenuto le distanze, mandandosi segnali di futura collaborazione, appena possibile. Zelensky ha solidarizzato per il 7 di ottobre e ha detto che sarebbe venuto non fosse stato per il viaggio contemporaneo di Blinken. Trump adesso, nega la verità evidente dell’aggressione di Putin, la sua depravata gestione che ha perfino rapito 20mila bambini; Zelensky ha il 57 per cento dell’approvazione, è un leader sostenuto dalla sua gente, e spesso in guerra si ritardano le elezioni. Anche Netanyahu è stato ed è spesso vituperato, anche Biden lo ha fatto ignorando la sua maggioranza. Nel terzo anniversario dell’aggressione di Putin, non c’è giornale in Israele che non esalti l’eroismo degli ucraini, e non condanni i crimini di guerra russi. Israele ha un naturale atteggiamento di vicinanza con l’Ucraina. La necessità di mantenere un rapporto solido con l’amministrazione americana, l’unica che capisce e agisce in base al pericolo di vita che corre Israele, è palese, evidente ed è alla base del voto all ONU. Israele e l’Ucraina si sono talvolta reciprocamente neglette, e invece si devono abbracciare e combattere insieme: la loro è un’unica battaglia. Nel dicembre del 2002, ho ricevuto il premio Irina Alberti per il senso etico della professione insieme a Anna Politkovskaja, eroina assassinata da Putin. Insieme, lei contro Putin, fino all’ultimo, io contro il terrorismo, difendevamo la democrazia. La stessa guerra continua.
Israel and Ukraine’s common fight for democracy and survival
La partita d'Israele: riavere i rapiti e cacciare Hamas

Il Giornale, 23 febbraio 2025
Vento gelato a Gaza, confusione, sentimenti estremi, uno di rapiti, Omer, che mentre lo riconsegnano, costretto (ha raccontato) bacia la testa di uno dei boia che lo hanno seviziato per più di 500 giorni. Tutte le lacrime per la barbarica vicenda di Kfir, Ariel e Shiri sono rimaste sospese sulla giornata di gioia per la liberazione più larga che Israele abbia visto fino ad oggi; Hamas ha giocato troppo duro coi sentimenti di tutta Israele, ha messo alla prova l’accordo, probabilmente ha così segnato un autogol sul significato della seconda fase; intanto l’assedio terrorista si è mostrato anche nell’esplosione di tre autobus nel centro di Israele che solo per caso non ha portato a una strage. Il senso di emergenza e la furia per la tragedia del corpo di Shiri e dei piccoli, si mescola con la tenerezza agro dolce per i rapiti martoriati per 500 giorni, ritornate nelle braccia dei loro cari: il senso comune dice ormai che così non si può andare avanti, che la seconda fase impone anche una decisione. Tutti le frecce sono puntate su Netanyahu e indicano due strade diverse: chi spinge per rompere il ricatto e l’emorragia di terroristi liberati (ieri più di 600) e pensa che dopo la consegna di tutti i rapiti, che deve essere imposta subito, sia venuto il tempo in cui si devono “aprire le porte dell’Inferno”; anche Trump la pensa così.
Dall’altra parte il grande movimento che fiancheggia in Israele le famiglie dei rapiti ripropone l’apertura immediata della seconda fase dell’accordo che in cambio dei rapiti prevede la fine delle ostilità, e quindi di fatto il permanere del potere di Hamas a Gaza almeno per il momento. Il punto è tutto qui. Che cosa deve trattare la delegazione israeliana al Cairo? Che cosa i colloqui americani coi maggiori esperti mediorientali, fra cui Witkoff, plenipotenziario della trattativa, cui partecipa il ministro per gli affari strategici Ron Dermer direttamente incaricato da Netanyahu? Sicuramente si tratta di colloqui onnicomprensivi che disegnano la fine dell’assedio terrorista in Medio Oriente, compartecipazione dei paesi arabi moderati, l’eliminazione del nucleare iraniano. Gaza è solo una delle tessere del mosaico. A Gaza, peraltro, se l’amministrazione Biden aveva imposto infiniti aiuti umanitari per la Striscia e un ritegno nel combattere che ha frenato Israele con la mancanza di armi e con la chiusura di aree indispensabili, come Rafah, per dare la caccia ai terroristi e ritrovare i rapiti. Trump dopo la vicenda Bibas ha ripetuto per la terza volta che Netanyahu può decidere se vuole di obliterare Hamas. Ma Hamas ha in mano i rapiti, 63 di cui forse la metà vivi, e Israele non li abbandonerà.
Dunque, Israele in una difficile situazione ma con il senso di un forte sostegno. Questo potrebbe sfociare nella ferma richiesta a Hamas di consegnare tutti i rapiti e poi sparire da Gaza, e forse anche dall’West Bank, forse con un salvacondotto per il Qatar o l’Egitto, o l’Algeria... Fosse vera questa ipotesi, seguirebbe il piano Trump di ricostruzione in cui gli USA come ha detto Trump, sarebbero protagonisti. IL Medio Oriente è pronto per nuovi Patti di Abramo, pulito, gli Hezbollah sono stati in parte neutralizzati, la Siria non è più l’autostrada per gli armamenti iraniani, gli Houty tacciono. L’Iran, forse, indebolita, potrebbe essere in questi giorni l’oggetto dei colloqui più importanti per la conclusione del conflitto anche con Hamas. Certamente, un Medio Oriente finalmente lontano dall’incubo di un Iran nucleare potrebbe essere più facilmente trasformato in una regione del mondo da cui anche Hamas si può espellere, e ricostruire finalmente Gaza.
"Sterminate i bimbi". Sinwar come Himmler

Il Giornale, 21 febbraio 2025
Il 6 ottobre 1943 Heinrich Himmler, e il 6 ottobre 2023 Yehie Sinwar dettero lo stesso ordine, uccidere i bambini ebrei. Sinwar aggiunse anche quello di rapirli. Himmler parlando ai “gauleiter” nazisti disse testualmente: “Non mi considererei giustificato se uccidessi gli adulti... E poi permettessi ai loro figli di crescere e di cercare una vendetta sui nostri figli e i nostri nipoti. Abbiamo dunque preso la decisione di far sparire questo popolo dalla faccia della terra. Per chi deve adempiere a questo dovere, esso è il più difficile di tutti”. Non fu poi così difficile: un milione e mezzo di bambini e bambine furono uccisi in braccio alla madre o deportati in un mondo di botte e di stenti fino alla morte. Esattamente, non un virgola di più o di meno, come i bambini Bibas e gli altri bambini selezionati da Hamas in quanto ebrei: uccisi e rapiti. Niente altro che questo ha portato a inseguirli nei sentieri dei kibbutz, a dargli fuoco in casa coi fratellini, la famiglia, le nonne, a mutilarli davanti alle loro madri. I bambini Bibas furono rapiti solo per odio religioso. Il mondo non ha diritto di commuoversene mentre in tutto l’Occidente si riproducono senza risposta episodi di odio per gli ebrei, di menzogne ripetute: violenza ad Amsterdam, ferocia omicida in Australia, disprezzo nelle scuole di mezzo mondo verso gli studenti, rifiuto verso artisti e scienziati ebrei.
La memoria di Kfir e Ariel insieme a quella della mamma Shiri e di Oded Lipshitz, che ogni giorno portava i malati di Gaza agli ospedali israeliani, i corpi restituiti con una cerimonia paradossale e odiosa al padre Yarden, tornato per piangere dopo 500 giorni di sequestro, non appartengono all’umanità, ma al popolo ebraico e ai suoi soldati che hanno avvolto le piccole bare nella bandiera e hanno rischiato la vita per costringere Hamas a restituirli. Nessuno ha votato mozioni impositive all’ONU, le organizzazioni umanitarie e politiche come quelle femministe o per l’infanzia hanno tradito la mamma e i bambini Bibas. Gli ordini di Hamas ai settemila uomini della Nukba differiscono da quelli nazisti solo nell’esibizionismo: i suoi orrori sono stati mostrati da Hamas stesso mentre i nazisti li nascondevano per terrorizzare e per allargare la folle ondata di approvazione antisemita. Inoltre l’analogia col nazismo si blocca sulla impossibilità degli ebrei, allora, di reagire; oggi, esiste Israele, coll’esercito, con la volontà di vivere e combattere. Ieri Netanyahu ha ripetuto che quello che lo strazio subito impone una risposta definitiva: l’ha promessa. Il 7 di ottobre ha messo Israele di fronte agli errori di sottovalutazione del passato. Terribili errori. Quando le accuse antisemite lo hanno criminalizzato come colonialista, genocida, razzista, apartheid, Israele non si è intimidito. Guterres, Biden, l’UE, hanno tentato invano di fermarne la guerra di sopravvivenza. I sensi di colpa non funzionano più. Hamas nella barbarica cerimonia cui hanno partecipato anche donne e bambini, che correvano dietro le ambulanze con le piccole bare, ha persino cercato di accusare Netanyahu di essere il responsabile della morte dei Bibas. Ma la responsabilità, Israele lo sa bene, è del solo assassino, Hamas, che usa gli ostaggi e la sua gente come scudi umani, comunque siano andate le cose. Anche i bambini palestinesi colpiti in guerra, sono vittime di Hamas, che persino nelle loro camere, nei letti, ha nascosto i lanciamissili. Sono vittime collaterali della strategia di Hamas.
Invece I bambini ebrei sono l’obiettivo specifico, il boccone squisito, la migliore vittima per terrorizzare. Ormai consapevole dell’orrore del nemico, Israele in questi mesi ha distrutto Hamas nella massima parte, ha ridotto gli Hezbollah senza testa e senza soldi, ha terrorizzato l’Iran, gli Houty non osano farsi vivi, i presidi israeliani in Siria difendono da sorprese. La promessa del governo ora fiancheggiato da Trump di liberare gli ostaggi tenendo in vista la distruzione di Hamas e la sua espulsione da Gaza, è impellente; quella presenza che dà la caccia ai bambini è troppo cocente. Israele vive, e vibra di dolore ma anche di indignazione.
Il dolore di Israele per i simboli del 7 ottobre. Il sostegno di Trump per eliminare i jihadisti

L' occasione di un nuovo Medio Oriente

Il Giornale, 16 febbraio 2025
Ieri, mentre il viso segnato di Sagui Dekel Chen affondava nei capelli biondi della moglie ritrovata che gli sussurrava il nome della loro bambina nata durante la cattività, Sharar, aurora…, Netanyahu ha rotto per sempre uno stereotipo fra i tanti che gli sono stati appiccicati addosso: non si contano le manifestazioni, i titoli in cui lo si è accusato di preferire la guerra alla vita dei rapiti. Ha scelto i rapiti: e stavolta, aveva alle spalle non solo l’approvazione di Trump per potere riprendere una guerra definitiva contro Hamas, ma addirittura il suo incoraggiamento. Fossi Israele, ha detto il presidente dopo che Hamas aveva interrotto la prima fase dell’accordo, gli chiederei la restituzione di tutti i rapiti entro le 12, o sarà l’inferno. Mezzogiorno ora israeliana è passato, e prima dell’ora americana Trump ha ripetuto il suo punto di vista aggiungendo che gli USA saranno con Israele qualsiasi cosa decida: mezzogiorno a Washington sono le sette in Israele. Ma Bibi ha scelto di accettare il ripensamento di Hamas coi tre ostaggi previsti dallo scambio di ieri. Così, anche la ripresa degli accordi che sboccano in questi giorni nella seconda parte del patto col diavolo, quella in cui devono tornare tutti, vivi o morti, e la guerra deve finire. Questo è il punto di arrivo per Hamas, la sua speranza di ricostruire il suo potere: per questo ha scelto per la consegna i tre nella migliore condizione fisica possibile, così da invogliare alla continuazione del patto per i prossimi sei vivi previsti per questa fase. Ma mentre per Israele è indispensabile salvare i rapiti lo è altrettanto distruggere Hamas. Netanyahu compie una nuova scelta strategica, basata sull’insistito appoggio di Trump e per cui occorre pazienza come per l’attacco agli Hezbollah che non fu contemporaneo a quello a Gaza nonostante dal Libano piovessero missili. Ma poi l’attacco dei cercapersone, l’eliminazione di Nasrallah e l’ingresso in Libano all’organizzazione sciita, longa manus iraniana, ha vinto.
Adesso, Netanyahu non può sottrarsi alla passione del suo popolo che in parte teso, straziato vuole recuperare i rapiti dalle mani dei nazisti di Hamas; sulla salvezza dei rapiti si è definita una lettura pervasiva di tutti i media e della politica unica al mondo. Israele è piccolo, come la famiglia dei kibbutz, dei combattenti, della solidarietà, ere anche un’opposizione determinata contro il Primo Ministro ha reso contrari allo sforzo di tenere in equilibrio il patto di restituzione con l’indispensabile necessità di salvare il Paese. Ma il fatto che adesso da Trump abbia capito a fondo con chi ha a che fare Israele, quanto sia irrealizzabile la pace con un gruppo che incarna il male assoluto, quanto la disponibilità a sostenere lo Stato Ebraico sia basato su principi di importanza superiore, come quello della difesa della democrazia e della libertà, rafforza Netanyahu probabilmente ad accorciare i tempi della prossima restituzione, almeno per i rapiti vivi. Il sostegno americano consentirà di affrontare il problema del nucleare iraniano mentre sullo sfondo si disegna l’accordo sulla faccia del futuro di Gaza sgombrandolo da Hamas col programma della emigrazione volontaria. Per Netanyahu Trump rappresenta un disegno di pace condiviso anche se molto audace, un’occasione inusitata per rinnovare il Medio Oriente con i Paesi arabi che vorranno starci. Il più riottoso degli interlocutori sembra sia il presidente egiziano al Sisi, che nonostante la pace con Israele ha sempre conservato un atteggiamento ambiguo, in particolare durante la guerra e nell’uso del passaggio di Rafah. L’Egitto è il confine naturale fra Hamas e il Medio Oriente, e Trump lo sa.
Promesse di Hamas sui tre ostaggi. Israele punta l'Iran (con l'ok di Trump)

Il Giornale, 14 febbraio 2025
Hamas ha scherzato, ma certo, tutto bene, era solo una giravolta sadica quella con cui ha gettato Israele e il mondo intero nella maggiore confusione annunciando che non aveva intenzione di riconsegnare domani, secondo gli accordi, i tre rapiti previsti nella prima parte. Adesso annuncia solennemente di voler tener fede al programma. Bontà sua. La mossa dell’abbandono del campo, subito dopo la vampiresca rappresentazione dei tre ridotti ad ombre sabato scorso, e poi la minaccia di bloccare tutto dimostrano che Hamas non capisce che siamo in una nuova era, quella in cui esiste anche Trump. Hamas infatti è tornata sui suoi passi dopo che Trump, di nuovo identificando Hamas come un’ organizzazione di ricattatori criminali, ha consigliato a Israele di farsi consegnare tutti i rapiti entro sabato alle 12 oppure di “aprire le porte dell’Inferno”. Netanyahu ha dichiarato dopo la riunione di Gabinetto di accettare quel punto di vista, e insieme al ministro Katz ha in parte rIorganizzato l’esercito annunciando che, nel caso, la guerra sarebbe stata ripresa. Ma dopo che Hamas ha fatto marcia indietro, Israele è pronto, sotto la spinta appassionata della piazza dei parenti dei rapiti, a riprendere l’accordo. O almeno così sembra. Ma l’ipotesi di riavere i 9 vivi della prima mandata insieme agli 8 uccisi è rimasta nell’aria.
Trump ha una ragione di fondo: Hamas è una banda terrorista senza regole, e Israele non si fida della trattativa. L’atmosfera è sospettosa oggi di più di ieri, e la guerra è dietro l’angolo. Ma i lacci sono molti, lo sfondo geopolitico è largo: rivelazioni della stampa internazionale indicano la possibilità che entro sei mesi Israele realizzi un’intenzione certo non nuova ma, con Trump sullo sfondo, più consistente: distruggere le strutture nucleari iraniane. I mezzi ci sarebbero, il Moab, la grande bomba da 11 tonnellate che può scavare nella profondità delle centrali iperdifese, è stato consegnato, pare che volare con aerei capaci di portare quel peso e sganciarlo dove occorre sia nelle possibilità di Israele. La finestra di opportunità è fornita dalla distruzione operata dai jet Israeliani sui radar e i sistemi di difesa di Teheran durante le due risposte agli ayatollah. Ma Trump vuole? Solo se indispensabile. Forse anche le notizie filtrate sui media sarebbero un modo per frenare e lasciare spazio alla grande strategia americana che rendendo più dure le sanzioni chiederebbe all’Iran di chiudere la bottega nucleare per sempre. Trump ha detto di “preferire che si risolvano le cose con una carta” piuttosto che con le armi. Ma si capisce che in testa al disegno strategico, c’è la pulizia dal Medio Oriente dalle fonti di guerra, come l’Iran e Hamas, per arrivare a una pacificazione ideale di cui il presidente vorrebbe fare la sua eredità. Trump ne fa un tutt’uno del suo piano di spostamento di Hamas e di tutta la popolazione della Striscia: la discussione indica risultati non scontati ma nemmeno del tutto negativi che si discutono con i Paesi Arabi moderati: l’Arabia Saudita, l’Egitto, la Giordania… obiettano, ma Trump ha molti argomenti. Ancora tace sul fatto che al Sisi abbia cancellato l’incontro a Washington e che, mentre annuncia una riunione dei Paesi Arabi sul futuro di Gaza, stia accumulando truppe sul confine della Striscia. Invece l’ambasciatore degli Emirati Arabi ha dichiarato di non vedere all’orizzonte nessun piano alternativo a quello americano.
Trump misurerà le prossime mosse sulla disponibilità dei Paesi mediorientali, e per quanto ami essere visto come un negoziatore che cerca solo il business migliore, non c’è dubbio che Israele è per lui l’alleato mediorentale cui è legato. Israele resta nelle prossime settimane dentro i confini del Libano e della Siria; e nei lunghi colloqui fra Putin e Trump si dice che ci sia stata anche una richiesta americana di lasciar perdere l’acquisto dei droni e l’alleanza con gli ayatollah, abbandonando le derive filoterroriste.
La minaccia sui rapiti e la strategia islamista per dividere Israele

Il Giornale, 11 febbraio 2025
La minaccia di Hamas di ieri sera, quando all’improvviso ha annunciato di interrompere gli accordi per cui sabato avrebbe dovuto consegnare tre rapiti a Israele dice solo questo: o fate quello che vogliamo noi, o la fine che fanno i rapiti è scritta sui volti e sui corpi di Eli Sharabi, Or levy e Ohad Ben Ami. Ovvero, li riduciamo attraverso torture e privazioni a sopravvissuti della Shoah o, peggio, li facciamo morire come abbiamo fatto con la metà di quelli che volete rivedere. Hamas ha detto di fermare tutto per violazioni di Israele: lentezza, meno aiuti umanitari del programmato, fuoco all’avvicinarsi al confine di suoi uomini, poco passaggio tranquillo attraverso la Striscia, scarsa o nessuna consegna dei veicoli pesanti per lo sgombero di masserizie… niente di tutto questo è vero, o rilevante rispetto a una mossa così drammatica, manipolatrice, che ha scaraventato in piazza tutto il movimento anti Netanyahu, che non c’entra niente. I termini dell’accordo sono stati tutti penosamente rispettati, gli assassini palestinesi sono per la strada, il ritardo nelle consegne riguarda una parte minuscola dell’enorme numero dei carichi, rallentati peraltro dal comportamento di Hamas che se ne è via via impossessato per i suoi fini alla faccia della popolazione di Gaza; è vero che i palestinesi che si sono avvicinati all’esercito sono stati presi di mira, ma tutto era scritto e concordato.
È anche avvenuto con grande apprensione lo sgombero di Netzarim che bloccava l’accesso dal nord al sud della striscia e viceversa. I mezzi pesanti sono oggetto di discussione, perché Israele non ha intenzione di lasciare che sia Hamas ad affrontare o fingere di affrontare la ricostruzione per fare altre gallerie per le sue armi di distruzione. Sono altre le ipotesi di ricostruzione, specie quella che Trump ha arricchito ieri di nuovi progetti di una grande operazione di real estate con la partecipazione diretta degli USA: questo dopo che ha visto la riduzione a scheletri dei rapiti liberati due giorni fa, e ha proprio pensato che no, con Hamas niente è possibile fuorché farla finita. Le bugie di Hamas non incantano nessuno, e le ipotesi realistiche sono varie: la prima è che Hamas si comporti come Hamas, un manipolatore crudele che gioca sui nervi del popolo ebraico che vuole vedere a casa i rapiti, che punta sulle sue rotture interne ora che è particolarmente ferito dall’accresciuta consapevolezza di come i nazisti di Gaza trattano i rapiti. Dunque Mohammed Sinwar forse non ha veramente intenzione di abbandonare l’accordo, dato che le condizioni di assoluta debolezza di Hamas non gli consentirebbero una vera ripresa della guerra: il gioco riguarda forse un’accelerazione dell’ingresso di quella seconda fase che dovrebbe dare a Hamas la pace senza vederlo sgominato, e portare alla restituzione di tutti i rapiti: ancora la seconda fase Israele non si è affrettata a discuterla tecnicamente anche se la delegazione a Doha. Ed è per questo. Ma il fine ultimo di Hamas è ottenere ora, subito, la fine delle ostilità e l’ultima preda, quella del confine di Filadelfia, così da poter ricominciare a preparare la distruzione di Israele. Sullo sfondo due eventi che possono interrompere la spirale sadica: il primo quello appena citato, ovvero la promessa di Trump di occuparsi personalmente della cosa. La minaccia contro gli Stati Uniti è giocata direttamente sulla pelle dei rapiti: provaci, e vedrai cosa gli faccio. Ma Trump sembra averli direttamente a cuore, e già una volta ha promesso l’inferno se non verranno restituiti. In secondo luogo, si è visto a Teheran un incontro la settimana scorsa dei leader di Hamas coi loro patron. Può darsi che in Iran, dove in questi giorni il Primo ministro ha tenuto un discorso diretto e aggressivo minacciando Israele e gli USA come ai bei tempi, si tentino mosse che spostino l’attenzione di Trump su eventi collaterali rispetto al disegno di giocare tutta la partita del Medio Oriente che vede gli Ayatollah messi molto male. Trump incontri il re Abdullah di Giordania e il presidente al Sisi d’Egitto, mentre sempre a seguito della proposta di Trump, Abu Mazen cerca di rafforzare la sua candidatura a una compartecipazione nella gestione della Striscia dichiarando che da ora in poi diventerà buono e smetterà di finanziare i terroristi coi suoi noti stipendi del “pay for slay”. Il terreno intorno e dentro gaza scotta per Hamas che quindi sta giocando col fuoco: mette sul tavolo tutto il suo patrimonio, i rapiti, mentre non controlla l’orrore per il suo sadismo, che gli si ritorce contro.
È vero che Hamas con l’ultimo ricatto farà di nuovo scendere la gente in Israele in piazza per chiedere a Netanyahu di dare tutto ciò che ha in cambio dei rapiti nelle mani del mostro, che gioca appunto sulla sua mostruosità. Ma è un gioco che pasticcia con eccessiva sfacciataggine sulla crudeltà, sul sadismo, sul ricordo del sette di ottobre. Di certo il governo cercherà di andare avanti per recuperare più rapiti possibili e di spingere Hamas a ripensarci fino a sabato. Intanto però l’esercito è allertato, i soldati che stavano tornando a casa in parte sono di nuovo ai loro posti. Anche Trump si è chiesto per quanto tempo si può baloccarsi col diavolo. La risposta è: finché il diavolo sbaglia mossa. Stavolta la folla invece di tornare in piazza contro Netanyahu chiedendogli di dare tutto, potrebbe invece marciare idealmente su Gaza per farla finita con questa pazzia.
Le foto dell' orrore che ci riportano al 1945

Il Giornale, 09 febbraio 2025
Alla fine del febbraio 1945 fra i primi rapporti su Auschwitz il luogotenente polacco Witlinski scriveva quello pubblicato sul Polpress bulletin: “Coloro che sono sopravvissuti, non sono più essere umani, sono solo delle ombre”. Così Hamas ha voluto che Israele e tutto il mondo vedessero i tre rapiti liberati ieri, come usciti da Auschwitz: ridotti a ombre, piegati a salire barcollando sul loro palcoscenico dopo aver patito botte, fame, freddo, buio, senza carne sulle ossa, gli occhi fosse nere, pallidi come chi esce da una grotta dove è stato seppellito. Così sono riapparsi davanti al mondo Eli Sharabi di 52 anni, Ohad Ben Ami di 56 anni, Or Levy di 34 anni. Sul palcoscenico costruito a Dir El Bala, una delle cittadine di Gaza meno toccate dalla guerra, dove non è mancato il cibo né le case, perché si sospettava che vi fossero rinchiusi dei rapiti, era scritto “noi siamo la Nukba”, l’inondazione, e lo faremo di nuovo. Sorretti dai nazisti di Hamas con le divise e le maschere, davanti alle telecamere di Al Jazeera, i rapiti hanno ascoltato una concione e poi ciascuno è stato costretto a parlare. Eli Sharabi ha sentito là, dalla bocca del terrorista mascherato, che suo fratello Yossi era stato ucciso. Ma non è chiaro se sappia che sua moglie e le sue due figlie sono state trucidate nella loro casa a Be’eri mentre lui veniva rapito. Ohad Ben Ami, la cui madre ha detto che dimostra ormai 80 anni, ha ritrovato la moglie rapita con lui a Be eri e poi rilasciata a Novembre del 2023, Ohad siede nelle foto accanto a lei mentre la abbraccia, irriconoscibile e sorridente, ma di lei si scrive che abbia una seria malattia. E Or, ormai uno stelo, alla festa di Nova era coperto dal sangue di sua moglie che ha cercato invano di difendere; torna dal suo bambino di tre anni, che si è salvato e sa dai nonni che se la mamma non tornerà, però il babbo è tornato.
La Nukba continua nonostante la sconfitta di Hamas. La loro disgustosa crudeltà si affaccia da ogni galleria di Gaza. Le foto dei tre quando erano uomini forti e normali, ritratti con le mogli, con i figli fanno impazzire di rabbia: almeno i primi 13, forse rinvigoriti artificialmente con vitamine nelle ultime settimane, anche se la loro biografia era ormai minata, facevano sperare che il ritorno sarebbe stato accompagnato dalle immagini di un futuro recuperato, possibile. Ma non è così: questo è Hamas, un’organizzazione che ha compiuto i crimini più immondi che mente umana possa concepire, è quello che ha decapitato i bambini, che ha tagliato a pezzi le donne che stuprava, che ha bruciato famiglie intere. Quello per cui il presidente Trump, affrontando il tema per quello che è, come una minaccia terrorista irriducibile, ha disegnato l’atteggiamento americano sulla necessità di liberarne Gaza e il mondo intero. Ho visto le immagini spaventose del 7 ottobre, ha detto, e ho capito. In molti, l’ONU in primis, non hanno capito niente. Certo ora l’idea di eliminare questa forza malefica dall’area non può che rafforzarsi anche in Israele, e con essa il disegno di affrontarne l’origine pratica, l’Iran. Adesso sul tavolo la seconda parte dell’accordo che libera subito il passaggio di Netzarim e rilascia anche gli assassini palestinesi con più ergastoli. Il messaggio di Netanyahu per cui le immagini di ieri non resteranno senza risposta, e Gal Hirsch (responsabile per i rapiti) che vuole intimare a Hamas di smettere coi maltrattamenti, sono un palliativo perdente.
La risposta è nelle cose, e deve solo essere praticata: Hamas vuole Auschwitz, ma Israele ne è l’antitesi storica, lo impedirà come ha già fatto dopo il 7 ottobre con la sua forza, il suo esercito, col valore con cui ha abbattuto Hamas, Hezbollah, con cui ha occupato le strutture armate della Siria e messo all’angolo l’Iran. D’altra parte però Netanyahu ha il solito dilemma: Hamas gli chiede con la mostra dei suoi orrori proprio il cessate il fuoco e la sopravvivenza. Per Israele è la quadratura del cerchio: liberare i rapiti mentre si elimina Hamas non può avvenire in pochi giorni, ma solo in un disegno strategico che dura mesi. La sofferenza e la rabbia ribollono insieme. La pazienza sembra la prima arma a disposizione, e poi un piano radicale e deciso, come quello di Trump, che porti nel gioco forze nuove e determinate. Mediatori come il Qatar sono complici di Hamas: questa è la prima cosa da cambiare. Trump dovrebbe averlo capito.