Usa e Russia in pressing. «Reagite, non esagerate»
Il Giornale, 07 agosto 2024
Adelante Pedro, con juicio. Difficile pensare che Putin e Biden abbiano letto Manzoni, ma l’ironia della richiesta al cocchiere nei Promessi Sposi, che parla di doppio registro e di ipocrisia, si addice benissimo alle due parti che alla fine scrutano la possibilità di uno scontro micidiale, forse di una guerra mondiale. Ma Putin non si è peritato, prima, di fiancheggiare l’asse degli assassini, rifornirli di armi, accendere tutti i possibili falò; Biden, su tutt’altro registro, quello morale che comunque si addice al fronte democratico, di cedere tuttavia a molti luoghi comuni che hanno imposto a Israele di combattere con una mano sola. Non importa: adesso che gli Iraniani e gli Hezbollah si esercitano nella gara di chi promette una fine più sorprendentemente spaventevole a Israele e che ormai ieri si segnalano movimenti di truppe e di mezzi da combattimento sul territorio dell’Iran e dei suoi proxy, mentre il comandante del Centocom Michael Kurilla arrivava in Israele, nello stesso Sergej Sojgu, il segretario del consiglio di sicurezza russa arrivava a Teheran. Secondo l’agenzia Reuter il presidente russo Vladimir Putin attraverso il suo diplomatico, uno dei più fidi e importanti, ha chiesto al supremo leader Ayatollah Ali Khamenei di contenere la risposta per l’uccisione del leader di Hamas Haniyeh a Teheran. Il Cremlino non commenta la rivelazione, ma ha fatto sapere che con l’Iran Sojgu ha parlato dell’uccisione di Haniyeh. Putin l’aveva già condannata, accusando di vigliaccheria e criminalità, e questa è bella, gli assassini mirati. Il rapporto di Putin con tutto il fronte della guerra all’Occidente è fatto di un disegno di dominio prima di tutto europeo che si radica nell’assalto all’Ucraina, proprio come quello Iraniano punta innanzitutto a Israele avanzando in tutto il Medio Oriente e poi nel mondo. Ambedue fronteggiano l’Occidente democratico.
Le condoglianze di Putin dopo il 7 di ottobre non si sono mai accompagnate con una condanna, anzi, nemmeno tre settimane dopo l’eccidio una delegazione di Hamas era già al Cremlino. A questa si sono succedute una quantità di incontri strategici, in due, in tre (Hamas, Iran, etc.) durante i quali sono stati rinnovati gli accordi già stretti per rifornimenti di armi sofisticate come il sistema di difesa aerea S300 e anche per decine di caccia da combattimento Sukoi 35, tuttora in fase di fornitura; l’Iran fornisce alla Russia gli stessi micidiali droni che sanno volare basso tanto da non essere identificati prima di suicidarsi su obiettivi come quello in Israele di oggi, un’autostrada civile dove sono state ferite decine di persone che guidavano, di cui una in fin di vita. La Russia disegna col suo intervento la preoccupazione di doversi trovare a fronteggiare uno scontro mondiale incontrollabile; e anche gli Stati Uniti mentre muovono alla luce del sole le loro navi da guerra e i loro aerei da combattimento pure premono su Israele perché non pretenda di rompere l’assedio soffocante, una catena di minaccia che la circonda da tutte le parti e di fronte alla quale, in modo un po' paradossale, resta in attesa. L’opzione di attaccare a sua volta per lo Stato Ebraico è ovviamente sul tavolo, dopo aver subito dal 7 di ottobre una serie di aggressioni esistenziali a cui ha solo risposto, e che promettono di riprodursi senza fine. Ma Blinken naturalmente a sua volta punta a contenere la possibilità di uno scontro verticale, e ieri ha ripetuto in modo un po' trasversale, mentre si rivelava che l’Iran e Hezbollah preparano i missili, che prima di tutto Netanyahu dovrebbe lasciare Gaza, uscire da là e firmare qualsiasi accordo per i rapiti; certo Biden, e Blinken che ha verbalizzato questi desideri americani anche ieri, comprende benissimo che Hamas non ha nessuna intenzione di consegnare la sua unica assicurazione sulla vita, i rapiti, e che cerca solo il riarmo che può realizzarsi se Bibi decide di lasciare l’indispensabile “Tzir Filadelfi”, il confine di rifornimento verso l’Egitto.
Lo scenario della grande divisione mondiale in due fronti comunque, anche se ci cerca di metterci qualche cerotto, è di ora in ora più chiaro. Il giornale libanese di Hezbollah Al Akbar mette in prima pagina un bel panorama di Tel Aviv e la minaccia “stiamo arrivando”. Ma il tentativo di spargere il panico non funziona, l’esercito ha in questi mesi, insieme alle incredibili operazioni guidate da perfette informazioni, ristabilito la fiducia della gente in Israele. L’esercito è sicuro di sé, l’aviazione in perfetta forma. La discussione sul governo riguarda semmai la disponibilità di Netanyahu a lasciare andare per accettare la richiesta americana di lasciare Gaza. Prospettiva poco realistica, mentre risulta molto attendibile quello che sta diventando un motto mentre si disegna la possibilità di un alternarsi di attacchi da due parti, Hezbollah e Iran: dalla difesa, Israele potrebbe passare all’offensiva. Dipende tutto da quanto le due grandi potenze sono capaci di farsi valere sui fronti di cui fanno parte. E da quanto sia evitabile l’aggressione iraniana che il mondo sciita disegna da tempo, la distruzione di Israele, lo scontro totale, la venuta del Mahdi. Si può semmai contare sui Paesi sunniti che sanno che là sta il vero pericolo. La Russia sta sprofondando in un una melma storica sempre più profonda, scavata dall’attacco all’Ucraina, e adesso disegnata dall’insieme del “fronte del male” di cui si è fatta protettore. Putin forse anche per questo cerca di fare qualche passo indietro, ma può essere tardi, anzi tardissimo.
Attesa (con sorpresa). La carta di Netanyahu è spaventare i nemici: «Pronti ad attaccare»
Il Giornale, 06 agosto 2024
Mentre il ministro della Difesa Gallant incontra nella base sotterranea a Tel Aviv gli alti gradi dell’aviazione, ancora gli ordini del comando centrale non sono cambiati. I bambini vanno ai campi estivi, si va a fare la spesa e in ufficio, il traffico è solo un po' diminuito, i rifugi sono aperti e riforniti con un po' di provviste d’acqua e crackers. Ma le parole di Gallant, come quelle di Netanyahu e di tutto il resto del governo in queste ore non sono tenere né angosciate: non descrivono l’inferno prossimo venturo, ripetono semmai che quando l’Iran e i suoi attaccheranno, per Israele non sarà un problema “passare dalla difesa all’attacco se necessario”. Così ha detto Gallant. È un concetto di cui è ovvia la consistenza: da mercoledì, giorno dell’eliminazione di Haniyeh, sia gli ayatollah che i loro aiutanti Hezbollah, gli iracheni, gli Houty, Hamas, e altri seguitano a promettere la distruzione assoluta, la morte di Israele addirittura in forme inconsuete, inaspettate. “Una grande sorpresa, qualcosa di mai visto prima” ha detto Nasrallah. Israele guarda l’orizzonte al sud, e vede, ieri per la prima volta da tempo, quindici lanci nella zona dei kibbutz straziati a morte dal 7 di ottobre; a nord gli Hezbollah seguitano nell’attacco ossessivo e mortale che irrora di proiettili il nord e ha costretto la popolazione a sgomberare.
Dall’Autorità palestinese un terrorista ha ucciso a coltellate due anziani cittadini, una donna e un uomo, che facevano jogging. Si indaga la possibilità di un’Intifada che dovrebbe funzionare da quinta colonna dell’attacco. Israele aspetta. Ma nella nebbia si comincia a disegnare l’idea che i due fronti non hanno da una parte i mitra e i missili puntati in attesa di un segnale, mentre dall’altra le anatre nello stagno attendono i cacciatori. Al contrario, lo stagno, Israele, potrebbe sollevarsi in un attimo in una minacciosa tempesta. I suoi aerei possono volare migliaia di chilometri con estrema abilita e precisione, come è successo per i 1800 chilometri percorsi per colpire i Houty; il suo sistema difensivo può parare la pioggia di più di trecento missili anche balistici dall’Iran, come ad aprile; i suoi proiettili possono distruggere le casematte e le fortezze e anche le gallerie più nascoste, come a Gaza. I suoi servizi segreti, sono ovunque. E adesso si è mosso in forze un formidabile alleato, gli Stati Uniti, capace di operare in loco undici navi da guerra e qualsiasi tipo di aerei, missili, munizioni, e forse anche, si dice, soldati “boots on the ground”. Kurilla, il capo di Stato maggiore che comanda ogni movimento del Pentagono, quello che ad aprile ha guidato la coalizione in breve coalizzata per difendere Israele, ha anticipato il suo arrivo da mercoledì a ieri; quali che siano stati gli scontri telefonici fra Bibi e Biden, che considererebbe molto fattivo e portatore di rapporti positivi col mondo arabo moderato che Netanyahu accettasse un accordo totale, senza condizioni sulla restituzione degli ostaggi, pure alla fine il fronte è solido: fa ombra sulla richiesta del Presidente la foto di quella gigantesca galleria che da Rafah, sul confine, lo Tzir Filadelfi, porta larga come un’autostrada chissà quanti armi, uomini, forse ostaggi, dentro e fuori l’Egitto.
Come può Israele rinunciare a quel passaggio? Significherebbe la ricostruzione di Hamas. Biden vuole che Netanyahu gli dica di sì sull’accordo, ed è comprensibile, e Bibi non può lasciare quel confine e quelle gallerie. E gli USA sanno che allontanarsi da Israele in questo momento invece di abbassare la tensione, creerebbe un vuoto in cui un’alleanza malefica sentirebbe che è giunto il suo momento di portare la guerra ovunque possibile, dalla Ucraina a Israele. Ma si può pensare che l’Iran non a caso abbia convocato ieri una conferenza stampa stranamente pacifista, in cui spiegava che deve per forza vendicarsi, ma che la vendetta non è propedeutica a un’esplosione generale, ma solo a una migliore educazione della feroce “entità sionista”. Sa che Israele studia il da farsi, e si interroga.
Il fronte più caldo, naturalmente è quello più vicino e più armato, il Libano, con cui non occorre solo consolidare il confine, ma stabilire un fronte che impedisca la continua aggressione. Gli Hezbollah sono l’avamposto del disegno generale dell’Iran di dominio dell’area per una rivoluzione islamica mondiale. In Libano l’Iran ha speso molti soldi, molto impegno, è il numero uno delle sue acquisizioni. Adesso, Khamenei e le Guardie della Rivoluzione certo immaginano che Israele sia abbastanza preparato da potere, nel caso anche di un attacco micidiale di Nasrallah, di distruggere questo grande sforzo strategico. In questi mesi l’esercito si è esercitato, rifornito, rafforzato come dimostrano le recenti imprese nella parte dei servizi segreti. L’Iran ha accusato il colpo, Sergej Shoigu ieri è arrivato dalla Russia a Teheran, probabilmente non solo per aiutare (molte armi e interessi russi sono partiti della strategia iraniana) ma anche per valutare la situazione: Putin non vuole uno scontro frontale che intanto potrebbe sgomberarlo dalla Siria, dove domina. Intanto al confine fra Iran e Afghanistan bruciano da molte ore strutture petrolifere con alte fiamme. Chi, come, perché, anche di questo non si sa niente.… certo il petrolio è l’unica risorsa vera dell’economia iraniana.
L' indifferenza dell’Occidente per la guerra del fronte del male
Il Giornale, 05 agosto 2024
È molto più facile, adesso, immaginare come Hitler scatenò in Polonia la Seconda Guerra Mondiale mentre l’Inghilterra e la Francia balbettavano il sogno fallito della pacificazione. Lo è, perché l’ipocrisia ha indossato la veste classica della paura della “escalation” e dell’incitazione alla pace; è di moda chiederla ovunque solo a Israele, che dall’inizio di questa storia, il 7 di ottobre, è sempre stata aggredita e si è limitata a difendersi. L’escalation è stata tutta nelle mani dell’Iran, l’ha costruita con dedizione e miliardi da decenni fino al 7 ottobre, ma su questo, silenzio. Non si sente una parola impegnativa, non si vede un dito levato sulle vere responsabilità, sulla necessità di fermare i veri assassini, sulla lunga preparazione della loro dichiarata intenzione omicida, sul rischio che comportano per tutti, sull’alleanza che l’Iran ha messo in piedi, sul fatto che Putin gli ha messo in mano aiuti militari specie nel fatale campo cyber, usando i droni iraniani contro l’Ucraina. L’Iran sta per attaccare Israele: e nessuno cita le riunioni strategiche a Mosca fra Putin, Iran, Hezbollah, Hamas. Non si preparava là l’escalation? Adesso l’Iran prepara tutti i suoi missili e altro, si organizza perché quelli che si lanciano da 1800 km di distanza o quelli balistici arrivano solo dopo ore, e quindi, identificabili in tempo, sono meno pericolosi. Così, rafforza sotto gli occhi di tutti l’organizzazione sui suoi fronti vicini, il Libano, la Siria… si espande tranquillo, la visita del ministro degli esteri giordano al ministro degli esteri iraniano in queste ore non fa alzare un sopracciglio, tutti ignorano anche il gigantesco tunnel fra l’Egitto e Gaza, sul Confine di Filadelfia, che spiega quanti uomini, materiali, armi, sono arrivati a Hamas, e indovinate chi è il mittente.
Gli americani capiscono, che qui può esplodere il mondo, e quindi stanno mandando undici navi militari, aerei da guerra, missili, e questo è un bene. Ma più di tutto sarebbe necessario sentire che l’alleanza occidentale è audace, diretta, a 360 gradi, che dichiari che Israele non si tocca perché è l’aggredito e non l’aggressore, perché è un Paese genuinamente democratico, piccolo ma geniale, carico di una tradizione plurimillenaria che è di tutta, una nave di preziosi scienziati, sportivi, artisti, soldati, scrittori minacciati da 75 anni da forze fasciste e comuniste trascinate dentro un viluppo messianico islamista omicida, di cui Ismail Haniyeh è stato un protagonista pericoloso per tutto il mondo libero. Coraggio. Questa è una guerra di sopravvivenza, di libertà, e di vita per tutti. Non si deve permettere che sia messa a rischio da un’ideologia per cui dopo il 7 ottobre Haniyeh disse “abbiamo bisogno del sangue dei bambini delle donne e dei vecchi per risvegliare il nostro spirito rivoluzionario” la zattera su cui si sono slavati dallo sterminio di massa i sopravvissuti della strage europea e cristiana per dare vita a uno stato democratico e libero. Il parlamento iraniano stesso si è gloriato ieri di essere pronto a una vendetta terribile, al di là di ogni previsione, che non conoscerà imiti e si avventerà sui civili. Dati i precedenti del 7 ottobre, possiamo immaginare, come dice Erdogan ancora a pieno titolo nella Nato, come hanno dichiarato anche gli Hezbollah, gli Houty, gli sciiti iracheni che per queste forze stia arrivando l’ora X, distruggere Israele.
Come possono i Paesi civili non approvare l’azione di guerra di Israele contro un terrorista assassino capo di Hamas, come possono invocare l’appeasement con chi si è macchiato di stragi in tutto il mondo, di impiccagioni in piazza di ragazzi condannati per dissenso o omosessualità, che paga bande di delinquenti (una scoperta in Inghilterra, una in Francia) per organizzare terrorismo in tutto il mondo? L’Iran adesso è alla testa di un gabinetto di guerra con tutti i suoi amici: se a questo gabinetto di guerra non verrà lanciato un avvertimento sul campo, che non chieda l’appeasement che non si può avere, ma la minaccia di sconfitta totale che deve essergli inflitta, minaccerà tutto il mondo. Ed è strano, ma da Gerusalemme la sensazione è che la più semplice delle cose da comprendere, che c’è un fronte del male pericoloso per tutti in armi contro il bene, sfugga alla comprensione dell’Occidente.
Israele si prepara al giorno del destino tra scatolette di tonno e sorrisi olimpici
Il Giornale, 04 agosto 2024
Gli Stati Uniti chiedono ai suoi cittadini di lasciare subito, immediatamente il Libano… uno dei tanti segnali, come la chiusura quasi completa dei viaggi aerei per e da Israele di tutte le nazionalità: l’attacco secondo tutti i segnali ci sarà, sarà duro, i correnti tentativi di ammorbidire le posizioni iraniane non fermano la imprescindibile necessità di calmare la rabbia, ristabilire la gerarchia, restituire l’onore a Khamenei e ai suoi. Il giornale del regime “Kayhan” parla di “obiettivi operativi della vendetta che comprende attacchi coordinati e diversificati usando missili di precisione e droni”. Israele si prepara, l’esercito e Netanyahu seguitano a rassicurare sulla propria preparazione “per ogni evenienza”, anche se è chiaro che questa volta la minaccia equivale a una promessa di distruzione. Come si sta, cosa si fa mentre le minacce di morte diventano sempre più dirette, mentre all’ONU la delegazione dell’Iran annuncia che Hezbollah, il suo maggiore “proxy” armato di missili di ogni genere, “sceglierà obiettivi più vasti e più profondi, non limitandosi a mirare sui militari né a strutture solo militari”? Come si resta tranquilli quando questo significa che si intende mirare sui civili, sui centri abitati, disegnare uno scontro fatale e non accettare che le eliminazioni mirate di Fuad Shukr colpito a Beirut sia una risposta all’assassinio di 12 bambini israeliani sul campo di calcio di Madjel Shams; né che l’uccisione di Ismail Haniyeh sia un atto di guerra contro un protagonista del 7 di ottobre.
La risoluzione annunciata sia dall’Iran che da Nasrallah secondo la logica mediorientale è uno squillo di tromba, annuncia un punto di svolta fatale, un florilegio di discorsi che, mentre la Russia dietro tace, disegna la minaccia all’esistenza stessa di Israele. Ma, dopo aver comprato scatolette di tonno e bottiglie d’acqua e aver verificato la pulizia del rifugio, a Gerusalemme e a Tel Aviv nel caldo Shabbat si tengono i bambini in casa, e si guardano con strenua passione le Olimpiadi: le 5 medaglie fino ad ora vinte sono diventate il sorriso di un Paese che vive e vince oltre le minacce da cui anche a Parigi è stato accolto e accompagnato. Il 24enne Tom Reuveny, che ieri ha vinto la medaglia d’oro nel wind surf, ha detto che avrebbe fatto qualsiasi cosa per sentire finalmente risuonare Hatikva a Parigi; il Judoka Peter Paltchik che ha vinto una medaglia di bronzo dopo un gioco drammatico, ha abbracciato piangendo il suo coach Oren Smadja, medaglia d’oro a suo tempo. Suo figlio Omer è stato ucciso a Gaza. Con messaggi sui telefoni, i cittadini vengono informati sull’indirizzo della fonte d’acqua più vicina, in caso sparisca dai rubinetti, e dove si trova il rifugio di quartiere. L’attacco di missili che a centinaia piombarono su Israele il 13 aprile in un’altra vendetta iraniana, fu neutralizzato sia con l’aiuto degli ottimi sistemi di difesa, che con l’intervento degli F15 coadiuvati da forze americane a anche da una cauta e silenziosa coalizione internazionale, fiancheggiata anche da Paesi arabi moderati. Il danno fu minimo: il tempo che occorre dall’Iran a Israele per un missile, anche balistico, è di dieci minuti e oltre.
Quindi per rendere più pericoloso l’attacco l’Iran vuole colpire dal Libano, dalla Siria… e ha formato un comando internazionale. Hamas ha poco ormai da offrirgli, semmai punta sulla quinta colonna nell’Autorità palestinese, e infatti stamani a Tulkarem sono stati eliminati cinque terroristi che si dirigevano in auto verso il loro obiettivo. Dal Libano e contro, soliti spari quotidiani. Si lavora adesso per consolidare la prospettiva di un robusto aiuto americano; Lloyd Austin, ha informato, mentre dodici navi da guerra si dirigono in zona, che ci sono “cambi” nell’uso delle forze americane. Biden cerca di evitare un’esplosione alla fine del suo complicato mandato. Israele sa che non è facile, adesso che l’Iran annusa un’esplosione collegabile nell’ ideologia sciita alla messianica venuta del Mahdi, lo scoppio senza confini che coinvolga non importa chi, convincerlo a calmare il bisogno cocente e immediato di ricostruire l’onore perduto. L’Iran è furioso, pericoloso come e più del solito: quando minaccia in queste ore Israele finisce sempre, come per un dovere nevrotico, per promettere morte agli USA e all’Occidente. Che sembrano rendersene conto, finalmente.
Imperdonabile debolezza. Così gli ayatollah terroristi svelano il loro vero volto
Il Giornale, 03 agosto 2024
In Israele, è un classico, ogni tassista è un primo ministro, la discussione è appassionata e diversa dall’altra: la paura non è di moda nemmeno presso i bambini, l’Iran attaccherà di certo, si dice, ma come, quando, con gli Hezbollah o da solo. Tuttii sono d’accordo sul fatto che per gli Ayatollah si tratta di un attacco necessario per preservare l’onore. Qui comincia la discussione: sarà cauto, impaurito dall’abilita prodigiosa di Israele nei due attacchi a Beirut e a Teheran? Sarà feroce? Colpirà strutture o personalità militari perché colpire i civili susciterà una guerra definitiva? Colpirà brevemente per non chiamare in campo gli americani che sono già sulla strada, o comincia un nuovo scontro senza fine? chiamerà alla lotta tutti i proxy e alleati, palestinesi, Hezbollah, siriani, iracheni, Houti yemeniti e in generale, nel mondo tutte le forze dell’islamismo messianico terrorista? A Gerusalemme il capo di stato maggiore e Netanyahu rassicurano sulla capacità di affrontare ogni scenario, ma il volto è serio, niente sbruffonate; i giornalisti tartassano i politici, le riserve di questo piccolo Paese sono già da 300 giorni spremute sui due fronti, dalla guerra più lunga della storia d’Israele, le munizioni… chissà! Dipendono in parte dagli USA, eppure Israele nelle ore di attesa ha di nuovo trovato quell’unità che le ha consentito nella storia di vincere tutte le guerre.
La strategia si è definita, dopo essere stata sfrangiata su più fronti. La complessità, la tragedia, l’aggressione omicida che torturano Israele, adesso hanno un nome solo: Iran. I due attacchi in due capitali nel giro di 7 ore hanno da una parte regolato i conti col più forte fra i valvassori degli ayatollah che aveva fatto strage di dodici bambini israeliani drusi sul Golan, e poi hanno ucciso un capo terrorista che da decenni era, come si dice qui “ben mavet”, destinato alla morte per il suo incessante lavorio omicida antisemita. E dove è stato colpito, e quando? Intanto, il fulmine è stato scagliato subito dopo quello su Shukr, li ha messi insieme: due massacratori la cui attività era legata allo schieramento mondiale per la distruzione di Israele, capeggiato da Teheran. L’occasione si è creata proprio in un pomposo momento di unità antisraeliana e antioccidentale, e l’ospitalità specifica era proprio presso le Guardie della Rivoluzione: un evidente nesso con la responsabilità iraniana nei confronti del 7 di ottobre. Così ha rivelato la fragilità di un regime tronfio d’odio che continuamente si vanta delle sue armi e dei suoi sistemi tecnologici, e allude all’alleanza con la Russia e al potere nucleare in costruzione.
Adesso, l’incapacità nel proteggere Haniyeh ricorda da vicino la nebbia in cui si sono cercati per 15 ore i rottami del vecchio elicottero nel cui collasso ha trovato la morte il presidente Raisi; e poi l’attacco israeliano a Damasco in cui è stato eliminato il generale Mohamemd Reza Zahedi e un’altra decina di Guardie della Rivoluzione. Da qui poi, la vendetta del 13 aprile con 350 missili anche balistici: ma il sistema di difesa di Israele e le sue forze aeree sono state capaci, forti anche di un’alleanza internazionale di uscire quasi indenni dall’ attacco. Anche paesi arabi sunniti hanno partecipato alla difesa di Israele, e di certo questo al momento non è un tema assente dal tavolo di Netanyahu. Impossibile dire se l’attacco che certo per lavarsi il viso l’Iran prepara sarà congiunto con Hezbollah, che negli anni è stato dotato dall’Iran stesso di centinaia di migliaia di missili di ogni genere e grado. Di certo Israele, dopo aver ristabilito in seguito allo shock fisico e morale senza precedenti del 7 ottobre, sembra aver di nuovo ritrovato il suo senso, la sua indomita forza vitale, la sua capacità di combattere. Anche la certificazione della morte di Mohammed Deif sgombra il campo per un maggiore sforzo verso nord, anche se la guerra a Gaza non è finita.
Proprio perché i due attacchi di Beirut e Teheran hanno cercato un’espressione chiara in cui c’è deterrenza ma non dichiarazione di guerra totale, gli Stati Uniti e forse l’intero schieramento internazionale di aprile hanno finalmente voglia di guardare in faccia la Medusa senza restarne impietriti. Con l’Iran gli USA hanno fatto ogni possibile zig zag, hanno lasciato perdere la verifica dell’IAEA sul programma nucleare ormai molto avanzato, hanno seguitato a consentire un flusso di denaro molto importante, evitando il tema delle sanzioni, e hanno consentito all’ONU di lasciar perdere tutte le violazioni terribili dell’Iran stesso. Adesso, Teheran ha mostrato una vulnerabilità del genere decisamente proibito in Medio Oriente: il regime, scrive l’orientalista Harold Rhode, non può permettersi di non. Intervenire, perché il popolo in gran parte non spera altro che di riprendere con successo la rivoluzione per rovesciarlo, sempre stroncata dalle Guardie della Rivoluzione. Il 14 aprile, apparvero sulle mura graffiti che chiedevano a Israele di bombardare il regime, e di lasciare al popolo il resto. Per ora, Israele pulisce i propri rifugi e li fornisce di acqua e scatolette.
Israele si prepara alla reazione inevitabile. Sinwar è solo, nascosto nei tunnel
Il Giornale, 02 agosto 2024
Non è piacevole stare fermi, in attesa di decisioni altrui che possono persino essere fatali. L’Iran convoca il Libano, l’Iraq, lo Yemen, tutti suoi proxy odiatori di Israele e dell’Occidente disegnando forse una guerra totale; o forse solo una vendetta digeribile. La Russia, che ha condannato con un particolare senso dell’umorismo le eliminazioni mirate, certo segue sullo sfondo. Nasrallah promette con un discorso su sfondo rosso sangue che la risposta all’eliminazione del suo vice Fuad Shukr, che aveva ordinato il missile sullo stadio di Madjel Shams, sarà tremenda, negando che Israele abbia risposto all’eccidio di dodici bambini drusi israeliani uccisi sul campo di calcio. A Teheran il funerale di Ismail Haniyeh ha dimensione e toni apocalittici. Le promesse di distruzione le fa il grande Ayatollah stesso Ali Khamenei: il capo terrorista palestinese appare in tutto e per tutto quello che è, un suo comandante nel fronte globale costruito dagli Ayatollah per dominare il Medio Oriente e il mondo, non un palestinese. A Gerusalemme l’attesa è discussa, rappresentata, persino oggetto di battute al supermarket dove si compra qualche bottiglia d’acqua d’emergenza, senza drammi, si sospendono i viaggi aerei, i campi estivi, si compra qualche scatoletta di tonno, verso il confine si sgomberano le fabbriche dai materiali pericolosi, la tv raccomanda ai cittadini di seguire gli ordini del “pikud ha oref”, il fronte interno, state vicino ai rifugi se siete al nord.
Chissà se la reazione verrà da tutto l’arco delle forze iraniane e degli hezbollah, se i loro missili piomberanno coordinati o separatamente… ma qualcosa l’onore mediorientale ferito impone di fare. Lo si ripete con calma. Israele però ha al suo fianco gli Stati Uniti, si ripete ricordando bene l’attacco iraniano di aprile, che la sua difesa antiaerea è la migliore del mondo, le sue forze aeree sono in perfetta salute come ha dimostrato l’operazione in Yemen in cui per rispondere al bombardamento di Tel Aviv si è volato duemila chilometri senza problemi per colpire l’obiettivo, e colpirlo bene (Teheran dista 1600 chilometri). Lo stato d’animo, dopo Beirut e Teheran è comunque rinfrancante, Israele torna capace di difendersi sul serio, capace di operazioni impossibili: si rivela finalmente che davvero Mohammed Deif è stato ucciso dall’accuratissima esplosione di Gaza, Hamas è in pessime condizioni ormai, la guerra di Israele disegna una vittoria finalmente, Sinwar è là sotto, se la vede male: i particolari dell’ eliminazione di Haniyeh, per cui è una bomba (e non un missile) era stata da tempo preparata nella “guest house” delle Guardie della Rivoluzione stesse, parla di un’operazione professionale, di lunga realizzazione, con relazioni profonde e inaspettate nel cuore del regime iraniano. La notizia definitiva su Mohammed Deif segna un nodo simbolico conclusivo, come quello dell’onnipresente, e ora scomparso, Haniyeh. La leadership, i combattenti, le strutture tutta Hamas è a pezzi. Haniyeh era di fatto incaricato di renderla una forza internazionale, base della nuova alleanza fra sunniti (era un leader dei Fratelli Musulmani) e gli sciiti dell’Iran e oltre, fra tutto l’esercito dei terroristi antioccidentale dell’una e dell’altra parte, ambasciatore dell’odio antisemita, soddisfatto ospite di Putin.
Ora senza di lui e senza l’architetto della strage del 7 ottobre, il fanatico e abilissimo comandante militare Deif, la primula rossa scampato sette morte alla morte, Sinwar ha perso la mano sinistra e la mano destra, l’ormai miliardario Mohammed in giacca e cravatta che dall’hotel a 5 stelle di Doha viaggiava al Cairo e a Mosca fingendo di gestire una trattativa sui poveri ostaggi, di fatto bloccandone ogni possibile scambio. Israele ha di nuovo mostrato i suoi veri colori, questi 300 giorni di guerra di sopravvivenza hanno ancora una volta, per ora, mostrato un Paese che se il 7 ottobre era stato visto dai suoi nemici come una vittima predestinata del loro disegno di distruzione, adesso è pronto a affrontare lo scontro generale immediato cui è costretto per salvare la sua prospettiva e quella dell’Occidente nella lunga prospettiva. Israele ha colpito sia Fuad Shukr a Beirut che Ismail Haniyeh a Teheran senza ferire le due città come avrebbe potuto: ha segnalato l’intenzione di concluderla qui, ma sa anche che il concetto di deterrenza non funziona quando l’indirizzo è quello dell’odio islamista, dell’ideologia messianica che ha come primo fine uno scontro ideologico a sfondo religioso. Iran, Libano, Siria, Yemen, per non parlare di Gaza e anche Ramallah, fanno tutti parte del primo cerchio di un immenso anello di fuoco che circonda lo Stato ebraico, e da 300 giorni compie da tutti i fronti prove di distruzione. La realtà odierna suggerisce che dopo la morte di Deif e di Haniyeh non si più visto nemmeno un missile da Gaza. E i suoi alleati, che di missili ne hanno a bizzeffe valutano in queste ore che cosa, come colpire: obiettivi militari? Obiettivi civili? Questi ultimi possono dare fuoco a tutte le polveri, e coinvolgere il mondo libero.
Doppio colpo mirato di Netanyahu destinato a Teheran. E Sinwar all’angolo
Il Giornale, 01 agosto 2024
La verità è sempre un momento di energia e di rigenerazione, anche se contiene per chi la pratica pericoli seri: ognuno di noi ne ha esperienza. Dunque nelle ultime 48 ore, Israele ha con due eliminazioni eccellenti in 7 ore, recuperato due verità dimenticate nel corso dei trecento giorni della guerra: la prima è che ancora esiste intera la mitica capacità del Mossad e delle unità di combattimento di sapere progettare colpire in condizioni impossibili. La seconda è la dimensione geografica e ideologica della guerra che Israele deve combattere, e che, se in questi mesi si è focalizzata su luoghi specifici, su Rafah, sul Golan, persino su Eilat colpita dai Houty… adesso recupera i suoi confini reali: come dice Netanyahu Israele combatte su sette fronti, ma tutti hanno lo stesso nome e cognome, si chiamano Iran, ayatollah Khamenei, Guardie della Rivoluzione. Il leader supremo ieri ha subito promesso una “dura punizione” per l’uccisione di Ismail Haniyeh a Teheran spiegando che “il regime sionista, criminale e terrorista, ha martirizzato il nostro caro ospite nella nostra casa e ci ha straziato”. È dovere dell’Iran ha detto prepararsi a vendicare l’assassinio di Haniyeh in visita (per l’ennesima volta) nella capitale iraniana per la cerimonia di insediamento di Masoud Pezeshkian, il nuovo primo ministro. Come lui anche altri ospiti d’onore quando il missile israeliano all’ora giusta è entrato nella finestra giusta si trovavano nell’ hotel superfortificato e protetto a cura direttamente delle Guardie della Rivoluzione, superprotetto dalla crema delle forze iraniane.
Un messaggio chiarissimo: Israele può arrivare ovunque, in qualsiasi momento. La brutta figura, imperdonabile in Medio Oriente, di aver fallito nella custodia del prezioso ospite ricade sul potere centrale dell’Iran, che già poche ore prima, stavolta a Beirut, aveva subito per interposti Hezbollah, l’eliminazione del vice stesso di Nasrallah, Fuad Shukr, il capo di Stato maggiore del suo proxy più utile, più vicino, meglio armato, più attivo contro Israele dal 7 ottobre al fianco dell’altro suo amico e mantenuto, Hamas. Gli eventi di certo richiedono una reazione armata secondo tutti i criteri mediorientali: l’edificio di Shukr era sito nel sud di Beirut dove abita, iperdifeso con ogni possibile sistema di prevenzione da attacchi da terra, dall’aria, da ogni dove, la leadership intera di Hezbollah. Un quartiere fatale, Dahya, da cui si disegna tutta l’attività che tiene il bellissimo Paese dei Cedri e delle tante identità sotto il tallone sciita dell’Iran: attività terroristiche e criminali, appena nascoste da una presenza parlamentare di copertura. Ma l’Iran è il burattinaio, dall’assassinio di Hariri, al cumulo di armi che ha causato l’esplosione gigantesca del porto, alla sospetta occupazione esplosiva dell’aeroporto fino alla decisione di fiancheggiare Hamas dal 7 ottobre costringendo Israele a sgomberare tutto il nord.
Shukr era stato il capo dell’eccidio di 241 soldati americani nel 1983; ieri la TV israeliana ha intervistato Efrat Abraham il cui fratello Benny fu rapito sul confine con altri due soldati dagli hezbollah e i cui corpi sono stati scambiati solo 4 anni dopo: è stato sempre Shukr, e sempre lui ha autorizzato il lancio del missile che ha fatto strage di bambini drusi uccidendone 12 due giorni fa a Madjel Shams. Dunque averlo eliminato è per Israele un atto legato alla necessaria difesa dei cittadini drusi, non un attacco a Beirut ma uno specifico impegno inevitabile in difesa dei suoi cittadini orbati dei piccoli. L’attacco, dunque, non è a Beirut, come l’eliminazione di Haniyeh non è contro Teheran: era lui il volto atroce della programmazione disinfettata della Nukba, divenuto miliardario con i soldi dei palestinesi vivendo in un albergo di Doha; ossessionato messianicamente dall’odio per Israele e gli ebrei si è spostato impunemente da Doha al Cairo a Teheran a Mosca tenendo i contatti col suo complice e capo Sinwar, sperando un giorno di riprendersi il ruolo di leader supremo.
Adesso pare che il suo successore sarà Khaled Mashal, anche lui lontano da Gaza. Haniey è stato la giacca e la cravatta dell’orrore della strage di bambini e dello stupro e genocidio di famiglie nel disegno di dominare il mondo con la sua versione assassina dell’Islam, insensibile persino alla morte di tre dei suoi figli annunciatagli in diretta tv. L’Iran è al centro della vicenda, Haniyeh era il suo funzionario, la sua morte è uno shock inaspettato. Adesso vedremo: le strutture belliche iraniane sono tutte mobilitate, Israele dichiara che la guerra non le interessa e vuole riprendere la trattativa per i rapiti. Chissà che Sinwar stavolta non ci senta, dall’orecchio della paura, della deterrenza, cioè del Medioriente come veramente è e va trattato. Israele sembra tornato dall’incubo del 7 ottobre alla verità dei fatti, alla maestria di un Paese democratico e avanzato di fronte all’aggressione della parte di mondo che odia la libertà, e la combatte. Se sarà guerra totale, questi sono i due fronti opposti, e con le sue azioni di ieri Israele l’ha reso molto chiaro.
Dopo la strage dei bambini il dilemma di Israele: "Evitare Beirut e le città". Il rischio di guerra totale
Il Giornale, 29 luglio 2024
Fra 3 giorni saranno 100 i giorni di guerra; e questa infelice ricorrenza potrebbe essere segnata dall’immersione larga e dolente in una guerra molto più grande, pericolosa, funesta fino ai confini del mondo, nel segno dell’assassinio terrorista da parte del miglior proxy dell’Iran di dodici bambini innocenti che giocavano a calcio sul campetto di Madjel Sham, cittadina drusa del Golan. Niente è tragico come il funerale di un bambino, e altri ancora lottano per la vita all’ospedale, uno è svanito nello scoppio... e non lo si trova. I drusi del Golan in parte sono appassionati patrioti israeliani, eroi di guerra che servono con grande onore; altri, fra questi anche quelli del paese colpito, hanno conservato un rapporto con la parte siriana della loro identità. Ma adesso tutti, insieme agli israeliani che oggi pregavano con loro al funerale delle bare bianche, chiedevano tutti una cosa sola allo Stato: colpisci duro, adesso, senza perdere tempo, dai una lezione indimenticabile e che metta fine alle sofferenze quotidiane dei missili: fai presto, che gli hezbollah non abbiano tempo di preparare i loro 250mila missili iraniani, e di salvare i loro capi nelle gallerie. Nasrallah è già nel profondo di Dahye, nel sud di Beirut, e ha fatto smontare le centrali più importanti dell’azioni aggressiva che dal 7 ottobre fiancheggia giorno dopo giorno Hamas con la guerra dal Nord. I cittadini sgomberati dalle città e dai kibbutz hanno già chiesto mille volte di porre fine all’esilio con una guerra decisa e definitiva, che sposti Hezbollah secondo gli accordi firmati all’ONU; oltre il fiume Litani. Non si tratta di decidere se fare la guerra, la guerra è già qui, si tratta per Israele di capire se ce la può fare a tenerla su vari fronti con un impegno gigantesco al Nord, mentre gli USA disapprovano l’allargamento del conflitto.
Gli Hezbollah hanno lanciato un loro tipico missile iraniano Falaq 1 dalle Shaba Farms, luogo simbolico degli hezbollah sul confine con Israele. Gli Hezbollah stessi in un primo momento dopo la strage avevano annunciato di aver ucciso i “sionisti”, poi visto che comunque questi “sionisti” erano drusi e bambini, la rivendicazione è stata sostituita da una negazione e addirittura da un’accusa a Israele di aver creato il disastro con uno dei missili di difesa di Kipat Barzel. Chiedono una commissione internazionale e dispiace che Borrell, il solito, gli dia retta. In realtà chi ascolta Nasrallah è chi fa parte della famiglia di aggressori, mentre il mondo arabo sunnita non ci sta, le sue tv trasmettono la storia com’è. Israele decide cosa fare: il dovere della difesa della sua popolazione ferita a morte nel caso della difesa della comunità drusa per un Paese democratico e pluralistico, assume un significato ancora più alto, e comunque i suoi profughi ebrei della zona sono disperati e chiedono azione Ma la sfida è colossale, si tratta di guerra totale: mentre ieri era in corso la riunione di Gabinetto che deve decidere, l’Iran minacciava di già di “conseguenze mai viste prima” le eventuali “azioni ignoranti del regime sionista” che porteranno a “instabilità, insicurezza e guerra nella regione”.
Hochsthtein, l’inviato di Biden in Libano in pratica ripete le posizioni per cui gli USA sono terribilmente contrari a dar fuoco alle polveri; Walid Jumblatt, il famoso druso libanese si è lanciato nel dire che è una manovra di Israele per staccare i drusi dalla Siria, ma dalla Siria invece i Drusi maledicono gli hezbollah e si staccano da Assad, autostrada per le armi iraniane a Nasrallah; La NBC libanese ha detto che sono in corso tentativi americani di spingere Israele a compiere la sua azione di guerra lasciando fare Beirut e altri centri importanti. Ma il punto è proprio questo: gli Hezbollah si servono delle strutture libanesi in tutto e per tutto e senza ostacoli da parte del governo o dell’esercito. Hezbollah è oggi purtroppo il Libano e per fermarla non c’è che da distruggere le infrastrutture di cui si serve: la prima, la capitale, l’aeroporto, le comunicazioni, le fonti di energia… Il Libano, oggi terrorizzato non ha mai fatto niente per impedirlo. Se adesso trovasse il coraggio di bloccare finalmente la maledizione integralista e messianica dell’Iran, potrebbe essere una svolta per evitare la terza guerra mondiale. Quella dell’Iran, non di Israele.
Quello che il mondo non riesce a capire
Il Giornale, 27 luglio 2024
Non riuscite a capire. La grandezza di quello che Netanyahu ha cercato di comunicare al Congresso Americano, è troppo lontana dal gioco politico che si ridisegna e invade i giornali, il woke umanitario e terzomondista sprezzante dei diritti e della vita umana. La parola guerra non ha accettato di essere coniugata con l’aggettivo “giusta” in contrasto con la palese verità della Seconda guerra mondiale, che ha dimostrato che per voltare pagina verso la strada della libertà, devi combattere fino in fondo uomini e idee che incarnano il male. Di nuovo la cronaca dei media e della politica cancella coraggio e dedizione, sacrificio e necessità. Ci troviamo ancora di fronte alla polemica sulla “società civile” rimessa subito in piedi alla meglio nel dopo Biden per ovviare ai problemi del partito democratico e stavolta porta il viso di Kamala Harris, con una strumentalizzazione che Kamala stessa dovrebbe, di fronte alla grandezza dell’attuale orizzonte storico, rifiutare: è il viso di una donna di origini orientali, di colore diverso.
Proprio per onorare un’identità che evoca una storia di discriminazione tipiche della sofferenza ebraica, che Kamala non avrebbe dovuto, subito, così, imboccare la strada della propaganda elettorale sulla fallimentare strada di Chamberlain che può oggi, ancora, portare solo a stragi e sconfitte, non a Israele soltanto, ma agli USA, all’Europa. Al Congresso Netanyahu ha spiegato la realtà di un guerra per la sopravvivenza non a parole, ma con semplicità presentando l’eroe ebreo ed etiope che ha corso a piedi più di dieci chilometri per arrivare al confine di Gaza a combattere i terroristi che stupravano e bruciavano i bambini; i ragazzi che hanno perso gli arti e tornano a combattere; i rapiti che hanno ancora sul viso non solo la sofferenza, ma anche la verità per cui gli ostaggi, schiavi, non sono solo nelle gallerie di Hamas ma anche in casa di dottori e insegnanti palestinesi dell’UNRWA...
A Gerusalemme la radio diffondeva la storia del valoroso ritrovamento dei corpi di altri quattro rapiti uccisi: un’azione coraggiosa, difficile per la delicatezza e il valore che richiede a dei ragazzi esposti alla morte in mezzo a Gaza riportare a una famiglia disperata il corpo di Maya Goren una 54enne maestra d’asilo uccisa sul lavoro e poi buttata da una parte per ricavarne benefici per Sinwar. Qui si celebrano funerali ogni giorno, di rapiti, di eroi, del soldatino Kiril Brodsky ritrovato anche lui ieri, e i genitori seguitano a resistere, si organizzano, si esprimono, criticano, tutti portano la stessa bandiera con la stella azzurra. Ieri la radio ha annunciato che “mutar le pirsum” è permesso citare la notizia di altri soldati caduti e delle loro disperate famiglie; e così mogli, madri, bambini, come ogni giorno restano dentro questa guerra; intanto, mentre la delegazione israeliana parte per Parigi per conquistare all’onore del Paese le medaglie dello sport, si sparge la notizia della minaccia di attacco iraniano a Parigi degli atleti israeliani, ovvero la promessa, mostruosa di reiterare l’attacco di Monaco del 1972. Alle tv si è mostrato il footage accompagnato dai sussurri di paura del telefonino di ragazzi che si preparano a morire e dicono al telefono mamma ti voglio bene addio, mentre in un’estasi di odio i terroristi gettano le bombe a mano dentro il rifugio.
Come per la Shoà, piano piano si racconta, a stento, l’incredibile: è vero, è accaduto, ecco una famiglia di padre, madre e due bambini coprendoli col suo corpo dice “stanno entrando guardate il pavimento”. Maayan, bellissima nel video, verrà uccisa a nove anni. Sono fatti di Israele? Di Netanyahu? Di Israele? Il mondo islamico e quello di sinistra adorano questa la loro nuova alleanza che promette potere: Kamala sarà interessata di certo al fatto che sette sindacati che rappresentano sei milioni di lavoratori americani hanno firmato una lettera che chiede di fermare l’aiuto a Israele. È un fenomeno pauroso, come la folla che ha bruciato Netanyahu in effige. È come bruciare la democrazia, la giustizia, il valore, e soprattutto il futuro del mondo democratico. Nel Congresso, però, la maggioranza era là ad applaudire, a stringere la mano a Israele, a sostenere l’aiuto richiesto. Sono quelli che capiscono, ma chissà se possono farcela.
Da Bibi il manifesto della civiltà in guerra. Dopo il 7 ottobre, il futuro è nella sicurezza
Il Giornale, 25 luglio 2024
Lui lo sa bene, e ha preparato fino nelle virgole, insieme a Ron Dermer, come nel 2015, il suo discorso al Congresso che è riuscito a rovesciare fra applausi appassionati da destra e da sinistra la narrativa antisemita che demonizza Israele. Il discorso ha portato un messaggio essenziale dal palcoscenico più importante del mondo, dall’ombelico della democrazia mondiale a fronte dell’aggressione totalitaria e settaria, dell’attacco alla civilizzazione.
Per questo Netanyahu si è allontanato dal Paese in guerra dopo il peggiore attacco subito dal 1948, finalmente alla ricerca di una giusta lettura mondiale di ciò che è accaduto, scansando l’odio per la sua persona e le dimostrazioni con un gesto della mano: il premier ha cercato, nel suo perfetto inglese, la giusta narrazione della carneficina, dello stupro, dei rapimenti, dell’attacco iraniano di aprile, del fiancheggiamento di Hezbollah ad Hamas, dei sette fronti di combattimento, dell’odio antisemita che avvolge in un’inaspettata oscurità il mondo occidentale, e anche e forse soprattutto del valore del suo popolo e del suo esercito. Bibi ha portato a Washington la difficile determinazione ad andare a Rafah contro i battaglioni di Sinwar; a conquistare il confine con l’Egitto, a seguitare a trattare per i rapiti pur continuando la battaglia... mentre tutto il mondo tenta di fermarlo e quindi di destinare Israele alla prossima aggressione prossima.
Bibi ha indicato che c’è una lezione del 7 ottobre, che la strada giusta è diversa da quello che si credeva, che il domani si disegnerà nella sicurezza o la guerra non può fermarsi e che Israele ha saputo recuperare lo spirito di battaglia e di sopravvivenza, mentre pure ha fornito un’enorme attenzione per evitare di colpire i civili, aiuto umanitario, cura di una popolazione civile peraltro nazificata nella complicità con Hamas. Il leader che da decenni ha indicato nell’Iran la testa della piovra che minaccia il mondo col terrorismo, adesso ha potuto dimostrare come sia urgente affrontare il problema poiché l’atomica islamista è quasi pronta. Era indispensabile che Netanyahu andasse a dimostrare di persona che il popolo d’Israele vive, come dice la Bibbia nonostante il dissenso di una parte dei democratici, il solito odio «tutto fuorché Bibi» dell’Israele estremista: se fosse stato un primo ministro di sinistra tali dimostrazioni non avrebbero avuto luogo. Intanto, paradossalmente, la sua estrema destra gli creava volontariamente stupidi imbarazzi. Netanyahu è un leader che ha dovuto formare il governo anche con la piccola forza di Ben Gvir, con cui non si identifica affatto. Ma tutto in questa vicenda è più grande della politica: è stato un esame a lui, per lo Stato d’Israele, per gli ebrei di tutto il mondo, una rilettura collettiva indispensabile.
Bibi ha parlato sapendo che in gioco era una posta grande, puntando sull’Iran che si allea con Russia e Cina per distruggere gli Usa e l’Europa; sa che alla parte obamiana questo non piace, ma si è riproposto così all’amore americano bipartisan, quello della cultura del confine. Bibi porta le ferite di quando era nell’unità speciale, e la memoria del fratello Joni, il capitano di Entebbe che là fu ucciso: ma è anche la quinta essenza della modernità inventiva di Israele. Non va a scusarsi ma a vantarsi mentre deve vincere Hamas per sopravvivere; deve convincere non ad aiutare, ma a combattere per se stessi e i rapiti. È uno spirito laico, pratico, inventore dei patti di Abramo, che ha gestito ogni possibile apertura di credito palestinese: ma oggi siamo dopo il 7 di ottobre.
Prima «pace» era la parola magica, la strada obbligatoria dalla Seconda Guerra Mondiale in poi. Invece come Zelensky che disse a chi lo invitava a fuggire: «Ho bisogno di munizioni, non di un passaggio», così Bibi ha dovuto rispondere alle mille domande che in quindici anni di governo e nei tre precedenti interventi al Congresso si sono assommati, si sono aggrovigliati. Hanno il volto dei rapiti: Bibi ha invitato l’America a liberarli senza arrendersi. Ha proposto un manifesto della civiltà contemporanea in guerra: Israele. L’ha spiegato a fondo, con orgoglio e determinazione: questa è la grande differenza, gli ebrei possono combattere quando il loro mondo, tutto il mondo, è in pericolo. Allora, non poterono.