Zahedi ucciso, messaggio a Iran e Hamas
Il Giornale, 03 aprile 2024
La scena in cui è stata eliminato Mohammed Reza Zahedi, comandante in capo delle Forze Quds delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane (IRGC) per il Libano e la Siria, con sei dei suoi, ieri è rimasto a lungo avvolto nella polvere dell’edificio bombardato chirurgicamente accanto al consolato iraniano a sua volta contiguo all’ambasciata: la polvere ha avvolto la bandiera iraniana e il ritratto del generale Qassem Suleimani, lo stratega fondatore della conquista mediorientale da parte iraniana, a sua volta eliminato nel 2020. Suleimani, raccontava fra l’altro il leader di Hamas e suo ex ministro degli esteri Mahmoud al Zahar, nel primo dei loro incontri gli portò 22 milioni di dollari. La prima tranche, fino al 7 di ottobre. Reza Zahedi è stato un leader fondamentale su quella stessa via, ovvero quella della distruzione di Israele tramite l’uso concentrico di eserciti di “proxy” ben allenati e ben armati e la conquista del Medio Oriente, prima di quella del mondo intero all’islamismo sciita. Così pensa l’Iran. Mohammed Zahedi era certamente il maggiore pilastro, dopo la morte di Suleimani, di questa strategia, diretto interlocutore di Nasrallah, ovvero degli Hezbollah, il braccio destro dell’Iran.
Negli anni sono stati forniti passando per la Siria, altra pedina iraniana, circa 200mila missili; che ruolo diretto possa avere avuto Zahedi nella guerra del 7 di ottobre è difficile dirlo, ma un generale agli ordini diretti di Khamenei e Raisi non può essere stato distante dall’affiliazione di Hamas, frequente ospite a Teheran, e dai continui rifornimenti di armi e di mezzi ad Hamas. L’Iran ha posto al centro della conquista del Medio Oriente l’erosione dell’esistenza stessa di Israele: nelle ultime settimane le visite a Teheran di Ismail Haniyeh sottolineano la comunanza strategica e il sostegno alle mostruosità del 7 di ottobre, come anche i missili piovuti su Eilat da milizie sempre armate dagli iraniani dall’Iraq e dagli Houti in Yemen… insomma l’accerchiamento ormai ventennale che va in parallelo alla costruzione dell’atomica, non poteva più restare senza risposta dopo che dal 7 di ottobre Israele ha capito che lasciar prosperare il nemico può condurre a episodi irreparabili. Persino se è chiaro che in Siria l’Iran non può certo agire senza il permesso di Putin: del testo i due sono ormai solidi alleati anche in Ucraina.
L’Iran è il maggior nemico strategico di Israele, e qui, anche se Israele non lo ammette, è stato affrontato come tale, stando attenti a non colpire l’ambasciata per non violare il diritto internazionale. Data la stretta sorveglianza su Gaza, è ovvio che il training per l’attacco del 7 ottobre è stato fatto all’estero, la fornitura di missili di lunga gittata Fajr e Syrian M302 oltre che altre armi come le granate che raggiungono i duemila gradi di temperatura (quelle usate usante la Nukba per bruciare intere famiglie dentro le case) sono di fabbricazione iraniana. Yemen, Siria, Libano, Gaza, tutti sono riforniti di armi iraniane contro Israele: la strategia è quella di scavalcare il potere militare di Israele e avventarsi direttamente col terrorismo sulla società. L’Iran ha anche un largo, pericoloso accesso all’Autorità nazionale palestinese, dove finanzia e arma più terroristi possibile e prepara un’invasione come da Gaza. Israele, dunque, se ha compiuto l’attacco, colpendo il generale e sei dei suoi sottoposti ha voluto rendere chiaro che dopo il 7 ottobre le cose sono cambiate: “Noi affrontiamo una guerra su più fronti… e combattiamo da ogni parte per spiegare a chiunque che combatte contro di noi che il prezzo è alto”. Così, senza rivendicazione, il ministro della difesa Gallant ha dichiarato. Le minacce di vendetta dell’Iran hanno creato uno stato di allerta sia al nord, al confine con il Libano, che nelle ambasciate di Israele nel mondo.
Le bombe e i caccia F35. Biden arma Netanyahu e prepara il post Hamas
Il Giornale, 31 marzo 2024
La nuvola di bugie che copre Israele ha molti spessi strati, uno è dedicato al rapporto fra USA e Israele, anzi, fra Biden e Netanyahu: logico che i due, due scuole politiche e di pensiero diverse, ognuno con una sua “constituency”, non vadano d’accordo, che a Netanyahu stia a cuore prima di tutto vincere la guerra, a Biden oltre che questo obiettivo (l’ha ribadito più volte anche in questi giorni) un rafforzamento dell’aiuto umanitario. Di fatto l’interesse politico di Biden ha primeggiato quando ha deciso di non bloccare il voto del Consiglio di Sicurezza, e la cosa strana è che per questo, sia Netanyahu ad essere accusato della lite col migliore amico di Israele. DI fatto, la scelta del presidente americano non si capisce perché non è sostanziata da mosse ulteriori che facciano pensare a un abbandono di Israele, o persino di Bibi.
Nel cielo fra gli Stati Uniti e Israele con una decisione di ieri, volano una quantità di armi indispensabili alla guerra, perché gli USA hanno approvato la consegna di più di 2000 bombe, altri proiettili e di 25 F35 che portano la flotta a 75. Voleranno forse oggi anche due ministri, Ron Dermer e Tzachi Ha Negbi, per discutere dell’ingresso a Rafah; il loro viaggio era stato sospeso dopo che lunedì scorso l’America aveva deciso di non porre il veto sulla risoluzione dell’ONU; vola di nuovo il capo del Mossad e riceve ancora una volta indicazioni di flessibilità sullo scambio degli ostaggi. E intanto il ministro della difesa Gallant, tornato dagli USA, porta notizie importanti: un piano in fieri fra Israele e USA per l’istituzione di una forza internazionale di “peacekeeping” a Gaza. Faciliterà la distribuzione di aiuto umanitario (vuol dire finalmente fare la guardia con le armi a tutti camion che già Israele introduce con gli altri stati impegnati in questo); la comporranno tre stati arabi che guideranno le prossime mosse sul terreno: si parla dell’Egitto, degli Emirati Arabi, e il terzo stato è misterioso, ma non saranno né l’Arabia Saudita né il Qatar, troppo segnati politicamente. Le nuove forze arabe sarebbero i depositari della legge e dell’ordine, l’America dirigerebbe il traffico da fuori, e si preparerebbe così il famoso “day after” in cui palestinesi non ostili a Israele dirigerebbero gli affari civili; Israele conserverebbe la supervisione di sicurezza. I Palestinesi, come al solito danno segnali di voler tutto e subito, ovvero la strada aperta mentre ancora Abu Mazen paga i salari ai terroristi, ma con la nomina del nuovo governo palestinese forse si apre a una discussione su quella deradicalizzazione che è indispensabile per Israele.
Dunque, Israele ancora non è entrata a Rafah di fatto osservando, essenzialmente, il cessate il fuoco di Ramadan previsto dall’ONU; ma la seconda parte della risoluzione che chiama (senza mettere i due punti in relazione) alla restituzione degli ostaggi è stata ridicolizzata da Hamas che non ci pensa nemmeno. Di fatto, non c’è una crisi ma una discussione più o meno positiva a seconda dei momenti, Biden è in campagna elettorale e Netanyahu, in questo momento, ha soprattutto lo scopo di combattere e vincere la forza terrorista che occupa Gaza. Tuttavia, Netanyahu fa le sue mosse con l’aiuto umanitario, lo stop di Rafah, la salvaguardia della popolazione civile, molto difficile, considerando che a Biden deve particolare gratitudine per il sostegno sin dai primi giorni di guerra. E lo scopo comune è ribadito: distruggere Hamas. Su questo, non c’è revisione americana. È difficile in realtà capire l’ONU, se si pensa che il Consiglio di Sicurezza aveva il 22 marzo condannato l’attacco terrorista a Mosca e mercoledì l’attacco sucida in Pakistan; adesso, dopo 175 giorni avrebbe potuto almeno essere spinto dagli USA a condannare le atrocità Hamas ha ucciso, violentato, smembrato fra i 1200 e le 1400 persone e rapito 240 ostaggi.
Non è accaduto. Infine: Israele ha dovuto di nuovo intervenire a Shifa, e di fatto vi ha arrestato almeno 500 sospetti membri di Hamas; 170 che hanno sparato sui soldati dai reparti di maternità e di emergenza sono stati uccisi, i dottori e malati sono stati salvaguardati mentre si trovavano di nuovo quantità di armi e strutture dei terroristi. Nessuno nelle istituzioni internazionali ha presentato una mozione per affermare di essere scandalizzato dell’uso dell’ospedale Shifa come roccaforte del terrorismo, mentre nella prima incursione tutto il mondo aveva condannato Israele per avere osato perseguire il terrore dove di fatto era. La colpa, anche nell’ondeggiare dei rapporti con gli USA, è sempre di Israele, mentre le si danno intimazioni che non concordano con i fini che restano comuni: guerra al terrorismo. La vera mossa che manca è quella della chiarezza morale più ovvia: gli USA devono imporre a Hamas di rilasciare gli ostaggi, denunciandone la sfrontatezza internazionale, e legando il proprio intervento umanitario e contro Rafah a questo fine. E non a un’inutile, fatua, finta polemica con Israele che induce il facile applauso filopalestinese.
Tradimento dell’America. Hamas ride
Il Giornale, 27 marzo 2024
Non è vero che niente è cambiato nella politica americana: Biden dopo il 7 di ottobre aveva aiutato, capito l’immensità dell’evento, si era reso conto che l’attacco a Israele era un attacco alla sua esistenza e alla civiltà, che le atrocità compiute non potevano altro che essere controbattute con l’eliminazione del criminale terrorista. Adesso, all’ONU gli USA hanno pugnalato Israele mentre è in guerra, mentre nel mondo la tempesta antisemita impazza, aprendo la strada all’estremismo di Guterres e del mondo islamista, alle operazioni di taglio delle armi come quella canadese. Non ci sono più freni, chiunque ora può chiedere a Israele di preservare Rafah in nome della legalità internazionale, Hamas e l’Iran sono contentissimi dell’accaduto, la Russia gli sta dietro, e anche questo è un bizzarro risultato per la politica americana. Prima di tutto, una risoluzione per la quale Hamas si entusiasma non può essere buona e Biden, che certo se l’aspettava, non dovrebbe essere giunto a quel punto di cinismo politico anche se ha le elezioni. Invece Ismail Haniyeh, travestito da diplomatico, un dignitario sporco di sangue sotto la cravatta, è andato a Teheran con il capo della Jihad Islamica ospite del ministro degli Esteri e di Khamenei.
Riaggiustano la strategia: si rafforza l’asse del male si discute della prossima mossa, si concorda certo che le stragi fruttano. L’America sembra aver perso il senno: a Parigi, al Cairo, a Doha era l’apostolo della liberazione degli gli ostaggi dalle grinfie di Hamas. Adesso a causa della sua mossa, Hamas un minuto dopo ha dichiarato chiuso lo scambio: che bisogno c’è di scambiare se si può avere la tregua gratis? L’ONU inoltre impone di bloccare la guerra per il Ramadan e si dimentica che le due settimane in gioco sono ben meno delle 6 che Israele aveva già stabilito di concedere in cambio di 40 ostaggi, con l’aggiunta di 500 prigionieri jihadisti “con sangue sulle mani”. Già, ma quelle sei settimane prevedevano un contraccambio, su cui peraltro si era impegnata l’America. E ora tutto il suo lavoro cade: il documento prevede tregua immediata e solo la generica liberazione degli ostaggi, sconnessa dal cessate il fuoco. Curioso, visto che l’accordo era già quasi raggiunto, che le famiglie disperate aspettavano finalmente i loro cari. Ed ecco invece che gli USA si giocano tutto per bloccare sulla linea di Kamala Harris, che ritiene “una cattiva idea” entrare a Rafah. Strano anche questo: gli Usa aspettavano a Washington i due ministri di Netanyahu proprio per discutere come entrare a Rafah: i quattro battaglioni di Hamas, larga sezione ben armata di un esercito robusto, sono ancora in grado di riformare il potere di Hamas a Rafah e quindi di restituire il potere a Hamas.
Quindi, Dermer e Hanegbi dovevano discutere con gli americani come limitare il problema umanitario del grande conglomerato di esseri umani affollatosi nella zona, entrando a Rafah: gli USA, votando la risoluzione hanno imposto il cessate il fuoco disconnettendolo dagli ostaggi e disconoscendo la ripetuta necessità di entrare a Rafah. Risultato: la disperazione delle famiglie dei 134 miseri, infelici, violentati, affamati ammalati innocenti che nelle gallerie sono la ricchezza di Sinwar. Altro risultato: Hamas è felice. Un altro ancora: l’Occidente va in pezzi.
Così tradito un Popolo e tutto l'Occidente
Il Giornale, 26 marzo 2024
Nella jungla dell’ONU, dove la maggioranza delle risoluzioni di condanna sono dedicate in modo quasi pagliaccesco a Israele, il veto degli USA al Consiglio di Sicurezza ha rappresentato spesso un’ancora morale rispetto al doppio registro, all’eredità sovietica della maggioranza automatica che sempre si realizza in assemblea e nelle commissioni, al doppio standard fisso contro lo Stato Ebraico. E’ stato una diga rispetto alla mancanza di chiarezza morale per cui Antònio Guterres si sente comodo a mettere le atrocità di Hamas sullo stesso piano, uguali alla indispensabile guerra di sopravvivenza di Israele, accusandolo di “punizione collettiva”. Chi ha riflettuto sul 7 ottobre e le sue conseguenze sa che è la più lontana delle intenzioni di Israele.
Come ha detto il ministro degli Esteri Gallant la guerra contro Hamas ha un senso morale: adesso gli USA lo tradiscono tradendo se stessi e tutto l’occidente. Si tratta di distruggere la forza che ha reintrodotto l’odio genocida contro gli ebrei con una strage senza pari nei modi e nei numeri, e si tratta di liberare gli ostaggi. Invece la risoluzione che l’ONU ha votato scatena il biasimo antisemita, cerca di impedire di vincere, scandalosamente non mette in relazione al cessate il fuoco la restituzione degli ostaggi. L’ONU così viene coadiuvato da Biden nel non condannare (non l’ha mai fatto) le stragi e le azioni di Hamas, né richiede in modo convincente la restituzione degli ostaggi. Nemmeno, come ha invece fatto subito per la Russia, ha condannato il terrorismo del 7 ottobre. Dopo la risoluzione Hamas si è congratulata: da questo momento è più fiduciosa di bloccare la guerra a Rafah, Sinwar è incentivato a non alzare le mani, a non proseguire la trattativa, a puntare al rinsaldarsi della sua posizione fra gli alleati che l’Iran dirige nella sua guerra di conquista e che certo ieri hanno festeggiato con gli Hezbollah, gli Houthi, gli islamici che nelle piazze con i filopalestinesi occidentale gridano “dal fiume al mare”. IL muro di difesa è stato rotto dalle vicine scadenze elettorali di Biden, ma il picconamento di Netanyahu scelto come esempio di fedeltà a sinistra, non funzionerà in questo caso: i tre quarti degli israeliani, religiosi e laici, di sinistra e di destra, sanno che distruggere Hamas occorre entrare a Rafah.
Non è un’opinione, è un dato di fatto. Il ministro Ron Dermer stava arrivando a discutere proprio come farlo in modo accettabile per gli USA. Anche le trattative per i rapiti erano sotto giurisdizione USA. Peccato, errore americano. La visita di Dermer poteva creare un accordo. Biden ha sciupato la fiducia di Israele senza ottenere altro che lo scopo di rafforzare Hamas.
Lasciate entrare la mia gente a Rafah. O il mare dell’odio vi sommergerà
Il Giornale, 23 marzo 2023
Let my people go. Il faraone rifiutò a lungo il diritto del popolo ebraico alla libertà. Ma il mare che alla fine si aprì per Mosè e il suo popolo, si rovesciò alla fine sulle sue truppe all’inseguimento degli ebrei che camminavano verso Israele. Israele è abituata alle sirene di allarme, ma oggi l’ululato si dovrebbe avvertire in tutto il mondo: sia pure avvolte in parole flautate, nella stessa giornata si sono votate due risoluzioni per fermare Israele, uno da parte della maggiore istituzione mondiale, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e l’altra dalla Casa in cui si è generata la democrazia e che tuttavia conosce il male assoluto, l’Europa. Cercare di bloccare Israele è segno di oblio della storia, delle atrocità del 7 ottobre, di incomprensione del loro significato universale, è una firma sulla condanna di decine di migliaia di profughi a non tornare a casa, una consapevole acquiescenza al ritorno di Hamas al potere e a una nuova guerra terrorista, oltre che una chiara condanna per il destino dei palestinesi. Non è utile a nessuno. Al contrario, battere Hamas è indispensabile al mondo, ed è sconcertante, triste, che si agisca al contrario. Poiché le risoluzioni sono formulate con una certa cautela, si ricorda la strage del 7 ottobre, si chiede dall’ONU la restituzione degli ostaggi, nella seconda, quella europea, è meno chiaro quello che si pretende. Israele è l’obiettivo.
Gli si chiede di fermarsi prima di Rafah (un nome ormai diventato una bandiera per biasimare Israele di una sua supposta noncuranza verso la folla palestinese, ipotesi inconsistente, dato che ancora l’attacco non ci è stato proprio per consentire uno sgombero e una cura della gente efficaci e dato che una delegazione israeliana è in America proprio per parlare di questo, bontà sua) e in sostanza lo si condanna per le sofferenze della gente di Gaza. Sì, Israele è colpevole, gli ebrei lo sono, devono stare attenti, anche rinunciare a obiettivi essenziali, anche lasciar perdere Sinwar, o i rapiti se sono a Rafah. Rafah, non si tocca. Non devono stare attenti i cinesi con gli Uiguri, non gli iraniani, non i siriani, a suo tempo non gli americani, non gli inglesi. È solo Israele che deve stare attenta a come gestisce la guerra. Un paio di deputati europei hanno persino osato utilizzare un parallelo osceno, accusando di doppio standard chi non colpevolizza Israele come i russi. Un piccolo particolare: Israele è stata aggredita, e come. Ma non importa. Tutto il mondo le sta addosso. E anche se perde, è chiaro che non importa. Forse, è meglio. Non si rinunciato all’uso della parola “sproporzionato” e quella della richiesta di fermarsi.
Sinwar di certo oggi festeggia coi suoi boia, se aveva in mente di portare a conclusione un accordo sul rilascio degli ostaggi, il prezzo sale. Hamas è un problema privato di Israele, l’Occidente nega la necessità complessiva di vincerlo e dà a Gaza il suo appoggio, senza ammettere che cercare di fermare Israele è un appoggio a Hamas e una condanna per Israele. In più la colpevolizzazione ulteriore di Israele solleverà le onde nere dell’antisemitismo mondiale in crescita. Sulla politica dell’ONU e dell’UE si affollano gli opportunismi, la mancanza di chiarezza morale, la confusione di un Occidente preda della paura di folle sgangherate come quella che ha imposto al collegio accademico di Torino una risoluzione simile a quella imposte dal fascismo. È un accerchiamento che proviene dal martellamento elettorale americano, dalla decisione del Canada di non vendere armi a Israele, dalle minacce di isolamento di Germania, Spagna, Olanda, Inghilterra, dall’odio belga e irlandese… Sono il seguito delle posizioni sia di António Guterres che di Borrell, il primo che a pochi giorni dalle atrocità di Hamas commentava l’attacco del 7 ottobre colpevolizzando Israele: “non avviene in un vuoto”; l’altro, fra le tante uscite, una geniale su Project Sindicate: “l’estremismo sta aumentando da entrambe le parti”. La parola proporzionalità appare nelle due risoluzioni, una bestemmia quando si combatte su un terreno in cui ogni struttura civile è una casamatta, e soprattutto quando il nemico è un tagliagole di bambini e uno stupratore seriale che usa la sua gente su un’area nazificata; gli altri punti, aiuti umanitari, salvaguardia dal fuoco, è quello che Israele ha fatto sin dall’inizio della guerra più di qualsiasi altro esercito, sapendo che gli aiuti umanitari li sequestra Hamas, e che la gente viene usata in difesa da Sinwar, mentre si sparano cifre fantasiose sui morti. Realismo, questo devono offrire le istituzioni, e non opportunismo politico. Gaza non può essere salvata se non si elimina Hamas, Israele non può sopravvivere se non lo cancella, i Palestinesi non avranno mai una leadership se non viene affrontata la fissazione omicida in cui vengono cresciuti i loro bambini.
Su Rafah ha risposto già ovunque il governo di Israele, non è possibile lasciar sopravvivere i quattro battaglioni di Hamas che con Sinwar la occupano. Let my people go to Rafah, o il mare dell’odio prima o dopo sommergerà anche voi.
Chi affama Gaza è soltanto Hamas
Il Giornale, 20 marzo 2024
È facile, la porta è aperta: dopo che a Israele si è dato di genocida, di colonialista e imperialista, ora che le folle danno la caccia agli ebrei nelle aule universitarie e nelle strade in America e in Europa, si accomodi anche Josep Borrell, che per altro si è già esercitato molto nel passato, con l’accusa che Israele usi la fame come arma di guerra. Non è vero naturalmente, ma nemmeno le altre accuse lo sono, ed è uno slogan politico in crescita. L’ antisemitismo adesso è terra ben concimata, l’orribile accusa di affamare i bambini si sposa bene con la criminalizzazione che nazifica lo Stato Ebraico.
Ma al 18 marzo, entrano a Gaza l’80 per cento di camion in più di prima della guerra adesso carichi di cibo; prima del 7 ottobre erano 70 al giorno, ora 126 di media, sempre in crescita. Israele non mette nessun limite all’aiuto, e inoltre ha aperto nuovi ingressi e nuove strade. Ma mercoledì scorso, per esempio, sei camion entrati da una nuova apertura sperimentale, sono stati sequestrati a forza da gente di Gaza, probabilmente in parte Hamas, parte bande criminali locali. L’ONU ha confermato una “notevole crescita dello sforzo umanitario facilitato dalle autorità israeliane”; e l ‘ingresso giordano da Allenby da cui si portano aiuti a Keren Shalom, il maggiore ingresso israeliano, è stato allargato e rafforzato. Gli USA e altri Paesi, compresa la Spagna di Borrell, mandano navi che sbarcano tranquillamente il loro aiuto.
Dov’è dunque il problema? Non è nella mancanza di cibo, che anzi ormai è accumulato in quantità nelle mani di Hamas, ma nella furia e nella prepotenza dell’organizzazione di Sinwar, nella sua determinazione a tenersi il potere e quindi il cibo. Il problema non è negli aiuti ma nell’impossibilità di distribuirli come si deve finché Hamas regna, se ne impossessa, e ne fa mercato. Da Hamas nasce la guerra, la morte (i cui numeri sono a loro volta manipolati, come i dati sulla fame,) la malnutrizione (non carestia non c’è), la sofferenza di tutti. Basterebbe che restituisse gli ostaggi, che dai tunnel uscissero i leader di Hamas. O persino se adesso accettasse le famose sei settimane di tregua, perfino in cambio delle sue condizioni, la liberazione di un migliaio di assassini di cittadini innocenti in cambio di qualche decina di ostaggi. Israele, per chi lo conosce, è il Paese in cui se un soldato colpisce un tredicenne che lanciava fuochi, subito si va a un’inchiesta fra un coro di accuse pubbliche.
È appena successo. Per Hamas un bambino israeliano o anche ebreo della diaspora è un ebreo da uccidere con gusto. Anche questo è appena successo. Borrell sembra non ricordare che per Hamas è lo stupro ad essere “un’arma di guerra”. E dal suo alto seggio non ricorda invece cos’è davvero lo sterminio indotto per fame: basta per esempio che guardi le strazianti immagini del Sudan, dove le milizie islamiste in cambio del cibo pretendono la schiavitù di uomini donne e bambini. 250mila bambini là stanno morendo di fame, per volontà dei nemici dei loro genitori, che devono inginocchiarsi, innocenti, ai più crudeli fra i nemici, resi schiavi. Ma una parola per loro non si è sentita. Il doppio standard è una delle più note malattie dell’antisemitismo, insieme alla menzogna. Qui, vanno insieme. Infine: ogni ora le cose cambiano considerando le fragilità della popolazione di Gaza, Israele cerca di migliorare la sua strategia. Entrare a Rafiah è indispensabile per concludere la guerra contro i peggiori terroristi del mondo: per questo ritarda, perché disegna complesse vie di aiuto alla popolazione.
Netanyahu duro con Biden. «Noi a Rafah anche da soli»
Il Giornale, 18 marzo 2024
Tutti i giorni Israele si trova di fronte di fronte a un bivio fatale: ieri sera in una riunione del Gabinetto di Guerra si è discusso fino a tardi della nuova delegazione diretta in Qatar per una riunione fatale, in cui mentre l’orologio ticchetta sulla vita degli ostaggi, si deve decidere sulle impossibili richieste di Hamas: esse hanno sempre il carattere della quasi impossibilità, un numero altissimo, più di mille, molti terroristi con più ergastoli, contro qualche decina di ostaggi “fragili”, donne e anziani, e dopo alcune settimane di cessate il fuoco, forse 6, il secondo atto in cui Israele si dovrebbe impegnare per uno stop definitivo alla guerra. Su questo, la risposta di Netanyahu alle critiche americane diventate molto dirette e personali, è molto ferma: Netanyahu dice a Biden e Chuck Shumer, che gli ha fatto da rompighiaccio chiedendo con un discorso davvero irrituale a Israele di andare alle elezioni per eliminare Netanyahu, che la sua linea è più ferma che mai. “Noi opereremo a Rafah -ha detto Netanyahu- ci vorrà qualche settimana ma accadrà. È l’unico modo per fermare Hamas in modo definitivo e per liberare i nostri rapiti. È una decisione difficile, ma è indispensabile”.
A lato di questo, intanto, comunque, il governo israeliano prepara una situazione in cui da Rafah sia compiuto lo sgombero che consenta un’operazione il più mirata possibile contro i quattro battaglioni di Hamas ancora in piedi e che sia capace di catturare nelle loro gallerie la leadership e forse Sinwar, cerando gli ostaggi. “Biden ed io abbiamo opinioni diverse su tante cose, ma questo è normale -ha detto Netanyahu- e sulla guerra dobbiamo dire, se dobbiamo andare da soli, non c’è scelta, andremo da soli”. Ma Netanyahu mentre dimostra fermezza nella determinazione di concludere la guerra solo con l’eliminazione di Hamas (e ieri è stata importante la definitiva acquisizione della notizia che Issa, il numero tre, il capo di stato maggiore di Hamas non è più fra i vivi) si vede che usa un tono che non vuole essere di rottura, che cerca, anche nell’intervista di ieri alla CNN di spiegare con garbo che la maggioranza di Israele, di destra e di sinistra, religiosa e laica, è d’accordo e anzi richiede di concludere la guerra in modo che si restituisca sicurezza ai cittadini israeliani. Con questo argomento ha spiegato al leader della maggioranza Chuck Shumer che parlare di elezioni adesso è “improprio” e anche irrealistico, data la guerra in corso: “avremmo sei mesi di paralisi nazionale il che significherebbe perdere la guerra”, e anche perché non si cerca di “sostituire “la maggioranza eletta”.
Netanyahu ha molto spiegato, giustamente, quanto sia moralmente ingiusto dimenticare il 7 di settembre, e quanta chiarezza morale invece occorra per condurre la guerra più giusta contro il terrorismo in tutto il mondo, Naturalmente la leva del disaccordo con gli americani viene impugnato sovente dai suoi nemici interni, che non sono pochi, e che usano anche senza problema il tema molto sensibile del sentimento per cui per liberare gli ostaggi deve esser pagato qualsiasi prezzo, anche quello di fermare la battaglia. Ma su questo Bibi riesce a tenere duro e seguita a mette sempre insieme i due obiettivi, vincere la guerra e riportare a casa i sequestrati. La delegazione che parte per il Qatar ha un duro compito, che somiglia a un’ultima chance prima di Rafah. Si dice sempre che per fare la pace bisogna essere in due: qui invece è chiarissimo che per fare la pace bisogna battere Hamas, altrimenti può esserci solo morte e distruzione.
Netanyahu apre le porte a tutti i modi più spericolati, navi, lanci col paracadute, processioni di camion con cui Biden e le altre nazioni alleate portano aiuto umanitario ai palestinesi, anche se si tratta di modi problematici e poco sicuri, e certo Hamas è capace di approfittarsene. Chissà cosa si può portare e cosa può passare in mano a Hamas su una serie di navi che portano grandi quantitativi di merci a Hamas. Ma questo sembra per ora è il prezzo che Netanyahu paga al rapporto con gli americani; la sua determinazione non gli costa consensi in Israele, al contrario è la parte della sua politica che gli conserva una forte leadership nonostante tanti nemici.
Israele punta Rafah con il "nì" di Biden
Il Giornale, 15 marzo 2024
Doppio messaggio dagli Stati Uniti, mentre la guerra va avanti. Rafah no, aveva sempre detto l’amministrazione americana, adesso degli “ufficiali” riportano che l’amministrazione americana sosterrà “una operazione a Rafah che prenda di mira obiettivi di Hamas di alto valore sopra e sotto la città evitando una operazione su larga scala”. Il presidente degli Stati Uniti si preso molta cura nei giorni scorsi di dimostrare alla sua opinione pubblica, perplessa sul voto del prossimo novembre, che il rapporto con Netanyahu è freddo a causa della grande crisi umanitaria a Gaza e l’alto numero delle vittime. Biden, che aiuta Israele con generosità fino dall’atroce attacco del 7 di ottobre, dopo cinque mesi ha scelto la polemica con Netanyahu. Un classico per gli USA: ai tempi di Ben Gurion, della Guerra dei 6 Giorni, di Golda Meir, Israele ha attraversato stretti ponti di quasi rottura. Ma l’importanza strategica fondamentale che costituisce per i due un’alleanza sincera basata sul concetto di democrazia, non è mai andati fino in fondo.
Biden sa che Israele ha bisogno di lui ma non abbandonerà la sua guerra di difesa fondamentale: quindi ha usato il drammatico concetto di “linea rossa” su Rafah, addirittura ha definito Netanyahu “una persona cattiva”, tre volte ha ripetuto che “deve deve deve” occuparsi della salvaguardia dei palestinesi, ha utilizzato numeri non verificati, ha definito il Primo ministro israeliano “più una disgrazia che una fortuna” per il suo popolo. Durante il discorso sullo Stato dell’Unione si è scordato di condannare Hamas, e invece ha minacciato Israele di sospendere l’insostituibile aiuto. La sua posizione ha avuto ieri un seguito davvero irrituale quando un importante figura del Senato, non un membro della “squad” antisemita, il leader della maggioranza Chuck Schumer, ha esortato Israele a tenere nuove elezioni, sostenendo che “Netanyahu non soddisfa i bisogni di Israele”. Ma c’è anche un chiaro contraltare: anche gli USA sembrano essersi resi conti della inutilità di seguitare a chiedere a Israele, dove tutti, da destra a sinistra (il 74 per cento della popolazione lo vuole) sono uniti sulla necessità di spazzare via da Rafah gli ultimi quattro battaglioni di Hamas e la leadership che vi è rintanata, costringendola a restituire gli ostaggi.
Inoltre, il 90 per cento della Knesset ha votato con Netanyahu contro l’idea di uno Stato palestinese stabilito unilateralmente, mentre è aperta alla trattativa unita alla deradicalizzazione. Di fatto, l’89 per cento dei Palestinesi chiede un governo con Hamas necessario per tutta la Palestina di domani, a Mosca sotto il patrocinio di Putin Fatah e Hamas hanno stretto un accordo. Biden questo lo sa. E’ molto difficile immaginare che anche se Abu Mazen promette un governo tecnico, questo garantirà che voglia un futuro pacifico. Martedì, dopo la “linea rossa” del week end di Biden, il suo Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan, ha detto che il presidente non ha stabilito linee, che non potrà sostenere “un’operazione che non protegge i civili a Rafah e che taglia le arterie di assistenza…”.
Dunque, Israele in questi giorni venendo incontro agli USA, cerca la strada per un’operazione mirata e per l’evacuazione e la protezione del maggior numero possibili dei cittadini. Il problema è sempre, però, come proteggerli da Hamas nelle operazioni di soccorso umanitario: la posizione americana sembra piuttosto confusa. Israele a sua volta promette di “inondare” Gaza di aiuti, mentre costruisce una strada nuova per distribuirli; gli americani si avviano alla costruzione di un porto che sembra una vera utopia: una volta sbarcati gli aiuti, da chi dovranno essere gestiti? Hamas è sempre in agguato per un’operazione di appropriazione; né si può giurare, data la sua ossessione ideologica antiamericana, sulla sicurezza delle truppe americane che Biden sta spedendo in zona.
Le banalità degli antisemiti da salotto
Il Giornale, 12 marzo 2024
"L’antisemitismo che non vede crimini contro Israele"
Siamo ormai arrivati al punto di non ritorno, fatevi coraggio, tolleranza zero. Cancellate le cene, le vacanze con gli amici, le settimane bianche in cui non si può menzionare Israele e gli ebrei pena una discussione cruenta, forse una rottura definitiva. Quegli amici, e lo so che sono ormai la maggioranza, non vi meritano più: sottraetevi, o anche meglio, dite esplicitamente il motivo del vostro rifiuto. Io con gli antisemiti non condivido il mio tempo. Con i frivoli e gli sciocchi, con i cinici e gli immorali, non condivido il mio pane. Chi non vede come un crimine contro l’umanità lo stupro e il massacro, la decapitazione di bambini, lo sterminio al grido di “yehud”, non è degno della civiltà dei diritti umani. Ormai è il loro rovesciamento che è in gioco: questo pogrom non “viene in un vuoto” ha detto, ma alla rovescia, il segretario dell’ONU Guterres: perché quel mondo, del terrorismo islamico istituzionalizzato era evidente da molto tempo, un mondo cresciuto per l’assassinio barbarico sin dalla più tenera infanzia, alla persecuzione fino alla morte degli omosessuali, delle donne indipendenti, dei dissidenti. Ieri è stata trasmessa una testimonianza di un terrorista della Nuqba che raccontava che due bambini di 13 anni che dormivano abbracciati in moschea sono stati decapitati dai loro correligionari.
Esatto: il terrorismo non appare in un vuoto; il fatto che ne nasca l’antisemitismo complice è figlio della morte dei diritti umani di cui è padrino l’ONU: la deriva woke dei liberals è una forma di opportunismo ideologico e sociale, come l’abbandono “pacifista” dell’Ucraina e la generale condanna “umanitaria” di Israele. È un occhieggiamento politico, una richiesta di popolarità, un inno all’ignoranza. Ce n’è per tutti i gusti. Quello da due soldi di Ceccherini e della Ferilli, quello sofisticato e auto lesionista di Jonathan Glazer: è ironico come i due attacchino l’ebreo Glazer il quale, tipico odiatore di sé, pasticcia talmente da sparare sull’ebraismo e l’olocausto che avrebbero “sequestrato” qualcosa che evidentemente è solo suo per usarlo contro i palestinesi.
Insomma, lui è d’accordo con la Ferilli? Lui ha sequestrato la Shoah per il suo film? Ma lui odia chi lo fa in nome dell’oppressione e quindi, guadagnando l’applauso hollywoodiano accusa Israele di essere un “occupante che ha portato al conflitto”. Strano, l’unico sequestro qui è quello del buon senso e dei diritti umani, per cui alla fine il bravo regista sta dalla parte di un pogrom cui vi è paragone solo a Kisinev o nelle stragi naziste di bambini e madri. La Ferilli, Ceccherini, le masse di giovani di piazza che hanno buttato fuori Sara dal corteo pro-donne di Firenze, o Parenzo svillaneggiato all’Università, sempre a Firenze quelli che mettono sul muro un manifesto di bel design, con una coca cola, simbolo di dominio imperialista che riempie la loro Palestina, mai appartenuta agli ebrei, le manifestazioni del week end a Londra, dove si passeggia urlando from the river to the sea e eventualmente attaccando gli ebrei, Lula e Erdogan che preferiscono il classico stilema di Hitler uguale a Netanyahu… ce n’è per tutti i gusti. Girano nella testa della gente, non deve essere particolarmente ignorante o sciocca o cattiva, deve essere solo un po' conformista, e priva di quell’integrità morale per cui anche se non vuoi stare dalla parte degli ebrei, almeno stai dalla parte dei diritti umani, perché ti conviene. Altrimenti sarai d’accordo con l’Iran, con la Russia, con la Siria, con i terroristi che ormai razzolano contenti in Italia. Chissà quanti amici per andarsi a fare una pizza. Finché la bomba scoppierà.
«Solo cancellando Hamas questa guerra può finire. Rieducare, ricetta di pace»
Il Giornale, 07 marzo 2024
Lo incontriamo dove il cuore di Israele pulsa con battiti più veloci: Ron Dermer ci accoglie in un ufficio accanto alla sala del Gabinetto di guerra di cui fa parte: come all’inizio di un film, passano nel corridoio i protagonisti che con Dermer passano la giornata discutendo e poi prendendo le decisioni. Se si ha una pazienza, puoi vedere entrare dentro quella sala Netanyahu, Gantz, i capi militari e dei servizi segreti, Dermer è oggi Ministro degli Affari Strategici, incaricato di occuparsi di cose basilari, rapporti con gli USA, accordi di Abramo, Iran. Ambasciatore in USA dal 2013 al 2021 ha lavorato ai maggiori risultati conseguiti da Israele, l’Ambasciata americana a Gerusalemme, i Patti di Abramo, la revisione del rapporto con l’Iran. È uno stratega e un intellettuale molto più di un politico, laureato sia in Filosofia che in Finance Management, ha incontrato Netanyahu quando glielo presentò Nathan Sharansky dopo che nel 2004 aveva scritto con lui “The case for Democracy”. Suo padre e suo fratello sono stati ambedue sindaci di Miami, ha 53 anni e sembra un attore di Hollywood, è religioso ma aperto e liberale. Sua moglie, un avvocato, Rhoda, alta e sportiva come lui, gli ha dato cinque figli. Netanyahu se deve discutere di qualcosa di veramente difficile sceglie Dermer che non è mai stato nel Likud né in altri partiti e non deve rispondere a nessuna “costituency” ma solo alla sua complessa e franca propensione politica e morale.
Ambasciatore, scusi la franchezza, lei che è sempre stato un patriota israeliano molto fiero, dopo l’incredibile disastro del 7 ottobre, non si sente colpito nel suo sentimento di vittoria del popolo ebraico sulla storia?
“Certo, la promessa di Israele, non consiste solo nel ritorno degli Ebrei alla loro terra d’origine, ma anche nella nostra capacità di difenderci. Il 7 ottobre di fatto la promessa è stata rotta: il nostro compito, o almeno io vedo così il mio nel Gabinetto di Guerra, è ricostituire la promessa. Il punto di partenza è la distruzione di chi ha lanciato l’attacco del 7 ottobre. Hamas non deve sopravvivere come forza militare organizzata. Punto”.
Certo, ma non sono troppi i “perché” e i “di chi è la responsabilità” che aleggiano sulla società israeliana?
“Le domande sono tante e tutti dovremo rispondere, anche io, un Ministro di questo governo. Verrà il momento. Adesso, dal 7 di ottobre, l’esercito, i servizi di sicurezza, tutti combattono con bravura”.
Qual è lo scopo della guerra e come deve finire? Tutto il mondo se lo chiede.
“La guerra deve rimuovere Hamas, distruggere la sua capacità militare, mettere fine al suo potere politico, e assicurare che Gaza non rappresenti più una minaccia”.
Ma tutto il mondo spinge ormai per un cessate il fuoco.
“Prima di tutto, noi dobbiamo necessariamente rimuovere Hamas, e chi non lo capisce non conosce questo Paese. La gente d’Israele lo esige, e questo faremo”.
Da lontano si vede una battaglia di cui è difficile comprendere i passi e la conclusione possibile.
“Primo punto: dobbiamo distruggere i battaglioni di Hamas che non è una banda terrorista ma un esercito con ventiquattro battaglioni. Diciotto sono stati sgominati. Quando un battaglione è sconfitto però non vuol dire che hai preso tutto il suo territorio. Vuol dire che il 50 per cento è eliminato o fuori gioco. Oltre ai terroristi rimasti fra questi abbiamo altri sei battaglioni. Se li lasciamo sul terreno, Hamas tornerà a prendere possesso di Gaza”.
Ma dove è Sinwar? Cosa ne è delle gallerie? Ancora non sono distrutte.
“Le distruggiamo passo passo con grande successo. Ma, numero due, dobbiamo sconfiggere la leadership e ancora non siamo arrivati alla vetta. Via via che si va a sud e ci occupiamo di Rafah, aumenta la possibilità di arrivare ai leader”.
Perché non siete ancora arrivati alla leadership?
“Ci siamo vicini, lo spazio gli sta venendo a mancare. Gaza non è la Russia… Una volta presi, il punto numero tre è la strategia che io sostengo dall’inizio: resa, esilio. Con questo si conclude la guerra: potremo riprenderci gli ostaggi in una volta perché saranno parte dell’accordo; dopo la sconfitta e la resa le rimanenti forze possono andare in Qatar o in Libano… e finalmente inizierà il ‘giorno dopo’”.
Ovvero? Sta parlando dell’avvento di una leadership che gestisca la Striscia?
“Finché c’è Hamas, non può esserci futuro. Dopo come ha detto il Primo Ministro possiamo muoverci su due concetti demilitarizzazione e deradicalizzazione. Oggi ho più speranze sul tema del conflitto israelopalestinese di quante ne abbia avute in 30 anni”.
Un momento: sta parlando dello Stato palestinese di cui Biden sembra essere il maggior paladino.
“Biden è un presidente sionista, che da subito, venendo nei primi dieci giorni di guerra ci ha sostenuto con la sua visita. Quanto allo Stato palestinese anni fa, a un dibattito chiesi alla gente che cosa ne pensava. Il 90 per cento era a favore. Quando ho chiesto in quanti volessero uno Stato palestinese armato, nessuno era d’accordo, e lo stesso quando ho chiesto se dovesse controllare lo spazio aereo fra il Giordano e il Mediterraneo, o se dovessero avere un patto militare con l’Iran. Cioè, molti volevano che i palestinesi potessero governarsi, ma non che avessero il potere di minacciare Israele. Non si può attribuire ai palestinesi sovranità illimitata, in ogni accordo futuro i limiti per non avere uno stato nemico devono essere chiari”.
Però Biden seguita a suggerirlo.
“Riconoscere uno Stato palestinese sarebbe, oggi, il maggiore premio per il terrorismo. Sarebbe un disastro che la comunità internazionale desse un premio per l’attacco del 7 di ottobre. Chi ama la pace non può volere che un palestinese fra 5, 10, 15 o 20 anni possa guardarsi indietro e dire che la strage di massa degli ebrei ha catapultato avanti la causa palestinese. Hanan Ashrawi la portavoce palestinese, dopo un terribile attacco terrorista fu intervistata dalla BBC. Il giornalista le disse: ‘Non avrete uno Stato finché non combatterete il terrore e farete pace con Israele’. La risposta fu: ‘Noi siamo un popolo con diritto all’autodeterminazione, quindi avremo uno Stato. Se poi decidiamo di fare la pace, è un altro tema’. Cioè, lo scopo nello stabilire uno Stato era seguitare il conflitto, non terminarlo. Noi invece non vogliamo che si separi lo Stato dalla Pace. Per questo non accetteremo nessun diktat e ogni pace sarà negoziata fra le due parti”.
Ma anche nel gabinetto dei Guerra appaiono posizioni più disponibili alla visione americana.
“La Knesset ha votato unita, e questo spiega che non ci sarà una soluzione imposta che rappresenti un rischio per Israele. Quando si sentono tante critiche dei media su Netanyahu o sull’unità della coalizione sul tema, è un messaggio in codice per criticare Israele. Sulle politiche di guerra, militarmente e diplomaticamente il governo rappresenta la grande maggioranza”.
La critica internazionale è puntata sugli aiuti umanitari e sul grande numero di morti e feriti palestinesi, con l’accento su quanto la condizione dei palestinesi a Rafah può diventare un disastro umanitario. E si dice che attaccare Rafah può bloccare la trattativa sugli ostaggi.
“Sugli ostaggi, 112 sono stati liberati, 2 con un’azione molto audace dentro Rafah. Restano 134 di cui parte potrebbero non essere più in vita: sappiamo che la via più realistica per rivederli è attraverso un accordo. Quanto a Rafah: se lasciamo in piedi i battaglioni che vi dimorano abbiamo perso la guerra; ma attueremo strategie per muovere quanti possiamo in altre aree a nord di Rafah, e studieremo come fargli ricevere aiuto umanitario. È per noi un impegno non solo legale o strategico, ma anche morale. A Gaza più di metà dei residenti è sotto i 18 anni, metà sotto i 10: sarebbe folle negargli aiuto. Noi seguiteremo, anche se resta la domanda di dove va a finire. E mi creda, l’ultima pita se la prende Hamas. Quanto ai cittadini di Gaza durante la guerra, il nostro impegno è stato ed è colossale, direi senza precedenti, in avvertimenti, telefonate, strade sicure. Hamas è responsabile della loro tragedia”.
Signor Ministro, come vuole veder finire questa guerra, come vede il futuro.
“Dobbiamo assicurarci la demilitarizzazione dell’area innanzitutto: il confine con l’Egitto deve essere sigillato così da impedire passaggi di armi e uomini; dobbiamo poter seguitare a condurre operazioni militari, sperando che siano sempre meno nel tempo, agendo a Gaza come oggi in Giudea e Samaria… Occorre anche un perimetro di sicurezza che provveda alle comunità intorno la possibilità di vivere in sicurezza”.
Ma come si abbandona la prevalenza del controllo militare? A chi si affida la Striscia? Occorre uno sfondo strategico che non si vede ancora.
“Occorre ciò che a me sembra altrettanto importante, la deradicalizzazione. Altrimenti fra 20 anni ci odieranno nello stesso modo. Dunque, dopo una vittoria militare è possibile cambiare l’odio palestinese in convivenza? Altrimenti ci prendiamo in giro. Oggi l’85 pe cento dei palestinesi dell’Autorità nazionale palestinese sostiene la strage del 7 ottobre. La questione non è diplomatica, non si tratta di cambiare leadership, ma di cambiare cultura. Cosa impara un bambino di sei anni a scuola? E a 10, cosa vede in tv? E a 15 anni, chi sono i suoi eroi? Occorre un cambiamento basilare. La Germania e il Giappone furono deradicalizzati, e ci vollero anni. Ciò accadde molti anni fa, ma anche oggi vedi società che si stanno trasformando: l’Arabia Saudita, e i Paesi del Golfo, sono società in piena modernizzazione e deradicalizzazione”.
E come comincerà questa trasformazione?
“Con la sconfitta militare, solo così può avere inizio”.
Infine, prevede l’apertura di un grande fronte anche con gli Hezbollah?
“La nostra è una scelta di ‘deterrenza attiva’. Hezbollah non sembra volere una guerra, cui comunque siamo preparati. Al Sud vogliamo cambiare la situazione con la guerra, al nord con la diplomazia: in questo caso la preferiamo, come la preferiscono gli Stati Uniti. Tuttavia, siamo pronti a combattere perché ci è chiaro che tornare alla situazione di prima del 7 di ottobre è impossibile sia a sud che a nord: è la prima volta che abbiamo visto l’asse dell’Iran che ci combatte da ogni parte. Anche i Houty si sono mobilitati per stringere l’assedio. La nostra vittoria sarà una vittoria anche per gli Stati Uniti”.
E lo sarà certo anche per l’Europa.