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Il rifiuto degli ebrei di sinistra lo certifica: l’antisemitismo ha soprattutto un colore

giovedì 27 marzo 2025 Il Giornale 3 commenti
Il rifiuto degli ebrei di sinistra lo certifica: l’antisemitismo ha soprattutto un colore

II Giornale, 27 marzo 2025

 
Israele, ovvero il ministro per la Diaspora Amichai Chikli, ha invitato i rappresentanti politici e culturali di tutto il mondo a una “Conferenza internazionale per combattere l’antisemitismo”. E’ fondamentale per Israele essere alla testa di questa battaglia: da anni ormai l’odio antisemita è la base della vasta congrega woke in cui “gli oppressi” combattono “gli oppressori”, ovvero:  vogliono distruggere Israele. Ormai è una valanga. L’odio più antico si è trasformato in piazza e nelle università in moderna contestazione di tutti i valori giudaico cristiani dell’Occidente. L’antisemitismo politico di massa è stata la sorpresa seguita alla strage del 7 di ottobre, è ormai ogni ebreo del mondo, di destra e di sinistra, religioso e laico, è minacciato. Israele combatte anche su questo fronte, cerca di prendere la leadership di questa parte della sua guerra, di allargare il fronte di lotta al mondo. E invita così sia i rappresentanti della sinistra che denunciano giustamente i pochi ma odiosi eredi dei nazifascisti,  che quelli della destra, per altro sempre più vasta in Europa, che non a caso indicano anche nell’islamismo radicale una delle centrali più attive, con la sinistra radicale, dell’antisemitismo contemporaneo. E’ sbagliato? Certo che no: tutti gli attacchi, i numeri, tutti gli studi, indicano che la strada è quella di affrontare il fronte dell’odio per Israele nelle aree delle università e delle piazze dove si terrorizzano gli ebrei in nome dell’odio antisionista. E’ ovvio. Ma una parte degli invitati, pochi giorni prima di oggigiorno dell’incontro, si è tirata indietro. Niente di nuovo: dal 7 ottobre i “no” inquietanti sono stati molti, da quello nel riconoscere gli stupri e le mutilazioni subiti dalle donne israeliane, a quello di denunciare l’assassinio dei bambini in fasce,  alla condanna chiara del 7 ottobre da parte di istituzioni come l’ONU. “Non accade nel vuoto” disse Guterres. Anche le condanne rovesciate sono state tante: per esempio, chiamare Israele genocida mentre genocida era ed è Hamas. Il rifiuto di andare della conferenza internazionale viene da chi sostiene che gli antisemiti veri siano i  rappresentanti della politica europea di destra, che gli invitati dunque siano odiosi antisemiti loro stessi, i francesi, i tedeschi, gli austriaci, gli ungheresi, proprio in quanto di destra. 
 
Ma allora, si sarebbe dovuto discutere, accusare, chiedere. L’antisemitismo è una malattia professata altrimenti non ha senso. Gli inviti a Gerusalemme sono stati larghi, se qualcuno voleva contestare la destra europea, non andando l’ha invece evitata compiendo un gesto di delegittimazione verso l’ospite, Israele.  Perché mai? Fra gli invitati compaiono figure significative come Jordan Bardella, presidente del National Rally francese, successore di Marine Le Pen, a sua volta succeduta al padre, lui si, antisemita, Jean Marie. Ma Marine ha ripetuto ad nauseam di disconoscere, rifiutare l’antisemitismo del vecchio fascista ormai defunto: fu lei a dire che “la Shoah è il maggiore scempio della storia”. E il 29enne Bardella, che del fascismo ha sentito parlare dai nonni, rispondendo al giornalista Eldad Beck ha detto che la sua scelta “è quella di un mio, un nostro impegno totale nella lotta contro l’antisemitismo”. Ma la sua riabilitazione come quella di Vox, spagnola, dei Democratici Svedesi, del partito olandese per la Libertà, hanno allontanato molti ebrei, così il presidente dell’European Jewish Congress Ariel Muzicant, l’Unione delle Comunità Italiane e di quelle Francesi neppure, il Capo rabbino d’Inghilterra… e altre organizzazioni. Sono tutti conglomerati importanti, abbastanza accorti da sapere bene che dato che la loro accusa è una presunzione di colpevolezza retroattiva, si manifesta nel presente soltanto contro Netanyahu, il contenuto è secondario. Quando sulla Stampa una storica scrive che l’estrema destra e gli evangelici si sono avvicinati non a Israele, quella che piace a lei, ma “all’Israele dei governi razzisti e antidemocratici come quello di Netnayahu” e per questo dice che al quella conferenza non si vuole riconoscere il vero antisemitismo ma “il presunto antisemitismo dell’ONU e delle Corti di Giustizia”, le sue osservazioni non consentono neppure una risposta sensata, tanto sono vuote. La democrazia in Israele splende intatta nel mezzo di scontri in cui ci si esprime fino all’ultima goccia; la persecuzione subita dall’ONU e di tutte le sue organizzazioni internazionali è ormai un proverbio, oltre che oggetto di mille studi stupefatti dal livello cui può arrivare l’odio antisraeliano. Alla Conferenza purtroppo non è andato nemmeno Bernard Henry Levy: descrive le sue ragioni in un pezzo così autoreferenziale, da risultare una autoaccusa a carattere psicoanalitico. Dice che sa benissimo che la destra in generale non è più antisemita, che Israele fa bene a cercare di aprire l’arco delle sue alleanze, ma il suo intuito, la sua eccessiva intelligenza, sapienza, riflessione.. gli suggeriscono di rifiutare l’invito. Cioè, un intellettuale ebreo non rinuncia alla cara immagine di 76 anni fa, quando l’antisemitismo si combatteva dalle trincee della resistenza? Ma ora non è più così. Quanto allo spirito ebraico che dovrebbe riconoscere le tendenza pericolose del nazionalismo. Anche di questo abbiamo sentito molto parlare. Ma creda gentile professore, la nobiltà del sionismo consiste proprio nella battaglia per cui cerca di salvare la  nazione ebraica in una dolorosa guerra di sopravvivenza. Giovani coraggiosi la combattono insieme, di destra, di sinistra, religiosi laici.
 
“Kill the jews” nelle piazze americane e europee l’hanno gridato soprattutto schiere di propal di sinistra, tutta la costruzione di un Israele immaginata come colonialista, razzista, genocida, ha le sue antiche origini nella costruzione stalinista antiamericana e antisraeliana… bastano due pagine di storia postbellica per impararlo. Poi, dagli anni ’60 l’odio antisionista si è identificato con quello contro gli ebrei e se n’è abbeverato con tutti i crismi delle tre D, Demonizzazione, Doppio standard, Delegittimazione. Il terrorismo ha accompagnato nl’antisemitismo. Questa è la storia. Con cautela Israele è arrivata a capire che a destra ormai ci sono anche molti amici. Anche Bardella.   

Le proteste senza sosta contro la linea Netanyahu

lunedì 24 marzo 2025 Il Giornale 1 commento
Le proteste senza sosta contro la linea Netanyahu

Il Giornale, 24 marzo 2025

Semmai un periodo nella storia italiana che, con tutte le maggiori, dovute differenze, ricorda questo momento in Israele, è quello della esplosione mediatica e popolare contro Silvio Berlusconi, quando metà Italia, e quasi tutti i media, non potendo accettare la svolta post resistenziale che indicava la strada della democrazia liberale e capitalista, mettendo da parte i totem e il potere consolidatosi dopo la resistenza, crearono un mito autoritario, una situazione di rivoluzione antigovernativa. Così è con Netanyahu: un gioco frenetico nelle piazze, sugli schermi, sui giornali contro il Primo Ministro, cerca semplicemente di spingerlo fuori dal suo ruolo, accusando di voler portare il paese al fascismo. L’ accusa profonda è quella di non essere di sinistra (anche se è difficile definirlo di destra, laico e internazionale com’è), di troppo lunga durata, e votato dagli ebrei sefarditi a fronte dell’origine bengurionista, socialista, europea, della nobile tradizione che vuole restare al comando. 

 
Una storia comune nel mondo democratico, ma molto più drammatica in un Paese in guerra che combatte per la sua sopravvivenza. In questi giorni la folla in piazza, mentre suonano le sirene e si combatte di nuovo a Gaza e al Nord, in cui i ragazzi di tutte le famiglie, di destra e di sinistra, rischiano la vita, ha il fine di indurre lNetayahu a rinunciare a licenziare il capo dello Shin Beth, i servizi dell’interno, Ronen Bar; e anche di far recedere la proposta di detronizzare il Procuratore Generale Gali Baharav Miara. Baharav Miara si è già pronunciata nella difesa di Bar, proibendo di licenziarlo, e in mille altre prese di posizioni che in scarsa sintonia col governo. La sua delegittimazione è complessa, prende tempo, per Baharav Miara si sono già raccolte molte firme di legislatori di primo piano, e questo  ha a che fare con la vicenda, molto complessa, della riforma del sistema giudiziario israeliano: Israele non ha una costituzione scritta, il suo sistema legale nasce da una rivoluzione nata sotto l’egida del giudice Aharon Barak, che ha arrogato al giudiziario poteri quasi illimitati di rovesciare praticamente tutte le decisioni del governo. Biara ha usato molto questo strumento politico illimitato, oggi in mano alla sinistra, e il governo Netanyahu si scontra ora di nuovo per la vicenda Bar. Mentre si grida all’attentato alla democrazia. Bar è stato un capo dello Shabbach sfortunato: molto classico nella sua visione che è quella di agire argutamente sul terreno specifico (eliminazioni, identificazioni, rifugi del terrorismo a Jenin come a Gaza), ma si è arenato sulla visione generale per un’impostazione molto classica: sopire e calmare. Questo modo di pensare ha portato a fraintendere del tutto i grandi momenti come quello dell’attacco del 7 di ottobre, le grandi scelte ideologiche del nemico sono state fraintese come momenti specifici del nemico, non ideologici di fondo, difficoltà da superare con aiuti, comprensione, lavoro politico. 
 
Così Bar e i suoi colleghi ancora al mattino alle 3,30 hanno sottovalutato ciò che si stava preparando sotto i loro occhi, e non lo hanno considerato degno di essere comunicato al Primo Ministro. Netanyahu, a sua volta ha le sue responsabilità ma non quella specifica delle mosse di quella mattina stessa: dal 7 ottobre dopo che Bar in molte occasioni ha conservato un atteggiamento diverso da quello molto belligerante del PM e un suo stile più accordo col ministro Gallant e con Biden che con Bibi, ha deciso da tempo di di porre fine alla loro collaborazione. All’accusa che Bar è stato licenziato perché aveva preparato le carte per un “Qatar Gate” che accusa un collaboratore nell’ufficio di Netanyahu di aver preso denaro da Doha, il PM ha risposto che è vero il contrario: dopo che si è concretizzata la scelta di dismetterlo dal suo ufficio, Bar avrebbe sfoderato l’arma qatarina. Di certo, in democrazia un impiegato dal governo, per quanto importante, non dovrebbe rifiutare la decisione di chi, eletto primo ministro, lo aveva arruolato. Spesso Israele affronta un esercito e dei servizi superpotenti che vogliono che la politica lavori per loro, invece che l’esercito per il governo. Ma Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente, ed è bene che metta da parte l’odio interno specie in guerra.   

 

Israele combatte per la sua salvezza nulla può fermarlo

venerdì 21 marzo 2025 Il Giornale 0 commenti
Israele combatte per la sua salvezza nulla può fermarlo

Il Giornale, 21 marzo 2024

Israele non ha nessuna altra scelta se non combattere questa guerra e rimettere in moto la restituzione degli ostaggi. Non ha potuto contare sul sostegno di nessuno, ma oggi il momento è buono per il sostegno americano, che prima non c’era. C’è invece il solito biasimo pieno di odio e di balle mentre Israele di nuovo combatte a Gaza, la solita richiesta inconsulta di cessare il fuoco e prepararsi a farsi macellare. Da Hamas, e poi da Hezbollah, e poi dall’Iran... ma stavolta non accadrà. Si è imparato qualcosa il 7 di ottobre anche sulla ripetitività del biasimo e del veleno che proviene dall’interno stesso di Israele. Ancora nell’ottobre del ’23, sui corpi ancora caldi dei bambini uccisi e delle donne stuprate e fatte a pezzi, il segretario di quella inutile organizzazione che è l’ONU, chiese il cessate il fuoco: già allora.

Adesso, di nuovo. La morte nei tunnel dei rapiti, la quieta ricostruzione del potere di chi aveva assalito Israele e di chi adesso sacrifica di nuovo i suoi figli per prepare, dichiaratamente, la nuova Shoah, non interessa quanto la coesione ideologica sul pacifismo autolesionista di un Occidente asservito a maggioranze in cui l’Islam è determinante.   Israele ha dovuto necessariamente di nuovo attaccare Hamas pena la ricostruzione di tutto l’asse dall’Iran ai Houty al Libano. L’attacco terrorista che sotto la cenere delle recenti sconfitte si rinfocola proprio sui rapiti, è sommerso da una marea di chiacchiere che hanno un solo cinico obiettivo: Netanyahu. E’ addirittura interessante quanto l’odio per questo leader accenda una luce accecante su una realtà che si fa fatica a affrontare: quando sei a rischio di vita, ti devi difendere. Gli attacchi a Gaza hanno come primo scopo quello di rompere il rifiuto di Hamas a restituire gli ostaggi e allungare i tempi per irrobustirsi di nuovo. Ieri, coi missili, Hamas  ha mandato di nuovo Tel Aviv nei bunker; dalla Giudea e dalla Samaria, centinaia di attacchi sia di hamas che della Jihad Islamica che di Fatah colpiscono ogni giorno. Le famiglie che protestano nelle strade temendo che lo scontro comporti un pericolo maggiore per i loro cari, hanno ragione nella loro angoscia. Ma l’obiettivo deve essere Hamas, non Netanyahu che ha ormai svolto mille trattative, tentato tutte le strade senza successo. Hamas non vuole.

Lo stallo di queste settimane ha reso decisive la sue richieste, aprire la fase che finisce nella conclusione del conflitto restando al potere e godendosi le migliaia di prigionieri assassini liberati, senza dare niente in cambio, mentre ricostruisce armi, tunnel, uomini, insomma la ricostruzione del prossimo sette di ottobre. Bibi ha agito di sorpresa, sfidando l’opinione pubblica, e non è facile:  chi dice lo fa per salvare il governo recuperando Ben Gvir, ignora che Netanyahu ha già i voti per governare senza di lui. Chi poi sostiene che licenzia Ronen Bar perché indaga sul suo ufficio e i rapporti col Qatar, non sa che per quanto la magistratura odi il primo ministro, sia stato già escluso un suo coinvolgimento diretto in un’indagine che semmai viene a puntino proprio per Bar che, capo dei servizi segreti dell’interno, lo Shin Beth, ha le responsabilità più immediate del 7 di ottobre. Certo una indagine politica e militare completa dovrà aver luogo presto; ma in democrazia esiste la differenza fra leader eletti e leader scelti dagli eletti, che devono rispondere a chi attua la nomina pena la cesura del rapporto. Se  Netanyahu non viene riconosciuto il potere di affrontare il potere degli alti funzionari,è perché il suo colore politico non è quello giusto. Non va bene. Ma Israele combatte per la salvezza, ha imparato finalmente a farlo, e nessuna chiacchiera potrà fermarlo ormai. Quanto al numero dei palestinesi uccisi, a parte che la fonte è Hamas, quindi non credibile, non uno sarebbe morto o morirebbe se Hamas avesse consegnato, o consegnasse, i rapiti. 

La pressione su Hamas e un messaggio all'Iran. La forza di Bibi (e Trump)

mercoledì 19 marzo 2025 Il Giornale 1 commento
La pressione su Hamas e un messaggio all'Iran. La forza di Bibi (e Trump)
Il Giornale, 19 marzo 2025
 
Arafat una volta disse alla cronista: il deserto cambia continuamente di forma, ma la sabbia resta sempre la stessa in quantità e qualità. Parla, come sempre, della sabbia della guerra e del terrorismo. Difficile dire se siamo di fronte all’apertura dei “cancelli dell’inferno” che Trump ha minacciato, ma certo si disegna oggi uno scenario che scavalca i confini della guerra che Israele affronta di nuovo nella Striscia. Riappare la necessità di combattere su più fronti l’odio che ha avuto il suo apice il 7 ottobre, ma che conta su un vasto arco di nemici di Israele che gli promettono la morte. Mentre Israele torna a combattere, suonano le sirene, ieri, per un missile proveniente dallo Yemen, 2000 chilometri di distanza. Gli Houty da quando si è concluso il cessate il fuoco attaccano, mentre la Siria, il Libano sono ben lontane dall’essere quiete. L’Iran getta su tutto la sua ombra. Israele lo sa: deve combattere fino a sgominare il pericolo mortale. La novità: Trump gli guarda le spalle e non solo, finalmente identifica Israele non come un problema, alla Biden, ma come l’unica forza positiva.Ma prima dello scenario internazionale, lo sguardo su queste tre settimane mostra uno stillicidio di proposte da parte dei mediatori israeliani e di Steve Witkoff, incaricato di Trump, dopo la gaffe di Bohler, di portare Hamas a rilasciare qualche ostaggio anche dopo la conclusione della prima fase dell’accordo che per un miracolo di pazienza ha portato a casa 27 esseri umani distrutti, ma vivi. 
 
E’ la volta di cercare di trattare per tre, per cinque, per uno, senza entrare nella seconda fase che Netanyahu rifiuta, perché prevede che Hamas in sostanza resti a Gaza armato, al potere, a ripristinare il suo progetto di distruzione dello Stato Ebraico, come ripete di voler fare e come scritto nella sua carta. Tuttavia Hamas dice di no, vuole che Israele gli consegni la pace che lo lascia al potere. Ma sullo sfondo, avviene qualcosa: gli Houty reagiscono all’embargo su Gaza con attacchi missilistici contro Israele che vanno in parallelo col blocco del Mar Rosso e 160 attacchi a navi americane che gli Stati Uniti non possono accettare. Questo, mentre lo sponsor degli Houty, l’Iran, si rifa’ vivo sotterraneamente in Siria, in Iraq, nel West Bank, con gli Hezbollah. Israele blocca con l’esercito la situazione di aggressività plurima con una presenza sia diplomatica che militare mai vista prima, affronta anche il rischio di una nuova ISIS in Siria. Trump dunque prende la sua posizione sugli Houty andando molto oltre: da questo momento ogni loro azione di guerra verrà considerata, diretta responsabilità iraniana: ”Nessuno ci caschi” dice Trump nel suo  profilo Truth "la sinistra gang di delinquenti basati in Yemen e odiati dalla gente sono stati creati e mantenuti dall’Iran… che fa la vittima innocente dicendo che ha perso il controllo dei terroristi... ma non è vero, dettano ogni mossa e forniscono loro le armi... l’ Iran verrà ritenuto responsabile... e le conseguenze saranno terribili…”. 
 
E’ chiaro che gli stessi concetti valgano per il rapporto dell’Iran con tutti i suoi proxy: Hamas, Hezbollah.. Da Hamas all’Iran, la sabbia cambia forma, ma la sostanza è la stessa: terrorismo, e anche pericolo atomico per quel che riguarda gli Ayatollah. Certo Trump non ha dimenticato che la sua proposta di parlare, di recedere dalla costruzione della bomba, è andato inascoltato e anzi respinto con minacce. La resa dei conti può essere vicina. Più chiara di tutte, mentre ancora si cerca di imporre a Hamas di cercare una via d’uscita restituendo i rapiti, la bionda portavoce di Trump che ha detto: “Gli attacchi di Israele sono coordinati con noi, il Presidente non ha paura di stare dalla parte del nostro amico e alleato”. Il seguito, in queste ore.  

La memoria trasferita nel deserto

giovedì 13 marzo 2025 Il Giornale 5 commenti
La memoria trasferita nel deserto

Il Giornale, 13 marzo 2025

Qual è la risposta da parte dei cittadini di un quartiere bene della capitale d’Italia se un’istituzione indispensabile per l’integrità morale del Paese, ovvero il cantiere del Museo della Shoah, viene coperto di escrementi, di svastiche, se una testa di maiale vi viene depositata, se frasi inneggianti a Hamas e all’odio per Israele e gli ebrei lo sfregiano?

È la stessa reazione che hanno avuto in varie città d’Europa i passanti che hanno strappato i manifesti coi volti dei bambini Bibas, della loro mamma Shiri, dei rapiti e degli assassinati da Hamas. Questo hanno fatto i cittadini di Via Torlonia firmando un disgustoso esposto che chiede di spostare il museo “in un’altra area a Roma, più ampia e meno popolata”. Nel deserto. Hanno paura. Della memoria del maggior crimine contro l’umanità della storia non gli interessa nulla, li preoccupa che si possa disturbare la loro passeggiata. Non chiedono di perseguire i delinquenti, di acchiapparli, tantomeno di difendere la memoria della Shoah, che certo non riguarda solo gli ebrei. Anzi, adesso che (scrivono proprio così) il 7 ottobre 2023 ha segnato una svolta, si rivaluti “il momento storico e geopolitico”.

Per loro non è quello dei 1200 innocenti uccisi solo perché ebrei, ma quello che deve cancellare la costruzione del Museo della Shoah. Benvenuto all’antisemitismo perbene. Il comune deve cancellare la delibera, chiedono, la storia della Shoah è pericolosa per la salvaguardia della quiete del quartiere. Chissà se una lettera così vile sarebbe stata scritta se si fosse trattato di un museo sul femminismo vandalizzato, o dell’islam, o dell’immigrazione… la gente di Villa Torlonia non sarebbe intervenuta per salvaguardare nobilmente la pluralità? Ma gli ebrei… non è di moda cercare di capire chi sono gli oppressi e chi gli oppressori, l’antipatia per Israele a cena si porta molto. La Shoah la vadano a ricordare più in là, tanto più che oggi opprimono i palestinesi.

Dunque, il manifesto coi bambini Bibas i firmatari lo avrebbero strappato; quello con un gatto perduto invece lo avrebbero studiato, annotando il numero di telefono dei proprietari infelici.     

Gaza, gaffe dell’inviato Usa. Poi Witkoff rilancia la linea: "Ostaggi indietro o guerra"

martedì 11 marzo 2025 Il Giornale 0 commenti
Gaza, gaffe dell’inviato Usa. Poi Witkoff rilancia la linea:

 

I massacri della nuova Siria di al Shara pronti a infiammare tutto il Medioriente

lunedì 10 marzo 2025 Il Giornale 0 commenti
I massacri della nuova Siria di al Shara pronti a infiammare tutto il Medioriente
Il Giornale,10 mazo 2025
 
Ogni messaggio ormai è doppio e triplo, ci vuole la lente di ingrandimento.E tutti parlano di guerra. Il più semplice, ieri, è  tuttavia quello calmante di Ahmed al Shara, i cui jihadisti hanno fatto a pezzi, in scene difficili da guardare, migliaia di uomini del vecchio regime alawita di Assad: dopo tredici anni di guerra civile che hanno visto centinaia di migliaia di morti avvelenati, uccisi, torturati da parte di quel mortale regime sorretto dall’Iran e dalla Russia, adesso a colpire invece sono gli uomini del regime istituito l’8 dicembre dell'anno scorso. Hayat Tahrir al Sham si mise subito, allora, la cravatta nonostante l'evidente radice nell’Isis e in Al Qaeda. Il suo leader Ahmed al Shara si è peritato di comunicare a tutti i leader del mondo, compresi gli italiani, una disponibilità alla pace e alla ricostruzione che da molti è stata in questi mesi presa sul serio, e ne ha ricevuto infatti in cambio visite fiduciose.Ieri, dopo che le peggiori violenze, a Jableh e a Banyes e negli altri centri della Siria alawita hanno ricordato che cos'è la jihad islamica in movimento, al Shara ha fatto un discorso ormai poco rassicurante quando promette la pace e la protezione delle più diverse minoranze.
 
Ormai a Latakia e a Tartous si è stappata la bottiglia delle vendetta dopo decenni di sofferenze, e almeno mille persone sono state uccise selvaggiamente mentre 125 membri delle forze di al Shara venivano a loro volta sopraffatti. E i numeri possono essere molto più alti, persino ricordare le morti causate dal gas venefico usato da Assad sulla sua popolazione. IL punto è che lo scontro di ieri, nato con dimostrazioni alawita, segnala non una conclusione ma un possibile inizio di un’era atroce,in cui anche forze internazionali molto diverse sono implicate. La Siria, oltre a essere frazionata in una quantità di gruppi religiosi e etnici diversi, in poteri tribali e familiari fortissimi, oltre ad avere al suo interno anche le grandi sezioni drusa e curda, minoranze così specifiche da essersi in buonaparte ormai dichiarate sotto l’ala di Israele (ieri Israel Katz, ministro degli esteri, ha presentato una legge speciale per consentire ai drusi siriani speciali permessi di lavoro dentro Israele) è un’autostrada di interessi internazionali,un nodo vitale. Vi si svolge tutto il passaggio d’armi che l’Iran ha spedito a Hamas e agli Hezbollah e che tuttora può servire, se rivitalizzato con l'aiuto dei ribelli alawiti, a minacciare il Medio Oriente. L’Iran ha probabilmente agito sostenendo gli Alawiti in associazione con la Russia: la risposta da parte di Khamenei a Trump in cui il presidente americano annuncia la sua volontà di chiudere in fretta la vicenda del nucleareiraniano, avviando un processo di pace, è stata aggressivamente negativa.L’Iran, si può dedurre, forte dell’uranio arricchito al 60 per cento nell'era Biden, cerca di rimettersi in pista muovendo le carte che gli sono rimaste in Siria. Può contare anche sul  Qatar, suo grande amico nella profonda e mortale antipatia verso Israele, che ha chiesto di investire l’IAEA della questione del nucleare Israeliano, mai sollevata prima, mentre ha lanciato una commovente denuncia ecologica sui guai dell’ambiente che comporterebbe un eventuale distruzione del nucleare da parte di Israele. Trump con la sua lettera a Khamenei chiedeva un dialogo, ma poi, a voce, ha anche detto che il tempo delle scelte è ormai arrivato.Doppio messaggio, mentre si levava in cielo un drill in cui bombardieri americani e israeliani facevano insieme piroette celesti. Intanto, guarda caso, si annunciava un drill di Iran, Russia, e Cina. Lo ha detto Teheran: si svolgerà nell’Oceano indiano con navi da guerra, insieme anche a osservatori del Qatar, dell’Iraq,del Pakistan.. insomma di parte degli amici antioccidentali.
 
Nel frattempo Erdogan ha più volte dimostrato il suo deciso interesse per la Siria sotto il nuovo regime sunnita: al Shara che l’ha incontrato e ringraziato più volte è perfettamente disegnato sui suoi scopi, quelli della Fratellanza Musulmana, disegnare un mondo in cui il sultanato turco abbia di nuovo il ruolo che si merita.Grandi forze si possono muovere di nuovo, mentre Israele su cui la Siria si affaccia con le sue alture, stavolta non ha nessuna intenzione di fare la parte della bella statuina in attesa della guerra. Per ora ha occupato, da dicembre, una zona di sicurezza che protegga il confine, e ha distrutto gran parte dell'esercito siriano che potrebbe essere usato in un eventuale conflitto, da ovunque venga, contro lo Stato Ebraico. Il ruolo di esca dopo il 7 di ottobre non gli si addice più.      

Il messaggio ad Hamas sul rilascio degli ostaggi. E la lettera a Khamenei

sabato 8 marzo 2025 Il Giornale 0 commenti
Il messaggio ad Hamas sul rilascio degli ostaggi. E la lettera a Khamenei
Il Giornale, 08 marzo 2025
 
A chi non è mai capitato che due opposte ragioni si scontrino, solide e incontrovertibili, e le soluzioni richiedano prezzi quasi inaffrontabili? In questo momento Israele si trova in questa situazione. Potrebbe agire militarmente col sostegno americano che Trump offre, ma i rapiti potrebbero più facilmente morire se Netanyahu deciderà per lo scontro. E tuttavia, se non lo fa, Hamas consolida la sua presenza e la sua minaccia terrorista. Trump sostiene Israele a suo modo in un Medio Oriente in pieno terremoto, Israele deve decidere fra l’accordo per rapiti e una nuova guerra con Gaza. Segnala la sua determinazione con il taglio degli aiuti umanitari e mentre le famiglie dei rapiti vellicano Trump per ottenerne l’aiuto, assediano Netanyahu quando prende in considerazione il suo consiglio e il suo appoggio. La vita dei rapiti è in gioco. Mentre Trump ripete che è Israele che deve decidere, i suoi inviati tessono due tele diverse: Steve Witkoff annuncia che Hamas deve seguitare a cedere i rapiti con una formula che arrivi fino alla restituzione completa. In gioco anche un ragazzo americano Edan Alexander, e quattro corpi di suoi compatrioti. Trump ripete «ne abbiamo abbastanza del comportamento di Hamas» e Witkoff fa eco dicendo che se Hamas non si arrende è prevedibile un’azione coordinata delle forze militari americane e israeliane. Si sa da informazioni riservate che Adam Boher, il responsabile americano per gli ostaggi, ha colloqui con Hamas, con cui gli Usa non parlano da dieci anni.
 
Che cosa vuol dire? Israele manda segnali di perplessità, mentre il nuovo capo di Stato maggiore Eyal Zamir sottolinea che l’esercito costruisce una nuova grande forza e che «vittoria» è il concetto su cui si concentra. Quando Trump propone un accordo, questo può facilmente sottintendere una minaccia: può darsi che abbia tolto fiducia ai mallevadori qatarini e egiziani, e faccia da sé per costringere Hamas a consegnare il mal tolto. Ron Dermer, il ministro degli Affari strategici tace, il governo segnala soddisfazione per il sostegno di Trump e per la speranza di un nuovo Medioriente ripulito dal terrore. E di nuovo, un doppio messaggio: un’esercitazione di caccia israeliani e americani insieme ha solcato i cieli, mentre Trump manda una lettera a Khamenei dove si parla di accordo sul nucleare. 
 
Questo, mentre intanto si diffondono notizie su nuove sanzioni. In parallelo, la notizia che ormai l’Iran è sulla soglia della confezione di sei bombe. Se Trump decide che non ci sono altre strade per arrivare a sistemare la questione mediorientale, anche le vacche sacre possono essere finalmente scansate: ieri l’amministrazione americana ha comunicato che taglierà contratti e sovvenzioni per un valore di 400 milioni di dollari alla Columbia University accusando l'istituzione di antisemitismo, per la mancata tutela degli studenti ebrei durante le proteste a favore di Gaza. Ma con Biden in fondo era paradossalmente  più facile decidere: bloccava Israele con l’embargo, poneva blocchi fatali a entrare a Rafah e a occupare lo Tzir Filadelfi. Israele ha combattuto sul campo per gli ostaggi finché non gli è stato impedito. Adesso da Trump provengono due messaggi diversi e forti, così che Netanyahu deve fare scelte più difficili. Trump sin dal messaggio del 2 dicembre ha indicato la linea dura: «Lasciate gli ostaggi subito o si scatenerà l’inferno». Poi, via via che ha spostato la decisione su Bibi, il puzzle si è fatto sempre più delicato, di cristallo. Il cristallo della vita dei rapiti, il più sottile. 

Alla ricerca di se stesso, Israele rivive l' incubo

giovedì 6 marzo 2025 Il Giornale 0 commenti
Alla ricerca di se stesso, Israele rivive l' incubo

Il Giornale, 06 marzo 2025

Eyal Zamir ha la forza calma dei tankisti, non quella funambolica dei piloti, o quella smart dei paracadutisti. Ma sono tempi molto diversi. L’esercito deve riconquistare il suo ruolo essenziale, e questo lui è: essenziale. In questi giorni, come mai nella storia di Israele, nemmeno al tempo della guerra del 1973, Israele cerca sé stessa; si è riaperta la ferita del 7 di ottobre, sono stati mostrati al pubblico i risultati paurosi e sconcertanti delle inchieste che l’IDF e lo Shabbach, il servizio segreto interno, hanno condotto autonomamente.

Ne esce un quadro devastante del fallimento di uno dei migliori apparati di sicurezza del mondo. Due sono le voragini aperte: quella dell’incomprensione dell’evento, di cui pure si conoscevano le tessere del puzzle senza però riuscire a comporre il disegno; durante le giornate e la nottata precedente tutto era chiaro e dispiegato, e non si è capito. E poi, la voragine del ritardo di ore e ore che ha lasciato i disperati sopravvissuti nei rifugi a chiedere un aiuto che non è arrivato. A Kfar Aza, dove l’ultimo terrorista è stato eliminato il 10 ottobre. Così sono stati uccisi 64 dei suoi abitanti e rapiti 19 nella terza delle ondate diverse di Hamas preparate con precisione e dovizia di indicazioni strategiche, mentre l’aiuto richiesto alle 6,29 è comparso in minimi termini alle 13, 15; 33 erano stati uccisi nella prima ora; alle 8 c’erano nel kibbutz 250 terroristi; i rapimenti sono avvenuti alle 10, e ancora non c’era nessuno a impedirli. Alle 10,30 un piccolo gruppo di soldati si è trovato uno contro cinque terroristi, le case dei ragazzi sono state distrutte e disseminate di cadaveri. Le forze in campo erano una ignara dell’altra, totalmente scoordinate. La presa e distruzione dell’avamposto di Nahal Oz sul confine,162 soldati di cui 90 senza armi e solo 81 allenati al combattimento, è stata compiuta in tre fasi, alle 6,30 alle 9 e alle 10.

In base a informazioni precise, Hamas sapeva dove tagliare il recinto dove erano le telecamere, quando passava la ronda, dove dormivano i comandanti, dove erano le ragazze, rapite. 53 sono stati uccisi subito. Mentre eroi solitari arrivavano da ogni parte di Israele in aiuto, l’esercito non c’era ancora se non in gruppi autorganizzati. L’aviazione ci ha messo 4 ore a decollare, le truppe, per esempio a Kfar Aza o a Be’eri, non avevano ordini per agire. La Divisione Gaza allo sbando non forniva indicazioni nemmeno quando ormai il disastro era evidente. Nessuno all’alba ha evacuato i tremila ragazzi al festival musicale, anche se dalla notte si sapeva che sarebbero stati a Reim, un’esca da divorare. I kibbutz erano attrezzati come fossero in Toscana e non attaccati a Gaza, a Kfar Aza per esempio, tutte le armi erano state volontariamente rinchiuse in un ripostiglio. Bambini, anziani, famiglie assediati nei rifugi hanno chiamato i numeri di emergenza per decine di ore. Dunque lo Shabbach e Aman, i servizi dell’esercito, non avevano informazioni? In realtà ne avevano a bizzeffe, ma le hanno snobbate per via della “conceptia”, un misto di prosopopea, pacifismo, presunzione; “Hamas non vuole la guerra, con noi non ce la può fare e lo sa, ha perduto dal 2008 al 2021”. Eppure si sapeva bene che Hamas allenava masse lungo il recinto, che le gallerie crescevano e i finanziamenti iraniani e del Qatar finivano in armi, e anche che Sinwar seguiva la politica e la spaccatura interna di Israele.

Eppure tutti i passaggi delle notizie di quel giorno dall’uno all’altro comandante ripetono che sì, c’è traffico, ma Hamas non vuole la guerra né tantomeno un’invasione territoriale. I vertici sia dello Shabbach che dell’esercito, durante la notte prima dell’invasione aveva saputo che migliaia di terroristi si stavano radunando in battaglioni ordinati e pronti all’attacco con le auto e i kalashnikov, che d’un tratto avevano acceso le SIM israeliane. Il capo di Stato maggiore Herzi Ha levi è stato avvertito alle 4,00 di notte, ma, come i suoi, ha deciso di rimandare al mattino. Persino l’ex ministro della difesa Yoav Gallant ha raccontato che sua figlia l’ha svegliato chiedendogli perché si bombardavano Tel Aviv. Netanyahu non fu svegliato. È dura. Israele cerca consolazione nei magnifici, incredibili eroi che sono corsi da ogni parte del Paese a difendere la gente aggredita, e hanno salvato il Paese. Da allora si combatte su sette fronti con successo, ma il 7 ottobre è ancora qui, il popolo ebraico affronta sempre una nuova avventura. Ancora.      

 

Hollywood certifica la deriva antisemita

martedì 4 marzo 2025 Il Giornale 1 commento
Hollywood certifica la deriva antisemita

Il Giornale, 04 marzo 2025

Il cinema resta sempre un faro. Le sue immagini, i suoi volti, e anche i suoi documentari disegnano la fantasia di milioni di persone, siglano un’epoca. E Hollywood quindi si deve vergognare, oggi, per la sua ignoranza e per le sue bugie. Il vacuo giubilo che emana dalla sua folla pronta a applaudire la più vieta delle interpretazioni che accompagnano la tragedia israeliana dal sette di ottobre, segnala che gli ebrei sono cattivi, forse suprematisti bianchi, certo i palestinesi sono le vittime. Non è successo niente. Il 7 ottobre non c’è stato. Ieri il giovanotto palestinese che proviene da vicino a Hebron, una delle zone più prolifiche di attacchi contro chi va autobus o in pizzeria, premiato con l’Oscar, ha recitato tutto il rosario proPal. Si chiama Basel Abra, con l’israeliano Yuval Abraham ha firmato il documentario “No Other Land” e chiamato sul podio, in cravattino nero, prima ha denunciato “la pulizia etnica del popolo palestinese”, mentre Abraham, israeliano si lanciava sull’ “l’atroce distruzione di Gaza” e bacchettava gli Stati Uniti (e come no, l’antiamericanismo è caro ai figli dell’America più affluente) per aver bloccato la strada a “una soluzione politica senza supremazia etnica”. Poi essendo israeliano ha mostrato di ricordarsi che gli ostaggi israeliani devono tornare e ha auspicato un futuro migliore tutti insieme. Power to the people. Ma questo film coi suoi applausi non aiuterà. È vero che ci sono state demolizioni nella zona di Masafer Yatta, la gente però non è stata sgomberata. Non ho visto il film, ma è facile sapere che quando Tzahal distrugge una casa le ragioni sono dure, difficili, e legali: dipendono in genere dalla necessità di distruggere strutture che servono da rifugio, deposito, base per il terrorismo. Le decisioni vengono sottoposte alla Corte Suprema, che ci ha messo anni, dopo un primo rifiuto, ad accettare la decisione militare, legata all’uso del terreno come zona di esercitazioni. Quella parte dell’West Bank è una zona da cui fuoriescono parecchi attacchi, ogni giorno i terroristi di Hamas e altre organizzazioni locali causano morti e feriti; oppure si riesce a prevenirli, anche smantellandone le strutture. Oppure, le costruzioni violano la legge cui sono soggetti tutti i cittadini: non si può costruire dove è proibito.

Masafer Yatta esemplifica un’acquisizione illegale di terra da parte palestinese nella zona C che, al contrario delle aree A e B, è sotto il controllo civile e militare israeliano secondo gli accordi di Oslo Sono circa 200mila i palestinesi nell’area C; nel 1999 i palestinesi si presero a Masafer Yatta un altro pezzo di terra, e violarono gli accordi di Oslo e i permessi di costruzione. Con baracche, con grotte che nella tradizione sostituiscono le case, con piccole costruzioni di mattoni e di latta piazzate in modo da bloccare le abitazioni israeliane si sono costruite apposta ostacoli per affermare che quella è terra palestinese. L’intenzione provocatoria è evidente. Da notare che nell’area A, sotto il controllo palestinese, Israele proibisce ai suoi persino di entrare, tantomeno di costruire. E una memoria basilare: tutti i territori assegnati a Israele dalla Lega delle Nazioni, Giudea e Samaria, dette West Bank, rimasero occupati dalla Giordania dal 1948 al 1967. Israele sapeva bene che il suo diritto era a tutto il territorio, secondo gli accordi internazionali e la conclusione della guerra: mai i Palestinesi avevano avuto uno Stato. E tuttavia concesse il controllo sull’area A e in comune sull’area B, fino a un accordo di sicurezza che i palestinesi hanno rifiutato sempre. Resta l’aggressione continua, l’educazione scolastica dedicata all’omicidio degli ebrei, uno a uno, ovvero al genocidio.

Eppure l'anno scorso, con in mano l’Academy Award per il suo “La zona d'interesse” Jonathan Glazer disse che accettava il premio rifiutando che l’ebraismo e l’Olocausto fossero sequestrati dall’occupazione che aveva condotto anche al 7 ottobre.  Ovvero: Hollywood seguita a affogare nella sua miseria antisemita. Del resto, anche Leni Riefensthal era bravissima, da premio anche quando fotografava Hitler.     

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