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L' audacia di un cammino che stavolta può davvero cambiare il Medio Oriente

giovedì 6 febbraio 2025 Il Giornale 1 commento
L' audacia di un cammino che stavolta può davvero cambiare il Medio Oriente

Il Giornale, 06 febbraio 2025

Non è stata solo una svolta strategica per Israele e gli USA, ma un momento storico, l’epilogo di un’era di bugie, l’inizio di un cammino a occhi aperti che può cambiare del tutto il Medio Oriente. È successo quando Trump ha detto: “Israele ha combattuto eroicamente. Gli israeliani hanno resistito forti e uniti di fronte a un nemico che ha rapito, torturati, macellato donne e bambini innocenti. Saluto il popolo d’Israele” Ognuna di queste parole è la base della svolta, simile alla dichiarazione Balfour che nel 1917 riconosce agli ebrei il diritto a d’Israele, simile alla guerra d’Indipendenza vinta nel 1948 rispondendo all’assalto di tutti i Paesi Arabi dopo la risoluzione dell’Onu. “Del 7 di ottobre” ha detto Trump “si è cercato di negare la realtà, come di quella della Shoah”. Da qui la logica negata per decenni e non solo dal sette di ottobre del riconoscimento del terribile continuo, incessante, terrorismo palestinese, del pietismo, della ricerca patetica di “appeasement” che ha tolto ogni valore alla risposta indispensabile a questo male altrimenti inestirpabile, quello che dopo la strage ha trasformato le camere dei bambini in armerie e gli ospedali in lanciamissili. La guerra di difesa tanto criticata con le richieste continue di Biden di cessate il fuoco, con le accuse sulle condizioni umanitarie mentre i camion di aiuti finivano in mano a Hamas, lo svisamento dell’aiuto dei civili, dell’UNRWA, della Croce Rossa alla nukba è stata mostrata nuda: un’aggressione a Israele nel contenuto e nello svolgimento. E contro, il valore dei soldati che hanno vinto la guerra, anche a costo della vita.

Da qui la cura su cui i due leader hanno trovato un accordo senza precedenti fra USA e Israele: la restituzione degli ostaggi e l’annientamento di Hamas. È la quadratura del cerchio, dato che fino a ieri l’accordo che per altro costringe Israele a molte difficili concessioni, sembrava impossibile da coniugare con la sconfitta totale di Hamas. Ma Trump è la variabile necessaria: Gaza non esiste più, è un cumulo di rovine da riabilitare con anni di lavoro. Senza Hamas, con l’Arabia Saudita, e con altri Paesi arabi moderati che insieme disegnino un Medio Oriente da cui il terrorismo è espulso. Certo, Sauditi, Giordani e Egiziani, per principio biasimano il piano per cui Trump vuole veder partire i gazawi per ricostruire la Striscia, avendo a disposizione tempo, spazio, fiducia di chi ci si impegna. Per i “no” al piano sono un ostacolo; inoltre Hamas si può opporre con le armi che le sono rimaste e infierire sui rapiti, ma ha voglia davvero di vedere la reazione “violenta” come ha detto Trump se i rapiti non tornano? La Giordania e l’Egitto e forse il Qatar e la Turchia, possono rispondere a lungo con un “no” alle richieste americane accompagnate sempre dal mercanteggiamento e dalla minaccia. L’idea, fino a ieri sconosciuta, che l’America sovrintenda direttamente alla Striscia in fase di riabilitazione è reale? Trump non scherza, e lo fa pensare l’immediata risposta dell’Iran a Trump che insieme a Netanyahu ha promesso ancora che l’Iran non avrà la bomba atomica; intanto era partito uno dei suoi micidiali executive order per nuove sanzioni agli Ayatollah; e una risposta iraniana ha avvertito il Presidente che l’Iran, nel caso Trump voglia trattare sul nucleare, è pronto a compromessi.

Ma il maggior motore della grande minaccia terrorista in Medio Oriente mente volentieri, Trump e Netanyahu cercano un nuovo orizzonte in cui si smetta di raccontare bugie pacificanti sulla disponibilità palestinese, contraddetta dalla storia di Arafat, di Abu Mazen, di Hamas che mai hanno voluto “due stati per due popoli”. Adesso, l’idea di spostare dalla Striscia almeno una parte dei palestinesi, mette un punto almeno su Hamas; su Fatah, bisognerà vedere quanto si intenda usarla come moneta di scambio: Israele non accetterà uno “Stato palestinese” fatto per distruggere il suo, ma nello stesso tempo potrebbe consentire a collaborare con un’Autorità palestinese libera dalla presenza di Hamas e dall’influenza terrorista di Abbas, che non ha mai condannato il 7 di ottobre. I sauditi non hanno chiesto uno Stato palestinese, Trump ha detto, mentre parlava anche di quanto Israele sia piccolo a fronte di un Medio Oriente enorme e minaccioso. Quindi, sulle annessioni in Giudea e la Samaria ha chiesto due mesi per pensarci, eliminando la lectio vulgaris per cui dici “colono” e intendi delinquente: colpa dell’ONU che per iniziativa di Obama ha dichiarato illegali gli insediamenti contro le proprie stesse risoluzioni dell’ONU. Intanto Trump ha lasciato la commissione per i diritti umani di cui l’Iran ha la presidenza del blocco africano asiatico. È la grande criminalizzazione di Israele, l’abbandono in mano al terrore, di cui si rimettono adesso in ordine le carte: i terroristi sono terroristi, la guerra di difesa è valorosa e ha vinto, i rapiti devono tornare. Tutti, adesso, e intanto Hamas deve essere eliminata. Perché Israele è la patria degli ebrei, e il presidente americano lo sa. 

 

Netanyahu alla Casa Bianca. Sul tavolo liberazione dei rapiti e colpo finale ad Hamas

lunedì 3 febbraio 2025 Il Giornale 0 commenti
Netanyahu alla Casa Bianca. Sul tavolo liberazione dei rapiti e colpo finale ad Hamas

Il Giornale, 03 febbraio 2024

Nei quindici mesi della guerra più difficile della storia del Medio Oriente, Hamas e i nemici di Israele hanno ricevuto un incoraggiamento molto importante dal continuo scricchiolio nel rapporto fra Netanyahu e Biden, fra Israele e gli USA. Blinken, Kamala Harris… tutti mettevano di continuo in discussione, in omaggio al loro elettorato, la strategia e la pratica dell’esercito e della leadership israeliana nel combattere Hamas. Rafiah, Tzir Filadelfi, aiuti umanitari, Hamas ha puntato sulla frattura la perversione consentitale nella gestione dei rapiti, la sua stessa sopravvivenza armata a Gaza, la sua inverosimile presa ideologica sul mondo intero. La rottura con l’America ha destabilizzato il Medio Oriente e oltre. Adesso, quando ieri Netanyahu ha preso l’aereo per Washington, la prima promessa è stata semplice: mettere ordine in concordia con Trump in un momento di caos estremo, disegnando un cambiamento che il suo Paese da una parte, e gli USA dall’altra stanno vogliono portare in Medio Oriente. La visita di martedì, che si svolgerà in due appuntamenti, è drammatica proprio perché essendo la prima che Trump riceve e che ha organizzato con un invito dai toni affettuosi.

 Il lavoro in comune è molto bene avviato: la prima liberazione dei rapiti si svolse nel primo giorno di Trump alla Casa Bianca, la svolta dell’accordo è stata compiuta con la garanzia americana. Adesso, mentre domani si comincia a discutere della seconda fase dell’accordo si fa più stringente la decisione su un’eventuale nuova guerra di liberazione da Hamas o la prosecuzione del cessate il fuoco fino alla terza fase, quella definitiva. In Israele è richiesta generalizzata, anche se c’è molta preoccupazione. Witkoff, l’inviato di Trump, ha incontrato il ministro Smotrich evidentemente per convincerlo, da alto seggio, a non minacciare il governo. Da ieri a Doha i mallevadori si vedono e parlano: i qatarini, gli egiziani, gli israeliani. Ma le grandi decisioni si prendono alla Casa Bianca, fra due leader molto determinati, decisi a ottenere il loro scopo e anche a andare d’accordo. Steve Witkoff ha raccontato di come Trump abbia pianto di commozione vedendo i rapiti liberati. Trump, l’ha detto più volte, vuole portare pace; ma anche la pace ha un prezzo, quello della sicurezza, e non è semplice, ma si può fare. Netanyahu ha detto partendo la parola “pace” ma innovativa, un cambiamento basilare sulla strada tracciata da Israele combattendo vittoriosamente contro i suoi nemici. Israele dunque è decisa a insistere: e se la liberazione degli ostaggi è un obiettivo irrinunciabile, lo è anche che Hamas sparisca dal comando di Gaza. Trump discuterà quindi su come garantire che il futuro della Striscia sia in mani affidabili, forse quelle dell’Arabia Saudita insieme ad altri alleati sunniti moderati, l’Egitto e il re Abdullah di Giordania. L’Europa al solito ci fa la figura di un fastidioso fantasma che seguita a ripetere, ogni tanto, “due Stati per due popoli”, l’ipotesi più irrealistica del momento. Chiedete ad Abu Mazen. Il re Abdullah, intanto, sarà a Washington la settimana prossima, notizia di primo piano, perché la proposta di Trump di un trasferimento volontario, e per chi vuole temporaneo, degli abitanti di Gaza che vorranno spostarsi è tutt’altro, si afferma a Washington, che una boutade.

D’altra parte che la Giordania abbia un rapporto molto intimo coi palestinesi, il 70 per cento della popolazione, è storia vecchia e certificata, e l’economia della Giordania dipende molto largamente da Trump. Netanyahu porterà certamente in primo piano la questione iraniana, come già fece ai tempi del primo governo Trump quando lo convinse a sconfessare l’accordo obamiano. Oggi, Trump, tutto preso dall’enorme tema dell’economia e della Cina, potrebbe volere smorzare il presente in sanzioni piuttosto che immaginando un attacco alle strutture nucleari, ormai avanzatissime verso la bomba. Ma le sanzioni non intimidiscono un regime fanatico che vuole di nuovo armare gli Hezbollah e intanto rimpingua di armi Jenin e Ramallah. È il regime l’obiettivo, e si vedrà che se ne dice a Washington. Intanto Abu Marzuk, capo dell’ufficio politico dei terroristi di Hamas, è stato invitato a una riunione al ministero degli esteri russo. E se ne vanta, perfino, l’agenzia Novosti. I vecchi soldati non muoiono mai.     

 

A Gaza liberi altri tre ostaggi. La solitudine di Yarden Bibas

domenica 2 febbraio 2025 Il Giornale 1 commento
A Gaza liberi altri tre ostaggi. La solitudine di Yarden Bibas

Il Giornale, 02 febbraio 2025

“Saluta con la mano” indica il terrorista con la mano libera dal kalashnikov; e Yarden la agita. È l’ultimo gesto di sottomissione ai miliziani nazisti che circondano il palco su cui lo hanno issato. Gli avevano certo imposto anche di sorridere, come hanno fatto per le restituzioni precedenti, ma anche la schiavitù ha i suoi limiti: Yarden Bibas, 35 anni, non può sorridere; nemmeno quel poco che gli altri due rilasciati di ieri, Ofer Calderon e Keith Siegel sono riusciti a fare dal palco con un angolo della bocca. Yarden porterà con sé per sempre la grotta nera in cui è rinchiuso da quando il 7 di ottobre nel kibbutz di Nir Oz,400 abitanti, lui, sua moglie Shiri, Kfir di 9 mesi e Ariel di 4 anni, i bambini coi capelli più luminosi di tutto il mondo, sono stati rapiti. Li hanno presi separatamente, Yarden era ferito alla testa. Dei 400, quasi la metà sono stati rapiti o uccisi. Shiri, Kfir, Ariel avvolti in una coperta sono stati rapiti su una motocicletta, sulla faccia di Shiri una smorfia di terrore come quella di Eva cacciata dal paradiso nell’affresco di Masaccio, vengono portati via mentre Yarden si batte disperatamente contro l’invasione barbarica che sgozza, violenta, porta via le donne e i bambini. Poi viene rapito anche lui. L’opinione pubblica israeliana vedrà un’immagine in piedi davanti a una baracca in cui Shiri e i bambini tre vengono infilati per poi per sempre sparire. Di Yarden, un video crudele come tutto ciò che promana dalla cricca di maniaci di Sinwar che oltre a uccidere ama manipolare la sofferenza, lo mostra in lacrime; da allora si è sospettato senza che Israele abbia mai confermato, che la strage era avvenuta.

Oltre a Yarden sul palco ieri Hamas ha fatto salire per primo Ofer Calderon e alla fine Keith Siegel: la sceneggiatura ornata di scritte (sionismo uguale nazismo) aveva per sfondo, immeritatamente, il bel mare azzurro; il palco era circondato solo dagli scherani di Hamas, le bandiere erano solo le loro; lontano la folla inconsulta, schiumante odio, che il giorno avanti quasi ha linciato la giovane Arbel Yehoud mentre stretta fra due ali di folla veniva restituita. A Khan Yunes si era visto come Hamas, di fatto debole e priva di leadership, può compiere errori fatali per quella fase due che gli sta tanto a cuore. La sua definizione parte domani, mentre Netanyahu vola all’ incontro con Trump. La selvaggia aggressività antisemita unita a quella contro le donne ha riportando alla luce il senso degli stupri del 7 di ottobre ordinati da Sinwar, e Netanyahu aveva bloccato la consegna dei condannati di scambio, che poi sono ripresi mentre Hamas si aggiusta. Netanyahu va all’incontro con Trump ancora più sicuro che qualsiasi soluzione deve espellere Hamas da Gaza. 

Ognuno dei tredici tornati a casa fra i 31 di questa fase è una cascata di emozioni invade ogni spazio emotivo e di informazione: i teleschermi sono tutti un abbraccio. Keith, un 65enne mezzo americano era stato rapito a Kfar Aza, un kibbutz devastato a morte dai palestinesi, affacciato affettuosamente su Gaza, con la moglie Aviva si è avvolto nella bandiera con la Stella di David. Lei era stata costretta a lasciarsi liberare, disperata di lasciare il suo amore: e eccoli adesso l’uno nelle braccia dell’altro, lui smagrito ma in piedi, con figli e nipoti. Ofer Calderon, quattro figli, era stato rapito coi due dei quattro figli che ora lo stringono in un viluppo di amore incredulo: con due era fuggito nei campi di Nir Oz. Tutti catturati, poi Sahar, 16 anni, e Erez, 12, erano stati rilasciati nel novembre. Ma la nonna Carmela con la nipote Naya, 12 anni, sono state assassinate abbracciate. Il 7 ottobre non passa col ritorno a casa, ma la passione d’Israele cammina sulla difficile strada della liberazione e insieme dell’eliminazione di Hamas. Due obiettivi al limite della realtà, ma su questo stretto fronte Netanyahu intraprende un dialogo inusitato con gli Stati Uniti e coi Paesi Arabi sunniti. Ieri sono stati rilasciati 183 prigionieri di sicurezza, 9 ergastolani imperdonabili, assassini di bambini sugli autobus, di padri con la figlia la sera prima del matrimonio al ristorante, di vecchietti riuniti per Pasqua. Per ora sono tornati in parte a Gaza, ma li si controlla meglio da vicino, o è meglio espellerli all’estero? Sono da controllare di più gli anziani ergastolani, o i giovani con 15 anni di galera? Israele è concentrata sugli abbracci di chi è tornato dall’Ade, sulla vita dopo il 7 di ottobre. Ma la famiglia di Yarden, il cui abbraccio con la madre Pnina il padre Eli e la sorella Ofri era silente e mesto, ha pure dovuto dire: “Dobbiamo fronteggiare giorni difficili, per favore proteggete il cuore di Yarden e dalla sua famiglia nei prossimi giorni”. Quindici dei ventitre da restituire sono vivi, tutta Israele li aspetta.      

 

Schiacciati dalla folla, tra urla e fischi. Il rilascio di 150 palestinesi poi l'Ok. Scarcerato anche il super terrorista Zubeidi

venerdì 31 gennaio 2025 Il Giornale 1 commento
Schiacciati dalla folla, tra urla e fischi. Il rilascio di 150 palestinesi poi l'Ok. Scarcerato anche il super terrorista Zubeidi
Il Giornale, 31 gennaio 2025
 
Sono stati momenti di terrore e di cruda violenza quelli in cui al 481esimo giorno di tortura i rapiti israeliani che ieri avrebbero dovuto percorrere la strada verso la libertà sono tornati a casa dopo un anno e quasi quattro mesi di crudele sequestro. Il Paese è sotto shock, Netanyahu ha fermato per diverse ore l’accordo per la liberazione dei 150 carcerati palestinesi pattuiti fino a ricevere l’assicurazione dai mallevadori, chissà quanto realistica, che non succederà di nuovo. Arbel Yehoud, 28 anni, smagrita, con gli occhi sbarrati, è stata per lunghi momenti sommersa da una folla impenetrabile, ondeggiante, urlante, che le si stringeva intorno mentre il suo viso di ragazza si faceva sempre più bianco e passo passo conquistava la strada fra armati di Hamas verso l’auto della Croce Rossa, e la gente di Gaza, punteggiata di armati della Jihad Islamica e di Hamas, pieni di odio, inneggiava a Sinwar a Khan Yunes, davanti alle rovine della sua casa. Anche Gadi Moses, 80 anni, un’icona del sionismo kibbutzista classico, agricoltore e nonno ideale, è stato per più di mezzora invisibile, inghiottito nella impossibile strada fra ali di odio costruite per dimostrarsi padrona del campo. Ma Gaza in realtà ha solo mostrato quanto inaffidabile sia ogni accordo con i gruppi che la dominano e con la popolazione allevata nella più cieca aggressività verso gli ebrei, specie quando sono inermi, come si è visto il 7 ottobre.

La giornata di ieri è stata, invece che una cesura, il seguito di quel giorno terribile in cui furono uccisi 1200 abitanti dei kibbutz nei modi più terribili e 252 furono rapiti. Ora ne restano 68 fra vivi e morti che dovrebbero tornare a casa, se funzionerà, in tre fasi di un cessate il fuoco di cui è in corso la parte in cui si devono riconsegnare 33 rapiti. Lunedì, mentre Netanyahu volerà al suo appuntamento a Washington con Trump, il primo invito a un premier straniero, si comincerà a discutere la seconda fase, mentre i ministri ben Gvir e Smoptrich minacciano di far cadere il governo. Otto persone ieri hanno intanto ritrovato in maniera contorta, scioccante, pericolosa, la strada della libertà, tre israeliani e cinque lavoratori tailandesi. Per prima, in maniera relativamente conforme alle restituzioni precedenti, verso le 10 di mattina è stata consegnata alla Croce Rosa Agam Berger, vent’anni: tre giorni prima erano state liberate Liri, Naama, Daniela e Karina, quattro sue colleghe “tazpitaniot”. Ora sono insieme all’ospedale Ichilov, estatiche nella gioia di essere insieme dopo le violenze e la solitudine: la mattina del 7 ottobre tutte stavano di vedetta e furono trascinate via nel sangue dalla base di Nahal Oz, da dove avvertirono e non furono credute dell’invasione dei terroristi. Agam è apparsa bella e concentrata, come nelle foto che la mostrano quando suona il suo violino o come Israele la conosce dai racconti delle sue compagne che hanno riferito quanto la religione l’abbia sostenuta quando nelle mani dei terroristi rifiutava la carne, o di accendere la luce o il fuoco di Sabato. Hamas l’ha vestita da soldato anche se è stata rapita in pigiama e poi sottoporta a privazioni e violenze, e l’ha costretta a salutare con la mano la folla agitata. Sullo sfondo una cartina di Israele denominata “Palestina”. Molte le bandiere nere della Jihad Islamica e quelle palestinesi oltre a quelle di Hamas. Fra le rovine di Khan Yunis, Arbel Yehud e Gadi Moses hanno attraversato un momento di estremo pericolo di vita mentre i cinque thailandesi venivano avviati al confine. Li aspettavano oltre agli elicotteri e ai dottori, del cibo thailandese, preparato per farli sentire a casa.
 
In cambio dei rapiti e mentre si spera che sabato si avrà un’altra liberazione, escono dalle carceri i criminali palestinesi scambiati, 30 a civile e 50 a soldato: ci sono molti grandi terroristi come Zakaria Zubeidi, Mahmoud Atallah e Ahmed Barghouty con decine di ergastoli, assassini plurimi che hanno esploso autobus, caffè, pizzerie, che hanno ucciso volontariamente bambini nelle scuole. Non si sa ancora dove andranno adesso a preparare, probabilmente, i loro prossimi attentati. Ieri in una foto inconsueta e sorridente l’emissario di Trump per il Medio Oriente Steve Witkoff con il ministro dissenziente Smotrich e con il braccio destro di Netanyahu Ron Dermer, proveniente dall’Arabia Saudita, vuole evidentemente rafforzare la determinazione a tenere in piedi l’accordo. È andato anche ad aspettare i rapiti personalmente: Trump ci tiene. Dell’accordo desiderato dagli USA e delle mosse necessarie per garantire a Israele che Hamas non sopravviverà Bibi parlerà con Trump.

Il nuovo ordine di Trump e Netanyahu. Gaza senza Hamas con l’Arabia garante

giovedì 30 gennaio 2025 Il Giornale 0 commenti
Il nuovo ordine di Trump e Netanyahu. Gaza senza Hamas con l’Arabia garante

Il Giornale, 30 gennaio 2025

Al di là del terribile luna park mediorientale, fra i trucchi di Hamas e il frastagliato ritorno degli ostaggi che si rinnova domani e tiene Israele in una crisi isterica, nella disperazione per quelli che sono stati uccisi, nell’aspettativa dei tre che arrivano oggi; di fronte all’ infinita teoria di esseri umani che cammina dal sud al nord di Gaza; mentre in Libano ancora non si conclude la guerra (e si spera per il 18 di febbraio)nonostante l’accordo perché si riaffacciano gli Hezbollah... c’è un filo d’Arianna che Netanyahu tiene in mano, e si chiama no a Hamas e sì alla tregua per gli ostaggi. Come vanno insieme? Qui è la sfida, e la strada passa per Washington. Le parate naziste di Hamas, le fasce verdi e i mitra fra le folle stracciate e i rimasugli della Striscia a pezzi propongono l’idea che Israele abbia combattuto invano, i terroristi rimessi in libertà fanno sanguinare la memoria per le vittime. Ma Netanyahu parte per Washington lunedì, il giorno in cui si comincia a discutere della seconda fase del cessate il fuoco con Gaza e l’invito di Trump ha un tono volutamente solenne, affettuoso, particolare (l’ultimo faccia a faccia è stato il 25 luglio del 2024) nell’informare che Bibi è il primo Capo di Stato invitato alla Casa Bianca dal nuovo presidente, e nel dire che si discuterà di prospettive di pace e di “comuni sfide”. Che cosa significa nelle prospettive diverse dei due leader?  Il panorama mediorientale è nuovo, Gaza a pezzi, al nord anche se gli Hezbollah si fanno vivi la loro stupefacente disfatta a opera di Israele è sotto gli occhi di tutti, in Siria il ministro della difesa Israel Katz ha dichiarato ieri che l’esercito resta finché Julani non decide (invece di incontrare rappresentanti del governo russo) a garantire che non passano più armi iraniane; a Tulkarem e a Jenin si arrestano e si combattono stuoli di terroristi ben organizzati con l’operazione “Muro di acciaio”.

La lista ricevuta dei tre rapiti da restituire oggi è conforme agli accordi, Musa Abu Marzuk uno dei pochi portavoce dell’organizzazione terrorista ha detto che “Hamas è pronta a negoziare con Trump”, inusuale dichiarazione. Steve Witkoff, l’inviato di Trump per il Medio Oriente, insieme a Ron Dermer il ministro per gli Affari Strategici ieri hanno studiato Gaza sul terreno, e anche questo è molto inusuale. Non si va a Gaza in visita da Israele e dagli USA facilmente. Poi, l’incontro di Witkoff con Bibi, un’enciclopedia di punti da discutere. Un paio di cose sono evidenti anche se c’è chi non vuole vederle: Israele vuole i suoi rapiti indietro; però non sopporterà mai che Hamas resti al potere a Gaza, quali che siano le sceneggiate dei miliziani sul terreno. Lo tzir Philadelphi sarà sgomberato solo a tratti, e nella terza fase, quando davvero siano tornati tutti i rapiti, o quasi. Israele ha imparato la lezione del 7 di ottobre, ha dovuto impegnarsi per difendere la sua vita, ora non lascerà ricostruire Gaza con l’egida di Hamas o dei suoi amici dell’Autorità nazionale palestinese. Ci vorrà un marchingegno educativo, economico, tecnologico perché si ricostruisca Gaza senza Hamas. L’esodo palestinese dal nord al sud di Gaza è pericoloso, dalle finestre dei kibbutz e di Sderot si vedono i cittadini di Gaza, fra loro quelli che vennero al seguito della Nukba.  Trump ha un suo scopo conclamato: un vasto, ambizioso disegno di pace per cui Israele deve consentire lo scorrere di un suo programma strategico Mediorentale in cui entrano in scena con l’Arabia Saudita, gli Emirati e altri paesi moderati, col beneplacito dell’Egitto e della Giordania. Trump sa che Netanyahu non vuole dirgli no se non è indispensabile, quindi offrirà una soluzione ingegnosa per l’indispensabile sparizione di Hamas, e questo forse salverà anche il governo Israeliano in bilico Intanto ha avanzato l’idea che i palestinesi che vogliano si spostino in Giordania o altrove per consentire il ripristino della Striscia e della calma. L’idea della Giordania è storica, la Giordania era l’occupante della Giudea e della Samaria fino alla guerra dei sei giorni. Ma si vedrà: per ora sia da Gaza che dai Paesi interpellati vengono dei no Israele non consentirà altro che una soluzione che veda sparire Hamas dalla gestione di Gaza, e qui entra in scena un forte, determinato Patto di Abramo con soluzioni tecnologiche, economiche, educative, umanitarie che Netanyahu ascolterà e su cui dirà la sua.

È chiaro che in cima alla discussione, come prezzo fondamentale per la seconda fase della tregua, resta l’Iran. Trump, sa bene che non ci può essere nessun accordo con gli Ayatollah. Questo sarà il vero tema dell’incontro, insieme agli aiuti umanitari, la ricostruzione delle case, la riabilitazione del territorio. Israele non lascerà che Gaza risorga se non è sicuro che da là non verrà un nuovo sette ottobre, e Trump ci sta certamente lavorando sopra anche se solo “to make America great again”. Netanyahu non dovrà scegliere fra Trump e il suo governo che minaccia il crollo se prosegue il piano di pace.    

 

Oggi l’unico "Mai più" possono dirlo soltanto gli ebrei

lunedì 27 gennaio 2025 Il Giornale 1 commento
Oggi l’unico

 

Propaganda atroce per ostentare forza e umiliare Israele

domenica 26 gennaio 2025 Il Giornale 0 commenti
Propaganda atroce per ostentare forza e umiliare Israele

 

Coloni, aiuti e armi: la Casa Bianca c'è e fa tirare a Israele un sospiro di sollievo

giovedì 23 gennaio 2025 Il Giornale 0 commenti
Coloni, aiuti e armi: la Casa Bianca c'è e fa tirare a Israele un sospiro di sollievo

Il Giornale, 23 gennaio 2024

Il gioco facile dello snobismo internazionale circa la psiche e il comportamento di Donald Trump si arresta sulla soglia di Israele. Come è naturale in una democrazia, parte dei giornalisti e degli intellettuali si mostra diffidente, ma in genere il respiro di sollievo è grande: è stato sorprendente vedere Trump condividere la scena dell’inaugurazione con numerosi parenti dei rapiti e coi rapiti liberati, esclamare la determinazione di riportarli a casa fino all’ultimo, mostrare un accorato dispiacere perché Doron, appena restituita, ha avuto due dita amputate dai selvaggi di Hamas. Trump è un miracolo per Israele, resta l’uomo che ha portato l’ambasciata a Gerusalemme nel 2017 e i Patti d’Abramo nel 2020. È lo scampato pericolo da Kamala Harris che aveva promesso di salvaguardare il diritto alla difesa dello Stato ebraico solo “se” avesse accettato un cessate il fuoco a qualsiasi condizione, per rimediare alle accuse di aver affamato Gaza.

Trump ha forse chiesto a Israele il tavolo pulito all’inaugurazione, il suo inviato Steve Witkoff si è preso il merito dell’accordo firmato: ma la leadership israeliana dice che la decisione era presa da tempo, e che ha deciso quando Hamas ha dovuto accettare, anche per le minacce di Trump ma soprattutto perché indebolita e isolata, un cessate il fuoco fino al prossimo stadio rinunciando alla fine della guerra. Trump si è tirato indietro alla domanda se l’accordo reggerà: può darsi che si tratti della consapevolezza che l’accordo c’è se Hamas non lo rompe, e Israele vorrà allora riprendere il combattimento. Trump ha ripetuto che Hamas non deve sopravvivere come padrone di gaza, e lo ha ripetuto il suo team governativo, tutto: il consigliere di Stato Marco Rubio, il consigliere nazionale per la difesa Mike Waltz, il ministro della difesa Pete Hegseth, il nuovo ambasciatore a Gerusalemme Mike Huckabee, la nuova ambasciatrice all’ONU Elise Stefanik e altri. Per esempio sull’appartenenza a Israele della Giudea e la Samaria, che fu destituita di ogni legalità e della sua stessa storia da una mozione dell’ONU del 23 dicembre 2016 per iniziativa di Obama, riaprono una difficile discussione, e da oggi le espressioni “coloni” e “colonie”, “West Bank” o “territori occupati” dovranno essere rimessi in gioco. Sono molto espliciti i cinque “executive orders” appena varati: il numero 14115 cancella le sanzioni che Biden aveva applicato, a un gruppo di “settler” giudicati fuori legge: l’ordine ripristina il diritto di Israele a giudicare i suoi dentro e fuori i “territori” ed è molto importante per la fiducia che viene ripristinata sulla sua etica e il suo giudizio. Gli altri executive orders rifiutano le risoluzioni dell’International Criminal Court e dell’International Court of Justice, che hanno accusato Israele di genocidio e di crimini contro l’umanità e ordinato di arrestare il suo Primo Ministro e il suo Ministro della Difesa, oltre a indurre una caccia ai soldati all’estero. Ancora: è sospeso l’aiuto economico a varie istituzioni ritenute pericolose, fra cui l’UNRWA; è stata ordinata la deportazione degli studenti stranieri scoperti a sostenere idee e organizzazioni terroriste, come Hamas, l’Isis, Al Qaeda; è sollevato l’embargo dalla consegna di armi importanti, come bombe di profondità. SI ripristina il diritto all’autodifesa e di stabilirne la legittimità come prerogativa solo di Israele. Così, si allude all’obiettivo centrale per un nuovo Medio Oriente: la eliminazione del pericolo iraniano.

Hic Rodhus, alla fine: se Trump vuole che i Patti di Abramo, finalmente con la presenza dell’Arabia saudita, tornino a splendere con la sua firma, la strada sembra quella; ma l’Iran, alleato della Russia, cerca di sdoganarsi come convertito e il suo uranio arricchito come destinato a uso civili. Lo si è visto anche ieri in una intervista pubblica dell’ex ministro degli esteri Jawad Zarif all’Economic Forum di Davos. Dall’appeacement verso l’Iran è uscito il 7 di ottobre. Trump certo ci pensa su; per essere veramente amico di Israele, alla fine il catalogo è questo.    

 

 

 

 

   

Bibi e la sfida finale al terrore jihadista. La tregua? Reggerà

mercoledì 22 gennaio 2025 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 22 gennaio, 2025

Nemmeno un minuto di respiro in Israele, mentre Trump aggiusta la sua strategia mediorientale e lascia fluttuare, fra molti messaggi di rassicurazione e un inaspettato autentico empito di affetto verso i rapiti, la facile previsione che la tregua in corso non sia così solida. Ma la tregua non c’entra, sono fuori da Gaza gli eventi di grande peso specifico che ieri hanno segnato un recupero della dura posizione strategica per cui Israele, lungi dall’essere ipnotizzata dalla soddisfazione del ritorno degli ostaggi, cerca di consolidare la deterrenza raggiunta che ha costretto Hamas al compromesso.

Oltre Gaza e oltre gli Hezbollah e dopo Assad, Israele punta a un nuovo Medio Oriente dove su tutti e sette i fronti di guerra sia proibito fare uso del terrorismo. Punta sull’alleanza col nuovo governo americano su questo. Cambia la scena: con un discorso pieno di dignità e memore del disastro del 7 ottobre (che quindi mostra l’intenzione di invitare anche il potere civile a compiere lo stesso passo) Herzi Halevi ha lasciato il suo posto di Capo di Stato Maggiore nella guerra sfibrante e pericolosa. Ha ottenuto molti successi, e Netanyahu con un messaggio non ha mancato di riconoscerglieli, ma pesava da tempo la ripetuta incessante divergenza col primo ministro sull’idea di vittoria e di patto per i rapiti: Halevi era stato a fianco dell’ex ministro della difesa Gallant persino discutendo la tutela dello Tzir Filadelfi, un bene fondamentale della concezione difensiva di Netanyahu. Col ritiro delle truppe da Gaza si liberano truppe per la battaglia decisiva contro il vero esercito del terrorismo in Giudea e Samaria e forse con l’arrivo di Trump si disegna più concreto l’obiettivo che Bibi ripete sempre: distruggere gli apparti atomici dell’Iran, e con essi il regime degli Ayatollah. Il fronte di Jenin, Ramallah, Hebron…Ogni giorno mette in pericolo la vita dei cittadini non solo del confine sud, a Gaza, o del nord, quello del Libano, ma tutte le città: nel 202446 israeliani sono stati uccisi e 337 feriti, mentre si prevenivano 1040 attacchi, di cui 689 con armi da fuoco,326 con esplosivi, 13 con coltelli, 9 con auto in corsa.

Il ministro della difesa Israel Katz l’aveva annunciato subito dopo che erano stati uccise tre persone a Kedumim, vicino a Jenin, la casa madre di tutti i peggiori attacchi dal tempo della seconda Intifada, patria di molti terroristi fra i 1700 che verranno liberati nello scambio. Due donne e un sergente di polizia che era in auto col bimbo di dieci anni sono stati finiti a pistolettate e i feriti sono stati otto. Jenin organizza migliaia di terroristi dall’età infantile, Hamas e la Jihad Islamica godono di fondi iraniani. La decisione di intraprendere l’operazione di Jenin che durerà giorni e intende distruggere le strutture terroristiche, è stata denominata “Muro di Acciaio” come quella che pose fine alla seconda Intifada fu chiamata “Muro di difesa”: ieri è iniziato dopo aver avvertito e fatto uscire dalla città gli ufficiali dell’Autorità Nazionale Palestinese che aveva per circa tre settimane operato contro Hamas, nemico acerrimo di Abu Mazen eppure suo concorrente vincente nell’opinione pubblica palestinese nell’istigare al terrore. Non è infrequente il caso di membri della polizia di Ramallah che con le armi di ordinanza partecipano ad attentati. Ma in queste settimane, le forze di Abu Mazen hanno agito in modo da candidare l’Autonomia al futuro possesso della Striscia di Gaza, sui cui si apre adesso con Trump il momento della verità. Trump ha detto che la posizione ne farebbe una magnifica nuova Singapore, ma che Hamas, terrorista e violenta, non ne avrà il dominio. Israele certo condivide questo punto. Per realizzarlo occorre combattere anche nel West Bank.      

 

Quei sorrisi negati dai mitra di Hamas. La tregua è il pretesto per rifare la guerra

lunedì 20 gennaio 2025 Il Giornale 0 commenti
Quei sorrisi negati dai mitra di Hamas. La tregua è il pretesto per rifare la guerra

Il Giornale, 20 gennaio 2025

Solo in un film per ragazzi, dove il bene e il male sono disegnati col pennarello, dove i mostri hanno sembianze inequivoche e i buoni il dono del sentimento, si sarebbe potuto fantasticare una collisione così plastica e invece così reale, così evidente fra due società; vedendola si teme per il domani, si sente che la guerra è ancora tutta là, la tregua è fragile e formale. Solo i sorrisi delle ragazze liberate, che consolano tanto, aiutano a sperare che il valore dei soldati, più di qualsiasi accordo diplomatico, seguiti a funzionare da deterrente definitivo: Hamas è a pezzi e Romi, Emily, Doron dopo un anno e quasi quattro e mesi prigioniere nella società nazista di Hamas sono state restituite alla vita, è già tanto, è un dato di fatto. Ma l’abisso dell’odio di Hamas verso i kibbutz, la piazza di Tel Aviv, l’intero Paese che ha aspettato fra il riso e il pianto insieme le mamme delle ragazze, mentre i parenti di altri 94 rapiti aspettano i prossimi nella lista dei 33 senza invidia, senza spintoni, si è fatto sentire, vedere, toccare anche ieri.

Da una parte i soldati, gli amici, i politici, i giornalisti, i medici degli ospedali superattrezzati per l’evento, tutto ha fatto da sfondo al silenzio di Reim dove sono atterrati gli elicotteri di salvataggio, proprio allo spiazzo per la festa di Nova, da dove Romy mentre imperversava la mattanza è state rapite. Degli altri 30 sarà uno stillicidio quotidiano, e poi la seconda, e la terza parte, e Israele discute duramente, senza scansarsi, invidiare, boicottare, Ben Gvir si dimette, il governo si spacca… ed è la democrazia… resta spazio all’evento più importante: salvare le vite. Ed ecco Gaza, “il regno dell’oscuro signore Sauron”, dove siamo ancora in pieno Sette Ottobre. Intorno alle auto che cercano di approssimarsi a quelle della Croce Rossa, siedono circondate da armati le tre ragazze sulla via della liberazione: passeranno sgusciando protette coi mitra attraverso una folla di migliaia di uomini (nemmeno una donna è in vista) simile a quella del 7 ottobre, urlante, eccitata da gridi di vittoria, giovani, vecchi, bambini minacciosi e urlanti, che bloccano tutte le auto, e la folla è punteggiata da innumerevoli uomini di Hamas col mitra in mano. La folla ha un’aria molto aggressiva, decisa e allenata nel suo disegno, stringe di assedio le auto facendo la V, urlando slogan, sventolando moltissimi telefonini che riprendono la scena. No, non ha l’aria affamata, mentre invece più di seicento camion di cibo entrano secondo i patti nella Striscia per finire nelle mani di Hamas. L’accordo vuole Hamas disarmata, e invece l’organizzazione del massacro ha ritrovate le divise, le fasce verdi in testa, i pickup bianchi, ha anche una guardia d’onore in fila mascherata e pronta all’attacco. No, non festeggiano il fuoco perché porterà la pace ma perché li aiuterà a riorganizzare la loro guerra, questo è il loro programma evidente, tutto quello che sanno fare, secondo le loro proposizioni. Sanno che novanta prigionieri saranno rilasciati nelle vicinanze delle città israeliane, e se stavolta sono donne e giovani sotto i 18 anni (fra loro certo anche ragazzi destinati a scegliere di divenire Shahid) presto arriveranno i terroristi con svariati ergastoli che si uniranno all’unico progetto che domina le loro menti e la loro vita: la guerra santa contro Israele.

L’ethos di Hamas ancora governa Gaza, una donna solitaria che si vede in tv mentre attraversa la folla gridando che i dolci che vengono distribuiti non li vuole, certo ne avrà delle conseguenze. Già da alcuni giorni, dicono i cronisti di affari palestinesi, è in atto una pulizia ideologica che sentenzia e uccide i dissidenti e ristabilisce intorno a Hamas una rete di potere. Israele però oltre che a riportare i rapiti ha promesso che Hamas non dominerà più Gaza. Non è chiaro se e come questo possa accadere, ma è nell’accordo votato dal Gabinetto, e sancisce la legittimità dell’azione del governo: per esempio, la folla palestinese che secondo gli accordi torna già in frotte liberamente verso Jabalia, dovrebbe essere disarmata. Chi lo possa assicurare non si sa. Così come la clausola dell’abbandono del terrorismo da parte dei palestinesi carcerati che al primo giro saranno più di 700 e alla fine 1700, fra cui assassini con molti ergastoli. Ci vorrebbe una pressione mondiale per salvare il popolo di Gaza dalla dannazione di Hamas, dall’etica dall’assassinio, dello stupro, dell’odio, per avviarlo davvero alla pace di cui tutti parlano. Non ci sarà. Israele si appresta alla resistenza e all’incognito, guardando negli occhi felici le sue ragazze lascia da parte.   

 

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