Oggi l’unico "Mai più" possono dirlo soltanto gli ebrei

Il Giornale, 27 gennaio 2025
Questo è il giorno della non memoria. “Never Again” è stato cancellato. L’antisemitismo e l’intenzione dispazzare via il popolo ebraico sono nella pratica di un anello di fuocoorganizzato intorno a Israele su sette fronti, e, ovunque nel mondo, nellamarea ideologica antisemita. È chiaro e sensato dunque, il rifiuto di ogni celebrazione fasulla o formale, della faciloneria, dell’ignoranza, della corruzione di chi odia Israele e di chi finge di ricordare e di sapere e poi è complice nel criminalizzare e discriminare gli ebrei di oggi. La Shoah ormai, èin realtà con noi giorno dopo giorno dal 7 di ottobre, l’odio per gli ebrei cheha causato la carneficina nazista è uscito dalla tomba di sabbiadell’antisemitismo e si è avviato con le fasce verdi di Hamas fra le nostrecase. Con loro i milioni di ombre cinesi che urlano nelle belle piazze europee a New York “From the River to the Sea”. Vogliono “Kill the Jews” e “morte agli ebrei” e “violentare le loro donne”, perché gli ebrei sono “genocidi”, “criminali di guerra”, “coloni”. Il negazionismo è una bandiera obbligatoria,quella di Faurisson, Garaudy o David Irving, fino alla nuova proposta di sterminio, quella di Ahmadinejad, Khamenei, e dei loro proxy fra cui Sinwar,persino lui un’icona resistenziale.Ma si può paragonare la Shoah al 7 di ottobre? la dimensione dello sterminio è diversa; i mezzi sono meno sofisticati e meno ordinata la vastissima esecuzione. Ma una mappa delle persecuzioni antisemite odierne nelle università, nei posti di lavoro, nei luoghi dell'arte e della scienza punteggia la carta geografica fino in America e in tutta l’Asia. Fu diverso allora l’intento dei nazisti di nascondere lo sterminio completo di tutto il popolo, anche dei bambini, come spiegò il ReichsführerHeinrich Himmler: “Questa è una pagina di gloria non scritta e che mai sarà scritta… per amore del nostro popolo”; Hamas invece, urlava “Yehud”, mentre uccideva filmava e postava le immagini dei bambini bruciati e delle donne stuprate e uccise. È diverso, certo, ma simile è la criminalizzazione e disumanizzazione, ebrei avvelenatori dell’umanità con la smania di potere(coloni!) e di intrighi, mostri assetati di sangue in epoche diverse e con abiti e armi diverse… ma ebrei. Chi guarda la foto della donna con il suobambino stretto in braccio a Ivangorod in Ucraina mentre un soldato nazista li uccide col fucile in mezzo a un campo, e poi contempla la disperazione dellamamma di Kvir, 8 mesi e di Ariel Bibas, 4 anni, o il bambino con la nonna carbonizzati,trovati fra 1200 corpi straziati, o le famiglie intere uccise nel letto, sa,vede, che è una Shoah. Vede che la vandalizzazione dei cimiteri, dei negozi,delle case, in Australia o a Roma, è una Notte dei Cristalli. Sarah Jackson di 88 anni che si era barricata con tre ragazzi della Nova scampati all’eccidio ha vissuto lo stesso orrore della Shoah. Dopo il 7 di ottobre sono marcite le formule retoriche che hanno simulato una moralistica, minimale riparazione che invece ha coperto intenti politici poi disfatti nell’opportunismo e nell’ignoranza. Chi oserà adesso senza vergogna raccontare la favola bella della memoria della Shoah mentre criminalizza in tv Israele e lo descrive con le cifre ricevute da Hamas, mentre firma documenti di espulsione degli israeliani dalle università e dalle partite di calcio, urla per le strade “Palestina libera” fregandosene degli omosessuali, delle donne, dei dissidenti uccisi dai nazisti islamisti odierni.
Dunque, esiste oggi un solo autentico “Never Again” quello che Israele ha pagato con la vita dei soldati e con la sofferenza dei rapiti, con la determinazione a vincere la guerra dopo l’attacco del 7 ottobre, con la sua seconda guerra di indipendenza dopo quella del 1948.L’altro “Never Again” si è sfrangiato in Europa e nell’America di Biden, ed è stato azzannato da parte del mondo islamico. Il 7 di ottobre ci dà lapossibilità di capire cose che non sapevamo: abbiamo capito de visu come lacrudeltà può superare ogni limite immaginato; come si può tacere e ignorare perragioni politiche la necessità evidente di una guerra di sopravvivenza; abbiamocapito quale oceano senza fondo sia l’antisemitismo che cova, e quindi come circadue milioni di ebrei siano stati trucidati da Paesi occupati, non da Hitler stesso. Questo Giorno della Memoria vede Israele al centro dell’attaccoantisemita: ha dimostrato la sua potenza nel rispondere. Mai il popolo ebraicoaveva potuto farlo, nei secoli e questo è il suo “Never Again”, con Hamas distrutta, gli Hezbollah a pezzi, la Siria cambiata, l’Iran in un angolo, alta la bandiera della sua democrazia contro il fascismo circostante. Ma l’altro “Never Again” chi potrà dirlo? Solo chi si muoverà concretamente e modestamente, senza chiacchiere,adesso, di fronte all’enorme minaccia contro l’Occidente e la democrazia: ifondi per le università e ogni istituzione culturale che discriminino gli ebreidevono essere tagliati; chi diffonde principi di violenza e di discriminazione,deve essere giudicato; la storia vera, e non quella inventata del colonialismoe di apartheid, deve essere insegnata; la Corte internazionale di giustizia e il Tribunale Penale Internazionale devono esseredisconosciuti; lo Stato e l’UE devono combattere il terrorismo; gli entilocali, le imprese, le istituzioni statali, quelle che fanno capo all’ONU eall’UE, devono essere riesaminate proprio in base alla loro connivenza conl’antisemitismo e l’ostilità contro lo Stato Ebraico, gli immigrati islamicidevono rinunciare a un credo discriminatorio e spesso aggressivo verso le altrereligioni. Solo facendo così si risponde alla chiamata del “Never Again”. Per esempio, l’Unesco fa di Gerusalemme una città di retaggio islamico cancellando la bimillenaria storia ebraica. È una delle tante bestemmie antisemite che nel Giorno della Memoria dovrebbero essere abolite in nome della storia comune dell’Ebraismo e del Cristianesimo, genitori della democrazia.
Propaganda atroce per ostentare forza e umiliare Israele

Il Giornale, 26 gennaio 2025
Bene, altre quattro giovani ragazze rapite sono tornate, Israele si commuove e gioisce coi genitori miracolati, è un miracolo riportarle in vita alle loro famiglie, Israele è unita nella gioia, certo significa che Hamas ha accettato ciò che fino a ieri aveva rifiutato, e tuttavia… la manipolazione assassina di Hamas è al massimo. Lo scopo ieri è stato mettere in scena una Hamas militarizzata e vittoriosa, sopravvissuta fra le rovine al potere e coi suoi armati. Si è costruito apposta il palcoscenico da cui vantarsi della liberazione dei terroristi; in scena armi e automobili da cerimonia, obbedienza e disciplina, sui teleschermi lo spregio delle ragazze esibite di fronte agli slogan antisraeliani sullo sfondo, costrette a una recita che per fortuna hanno retto con coraggio. Hamas ha ribadito il controllo sulla gente di Gaza, come il sinistro coro di una tragedia ha minacciato di nuovo Israele. Ma il risultato è doppio: da una parte l’ostentazione da parte dei macellai di una forza decisa a tutto dopo che ti ha fatto tutto il male di cui è capace, e questo per dire “abbiamo vinto”.
Non è vero, ma è molto umiliante nelle regole mediorientali, un gesto di leadership antisraeliana per la psiche assassina islamista che si estende dall’Iran ai Hezbollah. Ma Israele guarda, e adesso sa meglio che ha molto cui badare mentre gestisce lo scambio, e che Hamas per vanità e provocazione potrebbe violarlo: la sua volontà di umiliare lo Stato Ebraico può cercare di piegare Israele, di avvantaggiarsi della passione per la liberazione dei rapiti. Israele adesso è più consapevole di questo. Nulla, nell’ambito della storia della sciagura che si è abbattuta su Israele il 7 di ottobre, è stato peggiore dell’avventura di Liri, Karina, Daniela e Naama alla base di Nahal Oz quando sono state rapite: è là che le “tazpitaniot”, ovvero le ragazze addette a osservare i movimenti al confine con Gaza videro ciò che stava per accadere, capirono, raccontarono, non furono credute, furono travolte. 66 soldati e soldatesse furono uccisi in quella base mentre sette sono state rapite; fra loro Adam Berger è ancora nelle mani di Hamas, Noa Marciano di 19 anni è stata uccisa, e Ori Megish è tornata con uno scambio precedente. Le rovine carbonizzate dei loro posti di osservazione, lo stanzone in cui furono brutalizzate, ferite, trascinate via in pigiama, mentre il cadavere di una loro compagna giaceva sui loro piedi, dai mostri della Nukba sono parte della storia del più grande fallimento della storia di Israele, e quindi la liberazione delle quattro soldatesse ventenni è un sollievo ancora più profondo. Una vittoria. Tutto il mondo le aveva già viste filmate al momento dell’assalto, e un paio di mesi fa Hamas circolò un video che rappresentava Liri disperata; Daniela, e non era vero, era data per morta. Tutti giochi perversi.
Per ora, non sappiamo cosa hanno attraversato queste creature, probabilmente il peggio della fame della tortura e anche della persecuzione sessuale; si può immaginare che una settimana fa le abbiano riempite di vitamine e di ordini di sorridere. Le ragazze hanno resistito vestite in divisa per simulare un vero scambio ufficiale fra poteri organizzati e soldati delle due parti. Ma i loro soldati che si liberano in queste ore sono terroristi palestinesi condannati a ergastoli plurimi per decine di morti in attacchi terroristici. Hamas gioca duro: nonostante Gaza sia distrutta, i tunnel a pezzi, le strutture civili ridotte al minimo dall’uso militare di Hamas, essa, usando i proventi dell’aiuto umanitario sottratto alla gente di Gaza, è riuscita a arruolare nuovi terroristi, forse addirittura 20mila, sostituendo così, dice una ricerca americana, i morti della Nukba. È un dato nuovo, nuova è stata anche la sfacciataggine di ieri. Vedremo il seguito.
Coloni, aiuti e armi: la Casa Bianca c'è e fa tirare a Israele un sospiro di sollievo

Il Giornale, 23 gennaio 2024
Il gioco facile dello snobismo internazionale circa la psiche e il comportamento di Donald Trump si arresta sulla soglia di Israele. Come è naturale in una democrazia, parte dei giornalisti e degli intellettuali si mostra diffidente, ma in genere il respiro di sollievo è grande: è stato sorprendente vedere Trump condividere la scena dell’inaugurazione con numerosi parenti dei rapiti e coi rapiti liberati, esclamare la determinazione di riportarli a casa fino all’ultimo, mostrare un accorato dispiacere perché Doron, appena restituita, ha avuto due dita amputate dai selvaggi di Hamas. Trump è un miracolo per Israele, resta l’uomo che ha portato l’ambasciata a Gerusalemme nel 2017 e i Patti d’Abramo nel 2020. È lo scampato pericolo da Kamala Harris che aveva promesso di salvaguardare il diritto alla difesa dello Stato ebraico solo “se” avesse accettato un cessate il fuoco a qualsiasi condizione, per rimediare alle accuse di aver affamato Gaza.
Trump ha forse chiesto a Israele il tavolo pulito all’inaugurazione, il suo inviato Steve Witkoff si è preso il merito dell’accordo firmato: ma la leadership israeliana dice che la decisione era presa da tempo, e che ha deciso quando Hamas ha dovuto accettare, anche per le minacce di Trump ma soprattutto perché indebolita e isolata, un cessate il fuoco fino al prossimo stadio rinunciando alla fine della guerra. Trump si è tirato indietro alla domanda se l’accordo reggerà: può darsi che si tratti della consapevolezza che l’accordo c’è se Hamas non lo rompe, e Israele vorrà allora riprendere il combattimento. Trump ha ripetuto che Hamas non deve sopravvivere come padrone di gaza, e lo ha ripetuto il suo team governativo, tutto: il consigliere di Stato Marco Rubio, il consigliere nazionale per la difesa Mike Waltz, il ministro della difesa Pete Hegseth, il nuovo ambasciatore a Gerusalemme Mike Huckabee, la nuova ambasciatrice all’ONU Elise Stefanik e altri. Per esempio sull’appartenenza a Israele della Giudea e la Samaria, che fu destituita di ogni legalità e della sua stessa storia da una mozione dell’ONU del 23 dicembre 2016 per iniziativa di Obama, riaprono una difficile discussione, e da oggi le espressioni “coloni” e “colonie”, “West Bank” o “territori occupati” dovranno essere rimessi in gioco. Sono molto espliciti i cinque “executive orders” appena varati: il numero 14115 cancella le sanzioni che Biden aveva applicato, a un gruppo di “settler” giudicati fuori legge: l’ordine ripristina il diritto di Israele a giudicare i suoi dentro e fuori i “territori” ed è molto importante per la fiducia che viene ripristinata sulla sua etica e il suo giudizio. Gli altri executive orders rifiutano le risoluzioni dell’International Criminal Court e dell’International Court of Justice, che hanno accusato Israele di genocidio e di crimini contro l’umanità e ordinato di arrestare il suo Primo Ministro e il suo Ministro della Difesa, oltre a indurre una caccia ai soldati all’estero. Ancora: è sospeso l’aiuto economico a varie istituzioni ritenute pericolose, fra cui l’UNRWA; è stata ordinata la deportazione degli studenti stranieri scoperti a sostenere idee e organizzazioni terroriste, come Hamas, l’Isis, Al Qaeda; è sollevato l’embargo dalla consegna di armi importanti, come bombe di profondità. SI ripristina il diritto all’autodifesa e di stabilirne la legittimità come prerogativa solo di Israele. Così, si allude all’obiettivo centrale per un nuovo Medio Oriente: la eliminazione del pericolo iraniano.
Hic Rodhus, alla fine: se Trump vuole che i Patti di Abramo, finalmente con la presenza dell’Arabia saudita, tornino a splendere con la sua firma, la strada sembra quella; ma l’Iran, alleato della Russia, cerca di sdoganarsi come convertito e il suo uranio arricchito come destinato a uso civili. Lo si è visto anche ieri in una intervista pubblica dell’ex ministro degli esteri Jawad Zarif all’Economic Forum di Davos. Dall’appeacement verso l’Iran è uscito il 7 di ottobre. Trump certo ci pensa su; per essere veramente amico di Israele, alla fine il catalogo è questo.
Bibi e la sfida finale al terrore jihadista. La tregua? Reggerà
Il Giornale, 22 gennaio, 2025
Nemmeno un minuto di respiro in Israele, mentre Trump aggiusta la sua strategia mediorientale e lascia fluttuare, fra molti messaggi di rassicurazione e un inaspettato autentico empito di affetto verso i rapiti, la facile previsione che la tregua in corso non sia così solida. Ma la tregua non c’entra, sono fuori da Gaza gli eventi di grande peso specifico che ieri hanno segnato un recupero della dura posizione strategica per cui Israele, lungi dall’essere ipnotizzata dalla soddisfazione del ritorno degli ostaggi, cerca di consolidare la deterrenza raggiunta che ha costretto Hamas al compromesso.
Oltre Gaza e oltre gli Hezbollah e dopo Assad, Israele punta a un nuovo Medio Oriente dove su tutti e sette i fronti di guerra sia proibito fare uso del terrorismo. Punta sull’alleanza col nuovo governo americano su questo. Cambia la scena: con un discorso pieno di dignità e memore del disastro del 7 ottobre (che quindi mostra l’intenzione di invitare anche il potere civile a compiere lo stesso passo) Herzi Halevi ha lasciato il suo posto di Capo di Stato Maggiore nella guerra sfibrante e pericolosa. Ha ottenuto molti successi, e Netanyahu con un messaggio non ha mancato di riconoscerglieli, ma pesava da tempo la ripetuta incessante divergenza col primo ministro sull’idea di vittoria e di patto per i rapiti: Halevi era stato a fianco dell’ex ministro della difesa Gallant persino discutendo la tutela dello Tzir Filadelfi, un bene fondamentale della concezione difensiva di Netanyahu. Col ritiro delle truppe da Gaza si liberano truppe per la battaglia decisiva contro il vero esercito del terrorismo in Giudea e Samaria e forse con l’arrivo di Trump si disegna più concreto l’obiettivo che Bibi ripete sempre: distruggere gli apparti atomici dell’Iran, e con essi il regime degli Ayatollah. Il fronte di Jenin, Ramallah, Hebron…Ogni giorno mette in pericolo la vita dei cittadini non solo del confine sud, a Gaza, o del nord, quello del Libano, ma tutte le città: nel 202446 israeliani sono stati uccisi e 337 feriti, mentre si prevenivano 1040 attacchi, di cui 689 con armi da fuoco,326 con esplosivi, 13 con coltelli, 9 con auto in corsa.
Il ministro della difesa Israel Katz l’aveva annunciato subito dopo che erano stati uccise tre persone a Kedumim, vicino a Jenin, la casa madre di tutti i peggiori attacchi dal tempo della seconda Intifada, patria di molti terroristi fra i 1700 che verranno liberati nello scambio. Due donne e un sergente di polizia che era in auto col bimbo di dieci anni sono stati finiti a pistolettate e i feriti sono stati otto. Jenin organizza migliaia di terroristi dall’età infantile, Hamas e la Jihad Islamica godono di fondi iraniani. La decisione di intraprendere l’operazione di Jenin che durerà giorni e intende distruggere le strutture terroristiche, è stata denominata “Muro di Acciaio” come quella che pose fine alla seconda Intifada fu chiamata “Muro di difesa”: ieri è iniziato dopo aver avvertito e fatto uscire dalla città gli ufficiali dell’Autorità Nazionale Palestinese che aveva per circa tre settimane operato contro Hamas, nemico acerrimo di Abu Mazen eppure suo concorrente vincente nell’opinione pubblica palestinese nell’istigare al terrore. Non è infrequente il caso di membri della polizia di Ramallah che con le armi di ordinanza partecipano ad attentati. Ma in queste settimane, le forze di Abu Mazen hanno agito in modo da candidare l’Autonomia al futuro possesso della Striscia di Gaza, sui cui si apre adesso con Trump il momento della verità. Trump ha detto che la posizione ne farebbe una magnifica nuova Singapore, ma che Hamas, terrorista e violenta, non ne avrà il dominio. Israele certo condivide questo punto. Per realizzarlo occorre combattere anche nel West Bank.
Quei sorrisi negati dai mitra di Hamas. La tregua è il pretesto per rifare la guerra

Il Giornale, 20 gennaio 2025
Solo in un film per ragazzi, dove il bene e il male sono disegnati col pennarello, dove i mostri hanno sembianze inequivoche e i buoni il dono del sentimento, si sarebbe potuto fantasticare una collisione così plastica e invece così reale, così evidente fra due società; vedendola si teme per il domani, si sente che la guerra è ancora tutta là, la tregua è fragile e formale. Solo i sorrisi delle ragazze liberate, che consolano tanto, aiutano a sperare che il valore dei soldati, più di qualsiasi accordo diplomatico, seguiti a funzionare da deterrente definitivo: Hamas è a pezzi e Romi, Emily, Doron dopo un anno e quasi quattro e mesi prigioniere nella società nazista di Hamas sono state restituite alla vita, è già tanto, è un dato di fatto. Ma l’abisso dell’odio di Hamas verso i kibbutz, la piazza di Tel Aviv, l’intero Paese che ha aspettato fra il riso e il pianto insieme le mamme delle ragazze, mentre i parenti di altri 94 rapiti aspettano i prossimi nella lista dei 33 senza invidia, senza spintoni, si è fatto sentire, vedere, toccare anche ieri.
Da una parte i soldati, gli amici, i politici, i giornalisti, i medici degli ospedali superattrezzati per l’evento, tutto ha fatto da sfondo al silenzio di Reim dove sono atterrati gli elicotteri di salvataggio, proprio allo spiazzo per la festa di Nova, da dove Romy mentre imperversava la mattanza è state rapite. Degli altri 30 sarà uno stillicidio quotidiano, e poi la seconda, e la terza parte, e Israele discute duramente, senza scansarsi, invidiare, boicottare, Ben Gvir si dimette, il governo si spacca… ed è la democrazia… resta spazio all’evento più importante: salvare le vite. Ed ecco Gaza, “il regno dell’oscuro signore Sauron”, dove siamo ancora in pieno Sette Ottobre. Intorno alle auto che cercano di approssimarsi a quelle della Croce Rossa, siedono circondate da armati le tre ragazze sulla via della liberazione: passeranno sgusciando protette coi mitra attraverso una folla di migliaia di uomini (nemmeno una donna è in vista) simile a quella del 7 ottobre, urlante, eccitata da gridi di vittoria, giovani, vecchi, bambini minacciosi e urlanti, che bloccano tutte le auto, e la folla è punteggiata da innumerevoli uomini di Hamas col mitra in mano. La folla ha un’aria molto aggressiva, decisa e allenata nel suo disegno, stringe di assedio le auto facendo la V, urlando slogan, sventolando moltissimi telefonini che riprendono la scena. No, non ha l’aria affamata, mentre invece più di seicento camion di cibo entrano secondo i patti nella Striscia per finire nelle mani di Hamas. L’accordo vuole Hamas disarmata, e invece l’organizzazione del massacro ha ritrovate le divise, le fasce verdi in testa, i pickup bianchi, ha anche una guardia d’onore in fila mascherata e pronta all’attacco. No, non festeggiano il fuoco perché porterà la pace ma perché li aiuterà a riorganizzare la loro guerra, questo è il loro programma evidente, tutto quello che sanno fare, secondo le loro proposizioni. Sanno che novanta prigionieri saranno rilasciati nelle vicinanze delle città israeliane, e se stavolta sono donne e giovani sotto i 18 anni (fra loro certo anche ragazzi destinati a scegliere di divenire Shahid) presto arriveranno i terroristi con svariati ergastoli che si uniranno all’unico progetto che domina le loro menti e la loro vita: la guerra santa contro Israele.
L’ethos di Hamas ancora governa Gaza, una donna solitaria che si vede in tv mentre attraversa la folla gridando che i dolci che vengono distribuiti non li vuole, certo ne avrà delle conseguenze. Già da alcuni giorni, dicono i cronisti di affari palestinesi, è in atto una pulizia ideologica che sentenzia e uccide i dissidenti e ristabilisce intorno a Hamas una rete di potere. Israele però oltre che a riportare i rapiti ha promesso che Hamas non dominerà più Gaza. Non è chiaro se e come questo possa accadere, ma è nell’accordo votato dal Gabinetto, e sancisce la legittimità dell’azione del governo: per esempio, la folla palestinese che secondo gli accordi torna già in frotte liberamente verso Jabalia, dovrebbe essere disarmata. Chi lo possa assicurare non si sa. Così come la clausola dell’abbandono del terrorismo da parte dei palestinesi carcerati che al primo giro saranno più di 700 e alla fine 1700, fra cui assassini con molti ergastoli. Ci vorrebbe una pressione mondiale per salvare il popolo di Gaza dalla dannazione di Hamas, dall’etica dall’assassinio, dello stupro, dell’odio, per avviarlo davvero alla pace di cui tutti parlano. Non ci sarà. Israele si appresta alla resistenza e all’incognito, guardando negli occhi felici le sue ragazze lascia da parte.
Il sindaco Lepore smetta di giocare con le bandiere
Il Giornale, 19 gennaio 2024
Vorrei che il sindaco di Bologna Matteo Lepore smettesse di giocare con le bandiere, quel gioco non gli riesce. Ha fatto sventolare da Palazzo Accursio la bandiera palestinese mentre una massa di antisemiti attaccava la sinagoga. Ora l’ha piazzata insieme a quella Israeliana con quella della pace. Ma la bandiera palestinese non è come quella di Israele, un Paese che dal 1948 è l’orgoglio del mondo letterario, scientifico, agricolo, che ha combattuto senza sosta contro aggressioni e rifiuti continui pronunciati proprio in nome di quella bandiera. È offensivo che adesso quel sindaco, che non ha saputo condannare l’antisemitismo, le metta una accanto all’altra come a pareggiare il ruolo di Israele e dei Palestinesi in una prospettiva di pace. Solo Israele vuole la pace e per questo combatterà fino in fondo il terrorismo. La bandiera palestinese è ancora, oggi, ieri, domani, quella del terrorista che ancora ieri pomeriggio ha attaccato i cittadini di Tel Aviv mentre si prepara il ritorno dei rapiti, mentre si è siglata la tregua che comincia domani. Una delle tante provocazioni che avranno luogo in nome di quella bandiera.
Questo sindaco, mettendo sullo stesso piano le due bandiere, si dimostra contrario alla pace. La bandiera bianca e azzurra con la stella di David rappresenta specie in queste ore, niente di meno della democrazia, della storia unica e gloriosa del popolo ebraico, della lotta contro gli inesprimibili crimini che hanno ucciso 1200 persone e hanno trascinato nelle gallerie di Gaza 252 creature solo perché ebrei. Dall’altra parte, con la stessa bandiera, vediamo sia Hamas che l’Autorità nazionale palestinese, che non ha mai condannato il 7 ottobre, loro sono i 737 che verranno ora liberati in cambio dei rapiti. Contro ragazze, famiglie, vecchi, bambini, ragazzi, vedremo uscire dal carcere terroristi terribili che di nuovo cominceranno a preparare i loro attentati e i loro progetti di morte, come Zakaria Zubeidi, capo delle brigate di Al Aqsa(Fatah) a Jenin, alla testa di numerosi attacchi omicidi plurimi, come quello che uccise 6 persone a Beth Shean; come Mahmud Varda, 48 sentenze a vita, fra i suoi attentati 45 persone uccise su un autobus; Ahmed Dahiri, assassino di una donna palestinese accusata di aver cooperato gli israeliani... e tanti altri assassini, che hanno fatto saltare per aria i caffè, le pizzerie, gli autobus.
Ora si si reincisteranno a Hevron come a Gerusalemme con la stessa bandiera e seguiranno l’indicazione di Jibril Rajub, grande capo della Lega calcio palestinese, uomo politico di primo piano, che dice che ora Fatah e Hamas si devono coordinare per organizzare insieme la “resistenza”. Israele si prepara a contenere con coraggio questo esercito di assassini che marcerà con la bandiera che piace al sindaco di Bologna: ma loro bandiera è quella della morte, mentre quella di Israele è quella della libertà, della scelta di andare fino in fondo per salvare vite umane. Per favore, qui si tratta di necessità, non di similitudine o di simpatia. Quindi smettiamola con le lodi melense della pace. Gli unici che hanno diritto d parlarne, con scetticismo e con vera nostalgia, sono quelli che hanno combattuto e combatteranno l’antisemitismo e l’odio che promana da quella bandiera.
Il coraggio delle famiglie e la forza di Bibi. È il tempo delle sfide per l'anima di Israele

Il Giornale, 18 gennaio 2025
Sarà una sfida. Sarà di nuovo una sfida senza pari per il popolo ebraico, e la affronterà dopo aver compiuto una battaglia eroica a seguito della peggior aggressione che la storia ricordi dopo la Shoah. Tornano uno a uno i rapiti: l’accordo è stato raggiunto solo perché Hamas ha dovuto accettare dopo aver subito una sconfitta incontrovertibile dai soldati di Israele e perché un alleato sincero si è finalmente affacciato all’orizzonte, il nuovo presidente americano Donald Trump. Ma adesso, sarà una sfida, piena di amore e di accoglienza, affrontare uno a uno, giorno dopo giorno, per mesi, la sofferenza inaudita nelle mani delle belve, vedere nei loro occhi il buio delle gallerie, lo stupro, le botte, la fame, le malattie, il lutto di tutti.
Giorno dopo giorno, sarà una sfida pari solo a quella dei giorni subito dopo il sette ottobre, quando Israele ha dovuto affrontare la strage delle famiglie abbracciate, bruciate, decapitate. Sarà una sfida per la società intera abbracciare di nuovo la disperazione senza remissione, quando alcune famiglie riceveranno solo delle spoglie torturate; una sfida, non trovare ieri i nomi dei propri cari nella lista, essere inchiodati alla seconda e alla terza fase. Sarà una sfida vedere alla tv le piazze palestinesi festanti che ricevono i terroristi liberati nello scambio, e distribuiscono dolci promettendo nuovi sette di ottobre. Lo sarà resistere al desiderio della risposta, della vendetta, della giustizia. Netanyahu dovrà affrontare molti momenti in cui Israele verrà provocato, durante il cessate il fuoco, dentro e fuori di Gaza. E questa sarà un’ulteriore sfida per il leader che a ha resistito a cento pressioni e divieti: entrare a Gaza, a Rafah, sullo Tzir Filadelfi, e poi a quella di attaccare Hezbollah, e poi entrare in Siria, e poi di rispondere ai missili iraniani… tutto gli era stato proibito, e tutto ha fatto lo stesso scegliendo la sfida. E adesso inizia un nuovo periodo di resistenza su una nuova via strategica: è lo spostamento di obiettivo da Gaza a tutto il Medio Oriente con l’alleanza con gli USA di Trump, del progetto comune di battere il terrorismo in Medio Oriente, innanzitutto eliminando il pericolo nucleare iraniano.
Netanyahu dovrà di nuovo stringere i denti di fronte agli attacchi nel suo Paese e fuori, di Ben Gvir e della sinistra, dovrà spiegare a chi lo accusa di aver alzato le mani che è Hamas invece ad aver perso le armi, la leadership, le gallerie, le case e tutte le strutture usate come basi armate, ormai residui smozzicati. Sarà accusato di sottoporre Israele al rischio che proviene dai terroristi liberati, ed è una preoccupazione reale, anch’essa una grande sfida. Ma questo è il Medio Oriente oggi. Lo sguardo va spostato da Gaza, non è sul suo stretto sentiero che si può fornire alla gente quel senso di sicurezza che dal 7 di ottobre è un orizzonte penosamente difficile da recuperare. La guerra contro il terrorismo suscitata dall’Iran deve essere riconosciuta come tale. Israele dovrà essere adesso nell’accogliere i suoi cari coraggiosa, compatta, solidale quanto i suoi soldati, che hanno rischiato e anche perduto la vita a Gaza spesso avendo in mente il sogno, come mi ha detto uno di loro “di trovarsi di fronte combattendo, a un gruppo di rapiti, e di riportarli a casa”. È grazie a loro se oggi il mondo occidentale può ottenere il cessate il fuoco sognato, può godere della scelta di Israele. Hamas è e sarà sempre jihadista, così come la maggioranza delle tribù mediorientali: ma con la svolta odierna si cerca di inaugurare una nuova, larga strategia che dà valore alla fiducia che l’alleato americano ha in Israele, e affronta il campo largo. No, l’Europa da tutto questo è assente. Non ha mai detto “se i rapiti non tornano, Hamas vedrà l’inferno”. Adesso, quanto coraggio ci voglia, lo sanno solo le famiglie che aspettano i loro cari, e tutta Israele intorno.
La gioia e il sollievo ma anche le critiche sul "rischio" di Bibi

Il Giornale, 16 gennaio 2025
Ci saranno da oggi finalmente momenti di grande gioia. Israele è una comunità molto compatta: il premier ha rispettato il principio per cui Israele non lascia indietro nessuno. Siano soldati, feriti, malati o rapiti. Gioiranno le famiglie dei rapiti, gioirà la grande massa che ha manifestato a ogni fine settimana di fronte alla casa di Netanyahu, gioiranno i giornalisti che a frotte hanno seguito la storia colpevolizzando Netanyahu molto più di Hamas; respirerà chi ha visto la pazzesca sofferenza dei rapiti nei racconti di chi è tornato e si sentirà vittorioso chi ha predicato il cessate il fuoco. Oggi Israele sarà un Paese con il volto proteso verso Gaza, aspetterà i primi tre liberati, le ambulanze che poco a poco porteranno i 33 rapiti «umanitari»; la gente piangerà sui corpi di chi verrà riportato senza vita, un’altra vittima della furia di chi si trova sotto i riflettori di tutto il mondo come se non fosse un assassino ma un grande della storia.
I 42 giorni per la prima fase saranno ancora una fiera di opinioni contrapposte, il ministro Ben Gvir seguiterà a battersi con Smotrich per bloccare ragionevolmente che Hamas sia lasciato solo nella Striscia, libero di riorganizzarsi. Nei 42 giorni le famiglie degli ostaggi parleranno di nuovo della selezione arbitraria dei restituiti, se la prenderanno con Netanyahu perché non è riuscito a ottenere tutto e subito; i pullman di terroristi liberati verranno osservati e temuti giustamente da un pubblico ammaestrato al pericolo più di prima, vittime che ricordano quanto dolore hanno portato i 1.007 (fra cui Sinwar) liberati per Gilad Shalit. Netanyahu si avventura in un ruolo inusitato, quello in cui si adatta a una situazione di necessità ed elabora una strategia internazionale in cui conta sull’appoggio di Trump sia per eventualmente riprendere le armi se sarà violato il contratto, sia per affrontare la vera grande guerra, quella contro l’Iran. Le promesse tra i leader sono segrete e finché non affioreranno si vede solo la fatica di Netanyahu e si dimenticano la sua astuzia e il suo valore in guerra.
Bibi si prende il rischio che i soldati si sentano messi da parte dopo 800 perdite sul terreno ora abbandonato, che le famiglie dei soldati uccisi lo guardino con stupore e non lo riconoscano. Prende di nuovo un rischio, così fanno i leader. Rinuncia all’ammirazione di gran parte del pubblico che vuole la vittoria completa, sgominare subito con Hamas ed Hezbollah l’Iran che li nutre. Dopo il 7 ottobre, Bibi ha sfidato divieti e disapprovazione: alla richiesta internazionali di cessate il fuoco ha risposto combattendo a Gaza e in Libano, all’imposizione di Biden di non entrare a Rafah e di lasciare lo Tzir Filadelfi ha risposto dando la caccia a Sinwar là fino a eliminarlo e ha ucciso in Libano Nasrallah. Dopo l’accordo per i rapiti col nemico più sanguinoso, che adesso verrà rimpinguato di terroristi freschi, le critiche saranno pesanti. I rabbini più severi, come rav Dov Fisher, dicono che anche la legge santa, l’alachà, proibisce di mettere in pericolo preziose vite anche nel santo compito di salvare i prigionieri. Dall’altra parte, la sinistra chiederà a Netanyahu altri pegni, lo accuserà di non aver piegato Hamas e anche di non essersi piegato alle sue richieste: avrebbe dovuto ottenere tutti i rapiti e guai a impugnare l’accordo. Anche se Hamas lo violerà penserà di poter contare sul dolore delle famiglie. Dunque Bibi si è messo in trappola? Difficile crederlo: l’odierna rinuncia promette una vittoria maggiore, con l’aiuto di Trump. Huckabee, Hegseth, Rubio: impossibile dimenticare che il loro sostegno per Israele è molto diverso dall’atteggiamento di Biden e di Blinken. Hamas ha accettato, perché è debole più di sempre: Netanyahu e Trump sono un nemico troppo forte. E così resteranno. E tuttavia il suo popolo, quello di cui si dice «due ebrei tre opinioni», resta lo stesso: due delle tre saranno critiche, qualsiasi cosa faccia il Primo Ministro.
Netanyahu accetta ma i dubbi restano. Nel mirino c’è l’Iran

Il Giornale, 15 gennaio 2025
Non si parla più, le carte sono tutte in bella vista, Netanyahu ha parlato ieri sera in video coi suoi rappresentanti a Doha, ha incontrato i ministri che minacciano l’abbandono del governo Betzalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, ha visto fino a tardi famiglie a favore dello schema noto, e contro, ha parlato al telefono con gli americani di Biden e di Trump. Per lui il dado è tratto, ed è forse la decisione più difficile che abbia preso, più di attaccare Gaza, più di distruggere gli Hezbollah, o di entrare in Siria. Non è da lui, per cui la vittoria del popolo ebraico, specie dopo il 7 di ottobre, è parte del DNA. Netanyahu adesso ha deciso che la strada della vittoria può entrare in pausa, o almeno compie difficili convoluzioni. Il mondo pesa sulle sue spalle mentre ormai si discute nel mondo, sul fatto che la sua scelta, la scelta di Israele è quella di andare a un accordo duro, scivoloso, imperfetto, pericoloso, di cui per altro fino all’ultimo minuto rimane padrone Hamas, il cui assenso tutti aspettano ancora, sperando che arrivi nella notte da quelle case sbrecciate e piene di armi e di odio oltre che del cibo degli aiuti umanitario rubato alla propria gente.
Il sospetto logico è che si trattò di un’altra trappola che voglia imporre un cessate il fuoco immediato e un ritiro totale e subitaneo, senza stadi. Questo Bibi non lo accetterà: anche adesso i termini sono insoddisfacenti, la guerra non è finita, si seppelliscono soldati diciannovenni, 15 in una settimana, a Beit Hanun e Jabalia. Blinken accompagna il suo saluto dal ruolo che ricopre informando che Hamas ha ormai lo stesso numero di terroristi di cui disponeva prima della guerra. Netanyahu ha risposto alle accuse delle famiglie che dicono che deve accettare tutto subito e a quelle che invece lo spingono a combattere per piegare Hamas. Nessuna parte, di sinistra e di destra vuole gli stadi, sui 42 giorni della prima fase in cui si vede se funziona e si verifica che Hamas non consegni solo una fila di corpi senza vita, Netanyahu ha risposto che cerca un accordo onnicomprensivo. Ma si sa che Hamas è morto se consegna tutti, e semmai quindi saranno 33, contro migliaia di assassini liberi e liberati fin dentro Gerusalemme, e insieme la promessa di passare da 42 giorni in cui si comincia consentire il passaggio dal sud al nord fino allo smantellamento dell’esercito che oggi protegge Israele da Hamas che appena potesse, compirebbe un’altra strage come quella della Nukba. Ma proprio qui è il punto: Hamas chiede di lasciarlo solo dentro Gaza a riorganizzare i suoi orrori. Trump, ripetute le minacce di “un inferno” se non si restituiscono i rapiti, ha detto, ed era un messaggio a Bibi cui aveva mandato il suo inviato Steve Witkoff, che l’accordo è fatto. Sembra prevalere un imperioso desiderio di imporre a Israele di sgombrare il tavolo prima del so ingresso alla Casa Bianca. Ma Netanyahu ha promesso di concludere con una completa vittoria, che comprende la fine di Hamas. Sia Trump che Netanyahu sono sinceri: Bibi ha la distruzione dei nemici nel suo programma più irrinunciabile, e pensa che senza distruggere l’Iran questo non potrà accadere.
Dunque vuole che piuttosto che contro Hamas semidistrutto, Trump sia con Israele nella guerra vera, dichiarata dall’Iran contro il mondo occidentale. Trump, nelle intenzioni e nei suoi uomini difficilmente troverà spunti per abbandonare Israele, non lo contraddirà come Biden su Rafah, lo Tzir Philadelpi, le armi, gli aiuti. Blinken intanto si fa vivo, rivendica il suo ruolo, annuncia che è pronto un suo piano per il domani di Gaza. Gli ostacoli aumentano: l’accordo incontra il divieto dei suoi alleati di governo, Smotrich e Ben Gvir, che gli ricordano che lo scambio per Gilad Shalit con 1027 terroristi liberò anche Sinwar. Forse Netanyahu ai suoi ministri per convincerli chiede a quattr’occhi se conoscono qualcuno deciso come lui a battere Hamas e l’Iran. Nessuno ha fatto tanto e con tanto successo. È un buon argomento.
Israele contro gli Houty insieme a USA e Regno Unito, il Medio Oriente aspetta Trump

Il Giornale, 11 gennaio 2025
Dopo 40 surreali missili terra-terra e 320 droni provenienti da 2000 chilometri di distanza che l’anno passato hanno spedito tutta Israele, dal deserto al mare, da Gerusalemme a Tel Aviv, a rifugiarsi nottetempo, adesso dopo l’attacco di ieri coordinato da Israele con gli Stati Uniti e l’Inghilterra… può darsi si calmi l’armata degli Houty, superattiva, superjihadista, decisa a colpire l’odiata Israele, per ordine dell’Iran, dal lontanissimo Yemen. In Israele nessuno, nemmeno il Mossad, riusciva a capire il dialetto yemenita degli Houty e a decifrare i loro messaggi: così sono stati arruolati i vecchietti yemeniti che decine di anni fa giunsero, poverissimi e pieni di speranza, in Israele e portarono la loro immensa cultura biblica, i lunghi riccioli laterali e l’ottimo jachnun.
Probabilmente hanno aiutato con soddisfazione il grande attacco di 20 aerei da guerra che ha preso di mira le centrali elettriche, Heryaz, e i due porti Hoeidah e Ras Issa sulla costa occidentale. L’Iran ha armato, allenato, usato cinicamente in quel Paese misero gli Houty da decenni, e ora con loro seguitava a dare segnali di vita. Anche Hamas ha sparato 25 missili in una settimana, e Hezbollah vuole riorganizzarsi. Ma è crollato il sistema di strangolamento di Israele e la strategia antioccidentale Occidente. Ieri, in Yemen, le riserve di petrolio e i moli sono stati colpiti, ma, hanno detto le forze britanniche, nessuna nave civile è stata danneggiata. Israele ha colpito le strutture economiche, gli alleati quelle militari. Questa divisione dei compiti stabilita dal Centcom ha distrutto anche gallerie sotterranee, depositi d’armi e strutture militari. Gli Iraniani possono riflettere sullo scenario in cui si può porre la questione del loro apparato nucleare e dei loro missili. L’avvertimento, è per loro. Netanyahu ha detto che gli “Houty hanno pagato e seguiteranno a pagare un pesante prezzo per la loro aggressione” e che così sarà “per chiunque attacchi i nostri cittadini e il nostro Paese”.
Israele, che ha ridotto a più miti consigli le tre H, Hamas, Hezbollah e Houty, ha ancora quei fronti semiaperti e l’avvicinarsi dell’ingresso di Trump alla Casa Bianca stringe il tempo delle decisioni. Dopo il ritrovamento del corpo del rapito Yossef Ziyadne e di suo figlio e nel contempo, la morte di tre soldati a Gaza che porta a 831 il numero degli uccisi in battaglia, l’uccisione da parte di terroristi armati di tre civili e il ferimento di 7, il ministro Katz ha chiesto un piano all’esercito per prepararsi all’avvento di Trump. La sua promessa di scatenare l’inferno fra le file di Hamas se i rapiti non verranno restituiti motiva dunque l’IDF a definire un piano per la sconfitta di Hamas a Gaza in tempi brevi, per evitare che rapiti “languano durante una guerra di attrizione”.
Questo dovrebbe portare alla fine del potere di Hamas e aprire le porte al futuro; così, la nuova situazione Libanese promette, almeno in teoria, l’espulsione degli Hezbollah dal potere. Israele vuole chiudere il cerchio: il Libano ha ormai un presidente, il generale Aoun, che dovrebbe riuscire finalmente a avviare il disarmo degli Hezbollah, dopo la sorpresa dei beeper e la morte di Nasrallah. Per ora, verso la conclusione dei 60 giorni di tregua, Israele mantiene le truppe dove ancora la pulizia non ritiene sia stata fatta. In Siria, anche se il crollo di Assad ha siglato la nuova debolezza dell’Iran e della Russia, Israele non si fida e controlla, permanendo all’interno, il terreno confinante, dove scopre di continuo nuove armi che non vuole finiscano nelle mani di al-Julani. Il bombardamento dei Houty di nuovo segna la direzione della crisi iraniana: palestinesi, islamici sciiti e sunniti, persino Erdogan, se ne rendono conto. I Sauditi sono all’orizzonte con Trump. Lui, certo vede oggi questo panorama, in cui balena una “demise” del regime degli ayatollah. Se dovesse cedere, darebbe agli USA lo spazio per nuovo Medio Oriente post Gaza, con un nuovo patto di Abramo.