Chi affama Gaza è soltanto Hamas
Il Giornale, 20 marzo 2024
È facile, la porta è aperta: dopo che a Israele si è dato di genocida, di colonialista e imperialista, ora che le folle danno la caccia agli ebrei nelle aule universitarie e nelle strade in America e in Europa, si accomodi anche Josep Borrell, che per altro si è già esercitato molto nel passato, con l’accusa che Israele usi la fame come arma di guerra. Non è vero naturalmente, ma nemmeno le altre accuse lo sono, ed è uno slogan politico in crescita. L’ antisemitismo adesso è terra ben concimata, l’orribile accusa di affamare i bambini si sposa bene con la criminalizzazione che nazifica lo Stato Ebraico.
Ma al 18 marzo, entrano a Gaza l’80 per cento di camion in più di prima della guerra adesso carichi di cibo; prima del 7 ottobre erano 70 al giorno, ora 126 di media, sempre in crescita. Israele non mette nessun limite all’aiuto, e inoltre ha aperto nuovi ingressi e nuove strade. Ma mercoledì scorso, per esempio, sei camion entrati da una nuova apertura sperimentale, sono stati sequestrati a forza da gente di Gaza, probabilmente in parte Hamas, parte bande criminali locali. L’ONU ha confermato una “notevole crescita dello sforzo umanitario facilitato dalle autorità israeliane”; e l ‘ingresso giordano da Allenby da cui si portano aiuti a Keren Shalom, il maggiore ingresso israeliano, è stato allargato e rafforzato. Gli USA e altri Paesi, compresa la Spagna di Borrell, mandano navi che sbarcano tranquillamente il loro aiuto.
Dov’è dunque il problema? Non è nella mancanza di cibo, che anzi ormai è accumulato in quantità nelle mani di Hamas, ma nella furia e nella prepotenza dell’organizzazione di Sinwar, nella sua determinazione a tenersi il potere e quindi il cibo. Il problema non è negli aiuti ma nell’impossibilità di distribuirli come si deve finché Hamas regna, se ne impossessa, e ne fa mercato. Da Hamas nasce la guerra, la morte (i cui numeri sono a loro volta manipolati, come i dati sulla fame,) la malnutrizione (non carestia non c’è), la sofferenza di tutti. Basterebbe che restituisse gli ostaggi, che dai tunnel uscissero i leader di Hamas. O persino se adesso accettasse le famose sei settimane di tregua, perfino in cambio delle sue condizioni, la liberazione di un migliaio di assassini di cittadini innocenti in cambio di qualche decina di ostaggi. Israele, per chi lo conosce, è il Paese in cui se un soldato colpisce un tredicenne che lanciava fuochi, subito si va a un’inchiesta fra un coro di accuse pubbliche.
È appena successo. Per Hamas un bambino israeliano o anche ebreo della diaspora è un ebreo da uccidere con gusto. Anche questo è appena successo. Borrell sembra non ricordare che per Hamas è lo stupro ad essere “un’arma di guerra”. E dal suo alto seggio non ricorda invece cos’è davvero lo sterminio indotto per fame: basta per esempio che guardi le strazianti immagini del Sudan, dove le milizie islamiste in cambio del cibo pretendono la schiavitù di uomini donne e bambini. 250mila bambini là stanno morendo di fame, per volontà dei nemici dei loro genitori, che devono inginocchiarsi, innocenti, ai più crudeli fra i nemici, resi schiavi. Ma una parola per loro non si è sentita. Il doppio standard è una delle più note malattie dell’antisemitismo, insieme alla menzogna. Qui, vanno insieme. Infine: ogni ora le cose cambiano considerando le fragilità della popolazione di Gaza, Israele cerca di migliorare la sua strategia. Entrare a Rafiah è indispensabile per concludere la guerra contro i peggiori terroristi del mondo: per questo ritarda, perché disegna complesse vie di aiuto alla popolazione.
Netanyahu duro con Biden. «Noi a Rafah anche da soli»
Il Giornale, 18 marzo 2024
Tutti i giorni Israele si trova di fronte di fronte a un bivio fatale: ieri sera in una riunione del Gabinetto di Guerra si è discusso fino a tardi della nuova delegazione diretta in Qatar per una riunione fatale, in cui mentre l’orologio ticchetta sulla vita degli ostaggi, si deve decidere sulle impossibili richieste di Hamas: esse hanno sempre il carattere della quasi impossibilità, un numero altissimo, più di mille, molti terroristi con più ergastoli, contro qualche decina di ostaggi “fragili”, donne e anziani, e dopo alcune settimane di cessate il fuoco, forse 6, il secondo atto in cui Israele si dovrebbe impegnare per uno stop definitivo alla guerra. Su questo, la risposta di Netanyahu alle critiche americane diventate molto dirette e personali, è molto ferma: Netanyahu dice a Biden e Chuck Shumer, che gli ha fatto da rompighiaccio chiedendo con un discorso davvero irrituale a Israele di andare alle elezioni per eliminare Netanyahu, che la sua linea è più ferma che mai. “Noi opereremo a Rafah -ha detto Netanyahu- ci vorrà qualche settimana ma accadrà. È l’unico modo per fermare Hamas in modo definitivo e per liberare i nostri rapiti. È una decisione difficile, ma è indispensabile”.
A lato di questo, intanto, comunque, il governo israeliano prepara una situazione in cui da Rafah sia compiuto lo sgombero che consenta un’operazione il più mirata possibile contro i quattro battaglioni di Hamas ancora in piedi e che sia capace di catturare nelle loro gallerie la leadership e forse Sinwar, cerando gli ostaggi. “Biden ed io abbiamo opinioni diverse su tante cose, ma questo è normale -ha detto Netanyahu- e sulla guerra dobbiamo dire, se dobbiamo andare da soli, non c’è scelta, andremo da soli”. Ma Netanyahu mentre dimostra fermezza nella determinazione di concludere la guerra solo con l’eliminazione di Hamas (e ieri è stata importante la definitiva acquisizione della notizia che Issa, il numero tre, il capo di stato maggiore di Hamas non è più fra i vivi) si vede che usa un tono che non vuole essere di rottura, che cerca, anche nell’intervista di ieri alla CNN di spiegare con garbo che la maggioranza di Israele, di destra e di sinistra, religiosa e laica, è d’accordo e anzi richiede di concludere la guerra in modo che si restituisca sicurezza ai cittadini israeliani. Con questo argomento ha spiegato al leader della maggioranza Chuck Shumer che parlare di elezioni adesso è “improprio” e anche irrealistico, data la guerra in corso: “avremmo sei mesi di paralisi nazionale il che significherebbe perdere la guerra”, e anche perché non si cerca di “sostituire “la maggioranza eletta”.
Netanyahu ha molto spiegato, giustamente, quanto sia moralmente ingiusto dimenticare il 7 di settembre, e quanta chiarezza morale invece occorra per condurre la guerra più giusta contro il terrorismo in tutto il mondo, Naturalmente la leva del disaccordo con gli americani viene impugnato sovente dai suoi nemici interni, che non sono pochi, e che usano anche senza problema il tema molto sensibile del sentimento per cui per liberare gli ostaggi deve esser pagato qualsiasi prezzo, anche quello di fermare la battaglia. Ma su questo Bibi riesce a tenere duro e seguita a mette sempre insieme i due obiettivi, vincere la guerra e riportare a casa i sequestrati. La delegazione che parte per il Qatar ha un duro compito, che somiglia a un’ultima chance prima di Rafah. Si dice sempre che per fare la pace bisogna essere in due: qui invece è chiarissimo che per fare la pace bisogna battere Hamas, altrimenti può esserci solo morte e distruzione.
Netanyahu apre le porte a tutti i modi più spericolati, navi, lanci col paracadute, processioni di camion con cui Biden e le altre nazioni alleate portano aiuto umanitario ai palestinesi, anche se si tratta di modi problematici e poco sicuri, e certo Hamas è capace di approfittarsene. Chissà cosa si può portare e cosa può passare in mano a Hamas su una serie di navi che portano grandi quantitativi di merci a Hamas. Ma questo sembra per ora è il prezzo che Netanyahu paga al rapporto con gli americani; la sua determinazione non gli costa consensi in Israele, al contrario è la parte della sua politica che gli conserva una forte leadership nonostante tanti nemici.
Israele punta Rafah con il "nì" di Biden
Il Giornale, 15 marzo 2024
Doppio messaggio dagli Stati Uniti, mentre la guerra va avanti. Rafah no, aveva sempre detto l’amministrazione americana, adesso degli “ufficiali” riportano che l’amministrazione americana sosterrà “una operazione a Rafah che prenda di mira obiettivi di Hamas di alto valore sopra e sotto la città evitando una operazione su larga scala”. Il presidente degli Stati Uniti si preso molta cura nei giorni scorsi di dimostrare alla sua opinione pubblica, perplessa sul voto del prossimo novembre, che il rapporto con Netanyahu è freddo a causa della grande crisi umanitaria a Gaza e l’alto numero delle vittime. Biden, che aiuta Israele con generosità fino dall’atroce attacco del 7 di ottobre, dopo cinque mesi ha scelto la polemica con Netanyahu. Un classico per gli USA: ai tempi di Ben Gurion, della Guerra dei 6 Giorni, di Golda Meir, Israele ha attraversato stretti ponti di quasi rottura. Ma l’importanza strategica fondamentale che costituisce per i due un’alleanza sincera basata sul concetto di democrazia, non è mai andati fino in fondo.
Biden sa che Israele ha bisogno di lui ma non abbandonerà la sua guerra di difesa fondamentale: quindi ha usato il drammatico concetto di “linea rossa” su Rafah, addirittura ha definito Netanyahu “una persona cattiva”, tre volte ha ripetuto che “deve deve deve” occuparsi della salvaguardia dei palestinesi, ha utilizzato numeri non verificati, ha definito il Primo ministro israeliano “più una disgrazia che una fortuna” per il suo popolo. Durante il discorso sullo Stato dell’Unione si è scordato di condannare Hamas, e invece ha minacciato Israele di sospendere l’insostituibile aiuto. La sua posizione ha avuto ieri un seguito davvero irrituale quando un importante figura del Senato, non un membro della “squad” antisemita, il leader della maggioranza Chuck Schumer, ha esortato Israele a tenere nuove elezioni, sostenendo che “Netanyahu non soddisfa i bisogni di Israele”. Ma c’è anche un chiaro contraltare: anche gli USA sembrano essersi resi conti della inutilità di seguitare a chiedere a Israele, dove tutti, da destra a sinistra (il 74 per cento della popolazione lo vuole) sono uniti sulla necessità di spazzare via da Rafah gli ultimi quattro battaglioni di Hamas e la leadership che vi è rintanata, costringendola a restituire gli ostaggi.
Inoltre, il 90 per cento della Knesset ha votato con Netanyahu contro l’idea di uno Stato palestinese stabilito unilateralmente, mentre è aperta alla trattativa unita alla deradicalizzazione. Di fatto, l’89 per cento dei Palestinesi chiede un governo con Hamas necessario per tutta la Palestina di domani, a Mosca sotto il patrocinio di Putin Fatah e Hamas hanno stretto un accordo. Biden questo lo sa. E’ molto difficile immaginare che anche se Abu Mazen promette un governo tecnico, questo garantirà che voglia un futuro pacifico. Martedì, dopo la “linea rossa” del week end di Biden, il suo Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan, ha detto che il presidente non ha stabilito linee, che non potrà sostenere “un’operazione che non protegge i civili a Rafah e che taglia le arterie di assistenza…”.
Dunque, Israele in questi giorni venendo incontro agli USA, cerca la strada per un’operazione mirata e per l’evacuazione e la protezione del maggior numero possibili dei cittadini. Il problema è sempre, però, come proteggerli da Hamas nelle operazioni di soccorso umanitario: la posizione americana sembra piuttosto confusa. Israele a sua volta promette di “inondare” Gaza di aiuti, mentre costruisce una strada nuova per distribuirli; gli americani si avviano alla costruzione di un porto che sembra una vera utopia: una volta sbarcati gli aiuti, da chi dovranno essere gestiti? Hamas è sempre in agguato per un’operazione di appropriazione; né si può giurare, data la sua ossessione ideologica antiamericana, sulla sicurezza delle truppe americane che Biden sta spedendo in zona.
Le banalità degli antisemiti da salotto
Il Giornale, 12 marzo 2024
"L’antisemitismo che non vede crimini contro Israele"
Siamo ormai arrivati al punto di non ritorno, fatevi coraggio, tolleranza zero. Cancellate le cene, le vacanze con gli amici, le settimane bianche in cui non si può menzionare Israele e gli ebrei pena una discussione cruenta, forse una rottura definitiva. Quegli amici, e lo so che sono ormai la maggioranza, non vi meritano più: sottraetevi, o anche meglio, dite esplicitamente il motivo del vostro rifiuto. Io con gli antisemiti non condivido il mio tempo. Con i frivoli e gli sciocchi, con i cinici e gli immorali, non condivido il mio pane. Chi non vede come un crimine contro l’umanità lo stupro e il massacro, la decapitazione di bambini, lo sterminio al grido di “yehud”, non è degno della civiltà dei diritti umani. Ormai è il loro rovesciamento che è in gioco: questo pogrom non “viene in un vuoto” ha detto, ma alla rovescia, il segretario dell’ONU Guterres: perché quel mondo, del terrorismo islamico istituzionalizzato era evidente da molto tempo, un mondo cresciuto per l’assassinio barbarico sin dalla più tenera infanzia, alla persecuzione fino alla morte degli omosessuali, delle donne indipendenti, dei dissidenti. Ieri è stata trasmessa una testimonianza di un terrorista della Nuqba che raccontava che due bambini di 13 anni che dormivano abbracciati in moschea sono stati decapitati dai loro correligionari.
Esatto: il terrorismo non appare in un vuoto; il fatto che ne nasca l’antisemitismo complice è figlio della morte dei diritti umani di cui è padrino l’ONU: la deriva woke dei liberals è una forma di opportunismo ideologico e sociale, come l’abbandono “pacifista” dell’Ucraina e la generale condanna “umanitaria” di Israele. È un occhieggiamento politico, una richiesta di popolarità, un inno all’ignoranza. Ce n’è per tutti i gusti. Quello da due soldi di Ceccherini e della Ferilli, quello sofisticato e auto lesionista di Jonathan Glazer: è ironico come i due attacchino l’ebreo Glazer il quale, tipico odiatore di sé, pasticcia talmente da sparare sull’ebraismo e l’olocausto che avrebbero “sequestrato” qualcosa che evidentemente è solo suo per usarlo contro i palestinesi.
Insomma, lui è d’accordo con la Ferilli? Lui ha sequestrato la Shoah per il suo film? Ma lui odia chi lo fa in nome dell’oppressione e quindi, guadagnando l’applauso hollywoodiano accusa Israele di essere un “occupante che ha portato al conflitto”. Strano, l’unico sequestro qui è quello del buon senso e dei diritti umani, per cui alla fine il bravo regista sta dalla parte di un pogrom cui vi è paragone solo a Kisinev o nelle stragi naziste di bambini e madri. La Ferilli, Ceccherini, le masse di giovani di piazza che hanno buttato fuori Sara dal corteo pro-donne di Firenze, o Parenzo svillaneggiato all’Università, sempre a Firenze quelli che mettono sul muro un manifesto di bel design, con una coca cola, simbolo di dominio imperialista che riempie la loro Palestina, mai appartenuta agli ebrei, le manifestazioni del week end a Londra, dove si passeggia urlando from the river to the sea e eventualmente attaccando gli ebrei, Lula e Erdogan che preferiscono il classico stilema di Hitler uguale a Netanyahu… ce n’è per tutti i gusti. Girano nella testa della gente, non deve essere particolarmente ignorante o sciocca o cattiva, deve essere solo un po' conformista, e priva di quell’integrità morale per cui anche se non vuoi stare dalla parte degli ebrei, almeno stai dalla parte dei diritti umani, perché ti conviene. Altrimenti sarai d’accordo con l’Iran, con la Russia, con la Siria, con i terroristi che ormai razzolano contenti in Italia. Chissà quanti amici per andarsi a fare una pizza. Finché la bomba scoppierà.
«Solo cancellando Hamas questa guerra può finire. Rieducare, ricetta di pace»
Il Giornale, 07 marzo 2024
Lo incontriamo dove il cuore di Israele pulsa con battiti più veloci: Ron Dermer ci accoglie in un ufficio accanto alla sala del Gabinetto di guerra di cui fa parte: come all’inizio di un film, passano nel corridoio i protagonisti che con Dermer passano la giornata discutendo e poi prendendo le decisioni. Se si ha una pazienza, puoi vedere entrare dentro quella sala Netanyahu, Gantz, i capi militari e dei servizi segreti, Dermer è oggi Ministro degli Affari Strategici, incaricato di occuparsi di cose basilari, rapporti con gli USA, accordi di Abramo, Iran. Ambasciatore in USA dal 2013 al 2021 ha lavorato ai maggiori risultati conseguiti da Israele, l’Ambasciata americana a Gerusalemme, i Patti di Abramo, la revisione del rapporto con l’Iran. È uno stratega e un intellettuale molto più di un politico, laureato sia in Filosofia che in Finance Management, ha incontrato Netanyahu quando glielo presentò Nathan Sharansky dopo che nel 2004 aveva scritto con lui “The case for Democracy”. Suo padre e suo fratello sono stati ambedue sindaci di Miami, ha 53 anni e sembra un attore di Hollywood, è religioso ma aperto e liberale. Sua moglie, un avvocato, Rhoda, alta e sportiva come lui, gli ha dato cinque figli. Netanyahu se deve discutere di qualcosa di veramente difficile sceglie Dermer che non è mai stato nel Likud né in altri partiti e non deve rispondere a nessuna “costituency” ma solo alla sua complessa e franca propensione politica e morale.
Ambasciatore, scusi la franchezza, lei che è sempre stato un patriota israeliano molto fiero, dopo l’incredibile disastro del 7 ottobre, non si sente colpito nel suo sentimento di vittoria del popolo ebraico sulla storia?
“Certo, la promessa di Israele, non consiste solo nel ritorno degli Ebrei alla loro terra d’origine, ma anche nella nostra capacità di difenderci. Il 7 ottobre di fatto la promessa è stata rotta: il nostro compito, o almeno io vedo così il mio nel Gabinetto di Guerra, è ricostituire la promessa. Il punto di partenza è la distruzione di chi ha lanciato l’attacco del 7 ottobre. Hamas non deve sopravvivere come forza militare organizzata. Punto”.
Certo, ma non sono troppi i “perché” e i “di chi è la responsabilità” che aleggiano sulla società israeliana?
“Le domande sono tante e tutti dovremo rispondere, anche io, un Ministro di questo governo. Verrà il momento. Adesso, dal 7 di ottobre, l’esercito, i servizi di sicurezza, tutti combattono con bravura”.
Qual è lo scopo della guerra e come deve finire? Tutto il mondo se lo chiede.
“La guerra deve rimuovere Hamas, distruggere la sua capacità militare, mettere fine al suo potere politico, e assicurare che Gaza non rappresenti più una minaccia”.
Ma tutto il mondo spinge ormai per un cessate il fuoco.
“Prima di tutto, noi dobbiamo necessariamente rimuovere Hamas, e chi non lo capisce non conosce questo Paese. La gente d’Israele lo esige, e questo faremo”.
Da lontano si vede una battaglia di cui è difficile comprendere i passi e la conclusione possibile.
“Primo punto: dobbiamo distruggere i battaglioni di Hamas che non è una banda terrorista ma un esercito con ventiquattro battaglioni. Diciotto sono stati sgominati. Quando un battaglione è sconfitto però non vuol dire che hai preso tutto il suo territorio. Vuol dire che il 50 per cento è eliminato o fuori gioco. Oltre ai terroristi rimasti fra questi abbiamo altri sei battaglioni. Se li lasciamo sul terreno, Hamas tornerà a prendere possesso di Gaza”.
Ma dove è Sinwar? Cosa ne è delle gallerie? Ancora non sono distrutte.
“Le distruggiamo passo passo con grande successo. Ma, numero due, dobbiamo sconfiggere la leadership e ancora non siamo arrivati alla vetta. Via via che si va a sud e ci occupiamo di Rafah, aumenta la possibilità di arrivare ai leader”.
Perché non siete ancora arrivati alla leadership?
“Ci siamo vicini, lo spazio gli sta venendo a mancare. Gaza non è la Russia… Una volta presi, il punto numero tre è la strategia che io sostengo dall’inizio: resa, esilio. Con questo si conclude la guerra: potremo riprenderci gli ostaggi in una volta perché saranno parte dell’accordo; dopo la sconfitta e la resa le rimanenti forze possono andare in Qatar o in Libano… e finalmente inizierà il ‘giorno dopo’”.
Ovvero? Sta parlando dell’avvento di una leadership che gestisca la Striscia?
“Finché c’è Hamas, non può esserci futuro. Dopo come ha detto il Primo Ministro possiamo muoverci su due concetti demilitarizzazione e deradicalizzazione. Oggi ho più speranze sul tema del conflitto israelopalestinese di quante ne abbia avute in 30 anni”.
Un momento: sta parlando dello Stato palestinese di cui Biden sembra essere il maggior paladino.
“Biden è un presidente sionista, che da subito, venendo nei primi dieci giorni di guerra ci ha sostenuto con la sua visita. Quanto allo Stato palestinese anni fa, a un dibattito chiesi alla gente che cosa ne pensava. Il 90 per cento era a favore. Quando ho chiesto in quanti volessero uno Stato palestinese armato, nessuno era d’accordo, e lo stesso quando ho chiesto se dovesse controllare lo spazio aereo fra il Giordano e il Mediterraneo, o se dovessero avere un patto militare con l’Iran. Cioè, molti volevano che i palestinesi potessero governarsi, ma non che avessero il potere di minacciare Israele. Non si può attribuire ai palestinesi sovranità illimitata, in ogni accordo futuro i limiti per non avere uno stato nemico devono essere chiari”.
Però Biden seguita a suggerirlo.
“Riconoscere uno Stato palestinese sarebbe, oggi, il maggiore premio per il terrorismo. Sarebbe un disastro che la comunità internazionale desse un premio per l’attacco del 7 di ottobre. Chi ama la pace non può volere che un palestinese fra 5, 10, 15 o 20 anni possa guardarsi indietro e dire che la strage di massa degli ebrei ha catapultato avanti la causa palestinese. Hanan Ashrawi la portavoce palestinese, dopo un terribile attacco terrorista fu intervistata dalla BBC. Il giornalista le disse: ‘Non avrete uno Stato finché non combatterete il terrore e farete pace con Israele’. La risposta fu: ‘Noi siamo un popolo con diritto all’autodeterminazione, quindi avremo uno Stato. Se poi decidiamo di fare la pace, è un altro tema’. Cioè, lo scopo nello stabilire uno Stato era seguitare il conflitto, non terminarlo. Noi invece non vogliamo che si separi lo Stato dalla Pace. Per questo non accetteremo nessun diktat e ogni pace sarà negoziata fra le due parti”.
Ma anche nel gabinetto dei Guerra appaiono posizioni più disponibili alla visione americana.
“La Knesset ha votato unita, e questo spiega che non ci sarà una soluzione imposta che rappresenti un rischio per Israele. Quando si sentono tante critiche dei media su Netanyahu o sull’unità della coalizione sul tema, è un messaggio in codice per criticare Israele. Sulle politiche di guerra, militarmente e diplomaticamente il governo rappresenta la grande maggioranza”.
La critica internazionale è puntata sugli aiuti umanitari e sul grande numero di morti e feriti palestinesi, con l’accento su quanto la condizione dei palestinesi a Rafah può diventare un disastro umanitario. E si dice che attaccare Rafah può bloccare la trattativa sugli ostaggi.
“Sugli ostaggi, 112 sono stati liberati, 2 con un’azione molto audace dentro Rafah. Restano 134 di cui parte potrebbero non essere più in vita: sappiamo che la via più realistica per rivederli è attraverso un accordo. Quanto a Rafah: se lasciamo in piedi i battaglioni che vi dimorano abbiamo perso la guerra; ma attueremo strategie per muovere quanti possiamo in altre aree a nord di Rafah, e studieremo come fargli ricevere aiuto umanitario. È per noi un impegno non solo legale o strategico, ma anche morale. A Gaza più di metà dei residenti è sotto i 18 anni, metà sotto i 10: sarebbe folle negargli aiuto. Noi seguiteremo, anche se resta la domanda di dove va a finire. E mi creda, l’ultima pita se la prende Hamas. Quanto ai cittadini di Gaza durante la guerra, il nostro impegno è stato ed è colossale, direi senza precedenti, in avvertimenti, telefonate, strade sicure. Hamas è responsabile della loro tragedia”.
Signor Ministro, come vuole veder finire questa guerra, come vede il futuro.
“Dobbiamo assicurarci la demilitarizzazione dell’area innanzitutto: il confine con l’Egitto deve essere sigillato così da impedire passaggi di armi e uomini; dobbiamo poter seguitare a condurre operazioni militari, sperando che siano sempre meno nel tempo, agendo a Gaza come oggi in Giudea e Samaria… Occorre anche un perimetro di sicurezza che provveda alle comunità intorno la possibilità di vivere in sicurezza”.
Ma come si abbandona la prevalenza del controllo militare? A chi si affida la Striscia? Occorre uno sfondo strategico che non si vede ancora.
“Occorre ciò che a me sembra altrettanto importante, la deradicalizzazione. Altrimenti fra 20 anni ci odieranno nello stesso modo. Dunque, dopo una vittoria militare è possibile cambiare l’odio palestinese in convivenza? Altrimenti ci prendiamo in giro. Oggi l’85 pe cento dei palestinesi dell’Autorità nazionale palestinese sostiene la strage del 7 ottobre. La questione non è diplomatica, non si tratta di cambiare leadership, ma di cambiare cultura. Cosa impara un bambino di sei anni a scuola? E a 10, cosa vede in tv? E a 15 anni, chi sono i suoi eroi? Occorre un cambiamento basilare. La Germania e il Giappone furono deradicalizzati, e ci vollero anni. Ciò accadde molti anni fa, ma anche oggi vedi società che si stanno trasformando: l’Arabia Saudita, e i Paesi del Golfo, sono società in piena modernizzazione e deradicalizzazione”.
E come comincerà questa trasformazione?
“Con la sconfitta militare, solo così può avere inizio”.
Infine, prevede l’apertura di un grande fronte anche con gli Hezbollah?
“La nostra è una scelta di ‘deterrenza attiva’. Hezbollah non sembra volere una guerra, cui comunque siamo preparati. Al Sud vogliamo cambiare la situazione con la guerra, al nord con la diplomazia: in questo caso la preferiamo, come la preferiscono gli Stati Uniti. Tuttavia, siamo pronti a combattere perché ci è chiaro che tornare alla situazione di prima del 7 di ottobre è impossibile sia a sud che a nord: è la prima volta che abbiamo visto l’asse dell’Iran che ci combatte da ogni parte. Anche i Houty si sono mobilitati per stringere l’assedio. La nostra vittoria sarà una vittoria anche per gli Stati Uniti”.
E lo sarà certo anche per l’Europa.
Stupri, la guerra di Israele si sposta all'ONU
Il Giornale, 06 marzo 2024
Il “wrestling” fra l’ONU e Israele ieri ha conosciuto una svolta, forse perché stavolta l’argomento era il più doloroso, il più urticante della tragedia del 7 di ottobre, e Israele, dopo che per cinque mesi aveva aspettato una parola di sincerità, avendone ricevuto solo mezza.., non ha potuto sopportarlo. Si tratta di violenza mai vista, dello stupro di massa usato come arma di guerra. Tutto il mondo avrebbe dovuto porgere la mano ai kibbutz, alle famiglie investiti questa tragedia, e invece ha rifiutato fino a ora di riconoscere l’orrore solo perché compiuto contro le donne (e anche i ragazzi) israeliane. Adesso, la rappresentante speciale dell’ONU per la violenza sessuale, Pramila Pattern, ha concluso la sua lunghissima ricerca esaminando per cinque mesi decine di persone e migliaia di documenti per stabilire che “informazioni chiare e convincenti dimostrano che sono state compiute violenze sessuali inclusi stupri, torture sessuali, e trattamenti crudeli disumani e degradanti contro gli ostaggi”, e molto altro (facile trovare e leggere le illeggibili nequizie elencate) e ha denunciato la possibilità che gli ostaggi seguitino a subire oggi torture sessuali.
Giusto. Ma il ministro degli esteri Israel Katz, invece di annuire, ha richiamato per consultazioni l’ambasciatore all’ONU Gilad Erdan, e ha spiegato che il rapporto stabilisce i crimini, ma non individua i criminali, gettando la colpa a destra e a manca. A fronte di così immensi crimini contro l’umanità, dice Katz, Gutierrez doveva convocare il Consiglio di Sicurezza e proporre che Hamas fosse dichiarata “organizzazione terrorista” con le relative conseguenze. “I crimini sessuali commessi da Hamas sono la cosa più seria portata dinanzi all’ONU durante tutta la storia dello Stato d’Israele -ha spiegato- Non c’è niente di comparabile, e quindi lo Stato deve agire per la dignità delle vittime abusate e uccise e i cui corpi sono stati desacrati anche dopo la morte, e per il bene degli altri ostaggi”.
L’abitudine alla malevolenza dell’ONU è una consuetudine, Israele è un bersaglio fisso della maggioranza automatica.
A dicembre del 2023 l’ONU ha messo sotto accusa Israele con tre diverse risoluzioni, concludendo l’anno con un totale di 14 risoluzioni a fronte di sette per tutto il resto del mondo, compresi Corea del Nord, Russia, Iran, Cina, Turchia…Il paradosso si accoppia con tre volte risoluzioni del Consiglio di Sicurezza per fermare la guerra contro Hamas, che gli USA hanno bloccato col veto. Gutierrez, all’indomani dell’attacco disse che certo Hamas era riprovevole, ma che l’attacco non avveniva “nel vuoto”: citò poi 56 di anni di occupazione, anche se Gaza è stata del tutto sgomberata dal 2005.
Allo scontro perenne, da quando la maggioranza terzomondista dell’ONU identificò Israele col potere “imperialista, colonialista, bianco, genocida” legato agli USA, si è sommata la scoperta, presentata dallo spokesman dell’esercito Daniel Hagari, del colloquio da incubo del 7 ottobre fra un certo Mamdouh al-Qali, maestro dell’UNRWA e un suo amico. Ridono, gli dice che è coi terroristi “dentro”, e gli comunica che porta a casa una “cavalla”, cioè una ragazza israeliana; la chiama anche “sabaja”, la parola araba con cui l’Isis chiamava le schiave sessuali iazide. Hagari ha dato altri quattro nomi di terroristi dell’UNRWA che si uniscono ai 450 parte anche di Hamas.
Ma nonostante lo scandalo mondiale, Gutierrez preferisce aspettare, soppesare, prima di accettare la prova che l’organizzazione dell’ONU è marcia. Avigdor Lieberman, ex ministro degli esteri, propone che sia definito “persona non grata”, anche se lui adesso garantisce la massima pubblicità al documento della signora Pattern. Troppo audace? Oppure finalmente un suggerimento all’ONU perché cambi strada?
Il gioco sadico di Hamas. “Non dà i nomi dei rapiti”
Il Giornale, 04 marzo 2024
Giocare a mosca cieca con degli assassini seriali può star bene in un film dell’orrore; nella realtà è un pericoloso paradosso. È quello cui si assiste in queste ore sulla pelle dei 134 ostaggi nelle mani di Hamas. Le delegazioni intorno al tavolo del Cairo, quelle di Stati Uniti, Qatar, Egitto, pendono dalle labbra dei rappresentanti dei mostri che hanno fatto a pezzi i neonati e violentato e ucciso le donne di Israele il 7 di ottobre. Tutti aspettano che Hamas dica la sua parola definitiva sullo scambio. Israele, che ha accettato tutte le condizioni raggiunte con la seconda riunione di Parigi, aspetta a casa: Gerusalemme non ha ritenuto utile e dignitoso farlo in un lussuoso albergo cairota. Serviti riveriti e incravattati fanno aspettare il loro verdetto Ismail Haniyeh (che non si vede in foto, per ora), e Khalil al-Hayya, che si pregia di essere il numero due dell’organizzazione, così dicono.
Le condizioni cui si era giunti per un accordo alla riunione di Parigi dovevano essere: circa sei settimane di cessate il fuoco per quarantina di ostaggi sulla bancarella dei boia, in cambio circa dieci prigionieri di sicurezza per ciascun ostaggio restituito, terroristi, dalle carceri d’Israele; dovrebbero anche essere permessi passaggi dal sud al nord di profughi di Gaza, mentre si disegnerebbe una “buffer zone” anche a sud, con l’accordo dell’Egitto… bene, ma lo scambio in che cosa consiste? Chi sono i poveri innocenti che dopo cinque mesi di prigionia, di violenze fisiche, di fame e di malattie non curate deve essere scambiati con i delinquenti (giudicati secondo tutte le norme della severissima legge della democrazia israeliana)? Sono vivi o morti? Uomini, donne, bambini? C’è la famiglia Bibas? Non si sa. Hamas non è pronto a presentare una lista. Ed è un guaio perché senza uno straccio di impegno, ogni accordo rischia ancora di più di finire nel nulla.
Quello precedente è stato interrotto per decisione incontrollata dei terroristi. Hamas dice che per fare la lista, deve prima avere un cessate il fuoco che le consentirebbe un libero “shopping” qua e là, per verificare le vittime. L’ultimo sadismo consiste in questo: non si dice di chi si sta parlando. Potrebbero essere bambini, vecchi malati, o le ragazze di cui si sa solo da chi fosse imprigionato con loro nelle gallerie che subiscono quotidiane violenze sessuali. Si tratta, per Hamas, solo di corpi senza vita? Bisogna comprare a scatola chiusa, ed è notevole che tutto il mondo, compreso Joe Biden, si immagini che, se Israele insiste nel prendere un atteggiamento supplice, compiacente, questo aiuterà a liberare gli infelici. La storia insegna che Sinwar cede solo quando si sente stretto alla gola: così ha fatto liberando gli altri ostaggi.
E’ evidente che la speranza di Biden a fronte di un’opinione pubblica democratica che in parte disapprova il suo sostegno a Israele è che l’ingresso in uno scambio consentirà un susseguirsi di tregue che portino a un cessate il fuoco. Così certo vedono lo scambio anche il Qatar e l’Egitto. Hamas conserva le sue carte vicine al petto, e forse chiedere uno stop prima di dare la lista. Israele, che soffre l’emozione intensa e giustificata delle famiglie, però ha chiare due cose: la prima che non vuole invano infilarsi in una trappola che sembra fatta per scatenare un fuoco nelle giornate di Ramadan anche nell’West Bank. E che, quando si dice scambio, anche se è ingiusto e persino folle dare criminali in quantità contro un pugno di innocenti, almeno di questo si deve trattare: persone che di certo tornano a casa. Non un lasciapassare a Hamas per raggrupparsi e rigerminare il mostro. Hamas vuole sospendere la decisione di entrare a Rafah, dove è probabile che si nasconda la leadership di Hamas e stanno i battaglioni residui dai 25 che aveva. Israele non pare volerla inseguire con la benda sugli occhi.
La verità ignorata sulla strage del pane
Il Giornale, 03 marzo 2024
Smettiamo di dire sciocchezze. È vero che Israele ieri ha mal spiegare quello che era successo, e solo la sera tardi, ma la voluttà, l’uso della parola “massacro” associata senza ombra di dubbio all’espressione “soldati israeliani” (Il Fatto: “Gaza il massacro del pane… soldati israeliani sparano sulla folla… dagli USA all’Europa sanzioni unanimi”; Il Domani: “A Gaza spari sulla folla...”; sotto: “…L’esercito israeliano ha ammesso di aver colpito persone in coda per gli aiuti…”) con cui si è strillata la fantasia che Israele avesse aggredito a cannonate la folla intorno ai camion di aiuti, la prosopopea politica con cui si è chiesto piamente il cessate il fuoco (Avvenire: “Giù le armi” e sotto: “All’indomani della strage degli affamati”; La Stampa “Netanyahu ha affamato Gaza”, Manifesto: “Strage del pane, il silenzio di Israele”) è delegittimazione di Israele, odio per lo Stato Ebraico, antisemitismo inconscio, forse, ora molto di moda. I teleschermi di tutto il mondo si sono sbilanciati, immemori delle bugie sull’ospedale di Gaza colpito da un missile di Hamas, e non israeliano, che fece qualche decina di morti (e non centinaia, come disse la BBC pensando che fosse israeliano).
La risposta a queste critiche, spiega che la responsabilità è del democratico stato d’ Israele: a chi se non a Israele ci si dovrebbe rivolgere per chiedere più umanità per la gente di Gaza migliori? È inutile certo, chiedere a Hamas di arrendersi per restituire la pace al Medio Oriente e alla sua popolazione, e quindi nessuno fa la cosa logica: arrenditi Sinwar, e poni fine alla guerra. Invece, è Israele che deve smettere di combattere lasciando in vita un’organizzazione che ha come unico scopo quello di uccidere i suoi cittadini, che dal 2005 si è dedicata a preparare il territorio con le armi iraniane e le gallerie, solo per questo, che insegna a scuola ai bambini come assassinare gli ebrei. Israele deve restare preda dei peggiori criminali del mondo, di un’organizzazione terrorista peggio dell’Isis e di al-Qaeda, le sue zone di confine possono rimanere vuote delle centinaia di migliaia di persone che non possono più vivere (voi ci vivreste?) attaccati a Gaza.
I suoi capi nascosti nelle gallerie agiscono a spintoni di decine e centinaia di morti fra i loro criminalizzando Israele, esibendo a fronte dei cadaveri dei bambini ebrei decapitati quelli degli scudi umani loro vittime che muoiono quando li usa, prigionieri delle armi di Hamas anche loro, nonostante gli inviti (a milioni) all’evacuazione di edifici civili strabordanti lanciamissili, missili, armi. Fatevi dunque avanti voi, poveri cittadini di Gaza, che ieri affollandovi intorno ai camion avete visto piombare sul cibo gli uomini di Hamas che con altri gruppi criminali armati vi calpestavano e vi sparavano, che siete stati schiacciati dai camion, che vi siete anche presi delle pallottole israeliane quando i soldati si sono visti minacciati dalla folla eccitata. Voi sapete fin dal primo giorno dove sono nascosti gli ostaggi, aiutate a ritrovarli, segnalate che esiste una Gaza non nazificata. Per ora non ce n’è traccia: sappiamo solo di cittadini che si sono uniti ai mostri della nukba, di maestri di scuola che hanno fatto da custodi ai rapiti, di ladri e violentatori di conserva fra la gente. Adesso, siate voi a segnalare il cambiamento: denunciate i mostri come Sinwar che ha scelto di portarvi alla situazione che vivete. La guerra può chiudersi solo con la cattura o la resa di Hamas, con la restituzione dei rapiti: non c’è in Israele, né a destra né a sinistra, e questo anche è oggetto di equivoco, nessuna altra posizione che questa.
È una guerra di necessità, del bene contro il male, insensato, pensare che la guerra possa chiudersi con la sopravvivenza di mostri che hanno decapitato neonati e violentato, ucciso, smembrato e seguitano a progettare di farlo. Netanyahu, Gantz, tutti, sono dell’idea che uno Stato palestinese dovrà essere costruito come una soluzione per la pace, due stati per due popoli, e non uno Stato da cui condurre una migliore guerra di distruzione contro Israele. Puntare il dito su Netanyahu è disinformazione, è un altro vizio che non ha base politica, se non quella, robusta, di chi immagina che tutto ciò che non è di sinistra, puzzi di zolfo.
Gaza, il piano post Hamas mentre si tratta per la tregua
Quei calcoli sbagliati di Usa e Paesi arabi. Una follia regalare alla Palestina il suo Stato
Il Giornale, 17 febbraio 2024
Ha scelto una strada molto centrale, venendo da Gerusalemme con la carta d’identità blu e il kalashnikov fino quasi ad Ashkelon all’incrocio di Reem per ammazzare alla fermata dell’autobus due persone e ferirne altre quattro fra cui un ragazzo di 16 anni in fin di vita: di fronte alla proposta americana, di nuovo, per uno Stato palestinese, questo è il biglietto da visita della “moderata” area oltre i confini di Gaza, quella di Abu Mazen, nell’Autorità palestinese, quella che era stata sgomberata dalla presenza militare israeliana salvo che nella zona C con gli accordi di Oslo. Si preparava così il terreno a “due Stati per due popoli”, ma Arafat mostrò che la scelta vera era distruggere Israele con la “seconda intifada” nel 2001 quando quasi duemila civili israeliani, donne e bambini, sono stati esplosi e fucilati per strada. Non si è mai tuttavia smesso di cercare, da parte di Israele, “due Stati per due popoli” collezionando i “no” di Arafat a Shamir, a Rabin, a Barak, e poi a Olmert di Abu Mazen e a Netanyahu. Adesso, eliminando l’elementare clausola del bilateralismo di Oslo, Joe Biden, fiancheggiato dall’Unione Europea e dall’ONU, ripropone a Israele la solita formula, con la cauta aggiunta (americana) di uno stato palestinese riformato, demilitarizzato.
Dovrebbe essere questa la conclusione della guerra seguita al pogrom organizzato da Hamas a Gaza, ma ammirato e approvato da tutti i palestinesi, se è vero che Abu Mazen non l’ha mai condannato, e che l’87 per cento dei palestinesi è d’accordo con l’orrore e la strage. Biden naturalmente fa i suoi calcoli, certo pieni di buona volontà; pensa anche che l’eventuale sponsorizzazione dell’accordo da parte dell’Arabia Saudita, di cui si parla insistentemente come di una forma di garanzia anti-iraniana per Israele, dovrebbe aprire un’era di pace fra arabi e israeliani. Ma non ha fatto i conti coi palestinesi di oggi: se si chiede a loro, per esempio Jibril Rajub, uno dei massimi leader dell’OLP, dice a Hamas, che il 7 ottobre “ha reso l’unità fra di noi non solo realizzabile, ma necessaria, la palla è nel vostro campo, decidete voi”. Jenin, Ramallah, Hebron, Betlemme… pullulano di armi, Hamas batterebbe in un soffio Fatah alle elezioni se solo Abu Mazen le inducesse. Netanyahu per rispondere alla proposta di Biden con cui per latro ieri notte ha parlato, amichevolmente, per 40 minuti ha detto: “Tutti parlano di “due Stati per due popoli. Ma io domando che cosa significhi: devono avere un esercito? Possono siglare un accordo militare con l’Iran? Possono importare missili dal Nord Corea e altre armi mortali? Possono continuare a educare i bambini al terrorismo e lo sterminio?
I palestinesi devono avere il potere di autogovernarsi, ma non nessun potere che consenta loro di minacciare Israele” e quindi aggiunge il primo ministro “il controllo di sicurezza deve rimanere nelle mani di Israele nelle aree a Gaza e nelle aree a ovest del Giordano, altrimenti la storia ha dimostrato che il terrorismo ritorna”. E un eventuale Stato palestinese invece sarebbe, per esempio a Gerusalemme, ma un po' per tutta la piccola Israele, un abbraccio mortale con bande armate e ostili “from the river to the sea”. Le conferma della determinazione palestinese è scritta in tutta la sua storia: e la inaspettata scelta di Biden di premiare i palestinesi per il 7 ottobre e il rigetto dell’esistenza di Israele abroga il bilateralismo degli accordi di Oslo, è davvero un messaggio disastroso all’Iran, all’Iraq, alla Siria, al Libano, alla Russia loro sponsor, alla Cina... e a tutte le organizzazioni terroriste.
È un premio per cui il criminale Sinwar che ha ordinato di decapitare i neonati, violentare, uccidere, diventa, per estremo paradosso, il Ben Gurion dei palestinesi. Fino ad ora, dato che ha usato i miliardi donati ai palestinesi invece che per fare di Gaza la Singapore del Mediterraneo per creare un piccolo stato nazista carico di gallerie e di missili, anche i palestinesi non ci avevano pensato. Preferivano il terrorismo di Arafat. Ma sta studiando: aspetta che l’ONU, l’UE con il supporto americano creando lo Stato palestinese dalla strage del 7 di ottobre, lo promuovano a questo ruolo.