Il dolore di Israele per i simboli del 7 ottobre. Il sostegno di Trump per eliminare i jihadisti

L' occasione di un nuovo Medio Oriente

Il Giornale, 16 febbraio 2025
Ieri, mentre il viso segnato di Sagui Dekel Chen affondava nei capelli biondi della moglie ritrovata che gli sussurrava il nome della loro bambina nata durante la cattività, Sharar, aurora…, Netanyahu ha rotto per sempre uno stereotipo fra i tanti che gli sono stati appiccicati addosso: non si contano le manifestazioni, i titoli in cui lo si è accusato di preferire la guerra alla vita dei rapiti. Ha scelto i rapiti: e stavolta, aveva alle spalle non solo l’approvazione di Trump per potere riprendere una guerra definitiva contro Hamas, ma addirittura il suo incoraggiamento. Fossi Israele, ha detto il presidente dopo che Hamas aveva interrotto la prima fase dell’accordo, gli chiederei la restituzione di tutti i rapiti entro le 12, o sarà l’inferno. Mezzogiorno ora israeliana è passato, e prima dell’ora americana Trump ha ripetuto il suo punto di vista aggiungendo che gli USA saranno con Israele qualsiasi cosa decida: mezzogiorno a Washington sono le sette in Israele. Ma Bibi ha scelto di accettare il ripensamento di Hamas coi tre ostaggi previsti dallo scambio di ieri. Così, anche la ripresa degli accordi che sboccano in questi giorni nella seconda parte del patto col diavolo, quella in cui devono tornare tutti, vivi o morti, e la guerra deve finire. Questo è il punto di arrivo per Hamas, la sua speranza di ricostruire il suo potere: per questo ha scelto per la consegna i tre nella migliore condizione fisica possibile, così da invogliare alla continuazione del patto per i prossimi sei vivi previsti per questa fase. Ma mentre per Israele è indispensabile salvare i rapiti lo è altrettanto distruggere Hamas. Netanyahu compie una nuova scelta strategica, basata sull’insistito appoggio di Trump e per cui occorre pazienza come per l’attacco agli Hezbollah che non fu contemporaneo a quello a Gaza nonostante dal Libano piovessero missili. Ma poi l’attacco dei cercapersone, l’eliminazione di Nasrallah e l’ingresso in Libano all’organizzazione sciita, longa manus iraniana, ha vinto.
Adesso, Netanyahu non può sottrarsi alla passione del suo popolo che in parte teso, straziato vuole recuperare i rapiti dalle mani dei nazisti di Hamas; sulla salvezza dei rapiti si è definita una lettura pervasiva di tutti i media e della politica unica al mondo. Israele è piccolo, come la famiglia dei kibbutz, dei combattenti, della solidarietà, ere anche un’opposizione determinata contro il Primo Ministro ha reso contrari allo sforzo di tenere in equilibrio il patto di restituzione con l’indispensabile necessità di salvare il Paese. Ma il fatto che adesso da Trump abbia capito a fondo con chi ha a che fare Israele, quanto sia irrealizzabile la pace con un gruppo che incarna il male assoluto, quanto la disponibilità a sostenere lo Stato Ebraico sia basato su principi di importanza superiore, come quello della difesa della democrazia e della libertà, rafforza Netanyahu probabilmente ad accorciare i tempi della prossima restituzione, almeno per i rapiti vivi. Il sostegno americano consentirà di affrontare il problema del nucleare iraniano mentre sullo sfondo si disegna l’accordo sulla faccia del futuro di Gaza sgombrandolo da Hamas col programma della emigrazione volontaria. Per Netanyahu Trump rappresenta un disegno di pace condiviso anche se molto audace, un’occasione inusitata per rinnovare il Medio Oriente con i Paesi arabi che vorranno starci. Il più riottoso degli interlocutori sembra sia il presidente egiziano al Sisi, che nonostante la pace con Israele ha sempre conservato un atteggiamento ambiguo, in particolare durante la guerra e nell’uso del passaggio di Rafah. L’Egitto è il confine naturale fra Hamas e il Medio Oriente, e Trump lo sa.
Promesse di Hamas sui tre ostaggi. Israele punta l'Iran (con l'ok di Trump)

Il Giornale, 14 febbraio 2025
Hamas ha scherzato, ma certo, tutto bene, era solo una giravolta sadica quella con cui ha gettato Israele e il mondo intero nella maggiore confusione annunciando che non aveva intenzione di riconsegnare domani, secondo gli accordi, i tre rapiti previsti nella prima parte. Adesso annuncia solennemente di voler tener fede al programma. Bontà sua. La mossa dell’abbandono del campo, subito dopo la vampiresca rappresentazione dei tre ridotti ad ombre sabato scorso, e poi la minaccia di bloccare tutto dimostrano che Hamas non capisce che siamo in una nuova era, quella in cui esiste anche Trump. Hamas infatti è tornata sui suoi passi dopo che Trump, di nuovo identificando Hamas come un’ organizzazione di ricattatori criminali, ha consigliato a Israele di farsi consegnare tutti i rapiti entro sabato alle 12 oppure di “aprire le porte dell’Inferno”. Netanyahu ha dichiarato dopo la riunione di Gabinetto di accettare quel punto di vista, e insieme al ministro Katz ha in parte rIorganizzato l’esercito annunciando che, nel caso, la guerra sarebbe stata ripresa. Ma dopo che Hamas ha fatto marcia indietro, Israele è pronto, sotto la spinta appassionata della piazza dei parenti dei rapiti, a riprendere l’accordo. O almeno così sembra. Ma l’ipotesi di riavere i 9 vivi della prima mandata insieme agli 8 uccisi è rimasta nell’aria.
Trump ha una ragione di fondo: Hamas è una banda terrorista senza regole, e Israele non si fida della trattativa. L’atmosfera è sospettosa oggi di più di ieri, e la guerra è dietro l’angolo. Ma i lacci sono molti, lo sfondo geopolitico è largo: rivelazioni della stampa internazionale indicano la possibilità che entro sei mesi Israele realizzi un’intenzione certo non nuova ma, con Trump sullo sfondo, più consistente: distruggere le strutture nucleari iraniane. I mezzi ci sarebbero, il Moab, la grande bomba da 11 tonnellate che può scavare nella profondità delle centrali iperdifese, è stato consegnato, pare che volare con aerei capaci di portare quel peso e sganciarlo dove occorre sia nelle possibilità di Israele. La finestra di opportunità è fornita dalla distruzione operata dai jet Israeliani sui radar e i sistemi di difesa di Teheran durante le due risposte agli ayatollah. Ma Trump vuole? Solo se indispensabile. Forse anche le notizie filtrate sui media sarebbero un modo per frenare e lasciare spazio alla grande strategia americana che rendendo più dure le sanzioni chiederebbe all’Iran di chiudere la bottega nucleare per sempre. Trump ha detto di “preferire che si risolvano le cose con una carta” piuttosto che con le armi. Ma si capisce che in testa al disegno strategico, c’è la pulizia dal Medio Oriente dalle fonti di guerra, come l’Iran e Hamas, per arrivare a una pacificazione ideale di cui il presidente vorrebbe fare la sua eredità. Trump ne fa un tutt’uno del suo piano di spostamento di Hamas e di tutta la popolazione della Striscia: la discussione indica risultati non scontati ma nemmeno del tutto negativi che si discutono con i Paesi Arabi moderati: l’Arabia Saudita, l’Egitto, la Giordania… obiettano, ma Trump ha molti argomenti. Ancora tace sul fatto che al Sisi abbia cancellato l’incontro a Washington e che, mentre annuncia una riunione dei Paesi Arabi sul futuro di Gaza, stia accumulando truppe sul confine della Striscia. Invece l’ambasciatore degli Emirati Arabi ha dichiarato di non vedere all’orizzonte nessun piano alternativo a quello americano.
Trump misurerà le prossime mosse sulla disponibilità dei Paesi mediorientali, e per quanto ami essere visto come un negoziatore che cerca solo il business migliore, non c’è dubbio che Israele è per lui l’alleato mediorentale cui è legato. Israele resta nelle prossime settimane dentro i confini del Libano e della Siria; e nei lunghi colloqui fra Putin e Trump si dice che ci sia stata anche una richiesta americana di lasciar perdere l’acquisto dei droni e l’alleanza con gli ayatollah, abbandonando le derive filoterroriste.
La minaccia sui rapiti e la strategia islamista per dividere Israele

Il Giornale, 11 febbraio 2025
La minaccia di Hamas di ieri sera, quando all’improvviso ha annunciato di interrompere gli accordi per cui sabato avrebbe dovuto consegnare tre rapiti a Israele dice solo questo: o fate quello che vogliamo noi, o la fine che fanno i rapiti è scritta sui volti e sui corpi di Eli Sharabi, Or levy e Ohad Ben Ami. Ovvero, li riduciamo attraverso torture e privazioni a sopravvissuti della Shoah o, peggio, li facciamo morire come abbiamo fatto con la metà di quelli che volete rivedere. Hamas ha detto di fermare tutto per violazioni di Israele: lentezza, meno aiuti umanitari del programmato, fuoco all’avvicinarsi al confine di suoi uomini, poco passaggio tranquillo attraverso la Striscia, scarsa o nessuna consegna dei veicoli pesanti per lo sgombero di masserizie… niente di tutto questo è vero, o rilevante rispetto a una mossa così drammatica, manipolatrice, che ha scaraventato in piazza tutto il movimento anti Netanyahu, che non c’entra niente. I termini dell’accordo sono stati tutti penosamente rispettati, gli assassini palestinesi sono per la strada, il ritardo nelle consegne riguarda una parte minuscola dell’enorme numero dei carichi, rallentati peraltro dal comportamento di Hamas che se ne è via via impossessato per i suoi fini alla faccia della popolazione di Gaza; è vero che i palestinesi che si sono avvicinati all’esercito sono stati presi di mira, ma tutto era scritto e concordato.
È anche avvenuto con grande apprensione lo sgombero di Netzarim che bloccava l’accesso dal nord al sud della striscia e viceversa. I mezzi pesanti sono oggetto di discussione, perché Israele non ha intenzione di lasciare che sia Hamas ad affrontare o fingere di affrontare la ricostruzione per fare altre gallerie per le sue armi di distruzione. Sono altre le ipotesi di ricostruzione, specie quella che Trump ha arricchito ieri di nuovi progetti di una grande operazione di real estate con la partecipazione diretta degli USA: questo dopo che ha visto la riduzione a scheletri dei rapiti liberati due giorni fa, e ha proprio pensato che no, con Hamas niente è possibile fuorché farla finita. Le bugie di Hamas non incantano nessuno, e le ipotesi realistiche sono varie: la prima è che Hamas si comporti come Hamas, un manipolatore crudele che gioca sui nervi del popolo ebraico che vuole vedere a casa i rapiti, che punta sulle sue rotture interne ora che è particolarmente ferito dall’accresciuta consapevolezza di come i nazisti di Gaza trattano i rapiti. Dunque Mohammed Sinwar forse non ha veramente intenzione di abbandonare l’accordo, dato che le condizioni di assoluta debolezza di Hamas non gli consentirebbero una vera ripresa della guerra: il gioco riguarda forse un’accelerazione dell’ingresso di quella seconda fase che dovrebbe dare a Hamas la pace senza vederlo sgominato, e portare alla restituzione di tutti i rapiti: ancora la seconda fase Israele non si è affrettata a discuterla tecnicamente anche se la delegazione a Doha. Ed è per questo. Ma il fine ultimo di Hamas è ottenere ora, subito, la fine delle ostilità e l’ultima preda, quella del confine di Filadelfia, così da poter ricominciare a preparare la distruzione di Israele. Sullo sfondo due eventi che possono interrompere la spirale sadica: il primo quello appena citato, ovvero la promessa di Trump di occuparsi personalmente della cosa. La minaccia contro gli Stati Uniti è giocata direttamente sulla pelle dei rapiti: provaci, e vedrai cosa gli faccio. Ma Trump sembra averli direttamente a cuore, e già una volta ha promesso l’inferno se non verranno restituiti. In secondo luogo, si è visto a Teheran un incontro la settimana scorsa dei leader di Hamas coi loro patron. Può darsi che in Iran, dove in questi giorni il Primo ministro ha tenuto un discorso diretto e aggressivo minacciando Israele e gli USA come ai bei tempi, si tentino mosse che spostino l’attenzione di Trump su eventi collaterali rispetto al disegno di giocare tutta la partita del Medio Oriente che vede gli Ayatollah messi molto male. Trump incontri il re Abdullah di Giordania e il presidente al Sisi d’Egitto, mentre sempre a seguito della proposta di Trump, Abu Mazen cerca di rafforzare la sua candidatura a una compartecipazione nella gestione della Striscia dichiarando che da ora in poi diventerà buono e smetterà di finanziare i terroristi coi suoi noti stipendi del “pay for slay”. Il terreno intorno e dentro gaza scotta per Hamas che quindi sta giocando col fuoco: mette sul tavolo tutto il suo patrimonio, i rapiti, mentre non controlla l’orrore per il suo sadismo, che gli si ritorce contro.
È vero che Hamas con l’ultimo ricatto farà di nuovo scendere la gente in Israele in piazza per chiedere a Netanyahu di dare tutto ciò che ha in cambio dei rapiti nelle mani del mostro, che gioca appunto sulla sua mostruosità. Ma è un gioco che pasticcia con eccessiva sfacciataggine sulla crudeltà, sul sadismo, sul ricordo del sette di ottobre. Di certo il governo cercherà di andare avanti per recuperare più rapiti possibili e di spingere Hamas a ripensarci fino a sabato. Intanto però l’esercito è allertato, i soldati che stavano tornando a casa in parte sono di nuovo ai loro posti. Anche Trump si è chiesto per quanto tempo si può baloccarsi col diavolo. La risposta è: finché il diavolo sbaglia mossa. Stavolta la folla invece di tornare in piazza contro Netanyahu chiedendogli di dare tutto, potrebbe invece marciare idealmente su Gaza per farla finita con questa pazzia.
Le foto dell' orrore che ci riportano al 1945

Il Giornale, 09 febbraio 2025
Alla fine del febbraio 1945 fra i primi rapporti su Auschwitz il luogotenente polacco Witlinski scriveva quello pubblicato sul Polpress bulletin: “Coloro che sono sopravvissuti, non sono più essere umani, sono solo delle ombre”. Così Hamas ha voluto che Israele e tutto il mondo vedessero i tre rapiti liberati ieri, come usciti da Auschwitz: ridotti a ombre, piegati a salire barcollando sul loro palcoscenico dopo aver patito botte, fame, freddo, buio, senza carne sulle ossa, gli occhi fosse nere, pallidi come chi esce da una grotta dove è stato seppellito. Così sono riapparsi davanti al mondo Eli Sharabi di 52 anni, Ohad Ben Ami di 56 anni, Or Levy di 34 anni. Sul palcoscenico costruito a Dir El Bala, una delle cittadine di Gaza meno toccate dalla guerra, dove non è mancato il cibo né le case, perché si sospettava che vi fossero rinchiusi dei rapiti, era scritto “noi siamo la Nukba”, l’inondazione, e lo faremo di nuovo. Sorretti dai nazisti di Hamas con le divise e le maschere, davanti alle telecamere di Al Jazeera, i rapiti hanno ascoltato una concione e poi ciascuno è stato costretto a parlare. Eli Sharabi ha sentito là, dalla bocca del terrorista mascherato, che suo fratello Yossi era stato ucciso. Ma non è chiaro se sappia che sua moglie e le sue due figlie sono state trucidate nella loro casa a Be’eri mentre lui veniva rapito. Ohad Ben Ami, la cui madre ha detto che dimostra ormai 80 anni, ha ritrovato la moglie rapita con lui a Be eri e poi rilasciata a Novembre del 2023, Ohad siede nelle foto accanto a lei mentre la abbraccia, irriconoscibile e sorridente, ma di lei si scrive che abbia una seria malattia. E Or, ormai uno stelo, alla festa di Nova era coperto dal sangue di sua moglie che ha cercato invano di difendere; torna dal suo bambino di tre anni, che si è salvato e sa dai nonni che se la mamma non tornerà, però il babbo è tornato.
La Nukba continua nonostante la sconfitta di Hamas. La loro disgustosa crudeltà si affaccia da ogni galleria di Gaza. Le foto dei tre quando erano uomini forti e normali, ritratti con le mogli, con i figli fanno impazzire di rabbia: almeno i primi 13, forse rinvigoriti artificialmente con vitamine nelle ultime settimane, anche se la loro biografia era ormai minata, facevano sperare che il ritorno sarebbe stato accompagnato dalle immagini di un futuro recuperato, possibile. Ma non è così: questo è Hamas, un’organizzazione che ha compiuto i crimini più immondi che mente umana possa concepire, è quello che ha decapitato i bambini, che ha tagliato a pezzi le donne che stuprava, che ha bruciato famiglie intere. Quello per cui il presidente Trump, affrontando il tema per quello che è, come una minaccia terrorista irriducibile, ha disegnato l’atteggiamento americano sulla necessità di liberarne Gaza e il mondo intero. Ho visto le immagini spaventose del 7 ottobre, ha detto, e ho capito. In molti, l’ONU in primis, non hanno capito niente. Certo ora l’idea di eliminare questa forza malefica dall’area non può che rafforzarsi anche in Israele, e con essa il disegno di affrontarne l’origine pratica, l’Iran. Adesso sul tavolo la seconda parte dell’accordo che libera subito il passaggio di Netzarim e rilascia anche gli assassini palestinesi con più ergastoli. Il messaggio di Netanyahu per cui le immagini di ieri non resteranno senza risposta, e Gal Hirsch (responsabile per i rapiti) che vuole intimare a Hamas di smettere coi maltrattamenti, sono un palliativo perdente.
La risposta è nelle cose, e deve solo essere praticata: Hamas vuole Auschwitz, ma Israele ne è l’antitesi storica, lo impedirà come ha già fatto dopo il 7 ottobre con la sua forza, il suo esercito, col valore con cui ha abbattuto Hamas, Hezbollah, con cui ha occupato le strutture armate della Siria e messo all’angolo l’Iran. D’altra parte però Netanyahu ha il solito dilemma: Hamas gli chiede con la mostra dei suoi orrori proprio il cessate il fuoco e la sopravvivenza. Per Israele è la quadratura del cerchio: liberare i rapiti mentre si elimina Hamas non può avvenire in pochi giorni, ma solo in un disegno strategico che dura mesi. La sofferenza e la rabbia ribollono insieme. La pazienza sembra la prima arma a disposizione, e poi un piano radicale e deciso, come quello di Trump, che porti nel gioco forze nuove e determinate. Mediatori come il Qatar sono complici di Hamas: questa è la prima cosa da cambiare. Trump dovrebbe averlo capito.
L' audacia di un cammino che stavolta può davvero cambiare il Medio Oriente

Il Giornale, 06 febbraio 2025
Non è stata solo una svolta strategica per Israele e gli USA, ma un momento storico, l’epilogo di un’era di bugie, l’inizio di un cammino a occhi aperti che può cambiare del tutto il Medio Oriente. È successo quando Trump ha detto: “Israele ha combattuto eroicamente. Gli israeliani hanno resistito forti e uniti di fronte a un nemico che ha rapito, torturati, macellato donne e bambini innocenti. Saluto il popolo d’Israele” Ognuna di queste parole è la base della svolta, simile alla dichiarazione Balfour che nel 1917 riconosce agli ebrei il diritto a d’Israele, simile alla guerra d’Indipendenza vinta nel 1948 rispondendo all’assalto di tutti i Paesi Arabi dopo la risoluzione dell’Onu. “Del 7 di ottobre” ha detto Trump “si è cercato di negare la realtà, come di quella della Shoah”. Da qui la logica negata per decenni e non solo dal sette di ottobre del riconoscimento del terribile continuo, incessante, terrorismo palestinese, del pietismo, della ricerca patetica di “appeasement” che ha tolto ogni valore alla risposta indispensabile a questo male altrimenti inestirpabile, quello che dopo la strage ha trasformato le camere dei bambini in armerie e gli ospedali in lanciamissili. La guerra di difesa tanto criticata con le richieste continue di Biden di cessate il fuoco, con le accuse sulle condizioni umanitarie mentre i camion di aiuti finivano in mano a Hamas, lo svisamento dell’aiuto dei civili, dell’UNRWA, della Croce Rossa alla nukba è stata mostrata nuda: un’aggressione a Israele nel contenuto e nello svolgimento. E contro, il valore dei soldati che hanno vinto la guerra, anche a costo della vita.
Da qui la cura su cui i due leader hanno trovato un accordo senza precedenti fra USA e Israele: la restituzione degli ostaggi e l’annientamento di Hamas. È la quadratura del cerchio, dato che fino a ieri l’accordo che per altro costringe Israele a molte difficili concessioni, sembrava impossibile da coniugare con la sconfitta totale di Hamas. Ma Trump è la variabile necessaria: Gaza non esiste più, è un cumulo di rovine da riabilitare con anni di lavoro. Senza Hamas, con l’Arabia Saudita, e con altri Paesi arabi moderati che insieme disegnino un Medio Oriente da cui il terrorismo è espulso. Certo, Sauditi, Giordani e Egiziani, per principio biasimano il piano per cui Trump vuole veder partire i gazawi per ricostruire la Striscia, avendo a disposizione tempo, spazio, fiducia di chi ci si impegna. Per i “no” al piano sono un ostacolo; inoltre Hamas si può opporre con le armi che le sono rimaste e infierire sui rapiti, ma ha voglia davvero di vedere la reazione “violenta” come ha detto Trump se i rapiti non tornano? La Giordania e l’Egitto e forse il Qatar e la Turchia, possono rispondere a lungo con un “no” alle richieste americane accompagnate sempre dal mercanteggiamento e dalla minaccia. L’idea, fino a ieri sconosciuta, che l’America sovrintenda direttamente alla Striscia in fase di riabilitazione è reale? Trump non scherza, e lo fa pensare l’immediata risposta dell’Iran a Trump che insieme a Netanyahu ha promesso ancora che l’Iran non avrà la bomba atomica; intanto era partito uno dei suoi micidiali executive order per nuove sanzioni agli Ayatollah; e una risposta iraniana ha avvertito il Presidente che l’Iran, nel caso Trump voglia trattare sul nucleare, è pronto a compromessi.
Ma il maggior motore della grande minaccia terrorista in Medio Oriente mente volentieri, Trump e Netanyahu cercano un nuovo orizzonte in cui si smetta di raccontare bugie pacificanti sulla disponibilità palestinese, contraddetta dalla storia di Arafat, di Abu Mazen, di Hamas che mai hanno voluto “due stati per due popoli”. Adesso, l’idea di spostare dalla Striscia almeno una parte dei palestinesi, mette un punto almeno su Hamas; su Fatah, bisognerà vedere quanto si intenda usarla come moneta di scambio: Israele non accetterà uno “Stato palestinese” fatto per distruggere il suo, ma nello stesso tempo potrebbe consentire a collaborare con un’Autorità palestinese libera dalla presenza di Hamas e dall’influenza terrorista di Abbas, che non ha mai condannato il 7 di ottobre. I sauditi non hanno chiesto uno Stato palestinese, Trump ha detto, mentre parlava anche di quanto Israele sia piccolo a fronte di un Medio Oriente enorme e minaccioso. Quindi, sulle annessioni in Giudea e la Samaria ha chiesto due mesi per pensarci, eliminando la lectio vulgaris per cui dici “colono” e intendi delinquente: colpa dell’ONU che per iniziativa di Obama ha dichiarato illegali gli insediamenti contro le proprie stesse risoluzioni dell’ONU. Intanto Trump ha lasciato la commissione per i diritti umani di cui l’Iran ha la presidenza del blocco africano asiatico. È la grande criminalizzazione di Israele, l’abbandono in mano al terrore, di cui si rimettono adesso in ordine le carte: i terroristi sono terroristi, la guerra di difesa è valorosa e ha vinto, i rapiti devono tornare. Tutti, adesso, e intanto Hamas deve essere eliminata. Perché Israele è la patria degli ebrei, e il presidente americano lo sa.
Netanyahu alla Casa Bianca. Sul tavolo liberazione dei rapiti e colpo finale ad Hamas

Il Giornale, 03 febbraio 2024
Nei quindici mesi della guerra più difficile della storia del Medio Oriente, Hamas e i nemici di Israele hanno ricevuto un incoraggiamento molto importante dal continuo scricchiolio nel rapporto fra Netanyahu e Biden, fra Israele e gli USA. Blinken, Kamala Harris… tutti mettevano di continuo in discussione, in omaggio al loro elettorato, la strategia e la pratica dell’esercito e della leadership israeliana nel combattere Hamas. Rafiah, Tzir Filadelfi, aiuti umanitari, Hamas ha puntato sulla frattura la perversione consentitale nella gestione dei rapiti, la sua stessa sopravvivenza armata a Gaza, la sua inverosimile presa ideologica sul mondo intero. La rottura con l’America ha destabilizzato il Medio Oriente e oltre. Adesso, quando ieri Netanyahu ha preso l’aereo per Washington, la prima promessa è stata semplice: mettere ordine in concordia con Trump in un momento di caos estremo, disegnando un cambiamento che il suo Paese da una parte, e gli USA dall’altra stanno vogliono portare in Medio Oriente. La visita di martedì, che si svolgerà in due appuntamenti, è drammatica proprio perché essendo la prima che Trump riceve e che ha organizzato con un invito dai toni affettuosi.
Il lavoro in comune è molto bene avviato: la prima liberazione dei rapiti si svolse nel primo giorno di Trump alla Casa Bianca, la svolta dell’accordo è stata compiuta con la garanzia americana. Adesso, mentre domani si comincia a discutere della seconda fase dell’accordo si fa più stringente la decisione su un’eventuale nuova guerra di liberazione da Hamas o la prosecuzione del cessate il fuoco fino alla terza fase, quella definitiva. In Israele è richiesta generalizzata, anche se c’è molta preoccupazione. Witkoff, l’inviato di Trump, ha incontrato il ministro Smotrich evidentemente per convincerlo, da alto seggio, a non minacciare il governo. Da ieri a Doha i mallevadori si vedono e parlano: i qatarini, gli egiziani, gli israeliani. Ma le grandi decisioni si prendono alla Casa Bianca, fra due leader molto determinati, decisi a ottenere il loro scopo e anche a andare d’accordo. Steve Witkoff ha raccontato di come Trump abbia pianto di commozione vedendo i rapiti liberati. Trump, l’ha detto più volte, vuole portare pace; ma anche la pace ha un prezzo, quello della sicurezza, e non è semplice, ma si può fare. Netanyahu ha detto partendo la parola “pace” ma innovativa, un cambiamento basilare sulla strada tracciata da Israele combattendo vittoriosamente contro i suoi nemici. Israele dunque è decisa a insistere: e se la liberazione degli ostaggi è un obiettivo irrinunciabile, lo è anche che Hamas sparisca dal comando di Gaza. Trump discuterà quindi su come garantire che il futuro della Striscia sia in mani affidabili, forse quelle dell’Arabia Saudita insieme ad altri alleati sunniti moderati, l’Egitto e il re Abdullah di Giordania. L’Europa al solito ci fa la figura di un fastidioso fantasma che seguita a ripetere, ogni tanto, “due Stati per due popoli”, l’ipotesi più irrealistica del momento. Chiedete ad Abu Mazen. Il re Abdullah, intanto, sarà a Washington la settimana prossima, notizia di primo piano, perché la proposta di Trump di un trasferimento volontario, e per chi vuole temporaneo, degli abitanti di Gaza che vorranno spostarsi è tutt’altro, si afferma a Washington, che una boutade.
D’altra parte che la Giordania abbia un rapporto molto intimo coi palestinesi, il 70 per cento della popolazione, è storia vecchia e certificata, e l’economia della Giordania dipende molto largamente da Trump. Netanyahu porterà certamente in primo piano la questione iraniana, come già fece ai tempi del primo governo Trump quando lo convinse a sconfessare l’accordo obamiano. Oggi, Trump, tutto preso dall’enorme tema dell’economia e della Cina, potrebbe volere smorzare il presente in sanzioni piuttosto che immaginando un attacco alle strutture nucleari, ormai avanzatissime verso la bomba. Ma le sanzioni non intimidiscono un regime fanatico che vuole di nuovo armare gli Hezbollah e intanto rimpingua di armi Jenin e Ramallah. È il regime l’obiettivo, e si vedrà che se ne dice a Washington. Intanto Abu Marzuk, capo dell’ufficio politico dei terroristi di Hamas, è stato invitato a una riunione al ministero degli esteri russo. E se ne vanta, perfino, l’agenzia Novosti. I vecchi soldati non muoiono mai.
A Gaza liberi altri tre ostaggi. La solitudine di Yarden Bibas

Il Giornale, 02 febbraio 2025
“Saluta con la mano” indica il terrorista con la mano libera dal kalashnikov; e Yarden la agita. È l’ultimo gesto di sottomissione ai miliziani nazisti che circondano il palco su cui lo hanno issato. Gli avevano certo imposto anche di sorridere, come hanno fatto per le restituzioni precedenti, ma anche la schiavitù ha i suoi limiti: Yarden Bibas, 35 anni, non può sorridere; nemmeno quel poco che gli altri due rilasciati di ieri, Ofer Calderon e Keith Siegel sono riusciti a fare dal palco con un angolo della bocca. Yarden porterà con sé per sempre la grotta nera in cui è rinchiuso da quando il 7 di ottobre nel kibbutz di Nir Oz,400 abitanti, lui, sua moglie Shiri, Kfir di 9 mesi e Ariel di 4 anni, i bambini coi capelli più luminosi di tutto il mondo, sono stati rapiti. Li hanno presi separatamente, Yarden era ferito alla testa. Dei 400, quasi la metà sono stati rapiti o uccisi. Shiri, Kfir, Ariel avvolti in una coperta sono stati rapiti su una motocicletta, sulla faccia di Shiri una smorfia di terrore come quella di Eva cacciata dal paradiso nell’affresco di Masaccio, vengono portati via mentre Yarden si batte disperatamente contro l’invasione barbarica che sgozza, violenta, porta via le donne e i bambini. Poi viene rapito anche lui. L’opinione pubblica israeliana vedrà un’immagine in piedi davanti a una baracca in cui Shiri e i bambini tre vengono infilati per poi per sempre sparire. Di Yarden, un video crudele come tutto ciò che promana dalla cricca di maniaci di Sinwar che oltre a uccidere ama manipolare la sofferenza, lo mostra in lacrime; da allora si è sospettato senza che Israele abbia mai confermato, che la strage era avvenuta.
Oltre a Yarden sul palco ieri Hamas ha fatto salire per primo Ofer Calderon e alla fine Keith Siegel: la sceneggiatura ornata di scritte (sionismo uguale nazismo) aveva per sfondo, immeritatamente, il bel mare azzurro; il palco era circondato solo dagli scherani di Hamas, le bandiere erano solo le loro; lontano la folla inconsulta, schiumante odio, che il giorno avanti quasi ha linciato la giovane Arbel Yehoud mentre stretta fra due ali di folla veniva restituita. A Khan Yunes si era visto come Hamas, di fatto debole e priva di leadership, può compiere errori fatali per quella fase due che gli sta tanto a cuore. La sua definizione parte domani, mentre Netanyahu vola all’ incontro con Trump. La selvaggia aggressività antisemita unita a quella contro le donne ha riportando alla luce il senso degli stupri del 7 di ottobre ordinati da Sinwar, e Netanyahu aveva bloccato la consegna dei condannati di scambio, che poi sono ripresi mentre Hamas si aggiusta. Netanyahu va all’incontro con Trump ancora più sicuro che qualsiasi soluzione deve espellere Hamas da Gaza.
Ognuno dei tredici tornati a casa fra i 31 di questa fase è una cascata di emozioni invade ogni spazio emotivo e di informazione: i teleschermi sono tutti un abbraccio. Keith, un 65enne mezzo americano era stato rapito a Kfar Aza, un kibbutz devastato a morte dai palestinesi, affacciato affettuosamente su Gaza, con la moglie Aviva si è avvolto nella bandiera con la Stella di David. Lei era stata costretta a lasciarsi liberare, disperata di lasciare il suo amore: e eccoli adesso l’uno nelle braccia dell’altro, lui smagrito ma in piedi, con figli e nipoti. Ofer Calderon, quattro figli, era stato rapito coi due dei quattro figli che ora lo stringono in un viluppo di amore incredulo: con due era fuggito nei campi di Nir Oz. Tutti catturati, poi Sahar, 16 anni, e Erez, 12, erano stati rilasciati nel novembre. Ma la nonna Carmela con la nipote Naya, 12 anni, sono state assassinate abbracciate. Il 7 ottobre non passa col ritorno a casa, ma la passione d’Israele cammina sulla difficile strada della liberazione e insieme dell’eliminazione di Hamas. Due obiettivi al limite della realtà, ma su questo stretto fronte Netanyahu intraprende un dialogo inusitato con gli Stati Uniti e coi Paesi Arabi sunniti. Ieri sono stati rilasciati 183 prigionieri di sicurezza, 9 ergastolani imperdonabili, assassini di bambini sugli autobus, di padri con la figlia la sera prima del matrimonio al ristorante, di vecchietti riuniti per Pasqua. Per ora sono tornati in parte a Gaza, ma li si controlla meglio da vicino, o è meglio espellerli all’estero? Sono da controllare di più gli anziani ergastolani, o i giovani con 15 anni di galera? Israele è concentrata sugli abbracci di chi è tornato dall’Ade, sulla vita dopo il 7 di ottobre. Ma la famiglia di Yarden, il cui abbraccio con la madre Pnina il padre Eli e la sorella Ofri era silente e mesto, ha pure dovuto dire: “Dobbiamo fronteggiare giorni difficili, per favore proteggete il cuore di Yarden e dalla sua famiglia nei prossimi giorni”. Quindici dei ventitre da restituire sono vivi, tutta Israele li aspetta.
Schiacciati dalla folla, tra urla e fischi. Il rilascio di 150 palestinesi poi l'Ok. Scarcerato anche il super terrorista Zubeidi

La giornata di ieri è stata, invece che una cesura, il seguito di quel giorno terribile in cui furono uccisi 1200 abitanti dei kibbutz nei modi più terribili e 252 furono rapiti. Ora ne restano 68 fra vivi e morti che dovrebbero tornare a casa, se funzionerà, in tre fasi di un cessate il fuoco di cui è in corso la parte in cui si devono riconsegnare 33 rapiti. Lunedì, mentre Netanyahu volerà al suo appuntamento a Washington con Trump, il primo invito a un premier straniero, si comincerà a discutere la seconda fase, mentre i ministri ben Gvir e Smoptrich minacciano di far cadere il governo. Otto persone ieri hanno intanto ritrovato in maniera contorta, scioccante, pericolosa, la strada della libertà, tre israeliani e cinque lavoratori tailandesi. Per prima, in maniera relativamente conforme alle restituzioni precedenti, verso le 10 di mattina è stata consegnata alla Croce Rosa Agam Berger, vent’anni: tre giorni prima erano state liberate Liri, Naama, Daniela e Karina, quattro sue colleghe “tazpitaniot”. Ora sono insieme all’ospedale Ichilov, estatiche nella gioia di essere insieme dopo le violenze e la solitudine: la mattina del 7 ottobre tutte stavano di vedetta e furono trascinate via nel sangue dalla base di Nahal Oz, da dove avvertirono e non furono credute dell’invasione dei terroristi. Agam è apparsa bella e concentrata, come nelle foto che la mostrano quando suona il suo violino o come Israele la conosce dai racconti delle sue compagne che hanno riferito quanto la religione l’abbia sostenuta quando nelle mani dei terroristi rifiutava la carne, o di accendere la luce o il fuoco di Sabato. Hamas l’ha vestita da soldato anche se è stata rapita in pigiama e poi sottoporta a privazioni e violenze, e l’ha costretta a salutare con la mano la folla agitata. Sullo sfondo una cartina di Israele denominata “Palestina”. Molte le bandiere nere della Jihad Islamica e quelle palestinesi oltre a quelle di Hamas. Fra le rovine di Khan Yunis, Arbel Yehud e Gadi Moses hanno attraversato un momento di estremo pericolo di vita mentre i cinque thailandesi venivano avviati al confine. Li aspettavano oltre agli elicotteri e ai dottori, del cibo thailandese, preparato per farli sentire a casa.
Il nuovo ordine di Trump e Netanyahu. Gaza senza Hamas con l’Arabia garante

Il Giornale, 30 gennaio 2025
Al di là del terribile luna park mediorientale, fra i trucchi di Hamas e il frastagliato ritorno degli ostaggi che si rinnova domani e tiene Israele in una crisi isterica, nella disperazione per quelli che sono stati uccisi, nell’aspettativa dei tre che arrivano oggi; di fronte all’ infinita teoria di esseri umani che cammina dal sud al nord di Gaza; mentre in Libano ancora non si conclude la guerra (e si spera per il 18 di febbraio)nonostante l’accordo perché si riaffacciano gli Hezbollah... c’è un filo d’Arianna che Netanyahu tiene in mano, e si chiama no a Hamas e sì alla tregua per gli ostaggi. Come vanno insieme? Qui è la sfida, e la strada passa per Washington. Le parate naziste di Hamas, le fasce verdi e i mitra fra le folle stracciate e i rimasugli della Striscia a pezzi propongono l’idea che Israele abbia combattuto invano, i terroristi rimessi in libertà fanno sanguinare la memoria per le vittime. Ma Netanyahu parte per Washington lunedì, il giorno in cui si comincia a discutere della seconda fase del cessate il fuoco con Gaza e l’invito di Trump ha un tono volutamente solenne, affettuoso, particolare (l’ultimo faccia a faccia è stato il 25 luglio del 2024) nell’informare che Bibi è il primo Capo di Stato invitato alla Casa Bianca dal nuovo presidente, e nel dire che si discuterà di prospettive di pace e di “comuni sfide”. Che cosa significa nelle prospettive diverse dei due leader? Il panorama mediorientale è nuovo, Gaza a pezzi, al nord anche se gli Hezbollah si fanno vivi la loro stupefacente disfatta a opera di Israele è sotto gli occhi di tutti, in Siria il ministro della difesa Israel Katz ha dichiarato ieri che l’esercito resta finché Julani non decide (invece di incontrare rappresentanti del governo russo) a garantire che non passano più armi iraniane; a Tulkarem e a Jenin si arrestano e si combattono stuoli di terroristi ben organizzati con l’operazione “Muro di acciaio”.
La lista ricevuta dei tre rapiti da restituire oggi è conforme agli accordi, Musa Abu Marzuk uno dei pochi portavoce dell’organizzazione terrorista ha detto che “Hamas è pronta a negoziare con Trump”, inusuale dichiarazione. Steve Witkoff, l’inviato di Trump per il Medio Oriente, insieme a Ron Dermer il ministro per gli Affari Strategici ieri hanno studiato Gaza sul terreno, e anche questo è molto inusuale. Non si va a Gaza in visita da Israele e dagli USA facilmente. Poi, l’incontro di Witkoff con Bibi, un’enciclopedia di punti da discutere. Un paio di cose sono evidenti anche se c’è chi non vuole vederle: Israele vuole i suoi rapiti indietro; però non sopporterà mai che Hamas resti al potere a Gaza, quali che siano le sceneggiate dei miliziani sul terreno. Lo tzir Philadelphi sarà sgomberato solo a tratti, e nella terza fase, quando davvero siano tornati tutti i rapiti, o quasi. Israele ha imparato la lezione del 7 di ottobre, ha dovuto impegnarsi per difendere la sua vita, ora non lascerà ricostruire Gaza con l’egida di Hamas o dei suoi amici dell’Autorità nazionale palestinese. Ci vorrà un marchingegno educativo, economico, tecnologico perché si ricostruisca Gaza senza Hamas. L’esodo palestinese dal nord al sud di Gaza è pericoloso, dalle finestre dei kibbutz e di Sderot si vedono i cittadini di Gaza, fra loro quelli che vennero al seguito della Nukba. Trump ha un suo scopo conclamato: un vasto, ambizioso disegno di pace per cui Israele deve consentire lo scorrere di un suo programma strategico Mediorentale in cui entrano in scena con l’Arabia Saudita, gli Emirati e altri paesi moderati, col beneplacito dell’Egitto e della Giordania. Trump sa che Netanyahu non vuole dirgli no se non è indispensabile, quindi offrirà una soluzione ingegnosa per l’indispensabile sparizione di Hamas, e questo forse salverà anche il governo Israeliano in bilico Intanto ha avanzato l’idea che i palestinesi che vogliano si spostino in Giordania o altrove per consentire il ripristino della Striscia e della calma. L’idea della Giordania è storica, la Giordania era l’occupante della Giudea e della Samaria fino alla guerra dei sei giorni. Ma si vedrà: per ora sia da Gaza che dai Paesi interpellati vengono dei no Israele non consentirà altro che una soluzione che veda sparire Hamas dalla gestione di Gaza, e qui entra in scena un forte, determinato Patto di Abramo con soluzioni tecnologiche, economiche, educative, umanitarie che Netanyahu ascolterà e su cui dirà la sua.
È chiaro che in cima alla discussione, come prezzo fondamentale per la seconda fase della tregua, resta l’Iran. Trump, sa bene che non ci può essere nessun accordo con gli Ayatollah. Questo sarà il vero tema dell’incontro, insieme agli aiuti umanitari, la ricostruzione delle case, la riabilitazione del territorio. Israele non lascerà che Gaza risorga se non è sicuro che da là non verrà un nuovo sette ottobre, e Trump ci sta certamente lavorando sopra anche se solo “to make America great again”. Netanyahu non dovrà scegliere fra Trump e il suo governo che minaccia il crollo se prosegue il piano di pace.