I diritti umani a senso unico. Rapiti, ultimatum degli Usa ad Hamas

Il Giornale, 08 gennaio 2024
L’espressione «diritti umani» dovrebbe caratterizzare i nostri tempi, riflettere la ricostruzione faticosa della democrazia successiva alla seconda guerra mondiale: ma frana sul rovesciamento della loro percezione e del loro uso. La cultura woke che fa del mondo uno scontro fra oppressi e oppressori, mettendo in quest’ultima categoria la storia democratica occidentale, ha prodotto folle di attivisti di regimi e organizzazioni che praticano il terrorismo e discriminano fino alla morte donne e gay. Invadono, come è accaduto ieri, un ospedale di New York, chiedendo l’espulsione dei malati ebrei «sionisti». Un Paese, l’Iran, che esegue in un anno 900 condanne a morte fra cui donne per la loro libertà, giovani perché gay, dissidenti, doveva essere considerato terrorista, come l’organizzazione, Hamas, che ha decapitato la metà dei 1.200 trucidati. Adesso il mondo è rovesciato. L’Iran è accolto in Vaticano e condanna Netanyahu, insieme al Papa. Hamas ha annunciato di voler denunciare Blinken, il segretario di Stato americano, per crimini di guerra. La minaccia sembra inconsulta, la sua procedura non sembra aver futuro, ma il precedente sono i tribunali internazionali che hanno reso l’accusa, unita all’altra ancora più paradossale di genocidio, la peggiore persecuzione verso Israele: dopo aver portato alla minaccia di arresto al primo ministro e dell’ex ministro della Difesa Gallant.
I crimini di guerra, il genocidio, sono col termine «occupazione» l’altro polo dell’odio antiebraico: i media ne sono pieni, persino il Vaticano ne fa uso. I giovani israeliani, costretti a servire tre anni perché il loro Paese è sempre sotto attacco, hanno sempre guardato al momento in cui un viaggio liberatorio nel mondo li rimette nel ciclo della vita. È un inno nazionale alla libertà. Ma ora, poiché hanno partecipato alla guerra di sopravvivenza a Gaza, in cui anche in questi ultimi giorni tre ragazzi (398 in totale) hanno perso la vita Sri Lanka, Thailandia, Francia, Belgio, Olanda, Serbia, Irlanda, Cipro e Sudafrica sono alla ricerca di elementi che consentano di bloccare un israeliano in vacanza. Ebreo, discolpati, come sempre nella storia. Chi cerca le prove sui siti e nelle biografie è Diab Abu Jahjia, libanese, la sua Hind Rajab Foundation lavora a mettere in piedi azioni legali. Sua è la Arab European League, fondata nel 2003; affiliato a Hezbollah, la sua è una «fondazione araba nazionalista che vive l’Islam come fonte di ispirazione». Fra le sue esternazioni «il pensiero della morte di un soldato americano, inglese, olandese, è come una vittoria»; l’11 settembre è stato «una dolce vendetta». Il suo socio Hassoun ha scritto su Facebook che Hamas avrebbe dovuto prendere più ostaggi e che Hamas non ha invaso Israele il 7 ottobre, era solo tornato a casa reclamando le sue proprietà. Questi i difensori dei diritti umani.
Quanto a Blinken, in realtà da una sua recente intervista sul New York Times si capisce che i diritti violati sono quelli di Israele a un rapporto chiaro almeno con gli alleati americani; invece testimonia Blinken, proprio nel momento più difficile, quando si stava per concludere un patto per recuperare i rapiti, gli Usa sollevavano di nuovo la loro critica contro Netanyahu, soprattutto sulla questione degli aiuti litigando con Netanyahu su Rafah, e Hamas bloccava ogni restituzione fiduciosa nell’indebolimento israeliano causato dagli Usa. Blinken si stupisce che il mondo non abbia mai esclamato con decisione che Hamas doveva arrendersi, restituire i rapiti, come fa ora il neopresidente Trump: «Rapiti a casa entro il 20 o Gaza sarà un inferno». Ha preferito dare la colpa a Netanyahu della mancata restituzione degli ostaggi. Solo oggi Blinken dice di chi è la responsabilità. Mentre si cercano altre responsabilità da gettare addosso a Israele e Hamas seguita a sparare.
Ma il Vaticano non si renda complice della pioggia mondiale di bugie antisemite

Il Giornale, 05 gennaio 2025
Mentre le tv israeliane diffondono l’immagine straziata di Liri, la ragazzina rapita che ieri Hamas ha scagliato sulla faccia degli israeliani, affacciarsi dal mondo mediorientale su quello italiano, è come atterrare, trascinati da un vento che sradica le case, nel mondo del mago di Oz, dove la realtà ha tutta un solo colore: verde menzogna. Qui, ci siamo appena alzati (letteralmente, anche a casa mia) da un bombardamento degli Houty, paradossali missili balistici, quintali di esplosivo che un gruppo disgraziato che riduce alla miseria anche il proprio Paese, lo Yemen, lancia, per ubbidire all’Iran, a duemila chilometri di distanza su di noi che potremmo solo fargli del bene (che so, acqua, tecnica, sanità… Israele è sempre stato generoso di aiuti al terzo mondo). Israele cerca naturalmente di fermare i lanciamissili. Ma i media italiani parlano di uno “scontro” che astutamente prepara un’aggressione all’Iran. Hamas intanto da una settimana lancia di nuovo missili, di nuovo, ogni giorno sugli stessi kibbutz e cittadini in cui è stato compiuto il peggiore massacro della storia recente, sempre nella strategia iraniana. E i media denunciano Israele per aver causato la chiusura di un ospedale di Gaza; non dicono che è stato scoperto che serviva da caserma a centinaia di armati di Hamas, ora finiti in prigione fra cui il loro capo, il direttore dell’ospedale. Poverino, anche il direttore è stato arrestato il direttore, si lamentano nei media. Crudeltà di Israele.
E ieri, mentre in Italia infuria l’episodio di Cecilia Sala, episodio tragico (perché questa giovane donna nelle prigioni iraniane è in mano a un regime che valuta le donne esseri da comandare e da offendere se solo osano vivere la loro personalità e il loro aspetto, un regime che impicca omosessuali e dissidenti e viola tutti i diritti umani) si resta lontani, in politica, da un’analisi completa della natura dell’Iran, del suo ruolo terrorista odierno, delle responsabilità nell’ aggressione a Israele e quindi nella morte insieme a Hamas e agli Hezbollah di tutti gli innocenti uccisi. E qui, il Papa Francesco incontra un certo Abolhassan Navab, rettore dell’Università delle religioni il cui scopo evidente nella visita, non si sa se condiviso dal Vaticano, era un terribile comunicato in cui loda “la posizione coraggiosa del Papa nella difesa del popolo palestinese”, cioè, si deve intendere dato chi lo dice, del loro proxy, l’organizzazione terrorista Hamas, responsabile del 7 ottobre; e continua sostenendo che dicendo “noi non abbiamo problemi con gli ebrei”, il successore di Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II e Benedetto XIV, che tanto pensiero e azione hanno dedicato alla ricostruzione di un rapporto distrutto tante volte nel fuoco delle persecuzioni antisemite, avrebbe detto “anche noi non abbiamo problemi con gli ebrei; l’unico problema è con Netanyahu che ignorando le leggi internazionali e i diritti umani ha creato crisi nella regione e nel mondo”. Ah. Anche noi? Come l’Iran? E Netanyahu è il responsabile del 7 ottobre? Non può averlo detto. Non ci crediamo. Ma in Italia il contorno culturale è come una marmellata di more, nero e appiccicoso.
Risposte scandalose, offese, ha ricevuto il pezzo sul Corriere della Sera di Ernesto Galli della Loggia, che per aver spiegato che la guerra divenuta il tabu principale della cultura postbellica può avere motivazioni giustamente legate a necessità di sopravvivenza e di giustizia e che il popolo ebraico, particolarmente legato alla sua identità, ha potuto combattere proprio per questo, a fronte dell’odio e delle condanne in cui si è imbattuto. Una considerazione profonda, sensata. A volte, anche se a malincuore, combattere significa vivere invece che morire. Anche per i cristiani: lo dimostra, mentre il capo di Hayat Tahrir al-Sham al-Julani dichiara la sua simpatia per il Papa, il terrore che invece ormai attanaglia i poveri cristiani della Siria, avvezzi a persecuzioni, le sue suore e i suoi sacerdoti di varie confessioni già derisi, uccisi, perseguitati, asserragliati in casa nella Siria in cui già è stata dichiarata la Sharia islamica che li discrimina. La Chiesa ha una responsabilità venerata e immensa. Un nuovissimo documento dell’ “Associazione 7 ottobre” con dovizia di dati dimostra che l’antisemitismo in Italia è ormai vergognoso senso comune, e che il 94 per cento degli ebrei ha subito atti d’odio. L’odio contro Israele, o anche contro Netanyahu, va bene per gli Houty, risuona in questo scenario e non deve implicare il Vaticano.
Medio Oriente, l'anno dell'incredibile cambiamento

Il Giornale, 31 dicembre 2024
Che anno è stato quello che si chiude, e che anno sarà quello nuovo. Nei giorni di Hanuccah, quando sul candelabro a 8 braccia si accende una candelina al giorno, ricordo del miracolo che consenti a Giuda Maccabeo di vincere la guerra, si può credere nell’impossibile. Poco più di un anno fa, il 7 ottobre 2023, Israele sembrava perduto. L’anno che si chiude è stato l’anno della rinascita costruita su sette fronti di guerra dopo quella mattina in cui le belve di Hamas si erano avventate su 1200 cittadini grandi e piccoli nei kibbutz vicino a Gaza; il 2024 ha cercato con le unghie e coi denti la risposta, il rimedio, e riuscendoci oltre ogni previsione, ha cambiato la carta geografica, la struttura del potere, il futuro di una parte essenziale del mondo, il Medio Oriente, la cui influenza ideologica e strategica si allarga al resto dell’orbe terracquea. È stata voltata una lunga pagina di storia, quella dell’assedio dell’estremismo islamico sciita guidato dall’Iran con tutte le sue diramazioni: al centro, era stata per anni disegnata la distruzione di Israele come bersaglio guida della conquista dell’Occidente. Ci siamo andati vicini, e verrà il giorno in cui il mondo finalmente riconoscerà il valore degli eroi che hanno combattuto e sono morti per fermare la piaga del terrorismo religioso di massa a Gaza e in Libano, e nei cieli con gli aerei che hanno volato a migliaia di chilometri di distanza a nord e a sud fra missili e nuvole nemiche segnando di fatto il confine della civiltà di fronte alla barbarie.
Il 2024 è stato l’anno in cui Israele ha messo nel rifugio di casa (cui correva ad ogni bombardamento disconosciuto da tutta l’informazione, come fosse la cosa più normale essere bombardati quotidianamente) acqua e biscotti per prepararsi alla grandine di missili iraniani; e invece li ha fatti a pezzi sulla strada verso Gerusalemme. L’anno, in cui se Israele non avesse avuto la grinta di tenere duro a Gaza sull’ingresso a Rafah e sullo Tzir Filadelfi e lungo la strada di Netzarim, oggi il fratello di Sinwar starebbe preparando il secondo Sette Ottobre. L’anno in cui mentre tutti i servizi di sicurezza imploravano di non attaccare Hezbollah perché troppi erano i missili di cui disponeva (250mila), stupefatto il mondo ha visto l’operazione dei beeper e l’uccisione di Nasrallah, oltre alla scoperta sui confini del Libano con Israele di tunnel come quelli di Hamas, pieni di armi e attrezzature per invadere Israele. E anche Putin, minacciosamente affacciato dalle alture del Golan proteggendo Assad, uno dei peggiori assassini del nostro secolo, dopo avere ospitato Hamas a casa sua e essere diventato il migliore socio dell’Iran con l’acquisto dei droni omicidi per Kiev, ha dovuto sloggiare; l’Iran ha visto il suo Assad fuggire, e Putin accogliere lo sconfitto a Mosca mentre Israele entrava in Siria a sorvegliare che le milizie islamiste non si appropriassero delle armi. L’assedio era finito.
Il 2025 non ha la stessa carta geografica per Israele: ha riconquistato i suoi confini; ha dentro Gaza, in Libano, in Siria una barriera di sicurezza militare; l’Iran indebolito minaccia ancora la costruzione della bomba atomica, ma gli ayatollah sanno che Israele, che ha giurato di impedirlo, avrà dalla sua parte il nuovo presidente americano Trump e che il loro regime trema. Non accadrà che a Israele venga minacciata come nel marzo del 2024 da un embargo di armi come quello usato da Biden. Sotto traccia non vi è oggi uno Stato Palestinese come quello di Hamas, che comunque controllerebbe Abu Mazen: nel futuro un’alleanza coi Paesi Sunniti disponibili a un nuovo Patto di Abramo. Se i Palestinesi intendono partecipare, dovranno provarlo. Nessuno si aspetta che l’anno prossimo sia una passeggiata, 100 rapiti sono ancora nelle mani del gruppo più crudele del mondo, Israele li tiene al centro del suo futuro. Uno a uno si piangono 823 soldati che in quel Paese piccolo restano il miglior allievo di fisica, il miglior musicista, la migliore maestra, il miglior falegname, il più dolce dei figli e dei mariti. E Israele fronteggia adesso anche la sfida della calunnia paranoica, il blood libel antisemita violento e demenziale che è linguaggio comune dei media, della sinistra, del mondo islamista.
È stato l’anno in cui abbiamo scoperto quanta rabbia susciti in una massa che si illude di parteggiare per i diritti umani il concetto stesso che un ebreo si difenda per sopravvivere. Quanta fatica faccia cercare numeri veri, informazioni attendibili. Quanti giornalisti sparino false notizie non verificate. Quanto l’inimicizia dell’ONU diventi persecuzione tramite i tribunali internazionali. Ma forse la novità del 2025, in cui Israele vive e ha ripetuto la sorpresa del 1948 e del 1967, convincerà i suoi nemici a una pace diversa, quella di una realtà smascherata e superata.
I successi di Netanyahu nella guerra di rinascita per Israele

Il Giornale, 28 dicembre 2024
Nella resistenza millenaria alle persecuzioni che ha consentito la sopravvivenza del popolo ebraico, rifulgono i leader: sono tanti fin dalla Bibbia. Mosé, eroe della libertà dalla schiavitù egizia, padre della legge che ha fondato il mondo moderno, e poi Judah Maccabi, Tuvia Bielsky, Mordecai Anielewicz, Hanna Senesh, gli eroi del sionismo. Oggi alla loro lista si aggiunge il nome di Benjamin Netanyahu, con la sua sfida al mondo che ha restituito a Israele il ruolo di responsabilità e di eccezionalità che il 7 ottobre gli aveva strappato. Guerra di rinascita. La sua determinazione a stroncare il mondo islamista dell’odio, a fronteggiare le imposizioni americane e la diffamazione antisemita dell’Occidente in questi 15 mesi di guerra, a rifiutare il cessate il fuoco lasciando in vita Hamas ed Hezbollah, ha restituito la vita a Israele e ha distrutto il piano di dominio dell’Iran che era una minaccia per il mondo intero. Ha anche emarginato il dominio russo dalla Siria, ha creato le premesse per una vera pace coi Paesi moderati.
Netanyahu la mattina del 7 ottobre fu chiamato alle 6:29, si trovò di fronte 1.200 omicidi, un’antologia di odio genocida; subito dichiarò la guerra che ancora dura mentre già si sollevava l’antico odio antisemita nel mondo: un leader che guida un governo di destra, quindi inviso a Onu, Ue, all’America di Biden, ha mantenuto un Paese unito nella guerra nonostante la persecuzione delle organizzazioni come la Corte internazionale di giustizia e il Tribunale Penale Internazionale che hanno preteso di farne un genocida; ha sopportato un attacco dell’informazione; ha accettato il processo che lo segrega sei ore tre volte a settimana con accuse politiche; ha affrontato il suo proprio dolore per i rapiti, per gli uccisi, per l’antisemitismo e ha pensato, disegnato, si è contrapposto a chi gli chiedeva di non andare a Rafah, e questo è stata una dimostrazione di fede in Israele. Netanyahu è entrato a Gaza che già il mondo gridava «cessate il fuoco» e ha sostenuto la minaccia di Biden di bloccare l’invio delle armi se avesse deciso di entrare a Rafah.
Bibi ha dovuto aprire il fronte degli Hezbollah. L’esercito ha mostrato un incredibile valore, le riserve sono tornate più e più volte al fronte lasciando famiglie e lavoro. Anche qui, Netanyahu ha agito nonostante molti sconsigliassero di battersi: distruggeranno Israele coi loro 250mila missili iraniani, dicevano. La strada però il 24 luglio al congresso Usa si apre quando Bibi sente il caloroso supporto per l’Israele del confine, del sogno di essere un popolo libero nella propria terra. Il 17 settembre, sempre fra mille discussioni interne, esplodono i beeper degli Hezbollah, e si prepara anche l’impossibile eliminazione del diabolico capo della resistenza organizzata dagli iraniani: il 24 Nasrallah muore nel bunker, e a Gaza il 16 ottobre Sinwar viene incenerito. Quando l’Iran ad aprile e a ottobre pensa di terrorizzare e forse distruggere Israele con missili balistici, Israele si leva in volo, coadiuvata da Gb, sauditi, americani. La coalizione del futuro è già là, mentre crolla il domino russo in Siria, Assad fugge sgomberando l’autostrada delle armi iraniane verso il Libano. Bibi è tornato adesso con un elicottero sulle alture siriane dove ha combattuto nell’unità speciale. In alto un cielo da cui adesso, finita l’operazione contro la minaccia Houthi, si può passare liberamente per colpire l’arma atomica iraniana in costruzione, operazione già discussa con Trump.
Essere un popolo libero nella nostra terra, dice «Ha Tikva» «La Speranza», l’inno ebraico. Netanyahu ha viso pallido e occhi stanchi, ormai gli si vedono i 75 anni, e sembra un po’ Churchill.
Grazie per i Vostri commenti
A tutti coloro che mi hanno fatto l’onore di usare il loro tempo per rispondermi, grazie. GRAZIE DELLE LORO PAROLE PIENE DI CORAGGIO E DI SAGGEZZA: NON è FACILE CONTRAPPORSI ALL’ONDATA DI CINISMO E IGNORANZA CHE CI SOMMERGE DAL 7 DI OTTOBRE. Da più di un anno mi impegno a spiegare che cosa sta veramente accadendo in questa guerra di sopravvivenza che il Popolo Ebraico, contro tutte le vergognose calunnie, le stupidaggini, gli errori storici e morali che vengono volutamente o inconsapevolmente diffusi contro gli ebrei e contro questo piccolo Paese, aggredito con lo scopo di distruggerlo. Si chiama antisemitismo, e non è mai sparito nei millenni: oggi ha la veste dell’odio contro Israele. Ma Israele ha dimostrato che si può vincere anche dopo la più terribile aggressione con lo spirito di sacrificio, l’amore per la propria terra, la determinazione morale a sconfiggere il terrorismo e i suoi sostenitori e a difendere non solo la propria vita, ma quella di tutto il mondo libero e democratico.
Israele l’ha fatto combattendo nelle condizioni più difficili, circondato dai nemici armato dall’Iran su sette fronti; li ha affrontati con le unghie e coi denti e ha sconfitto Hamas, gli Hezbollah, ha messo l’Iran in un angolo, ha aperto la porta, inducendo anche la fuga dei Russi dalla Siria, alla cacciata di un dittatore feroce, Bashar Assad. Il futuro è ancora tutto da conquistare, i rapiti devono ancora tornare casa in buona parte, e il mondo deve ancora arrivare a capire l’errore che ha fatto lasciandoci soli. Ma accadrà, e noi saremo insieme grazie al vostro importantissimo sostegno. Col vostro aiuto scrivo e parlo ogni giorno.
Cade un altro muro dopo Hezbollah e la Siria. Gli ostaggi a casa: una vittoria per Netanyahu

Il Giornale, 18 dicembre 2024
L’odierna trattativa, forse definitiva o forse ancora in fieri, per il rilascio degli ostaggi è tuttavia significativa e importante come la subitanea caduta del regime di Assad, come il crollo di Hamas e degli Hezbollah; è un altro muro che cade nel fronte feroce e determinato alla distruzione dello Stato d’Israele. Mentre si sgretola, sullo sfondo l’Iran e la Russia siedono sempre più spaventati. L’inviato di Trump per i rapiti, Browler, è in zona; Biden, ha detto che sa che le cose vanno avanti. Al Cairo o no, le parti si incontrano concitate e parlano fitto. È la migliore maniera per Netanyahu di spiegare, una volta per tutte al mondo come la sua guerra cerchi una vittoria vera, che sia tale per tutti, in primo piano la gente di Israele, e che figuri un Medio Oriente bonificato dai terroristi ormai sconfitti. Su Netanyahu è stato scritto che la sua scelta di combattere senza accettare diktat americani Hamas e poi gli Hezbollah non aveva sfondo strategico, era la sua risposta dura al 7 ottobre. O peggio ancora, che era una maniera di proteggere la propria coalizione con la guerra.
Netanyahu ha collezionato senza piegarsi le peggiori critiche, senza deflettere da quella che alla fine si è disegnato come un quadro strategico: ma manca un punto principale, la seconda puntata dei rapiti riportati a casa. Anche l’Iran è lo sfondo strategico indispensabile: ma i rapiti sono un pezzo di cuore del popolo ebraico, una riparazione per il futuro ferito d’Israele; in più c’è l’aspetto politico, la durissima opposizione a Bibi nel chiedergli uno scambio senza condizioni mentre si alleava con le famiglie disperate ha indebolito la trattativa rafforzando il ricatto, giorno dopo giorno. È adesso che da una posizione di sicurezza sul campo di battaglia Netanyahu può trattare, cedere sul numero dei prigionieri terroristi senza però lasciare le vie di controllo Filadelfia e di Katzerin, così che Hamas non si riformi come sa e come vuole fare. Le famiglie seguitano a chiedere le restituzioni di tutti insieme, la destra che non si liberino i terroristi: Netanyahu andrà per la sua strada, Hamas e più morbido dopo la minaccia di Trump di distruggerlo se non restituisce gli ostaggi prima del 20 gennaio; Israele è molto più forte. Bibi torna da vincitore nella storia, anche se quando i rapiti torneranno a casa seguiterà l’interminabile infinito scontro in Israele fra destra e sinistra. Ma bisogna essere davvero cinici per criticare il Primo Ministro, come fa la stampa che gli dà la caccia tutti i giorni, per aver chiesto licenza ieri dalle sei ore in tribunale dove lo si interroga tre giorni a settimana sui regali di sigari e sulle captatio benevolentiae giornalistiche.
Ma adesso è lui, di nuovo, che tesse gli ultimi particolari di un possibile accordo senza rese, generoso ma prudente. I rapiti sono amati uno a uno: ciascuno ha un nome più noto di quello di una star, un volto, tutta la gente di Israele ne riconosce le fattezze, Oded che ha 84 anni, Liri che ne ha 19, Romi, Segev, e Kfir, cuore di ognuno, che ha compiuto ormai da tempo un anno nelle mani dei torturatori e aguzzini… ha ragione la massa delle famiglie che ha ripetuto che senza di loro nessuna vittoria è vittoria, che la guerra la vince solo il loro ritorno a casa, perché è regola di Israele, e solo di Israele, di non lasciare mai nessuno indietro.
Trump e Netanyahu, obiettivi precisi. Al centro del cerchio di fuoco c’è l’Iran
Il Giornale, 14 dicembre 2024
Al centro del cerchio di fuoco che esso stesso aveva costruito, adesso, ironia della sorte, si trova l’Iran: la Repubblica Islamica non sa quale sarà il suo destino, neppure il tiranno Assad ha ritenuto opportuno andarsi a rifugiare a Teheran, preferendo nascondere la sua vergogna a Mosca. Trump alla vigilia del suo mandato ne minaccia direttamente, come non mai, le aspirazioni atomiche; Israele disegna un nuovo terreno mediorientale sminato dall’odio jihadista avendone smontato tutti i piani. Due paragoni storici valgono a capire la situazione attuale; tutti e due spiegano la vittoria di Israele, e la sconfitta iraniana. Il primo è quello dell’attacco preventivo del 1967 con la Guerra dei Sei Giorni, quando l’aviazione israeliana attacco le forze aeree egiziane ancora a terra prevenendone l’attacco programmato per distruggere Israele insieme ai siriani e ai giordani. Da là, più avanti, dopo la sconfitta subitanea del nemico, nacque la pace con Egitto e Giordania.
La veloce distruzione delle armi siriane e le truppe sul Golan indicano questo: un futuro in cui i jihadisti sia sciiti (gli Hezbollah), che sunniti, i nuovi padroni della Siria, siano costretti alla pace. Il secondo paragone mette audacemente insieme il collasso di Assad con la caduta del Muro di Berlino. Siamo nel 1989. Cade il muro, e poco dopo l’Unione Sovietica cessava di esistere. Evoca la storia Mehrdad Marty Yussefiani, iraniano e americano, membro del Jerusalem Center for Security and Foreign Affairs. Adesso, è il regime iraniano che può fare la fine dell’URSS. Netanyahu in un messaggio di giovedì al popolo iraniano lo ha invitato all’azione e alla speranza: ha ricordato che venti miliardi di dollari, mentre in Iran manca tutto, sono stati spesi per i piani imperialisti dei loro tiranni. La guerra di aggressione, ha detto, caratterizza la loro politica, Israele ha vinto nel verticale crollo del disegno di appropriarsi del Medio Oriente e di distruggere Israele. Il Primo Ministro ha detto in persiano “donna, vita, libertà”, unendosi al movimento di liberazione dei tiranni e annunciando eventi che, dice, verranno prima di quanto ci si aspetti. Netanyahu non parla nel vuoto. Sa che Khamenei minaccia ma è di fatto in difficoltà come non mai: tutti i piani sono saltati, fu lui a dire che “il 7 ottobre era l’evento più importante della storia della resistenza”, e adesso il suo “asse della resistenza” è smantellato.
Gli Hezbollah, il suo braccio destro, sono stati sgominati insieme a Hamas; adesso, è stata stroncata con un’azione mai vista prima ogni possibilità che le armi accumulate in Siria, la roccaforte del piano di dominio sciita, passino nelle loro mani. Tutto è stato prosciugato dall’attacco fulmineo di Israele almeno per l’80 per cento: i missili antiaerei coi sistemi più avanzati, SA22 e SA17, gli squadroni di aerei SU22 e SAAU24, il 100 per cento dei droni esplosivi, altri 390 obiettivi fra cui sistemi di attacco, radar, ogni accumulo di armi chimiche e di altro tipo, fabbriche e depositi… Iraniani e libanesi sono spariti dalla scena che era fino a ieri casa loro, solo un passaggio di frontiera col Libano esiste ancora ed è ben sorvegliato. I cieli sono liberi: un aereo israeliano o di altro tipo che sorvolasse adesso Damasco, avrebbe poco da temere dai nuovi padroni, i sunniti di Hayat Tahrir al Sham. Erdogan che li ha spinti e protetti osserva per ora le possibilità che persegue di trasformare in dominio ottomano l’arma pesantemente jihadista di al Julani.
L’avvento di Trump però vale anche per lui, il fallimento di Khamenei è un’indicazione potente che la partita deve essere conclusa per garantire la pace che Trump chiede con determinazione a tutti prima di prendere possesso della Casa Bianca. Vale anche per i sunniti, ed è dalla parte di Israele. Per questo ha detto che intende prevenire la bomba iraniana, molto prossima secondo tutte le osservazioni dell’IAEA. C’è la possibilità che se ne occupi Israele, ma anche che i suoi aerei debbano alzarsi in volo. Si può fermare, dice, Khamenei, con sanzioni, regole, navi, armi a Israele, bombe “bunker busting”. Se non funzionasse… si vedrà. Ma ha già detto abbastanza, mentre Israele dimostrava, sul terreno, che è finito il tempo per la jihad di credere che un interlocutore credulo e moscio cada in trappola e diventi di nuovo la vittima designata del prossimo massacro. Per ora sgomberare dalla bomba iraniana per un nuovo Medioriente è l’obiettivo. Prima l’Occidente se ne rende conto, prima perseguirà la pace che desidera.
Sigari, champagne e pregiudizi: Bibi ne uscirà assolto (e più forte)

Il Giornale, 11 dicembre 204
Corrotto, corruzione... questa parola è stata appiccicata a Netanyahu da anni come complemento di una evidente odio politico. È un classico: guerrafondaio, non democratico, spietato in guerra… Certo, è corrotto. Ieri però Netanyahu ha preso molto ossigeno: “Ho aspettato otto giorni questo giorno” ha preso a raccontare, e il processo aperto in tempi assurdamente inadatti, sembra un incauto passo dei suoi nemici. Al momento fornisce al Premier, come ha detto martedì durante la sua prima deposizione, la possibilità di parlare e fare ascoltare, in termini strategici, la verità di un leader perseguitato dai media e dai suoi oppositori in quanto Primo Ministro di destra, con tutti i mezzi. Eletto troppo a lungo, amato da troppa gente, l’élite nel solco della storia laburista lo aborre; il processo può mostrare come questo, in tutto il mondo, si sia trasformato in violenza e denigrazione, come si cerchi di nascondere sotto un monte di fake news la capacità eccezionale di chi ha condotto Israele, dopo la palude di fuoco del 7 di ottobre, a una situazione in cui i suoi peggiori nemici sono ormai distrutti.
Netanyahu ieri ha raccontato se stesso, ha spiegato non il processo, ma come la sua determinazione ha trascinato il Paese ferito a morte in una battaglia che ha destrutturato l’asse del male guidato dall’Iran. Netanyahu ha deciso di parlare di sé, della sua scelta di fondo di dedicarsi a battere il nemico più pericoloso l’Iran, con Hamas e Hezbollah. Dunque, in una situazione paradossale ieri si è visto un leader che fronteggia sette scenari di guerra tutti in fasi decisive, che deve decidere a ogni istante che fare con l’esercito siriano mentre si disegna un nuovo Medioriente, che sta trattando minuto per minuto il rientro dei rapiti, costretto invece, a scendere tre volte a settimana in un bunker due piani sottoterra per sei ore al giorno per rispondere su domande relative a sigari e giornali. Netanyahu non ha ricusato il processo, anche se molti dicono che avrebbe dovuto rimandare: lo si fa anche per matrimoni e funerali, Bibi aveva chiesto due giorni invece di tre la settimana, ma ai giudici non è piaciuto. Lui ha mantenuto un umore gioviale, è rimasto quattro ore in piedi, la sua scelta è stata raccontare la sua vita dedita a Israele e il suo successo strategico, indicando così la povertà del momento. L’accusa più grave è relativa a casse di champagne e a sigari: Netanyahu dice che odia lo champagne, che non ha tempo di fumare sigari, non si è quasi accorto di una captatio benevolentiae da parte del milionario Minchen che voleva essergli amico e mandava regali per compleanni e feste, e con cui forse la corruzione sarebbe rappresentata da un aiuto per un visto per gli USA.
Le altre due accuse sono riferite ai media: Netanyahu avrebbe ascoltato la proposta del padrone di Yediot Aharonot, un giornalone, di favorire una legge contro il giornale gratuito Israel Hayom in cambio di una copertura più pietosa. Il giornale gratis viene tuttora distribuito a ogni angolo. Nell’ultimo caso, Netanyahu è accusato di aver firmato nel 2010 una regola a favore della compagnia Bezec Telecom, a vantaggio del padrone del giornale on line Walla, Shaul Elovitch. Solo che Netanyahu lo ha conosciuto solo nel 2012. Né Walla ha mai mostrato simpatia per Netanyahu.
Nel giugno 2023 i giudici suggerirono all’accusa di lasciar cadere le accuse, citando “difficoltà” nel definirle. Il consiglio fu ignorato. Con un castello di accuse così fragile in un momento tanto importante il Primo Ministro è costretto nel sotterraneo. Ma all’aria aperta, Israele, secondo la strategia perseguita per anni da Netanyahu ha battuto l’anello di fuoco dell’Iran e ora distrugge la possibilità che un fronte jihadista prepari nuove conquiste dalla Siria. Dal processo, il Primo Ministro di Israele ha annunciato che resta sul fronte.
L'Asse del Male finito il 7 ottobre

Il Giornale, 09 dicembre 2024
Il mondo è cambiato con la caduta di Assad, e non solo il Medio Oriente. La ragione sta in un subitaneo scivolamento delle “fiches” dell’asse del male l’una sull’altra, tutte di colore nero: questo movimento continua, tocca fino Mosca, chiede risposte dall’Occidente, dal Lontano Oriente, dall’Africa. Perché se la sua caratteristica è che i malvagi uno a uno perdano, non è tempo di cambiare strategia, di puntare alto, un po' per tutti? I leader degli assassini, i terroristi di Hamas (come Sinwar), di Hezbollah, (come Nasrallah) sono stati uccisi; oppure come Assad, il dittatore che ha ucciso col gas venefico mezzo milione dei suoi cittadini, sono fuggiti. Quale che sia il futuro, oggi i piani del “cerchio di fuoco” che parevano guidare la danza sono finiti, chiusi; i grandi capi della vicenda sono stupefatti e dolenti, in particolare gli Ayatollah e Putin.
Vero, un dittatore, il turco Erdogan, vive un momento di felici aspettative perché i sunniti, che in Siria sono il 70 per cento, guidati da Hayat Tahrir al Sham e dal suo amico al-Julani gli crea spazio per i suoi disegni espansionisti. Ma in Siria i Curdi che occupano il 40 per cento del territorio non intendono accettare che il loro peggiore nemico dilaghi, e forse al-Julani, che si esprime in maniera cauta, vuole rafforzare il suo potere. La grande jungla non è diventata un boschetto. Ma questo, fa parte della storia del Medioriente e Israele dopo aver bombardato un paio di depositi e fabbriche di armi di distruzione di massa (gas Sarin, forse, e altro) e aver stanziato per la prima volta dal 67 qualche carro armato nella zona cuscinetto del Monte Hermon, dalla parte siriana, è consapevole che i nuovi padroni non sono amanti di Sion. La storia è stata fra le più concitate possibile, un regime pronto a tutto da 53 anni è stato rovesciato in poche ore, e quasi senza violenza. Ma l’inizio della fine del cerchio di fuoco che ieri ha preso l’ultimo colpo, è il 7 di ottobre del 2023 quando dilaga la spaventevole fuoriuscita di orrore, con cui Hamas credette di poter fare a pezzi lo Stato di Israele. Doveva essere la fine dello Stato Ebraico il grande piano congegnato con la leadership iraniana gli Hezbollah invincibili, superattrezzati con 250mila missili. Con loro l’Iraq e i Houty, e a guardia di Assad, la Russia di Putin con gli hezbollah. Le armi iraniane passano tutte dalla Siria.
Solo due giorni fa a Doha la Russia, l’Iran la Turchia, siedevano con cinque stati arabi. Già si leccavano le ferite, spostavano le pedine… e poi, la Siria: il ministro degli esteri iraniano Abbas Araghchi, nervoso e stravolto racconta che ha chiesto invano più volte all’Iraq di intervenire; Sergei Lavrov si spazientisce col giornalista di al Jazeera: quello gli chiede quel che succederà col porto di Tartus o l’aeroporto di Hmeimim, da cui la Russia tiene il Medioriente per il collo, e Lavrov risponde “insomma, vuoi che ti dica che abbiamo perso!” e poi passa all’Ucraina, dove per altro è in crisi il rapporto con un’Iran basato sui fruttuosi droni contro Israele e contro Zelensky. Ambedue hanno perso tanti miliardi e tempo a Gaza, a Beirut, a Damasco. L’Iran teme, raccontano adesso da Teheran in molti, che la sua sconfitta si trasformi in un rovesciamento del regime; potrebbe avere una crisi isterica e passare alla bomba atomica, anche se l’attacco del 26 ottobre dei cento F35 lo ha lasciato quasi senza missili balistici e sistemi di difesa. E i suoi Hezbollah dopo il fantasmagorico attacco dei beeper e poi la fine dell’invincibile Nasrallah, sono l’ombra di sé stessi. Israele ha sconfitto l’asse del male. La leadership della Jihad Islamica è scappata da Damasco e si è rifugiata a Teheran. È chiaro che la sconfitta dell’asse sciita fa posto ai sunniti che contano anche le peggiori organizzazioni terroriste. Esse hanno l’appoggio di Erdogan. Ma il fattore Trump per cui Putin e Khamenei hanno lasciato perdere Assad, può avere un suo riflesso speculare sulla parte sunnita, più esplicitamente interessata, in alcune componenti, a un rapporto con gli USA e anche con Israele.
Inoltre Israele ha imparato la lezione: non tornerà al 6 di ottobre. L’Iran battuto e spaventato non è diverso dalla vecchia entità fanatica e violenta che marciava vittoriosa: Israele deve tener presente come primo fronte quello della bomba atomica. Da una parte ha di fronte Juliani, da verificare, e Erdogan che potrebbe anche giuocare il ruolo di domatore degli estremisti. Dall’altro Khamenei che certo sta già progettando la puntata nucleare della guerra contro Israele e l’Occidente.
La scure anti Hamas di Trump
Il Giornale, 05 novembre 2024
“Che questa verità serva a chiarire”, dice Trump nel messaggio in cui minaccia Hamas che “se Hamas non restituisce i rapiti entro il 20 di gennaio la punizione sarà la più dura di tutta la storia degli Stati Uniti”. È una svolta non solo pratica, ma conoscitiva. È la parola verità che la crea. Trump, infatti, identifica finalmente in Hamas l’unico responsabile delle atrocità, della vita e della morte dei 101 essere umani nelle sue mani: e si stupisce, e quanto a ragione, che se ne chiacchieri e si esclami, senza decidere per un’azione. La parola verità nella melma antisemita che ha invaso il mondo dopo il 7 di ottobre ha cancellato assassini e vittime, gli ha scambiati di posto, ha riempito il mondo di porcherie storiche e politiche, di folle impazzite. Il rovesciamento della verità per cui una mandria di migliaia di assassini ha fatto a pezzi, uno ad uno e per scelta, famiglie innocenti si è trasformata in odio per gli ebrei e in minaccia per l’Occidente.
Adesso, con questa decisa presa di posizione di Trump, si è alzata una bandiera mentre si sta organizzando un gruppo di governo che sembra orientato a fronteggiare la violenza non solo di Hamas, ma anche quella dell’Iran coi suoi proxy. Hamas è quello che deve essere: il solo colpevole. Da una parte il bene, Israele e i suoi rapiti, e dall’altra il male, Hamas e chi gli sta dietro. Questi, soccomberanno. È un punto di vista andato perduto dal 7 di ottobre anche qui: lo slogan “Bring Them home” rivolto a Netanyahu, ha spesso sottinteso che la maggiore responsabilità non fosse di Hamas ma di Bibi. Le manifestazioni di strada in Israele, confuse dall’odio politico, accusando Netanyahu di non volere una tregua per tenere in piedi il governo (la tregua col Libano ha smentito nei fatti questa idea), si sono trasformati in manna per Hamas, che ha alzato il prezzo di un accordo che non si mai profilato da parte di Hamas se non al prezzo della sopravvivenza del regime di Gaza. Hamas, e l’ha confermato Blinken insieme a Biden stesso, ha rifiutato tutti gli accordi cui invece Israele era disposto, salvo tormentare e poi giustiziare vilmente i rapiti (si è conosciuto ieri un nuovo episodio) non dimenticando mai di fomentare lo scontro e il tormento di tutta Israele. Adesso è finita: se i rapiti non vengono a casa, se la società occidentale è investita da un’aggressione totalitaria violenta, questo deve essere fermato a ogni costo. Non con inutili regalie, con aiuti umanitari di cui si impossessano i terroristi, con calunnie verso Israele, nemmeno dando spazio all’attacco politico che rafforza palesemente il nemico mentre si combatte una guerra indispensabile e il più possibile contenuta nonostante gli scudi umani. Lo slogan finalmente non è “Bring Them Home”, portali a casa, ma “Let My People Go” lascia andare la mia gente.