Fiamma Nirenstein Blog

La guerra antisemita contro l'Occidente

7 ottobre 2023 Israele brucia

Jewish Lives Matter

Informazione Corretta, il nuovo video di Fiamma Nirenstein

Museo del popolo ebraico

Putin sceglie: asse del male con Hamas

sabato 8 giugno 2024 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 07 giugno 2024

Il compleanno di Vladimir Putin cade il 7 ottobre. Settantuno anni compiva quel giorno. Sarà stato perché era tutto preso in festeggiamenti che quando in Israele si è consumata la maggiore strage di ebrei dai tempi della Shoah, ha aspettato tre giorni prima di dire un paio di cose senza peso sugli eventi, dando subito la colpa agli USA del fatto che in Medioriente le cose non vadano bene; poi, ha invitato subito dopo a Mosca i rappresentanti di Hamas e anche quelli iraniani. La strada era scelta, e l’ha perseguita in modo intensivo. Spiegava Sergei Markov, ex consigliere del Cremlino nel suo blog: “La Russia sa che gli USA e l’UE hanno sostenuto sempre Israele, ma oggi (per Putin) esse incarnano il male… La Russia non sarà in nessun caso nello stesso campo. Il maggiore alleato di Israele sono gli USA, oggi il peggior nemico della Russia. E l’alleato della Russia è l’Iran”… e i suoi proxy. Hamas e Hezbollah, Houty, altri gruppi terroristi. Putin ha visto nella data storica del 7 ottobre un’occasione per fare grandi pasi avanti verso l’obiettivo fondamentale, porre fine, conquistando il mondo al dominio della Russia ,al sistema che vive secondo i principi di libertà di diritti umani, per sostituirlo con un sistema di dominio, un mondo autocratico in cui forse ancora non capisce quanto gli costerà la spartizione con l’Islam. Sarà il mondo di Putin e Hamas. 

Putin odia essere ritenuto un antisemita, questo disturba il suo vezzo di chiamare nazisti gli Ucraini: quindi per esempio ha anche dato un discorso in cui lodava la comunità ebraica russa. Ma ieri si è finalmente presentato al mondo come il capo dei nemici di Israele fino alla distruzione, come un vero sostenitore di Hamas. Ha osservato bene come le maggioranze automatiche dell’ONU, le sue istituzioni antisemite e corrotte rovesciano la storia facendo di Netanyahu Sinwar, e attribuendo a Israele assurdi intenti genocidi che invece sono palesemente di Hamas che con l’Iran e gli Hezbollah li dichiarano senza veli ogni giorno. Putin sente che la debolezza di Biden non dona all’alleanza occidentale in generale, e che proprio gli USA masochisticamente mettono in bilico la giusta guerra di Israele. E ha dunque parlato come un libro stampato da Hamas: la guerra di Israele è “una distruzione totale della popolazione civile”, la situazione è frutto “di un fallimento totale degli Stati Uniti”.

La risposta la troverà Putin, perché “la Russia cerca sempre la pace” ma il ruolo centrale spetta a un Paese mediorientale, dice Putin, e lo assegna al leader che ha dichiarato Netanyahu uguale a Hitler: Erdogan. Il compito risolutorio è l’istituzione di uno Stato Palestinese: ricorda con orgoglio Putin che già ai tempi dell’Unione Sovietica era stata quella la scelta Russa. E qui Putin allarga di fatto l’arco delle sue alleanze: per esempio la Spagna che proprio in queste ore si è unita al Sud Africa nell’accusare Israele di genocidio all’ICC, con l’Irlanda e la Norvegia ha avuto l’idea geniale di istituire un suo misterioso stato palestinese, forse con in testa Sinwar, che sarebbe il primo eletto in caso di votazioni. Certo adesso è pronta a unirsi a Putin nella sua amicizia con Hamas, anche se non era mai stata putiniana, forse si può credergli quando afferma che “bandisce ogni attacco contro i civili, in qualsiasi posto, in qualsiasi Paese”. Intanto Hamas non accetta nessun accordo in cambio dei poveri ostaggi: anche questo in nome della pace, ma dove, ma quando? In qualsiasi posto, in qualunque Paese.

 

Hezbollah e Hamas, due teste dello stesso mostro. La guerra al Libano si sventa annientando Sinwar

giovedì 6 giugno 2024 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 06 giugno 2024

Quel fuoco che da lunedì ha reso neri e spellati il Golan e la Galilea al confine col Libano, ha trasformato in una collezione di miseri stecchi in fila quella miracolosa foresta che Israele con tanta fatica cresce dalla sua nascita, ha distrutto case, ha messo in fuga gli ultimi coraggiosi agricoltori, da Kiriat Shmone alla zona del Kibbutz Manara dove vive la novantottenne sorella di Rabin… non merita tutto questo una guerra? Nessun Paese del mondo avrebbe sopportato, da otto mesi a questa parte, che giorno dopo giorno, gli Hezbollah che hanno dichiarato sin dalla Nukba, il carnaio del 7 di ottobre, di condividere la guerra di Hamas, mettessero in fuga tutta la popolazione, uccidessero, incendiassero, minacciassero. Israele certo non è stato a guardare, ha schierato i Golani anche sul Nord e ha sparato senza risparmio sulle spavalde postazioni di confine e sui lanciamissili degli Hezbollah. Ieri Netanyahu ha dichiarato, dopo che aveva etto la stessa cosa il Capo di Stato maggiore Herzi Halevi, che Israele è pronta a combattere una vera guerra. È la struttura stessa del Paese, che ieri ha cercato con la grande manifestazione in onore dell’unificazione di Gerusalemme nel ‘67, che è in giuoco, e gli ostacoli non sono solo legati alla difficoltà, quanto a uomini e ad armi, di reggere un conflitto su due fronti. Ma l’esercizio quotidiano di distruzione di Israele per cui a nord vivi fra i lanci dei Kornet, i Burkan, i droni suicidi, forse anche i missili iraniani di terza generazione perseguitano Israele stringendola in un angolo.

Fu a febbraio che Nasrallah spiegò che il danno che avrebbe potuto portare a Israele se si fosse avventurato troppo, sarebbe arrivato fini a Eilat, ovvero, si capì, fino alla centrale nucleare di Dimona. Non solo: i suoi missili coprirebbero Israele, i suoi giannizzeri sarebbero peggio di Hamas quanto a crudeltà e fanatismo. Con la visita ai soldati al confine del Libano, Bibi ha voluto segnalare che la pazienza sta finendo. Anche da Londra erano giunti avvertimenti a Nasrallah della decisione di bombardare Beirut, e gli hezbollah non vogliono giuocarsi il lato patriottico libanese. Israele qui segnale che vuol dire alla sua gente che prima o poi potrà tornare a casa.  Invece per ora quel fuoco è stato un simbolo inequivoco che la guerra barbarica è in pieno svolgimento, che non c’è accordo in vista come vorrebbe Biden, da sempre opposto alla guerra che gli scalda il fronte mondiale prima delle elezioni. Un racconto molto famoso di Aleph Beth Yehoshua racconta di un ragazzo israeliano che, da guardiaboschi, vede ogni giorno un arabo con una bambina per mano nella foresta: che egli diventa per lui un personaggio enigmatico ma non ostile, anzi, fantasticato come un possibile amico misterioso, finché il bosco andrà in fiamme perché l’uomo con la bambina ha deciso di distruggerlo.

 Bene, Israele oggi deve capire a che stadio siamo prima che l’incendio venga appiccato, stavolta fra la morte e distruzione dai 250mila missili che l’Iran ha regalato al suo proxy e però la potenza della risposta israeliana. Un rischio mondiale. Per ora i sotterranei tentativi di mediazione, che richiederebbero, per l’inevitabile compito d’Israele di far tornare alle loro case gli sfollati che insieme a quelli del confine di Gaza sono ormai quasi 250mila, uno spostamento di hezbollah dal confine non hanno trovato risposta. Amos Hochstein, l’inviato per il Libano di Biden, e Macron, da sempre un appassionato delle questioni di Beirut, si danno da fare. Ma più dei divieti (“Don’t” disse Biden, e Narsrallah sorrise) valgono le molte visite dei ministri iraniani nel bunker di Nasrallah. E il primo ostacolo è in mani molto temibili: come hanno detto tutti gli ufficiali del governo americano Sinwar ha la decisione sugli ostaggi. Finché non decide, continua la guerra; finché continua, Hezbollah segue l’impegno di spalleggiarlo. Se esagera, Israele dovrà per forza attaccare nel profondo: quanto si può sostenere l’espulsione della propria gente, la distruzione e la desertificazione, il bombardamento con morti e feriti? Forse l’unico modo per frenare l’escalation generale è spaventare Sinwar fino al punto che debba necessariamente accettare lo scambio. Allora, anche Nasrallah dovrebbe probabilmente a malincuore staccare il piede dall’acceleratore. Ma è un sogno. Siamo comunque nelle mani dei terroristi, a meno che Israele non trovi finalmente il sostegno internazionale fondamentale per combattere l’idra che minaccia tutti, con le sue varie teste: ma non sembra probabile. Anche questo è un sogno.   

 

Quei veti incrociati ancora sul tavolo e il gioco di Hamas per tenersi Gaza

martedì 4 giugno 2024 Il Giornale 1 commento

Il Giornale, 04 giugno 2024

Biden vuole il cessate il fuoco, Israele la sconfitta e l’estromissione assoluta di Hamas, Hamas vuole restare al potere a Gaza. Nel mezzo, un’eventuale accordo sui poveri ostaggi, carne da cannone.  Difficile puzzle. Se fosse un tavolo di poker, si potrebbe dire che Biden, trovandosi in mano un tris, ha giocato sperando di avere la coppia più alta. Ha un buon gioco, certo, ovvero la proposta di scambio partorita due settimane fa dal gabinetto israeliano. Ma lui l’ha un po' troppo aggiustata prima della sua uscita di venerdì sera, prima di Shabbat. Ha messo il cessate il fuoco al primo posto, questo piace a Hamas ma non a Israele. Tuttavia Netanyahu non dice di no, anche se avanza obiezioni molto decisive. Il fine è alto. Ma la sfida è rischiosa per Biden che ha osato perché sarebbe una memorabile mossa pacifista, le elezioni sono vicine, e inoltre agli occhi della sua constituency è interessante il tentativo di domare un personaggio scomodo come Benjamin Netanyahu. Israele è strappata all’interno: ieri la minaccia di Ben Gvir e di Smotrich si è subito fatta avanti, questo consentirebbe a Gantz spazi maggiori, e cambiamenti dannosi per Bibi piacerebbero ai democratici americani. Tuttavia ‘’appello di Biden al popolo di Israele perché spinga per la pace è un’intrusione politica che indebolisce e non rafforza il suo punto di vista: il dolore per i rapiti e immenso, ma la determinazione a battere Hamas vince nei sondaggi. Da parte di Netanyahu niente grandi discorsi, la sua posizione nei tweet e alla Commissione Esteri è minimalista. In sostanza: “L’obiettivo non solo mio ma di tutto il governo è battere e estromettere Hamas. I rapiti sono in cima ai miei pensieri, vogliamo uno scambio, ma senza fermare la guerra”. E la proposta, ci tiene a dire il Primo Ministro, non è solo mia ma di tutto il gabinetto di guerra. E aggiunge che le lacune cancellano la scelta di battere Hamas. Sinwar intanto fa sapere dal suo covo che gli importa poco di uno scambio se non comprende la restituzione della Striscia al suo potere; e addirittura uno dei suoi ha detto che mai cesserà di combattere prima che Israele sia distrutto. Tuttavia Sami Shukri, ministro degli Esteri egiziano, riferisce di una disponibilità positiva.

 È l’opposto della posizione quando Israele aveva proposto lo stesso scambio. Ma adesso Biden stesso ha messo il giuoco nelle sue mani. L’Egitto, come il Qatar, citati da Biden come parte del futuro a salvaguardia della Striscia piacciono certo a Hamas ma non a Israele: chiamarli in causa non risolve i punti interrogativi nella versione Biden, anzi lascia Hamas in buona salute. Biden ha giocato sapendo, tuttavia, che Netanyahu lo ascolta, ha fornito tutti gli aiuti umanitari e ha rallentato l’ingresso a Rafah. Però poi ci è entrato, perché sulla conclusione del conflitto non transige, agisce secondo una strategia di sopravvivenza anche se fa parte dell’alleanza occidentale che fa capo agli USA. Hamas da parte sua conta a sua volta su un giuoco largo, e si batte per la vita e per la morte con a fianco Hezbollah, l’Iran, Russia e Cina. Biden lo sa, forse ha messo in moto un gioco troppo grande, e offre un tavolo traballante: i primi 42 giorni prevedono subito un cessate il fuoco che invece per Israele deve esser discusso mentre si riconsegnano 32 ostaggi. Durante quei giorni, mentre si liberano a centinaia i prigionieri palestinesi, si tratta per un lungo cessate il fuoco, ma se Hamas viola la tregua Israele può rispondere.

Dunque, quali sono le regole per cui la tregua si consideri violata? Un razzo della Jihad islamica dà diritto a sparare di nuovo? Per evitare che Hamas riprenda il controllo di Gaza, e necessario regolare il movimento della popolazione dal sud al nord lungo strade controllate dall’Esercito israeliano: ma Biden prevede liberi movimenti. Il ritiro delle forze di cui Biden ha parlato quando deve avvenire? e come, senza che Hamas si risistemi al potere e prepari un altro 7 ottobre? E dal primo al secondo stadio, quello definitivo, Hamas potrebbe tessere un tempo sconfinato in cui ricostruire tutta la sua rete. E come eviterà Israele, che Hamas si sbizzarrisca nella tortura e l’uccisione degli ostaggi? Biden vuole un accordo. Ma accordo è una parola senza senso per chi come Hamas, cammina sulla strada della violenza. Insieme alla taqyyia, la dissimulazione.

 

L'"ambiguità costruttiva" degli Usa. Ma sui terroristi Israele non può cedere

domenica 2 giugno 2024 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 02 giugno 2024

Lo spirito di Kissinger si è librato ieri sul Medio Oriente, per cercare di imporre a Israele con “constructive ambiguity” ambiguità costruttiva, la posizione americana sulla pace, e suscitare un consenso mondiale, un abbraccio molto avvolgente. A ognuna delle due parti che si vogliono placare si cerca di dire qualcosa di vicino a quello che vuole sentire, e si cerca di indurlo a seguire la tua ricetta. In particolare, nel caso di Israele, cui sembra che Biden abbia fatto una vera sorpresa nel citare e reinterpretare la sua proposta, il presidente si muove su un cavo sospeso in prossimità delle elezioni: dalla sua parte, ma sempre in un ruolo di vecchio saggio e punitivo. Basta con la guerra, ha detto Biden, e come alla decisione di un direttore d’orchestra, tutti gli strumenti dalla Francia all’Inghilterra, hanno suonato. Macron ha persino scritto in Ebraico. Ma il fatto che Biden sia stanco della guerra, come tutti del resto, soprattutto gli israeliani che perdono i loro figli sul campo di battaglia, non rende la guerra più facile da concludere come per la Russia e l’Ucraina dove Putin non ha intenzione di lasciare il campo. Ci sono nemici irriducibili.

E Hamas farà di tutto per mantenere il potere, ha come suo scopo basilare distruggere Israele, e l’ha provato. Biden nell’assicurare, venerdì, che conviene la pace perché comunque “Hamas non è più capace di compiere un altro 7 ottobre” di fatto cancella la promessa degli USA di partnership nello sradicare Hamas. Netanyahu nel rispondere a Biden, non ha detto “no”, ha parlato di una proposta “non starter” a meno di “un’eliminazione delle capacità belliche e governative”, di cui Biden non ha parlato. Ma anche il linguaggio è più morbido, il PM non parla della solita “vittoria completa”. Le porte non sono chiuse. Biden ha ripreso la proposta israeliana che Hamas aveva respinto. Hamas fa una capriola poco credibile nel dichiararsi interessato. Bibi l’aveva recuperata dopo che una crisi con la squadra che gestisce la trattativa aveva scosso il governo: due mercoledì or sono il PM l’aveva accettata, ed era poi passata domenica ai mediatori. Hamas l’ha trovata pessima, niente da fare.

Ma ora riappare in mano di Biden. Ma perché Netanyahu gli ha risposto, persino di Shabbat, giorno (non scelto a caso, probabilmente, dagli USA) in cui Israele è fuori uso se non per questioni di vita o di morte? Perché Biden nella proposta, riveduta e corretta, chiude la guerra all’inizio del processo, mentre Hamas è ancora al potere, e questo non c’è nella proposta israeliana, che prevede sei settimane di stop al fuoco, senza chiudere la guerra: qui si riconsegnano i rapiti “umanitari”, e si verifica, avviando una trattativa per la seconda fase in cui tornano a casa tutti gli ostaggi. La guerra finisce quando Hamas lascia il potere. Impegnarsi a chiudere prima è un azzardo, e Biden sbaglia a chiamare il dissenso contro Netanyahu: la sua determinazione invece cresce nei consensi, perché Israele odia la guerra, vuole i rapiti, ma combatte Hamas per necessità. Bibi incarna la determinazione nel distruggere Hamas, e insieme nel recuperare i propri cari. Tre sono le fasi, lo stop alla guerra fin dall’inizio non funziona. Biden ha evitato di parlare dello Stato palestinese, preferendo indicare un futuro in cui balena la presenza dell’Arabia Saudita garante di un futuro sicuro e luminoso. Notevole anche che non dica una parola sullo Tzir Filadelfi e Rafah: Biden sa che da là Hamas trae l’ossigeno. È un messaggio a Bibi: l’America capisce perfino Rafah, ma concludi la guerra. Il PM in queste ore ci pensa su, ma per lui le tre fasi devono lasciare spazio alla distruzione di Hamas.  Non c’entra con l’eventuale dissenso di Ben Gvir e Smotrich.

Ha pronto il ricambio per un nuovo Governo. Per lui Israele è pronto a compromessi, a soli 33 rapiti nella prima fase, alla scelta di Hamas dei prigionieri, anche pericolosi assassini. Ma non sulla possibilità che Hamas seguiti a regnare su Gaza. 

 

Netanyahu, il combattente chiede armi e non affetto (anche se ha tutti contro)

mercoledì 29 maggio 2024 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 29 maggio 2024

Quando subito dopo il terribile incidente di Rafah, Benjamin Netanyahu ha parlato alla Knesset, i gesti decisi, la faccia smagrita dal 7 di ottobre, le sue parole hanno disegnato le intenzioni e la personalità del Primo Ministro. Dopo aver detto che si era trattato di “errore tragico” di cui si dispiaceva e su cui stava indagando, Netanyahu ha esclamato il suo “no” a chi gli ha chiesto di fermarsi, all’ONU, dall’UE, ai Tribunali Internazionali, alle proclamazioni unilaterali della Spagna, l’Irlanda e la Norvegia, alle condanne di Macron e tanti altri e alla gran baraonda dei media, tutti in gara a biasimarlo.

Là, alla Knesset, 50 dei 120 membri hanno votato per il suo discorso, mentre rigettava le accuse “abominevoli” di frenare le trattative per gli ostaggi, e si è rivolto ai suoi cittadini: “Se volete debolezza, sconforto, resa, ascoltate la tv. Ma se volete potere, spirito, vittoria, ascoltate i combattenti: i fini della guerra non sono cambiati, vincere Hamas, recuperare gli ostaggi, far tornare a casa i profughi. Se ci arrendiamo, daremo una grande vittoria al terrorismo, all’Iran, al suo asse del male, a tutti quelli che cercano distruzione”. Qui in nuce, c’è la spiegazione della guerra di necessità di Netanyahu: mettere Israele al sicuro nel mondo. Del resto, gli USA anche dopo l’incidente hanno fatto capire che gli spostamenti di popolazione richiesti erano stati operati, e anche l’intervento umanitario; la pressione è gestita da Europa e ONU. Netanyahu sa bene di essere il Primo Ministro sotto il quale Israele ha patito il maggiore disastro dal 1948: adesso combatte per restaurare i suoi fini e la sua storia. La sua è una battaglia vitale, il suo fine personale per lui vale ben di più dell’invito a andare a casa. È il recupero della sicurezza, se voglia poi restare come Primo Ministro nessuno lo sa.

Le più di 600 pagine dell’autobiografia disegnano il destino di un uomo di Stato che in due volte ha governato 16 anni. Coi fratelli Yoni e Iddo ha avuto un’educazione elevata, il padre lo storico Ben Tzion era sodale di Jabotinsky, la sua educazione è laica, tradizionale. Bibi definisce la sua missione: “Aiutare il mio antico popolo, che ha sofferto tano e tanto contribuito alla storia dell’umanità, a vivere un futuro sicuro”. Lui dopo la Guerra dei Sei Giorni entra nella Sayeret Matkal, la forza speciale, poi serve come ambasciatore all’ONU, viene eletto alla Knesset e dal ’76 vive pensando a Yoni, ucciso a Entebbe mentre liberava gli ostaggi. Da Primo Ministro affronta Obama svelando le intenzioni atomiche dell’Iran, rende Israele uno dei primi Paesi del mondo in economia, tecnologia, medicina…  oggi pensa che tutto questo può andare perduto se Hamas compirà un nuovo Sette Ottobre, se si perderanno i rapiti nelle gallerie di Rafah.

Bibi dunque resiste: vuole che la forza di Israele attragga i paesi arabi moderati nei Patti di Abramo. La contrapposizione a Obama sull’Iran gli portò la fiducia dell’UAE e degli altri: in Medioriente debolezza chiama terrore, la forza disegna alleanze. La storia stessa di Bibi esclude che Israele divenga un piccolo Paese che dipende dall’opinione degli altri (così lo rifiutò Golda Meyer nel ‘73).

Domani, dopo la guerra, si coalizzeranno forze disponibili a sostituire Hamas. Netanyahu ha detto “so di deludere i miei partner, io non intendo occupare Gaza”. Non è un duro ideologico: è un pragmatico laico, che però ha nel Governo piccoli partiti religiosi. Domani, avrà altri partner, sarà battuto, lascerà il potere, chi sa: di certo, non vuole che la sua biografia finisca col 7 ottobre, e farà di tutto per evitarlo. Bibi è un soldato. Zelensky disse agli americani che gli offrivano una fuoriuscita: “io ho bisogno d’armi, non di un viaggio”. Netanyahu ha bisogno di armi, non di affetto. È abituato: la gente qui è fifty fifty odio e amore; ma lui sente che essere Netanyahu è portare dentro lo Stato ebraico. Vive le contraddizioni moderne, il jet set, una famiglia controversa: ma al nocciolo, è un combattente la cui idea di Israele e identica a quella di Ben Gurion. Semplice. Il Popolo ebraico, come ogni altro, ha diritto a una patria.      

 

Realtà manipolata: niente prove, soltanto ideologia

sabato 25 maggio 2024 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 25 maggio 2024

Mancava solo che il giudice Nawaf Salam esclamasse “From the river to the sea”, e la farsa sarebbe stata completa. Il pacato presidente del Tribunale Internazionale che ieri all’Aia ha letto la sentenza della Corte internazionale di giustizia che impone di fermare Israele imponendogli di uscire da Rafah, lasciando Hamas padrone di Gaza, abbandonando i rapiti (di cui l’esercito ha appena riportato a casa 6 corpi recuperati nelle gallerie, assassinati, destinati al ricatto), infischiandosene del futuro dei civili dei kibbutz decimati o esiliati dall’organizzazione terrorista peggiore del mondo… dal 2007 al 2017 è stato ambasciatore del Libano all’ONU dove dichiarava Israele nei suoi interventi, Paese d’apartheid.

Oggi è l’imparziale giudice della Corte internazionale di giustizia. Il suo è un Paese in guerra con Israele, sotto il dominio degli Hezbollah braccio destro dell’Iran, che probabilmente spaventano anche lui (non sarebbe facile tornare a Beirut senza una decisione antisraeliana). I giudici hanno votato contro 13 a 2, e al party e c’erano tutti, il cinese, il russo, l’algerino… Insomma l’ONU, come sempre, colpisce Israele, ieri è stato Karim Khan alla Corte penale internazionale oggi è la Corte internazionale di giustizia: iniettano nel mondo un odio per gli ebrei che ormai si è allargata alla protezione di Hamas. E gli applausi di Sinwar, dell’Autorità nazionale palestinese, di Erdogan, degli Ayatollah, degli imam più estremisti di tutta Europa e dei movimenti antisemiti nelle università di tutto l’Occidente hanno rimbombato in questo teatro surreale in cui non si sa più che l’aggredito è Israele, che l’aggressione, come nel video sulle ragazze rapite e uccise nella loro base, si rivela ancora giorno dopo giorno. Sarebbe un disastro incontenibile, una nuova imposizione della legge della manipolazione, se il tribunale internazionale avesse, cosa che non ha, la giurisdizione per decidere quando le guerre devo iniziare e quando concludersi.

La chiave della conclusione di una guerra è ben più larga, decide della vita e della morte di civiltà, di culture, della sopravvivenza e dei cambiamenti epocali: non lo decide un tribunale dell’ONU imbevuto di ideologia. Non ha portato al pubblico una sola prova, vantandosi della testimonianza dell’UNRWA che ha partecipato all’eccidio del 7 ottobre. In realtà Israele prima di entrare a Rafah, ha aspettato, a lungo il consenso americano, finché è riuscito a creare, in conformità con quanto fatto anche nella prima parte della guerra al nord, un poderoso corridoio di scampo per i civili e di rifornimenti umanitari. Le operazioni sono mirate, l’obiettivo il corridoio con l’’Egitto.

La Casa Bianca dopo una lunga opposizione adesso non contrasta Rafah, e Netanyahu si prepara a una visita al Congresso. Solo la malafede onusiana nasconde che Israele è la vittima e Hamas l’aggressore, e che combattere è una questione di sopravvivenza. Dunque, la sentenza propone lo stop a un genocidio inesistente in cambio di un genocidio realisticamente promesso. Ognuna delle accuse si smonta se il pregiudizio viene cancello. Ma non è possibile. La richiesta di fermare l’esercito a Rafah è una catastrofe concettuale, ma nella realtà Israele non può smettere di combattere: ne va della vita, e del buon senso. 

 

Sangue, orrore, morte: eroine in divisa. Quel fotogramma che cambia la guerra

venerdì 24 maggio 2024 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 24 maggio 2024

Ogni giorno quando, ormai, da sette mesi la radio alle 6 di mattina, annuncia “È permesso comunicare che…” e si dice il nome di un giovane ucciso in battaglia, è una contrazione dell’anima, il suono di un metallo accartocciato. In un Paese così piccolo, molti sono amici o parenti. Ma da mercoledì si è aperta una ferita ignota coni brani di filmato con le ragazze della base militare di Nahal Oz, insanguinate e brutalizzate, eppure civili, coraggiose, composte davanti alla minaccia definitiva, nelle mani di quei giovani nazisti, a metà fra l’estasi religiosa (si buttano per terra a pregare violentando e uccidendo) e una patetica eccitazione famelica nell’avere nelle mani le ragazze di cui fare scempio. A lato, è uscito anche il film del giovane di Hamas che racconta senza scomporsi come, insieme con suo padre e suo zio ha violentato e poi ucciso. Gaza questo produce, questo esce dalla cultura palestinese.

Il film sulle ragazze è stato mostrato seguendo le indicazioni delle famiglie, non si vedono i corpi senza vita, né ciò che le prigioniere vedono, ovvero la strage delle compagne. Le cinque ancora nelle mani di Hamas sono Liri, Karina, Agam, Daniela, Naama (quella che dice “ho amici in Palestina”, cercando di comunicare agli assassini il suo impegno nel dialogo, una storia vera quanto paradossale adesso), ma a decine sono state macellate e violentate sul posto. Dalle 7 di mattina fino alle una, solo due soldati volontari mentre l’esercito versava nella maggiore confusione arrivarono a cercare di salvare le ragazze.  Adesso, dall’orrore e dalla pena del film nascono due domande ed esse riguardano tutto il mondo. Che cosa si deve fare quando il nemico mostra una crudeltà e una determinazione che rompe ogni regola, ogni speranza di dialogo?  Le famiglie dei rapiti in gran parte chiedono la trattativa fino in fondo, a tutti i costi, in molti sono per la fine della guerra (una posizione che nel Paese però coinvolge poco più del 30 per cento).

Dall’altra parte, la convinzione è che solo con la pressione delle armi Hamas possa essere costretta a cedere gli ostaggi, che altrimenti sono lo scudo inaccessibile di Sinwar.  È ciò che ha detto ieri il ministro Gallant dalla spiaggia di Gaza: siamo a Rafah, combattiamo, il confine con l’Egitto (lo Tzir Philadelphi) è quasi tutto nelle nostre mani. Piegheremo i mostri e recupereremo gli ostaggi. Anche Netanyahu ripete che la guerra vincere Hamas deve andare fino in fondo, e intanto però spiega con intento diplomatico agli USA e all’UE che non ha nessuna intenzione di occupare Gaza: questo, dice non piace a certi suoi alleati di governo ma non mi importa. Biden raccoglie, probabilmente al fondo c’è la percezione strategica che da Hamas non ti viene nulla di e tantomeno dall’Iran suo alleato: oltre ad avere dichiarato il suo scandalo per l’ICC che equipara Bibi a Sinwar, ha cambiato tono su Rafah: Israele ha spostato più di un milione di persone e dopo aver detto che Netanyahu non aveva un piano credibile, adesso dichiara che “Israele ha cambiato i suoi piani, e ha incorporato molte delle nostre osservazioni”.

Dunque, nonostante le accuse insensate delle organizzazioni onusiane di usare la fame come arma, continua il grande lavoro per fornire aiuti umanitari. Però, sotto la superficie, c’è anche l’idea che Hamas deve essere levato di mezzo, perché ostacola ogni piano. Qui, la dissonanza dello Stato palestinese, una vera stessa europea, un regalo che indebolisce la battaglia e la trattativa e fa gioire Sinwar. I tre ambasciatori di Spagna Irlanda e Norvegia sono stati invitati dal ministro degli esteri Israel Katz a vedere da lui il film sulle ragazze rapite. Ma ora sono convinti, di fronte al sangue, all’indottrinamento violento, che uno stato palestinese è prematuro, un pericoloso premio a Hamas? Probabilmente no. E oggi i giudici dell’ICJ, devono decidere se dichiarare Israele genocida e chiederle di cessare la guerra. Dopo avere, si spera, visto, il film su Nahal OZ.  È mai possibile una simile perversione?

 

Le folle antisemite turbano la Segre

giovedì 23 maggio 2024 Il Giornale 3 commenti

Il Giornale, 23 maggio 2024

Nessuno può avere il cuore più spezzato dall’antisemitismo omicida del Sette Ottobre, nessuno più soffrire di più dei suoi enormi postumi antisemiti, della violenza dei cortei giovanili antisraeliani che equiparano la svastica alla stella di Davide di un sopravvissuto alla Shoah. Nessuno può avere negli occhi, nella mente, nel corpo più di Liliana Segre il rifiuto per la massa di menzogna che si accumula di questi tempi sugli ebrei e su Israele. La senatrice adesso ha lanciato il suo grido di dolore dopo anni di lavoro fiducioso e intenso fra i giovani nelle scuole, compiuto sperando che questo segregasse nel passato l’orrore della persecuzione e della distruzione del Popolo Ebraico.

Lo stesso grido fra le ceneri e i tizzoni del kibbutz Be’eri, lo abbiamo sentito dai sopravvissuti Ruth Haram, il cui figlio è stato ucciso dai terroristi di Hamas, e Haim Ra’anan: in Israele avevano ricostruito la vita, Be’eri sul bordo di Gaza era paladino di pace. Ed ecco che il mostro dell’antisemitismo, dopo quello della strage, gli stupri, le decapitazioni di bambini, risorge inaspettatamente: dopo quello razzista del nazifascismo, Liliana Segre ha visto e denunciato la “bestemmia” ignorante, dell’attribuzione a Israele di un genocidio. Il rovesciamento della storia, la strage della verità. L’ignoranza che la senatrice con orrore denuncia, non è solo nella scarsa educazione scolastica: è politica. La struttura internazionale di salvaguardia dei diritti umani, L’ONU, con le sue istituzioni dall’ICC all’UNRWA, ha ereditato dai tempi dell’URSS l’ideologia antioccidentale e antidemocratica per cui a forza di menzogne Israele è finita fra i Paesi colonialisti, razzisti, imperialisti, di apartheid. L’ignoranza di massa, travestita da solidarietà per i poveri, si è trasformata in cinico sostegno per chi odia la democrazia, impicca gli omosessuali, soggioga le donne, uccide i dissidenti.

Hamas è questo, questo sono i suoi alleati, e questo anche i palestinesi di Fatah: oggi tre Stati europei, mentre l’AP tiene per Hamas hanno deciso di regalarle un riconoscimento che rafforza Sinwar. Sarà contento. Non c’è consolazione su questo, ma lotta: i giovani nelle piazze non vogliono due stati per due popoli, ma la distruzione di Israele. È triste per chi, come la Senatrice, ha sperato in un domani di pace. I giovani in piazza contro Israele e la Brigata Ebraica, non vogliono sapere di che fiume e di che mare si tratta gridando “from the river to the sea”. Abbracciano l’invenzione di un ebreo da emarginare, discriminare, infine uccidere. Never again sono io, è il mio turno, mi ha detto un soldato sul fronte di Gaza. Faceva la guardia ai camion di aiuto umanitario che Israele introduce ogni giorno a Gaza. Israele, non ha affamato, non ha cercato un genocidio… si limita a una guerra di difesa indispensabile, e al tentativo di riportare a casa i suoi rapiti.

Invece, Sinwar vuole uccidere non solo gli ebrei ma tutti gli infedeli. Lo dice sempre che ama la morte più di quanto ami la vita. Per saperlo non occorre molto studio, basta liberarsi della benda ideologica. Glielo dica, Senatrice Segre.  

 

Il Tribunale internazionale fa di Netanyahu il nuovo Dreyfus

mercoledì 22 maggio 2024 Il Giornale 1 commento

Il Giornale, 22 maggio 2024

Con l’accusa che equipara Netanyahu e Sinwar, lo Stato d’Israele e Hamas, la Corte Penale Internazionale (ICC) allarga la breccia che si è aperta ormai da anni nella decostruzione della società basata su principi di difesa dei diritti umani, della democrazia. È un bel contributo al disfacimento dell’ONU, di cui l’ICC è figlio e dell’Unione Europea di cui è parente. Chi potrà mai più fra le persone di buon senso credere alla legittimità di un’istituzione per cui vale altrettanto la strage genocida di donne e bambini del 7 ottobre e la difesa indispensabile del proprio popolo combattendo una guerra difficile con cautela e larga diffusione di aiuto umanitario? Chi, se da una parte, c’è Hamas, un mostro trinariciuto che domina una società sottoposta alla legge del terrore e del genocidio degli ebrei per motivi religiosi; e dall’altra chi, erede della cultura che con quella cristiana, fonda il rispetto delle differenze sessuali, religiose, etniche, culturali, la difesa delle minoranze, in 75 anni, risorgendo dalla Shoah contro ogni probabilità, ha costruito una società che benefica il mondo di medicina, tecnologia, letteratura?

L’equiparazione dell’ICC e avvenuta nelle ore di poco successive alla morte di uno dei maggiori sostenitori del mostro di Gaza, il presidente Raisi. Così, si è potuto assistere a un doppio spettacolo internazionale, un film sul futuro. Una valanga di commosse manifestazioni di cordoglio per il boia di Teheran, che ha ucciso torturato e perseguitato a decine di migliaia donne, dissidenti, omosessuali iraniani è stata così noncurante di qualsiasi logica democratica, di qualsiasi comune buon senso, che il portavoce degli affari esteri Peter Stano, dell’Unione Europea, ha giustificato in conferenza stampa le calde espressioni di Borrell… Si sono opposti i parlamentari svedesi e tedeschi, mentre da lontano Russia, Cina, Pakistan, Libano (tre giorni di lutto!), Hamas, dichiaravano tutto il loro dolore. Questa mappa è molto espressiva, insieme a quella sulla disgustosa presa di posizione di Karim Khan. La Cina invita l’ICC a restare fedele al suo compito, con simpatia; la Spagna che odia Israele, il Belgio sempre molto influenzato dalla sua componente musulmana, la Francia che adora prendere posizioni che ne facciano come ai tempi dell’URSS un potere ideologico contrapposto agli USA, stanno con il Tribunale, mentre Biden, menomale, considera “oltraggioso” l’evento.

È lo stesso aggettivo usata da Netanyahu: mettere sullo stesso piano l’aggredito e l’aggressore, la vittima e il persecutore non si può, dice Biden, e promette armi.  Anche Blinken ha detto che è una vergogna. L’Italia si è ben comportata insieme all’Inghilterra, Rishi Sunnak ha detto che è impossibile la comparazione, Tajani che “è del tutto inaccettabile che si mettano sullo stesso piano Hamas e Israele”; la Germania che la richiesta da “una falsa impressione di equivalenza”. Ma Borrell, nel suo classico stile, ha detto che tutti gli Stati firmatari della Carta di Roma sono tenuti alle indicazioni dell’ICC: devono arrestare Netanyahu, nel caso la cosa vada in fondo. Gli piacerebbe. Il primo ministro di Israele alla sinistra non piace, non piace che vinca sempre le elezioni, che adesso voglia vincere la guerra contro Hamas, che seguiti a combattere a fronte di tante critiche. È Netanyahu, è molto israeliano, suo fratello Yoni è morto eroicamente a Entebbe, è Bibi, ha il suo carattere e la sua storia, a chi piace e a chi no, ed è legittimo, ma ha sempre combattuto la guerra di difesa di un popolo assediato e eroico, vive da laico nella tradizione culturale di un popolo democratico che ha tremila anni di memorie e uno Stato in costruzione continua.

Invece Sinwar è un tagliagole, un terrorista assassino di bambini, stupratore di donne, oppressore della sua gente. Confonderli, significa che vogliamo dire che le forze Aeree Britanniche e Americane che bombardarono l’Europa per vincere la Seconda Guerra Mondiale erano comandate da assassini, servite da assassini, che il loro intento verso la Germania era genocida. Siamo ormai diventati suprematisti bianchi, colonialisti, razzisti, oppressori… Netanyahu dunque è questo oggi: l’agnello sacrificale del rogo dei diritti umani che si sta compiendo utilizzando l’attizzatoio dell’antisemitismo. Netanyahu è oggi il Dreyfus di ieri, per fortuna tuttavia il suo popolo ha un esercito.   

 

La strategia resta la stessa. Contro Israele e Occidente

martedì 21 maggio 2024 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 21 maggio 2024

Morto Raisi, se ne fara un altro. Quasi uguale. Con politiche internazionali e interne identiche a quelle che hanno travolto il Medio Oriente e hanno tenuto il popolo iraniano soggetto alle norme religiose più strette. Si può vedere così il domani geopolitico che si configura già in queste ore dopo la morte di Ebrahim Raisi e dell’attivo ministro degli esteri iraniano Hossein Amir Abdollahian, insieme agli altri sull’elicottero di ritorno dall’Azerbajan. Già nelle quindici ore di ricerca dei resti degli uomini di stato iraniani, ore drammatiche in cui si sapeva solo nebbia e freddo, l’Ayatollah Khamenei ha mobilitato le Guardie della Rivoluzione a protezione delle zone e degli edifici sensibili mentre tuttavia la soddisfazione della gente cercava di emergere, subito soffocata, con canti e fuochi d’artificio. Ma, al solito, la gente dell’Iran non ha ricevuto dal mondo nessun deciso segnale di sostegno. Al contrario si è levato un coro delle espressioni di sostegno all’Iran fra cui forse la più bizzarra quella dell’IAEA, l’agenzia atomica che ha avuto innumerevoli corpo a corpo con quel Paese il cui maggiore obiettivo è da decenni la bomba e che ormai l’ha quasi confezionata alla faccia specialmente dell’Agenzia stessa, che ha tenuto persino un minuto di silenzio alla sua assemblea.

Le fanno eco le sentite condoglianze dell’ONU, dell’Unione Europea, di Putin, della Cina addoloratissimi, di numerosi Paesi che dimostrano così solo quanta paura faccia l’Iran oggi. La grande strategia di attacco all’Occidente e in primis della distruzione di Israele è stata con sapienza incatenata alla strategia della conquista islamista del Medioriente, in cui Suleimani seppe aprire lo Stato sciita a alleanze sunnite indispensabili alla conquista del terreno circostante Israele. Hamas è stato il prescelto nell’educazione all’eccidio, col 7 di ottobre cui l’Iran ha dato grande spinta militare e ideologica. L’Iran si è reso un alleato prezioso anche con l’abilità nella costruzione di droni e altre armi per la Russia. E se Raisi, morendo lascia in piedi soprattutto la costruzione oppressiva interna col suo soprannome “ il macellaio di Teheran” con la biografia legata dagli anni ‘80 alla decine di migliaia di esecuzioni prima di prigionieri di guerra iracheni, poi di dissidenti, e con la sua persecuzione omicida contro le donne “mal velate”… nei due anni in cui è stato Ministro degli esteri Amir Abdollahian, un allievo diretto di Qassem Suleimani ha costruito un’autostrada di rapporti internazionali imperniati sull’odio antioccidentale bel gestito. Capace di dotto eloquio anche in arabo, ha forgiato un rapporto innovativo con l’Arabia Saudita per strapparla al disegno americano di farne un pilastro di rinnovati Patti di Abramo. La politica Raisi-Abdollahian è la storia di due fautori della linea dura con oasi colloquiali e diplomatiche per, evitando l’escalation improvvisa (per esempio con gli Hezbollah), consentire un comodo sentiero di conquista. Da una parte  gli incontri con gli americani in Oman di cui l’ultimo la settimana scorsa fra Brett Gurk, responsabile  per la Casa Bianca del Medio Oriente, e inviati di Teheran; dall’altra l’eccidio programmato del 7 di ottobre. Il progetto iraniano di decostruzione di Israele è una lunga strada di lungo dominio dei movimenti politici militarizzati del mondo arabo. L’IRGC ha una metodologia che combina potere militare e paramilitare, fornisce denaro e addestramento, e che ha portato l’influenza e il potere di Teheran in Libano (gli Hezbollah  hanno 250mila missili), Yemen, Gaza, Siria, Iraq, West Bank. L’idea del regime è che coi continui attacchi la vita in Israele diventi insostenibile, e che intanto la grande bandiera islamista che è l’odio per Israele divenga irresistibile.

L’investimento molto importante del paese sciita nella causa palestinese, cuore della Fratellanza Musulmana, crea uno spazio internazionale islamista, cui fa da scenario la pioggia di missili balistici su Gerusalemme, che provoca un applauso sonoro come quello che si è potuto notare ieri nelle parole appassionate dedicate da Erdogan all’incidente di Raisi. Non ci sono ragioni di immaginare un cambiamento di rotta: si può strologare sull’interesse che aveva il figlio di Khamenei a diventare il successore di suo padre: ora che Raisi è morto se non succede qualcosa il popolo iraniano avrà questo regalo. Niente di nuovo all’orizzonte. Solo la possibilità che in tempi molto brevi, dato che nessuno ha il coraggio di opporsi sul serio, l’Ayatollah potrà dare ordini di presentare al mondo la sua nuova bomba atomica, nuova di zecca.      

 

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