Fiamma Nirenstein Blog

La guerra antisemita contro l'Occidente

7 ottobre 2023 Israele brucia

Jewish Lives Matter

Informazione Corretta, il nuovo video di Fiamma Nirenstein

Museo del popolo ebraico

Lo scoglio Anp fra Israele e Usa. Il futuro di Gaza.

venerdì 29 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 29 dicembre 2023

Israele ha imparato in questi tre mesi che ogni considerazione sui Palestinesi può essere fatale. Ogni ipotesi ottimista può trasformarsi in una tragedia. Le tregue fra una guerra con AHamas e l’altra hanno lasciato che si costruisse il mostruoso progetto del 7 di ottobre: Israele immaginava ogni volta di avere inferto un colpo a Hamas, e invece essa con denaro, senso pratico, aiuto internazionale costruiva le gallerie della guerra più sanguinosa. È la prima volta, se sono vere le voci di ieri, che il Gabinetto di Guerra ha messo all’ordine del giorno il tema del domani di Gaza.

La discussione è probabilmente legata al ritorno del Ministro per gli Affari Strategici Ron Dermer da una maratona di incontri alla Casa Bianca e dal prossimo arrivo del Consigliere per la Sicurezza Nazionale americano Jake Sullivan: è il secondo tema nell’ordine di urgenze che gli USA propongono Il primo è l’aiuto umanitario e la tregua ambedue connessi alla fragile possibilità di un accordo sugli ostaggi. Israele chiede soprattutto tempo: vuole cancellare Hamas in una guerra di necessità. E in realtà mai, nonostante molti giornali pretendano che esista un disaccordo con gli USA, Biden ha chiesto un cessate il fuoco, come l’ONU. Tuttavia, sempre viene richiesto che Israele fornisca più aiuto umanitario, e Israele lo fa, mal ripagata dal fatto che i camion cadono nelle mani dei Hamas, o si perdono nella confusione di Gaza. Ma in secondo luogo, Biden insiste molto sul futuro: l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) per lui deve diventare un partner nella gestione della Striscia, eventualmente coadiuvata da altri Stati e istituzioni. Sullo sfondo ci sarebbe il traguardo “due Stati per due popoli”: anche Biden aspira al Premio Nobel. Ma l’orizzonte è tempestoso: l’ANP è ormai preda di Hamas, tiene per Sinwar, adora Mohammed Deif. Fatah agonizza. Il famoso segretario del Comitato Centrale Jibril Rajoub ha detto il 26 novembre come la pensa il popolo: “Ciò che è accaduto il 7 ottobre è un evento senza precedenti della guerra di difesa epica e piena di eroismo condotta per 75 anni”. E ha aggiunto: “Una simile esplosione, ma molto più violenta, verrà dall’West Bank”.

Abu Mazen non ha mai condannato. Un giornale di Betlemme l’8 ottobre ha pubblicato con didascalia la foto di un topo morto: “Israele è il ratto schiacciato dai palestinesi”. Il PCPSR (Palestinian Center for Policy and Survey Research) ha registrato che il 72 per cento dei Palestinesi giustifica Hamas, il 63 crede solo nella lotta armata, il 10 per cento pensa che Hamas abbia commesso crimini di guerra, e 60 per cento vuole che Hamas seguiti a governare Gaza. Solo il 7 per cento pensa che Mahmoud Abbas, che dal 2005 non fa elezioni perché Hamas le vincerebbe di sicuro, dovrebbe avere il potere. Dall’West Bank, da Ramallah, Shkem, Betlemme, Jenin, a Tulkarem, Kalkilia, Nablus, Hevron, tutti i giorni escono attacchi terroristi rilevanti, 128 dal 7 di novembre. Con orgoglio gli uomini di Fatah rivendicano la loro parte di guerra di shahid, Abu Mazen prosegue col “pay for slay”, gli stipendi a tutti i terroristi in carcere, anche quelli della “Nakba”. I canali tv di Abbas hanno mostrato i funerali dei membri di Fatah che hanno partecipato all’attacco, e la foto dice “Sono saliti in cielo da martiri” e l’ANP ha chiamato a “aumentare gli attacchi in ogni aerea”.

È pericoloso per le città, i paesi, le campagne; è l’educazione identica a quella di Hamas dalla nascita, che invita a uccidere gli ebrei in quanto ebrei, e che ha ammassato con aiuto internazionale armi in ogni casa, e conta sulla polizia palestinese, armata, allenata. Nata dagli accordi di Oslo in collaborazione con Israele, di fatto politicizzata. La rete ideologica Hamas Fatah è comune, il progetto di riqualificazione dell’ANP per il grande progetto di pace cui americani e israeliani accennano, dovrà cominciare dall’asilo, in cui si insegna che gli ebrei non sono esseri umani. 

 

Lite tra Iran e Hamas. Erdogan: "Bibi Hitler"

giovedì 28 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 28 dicembre 2023

Avranno molto da dirsi il presidente iraniano Ibraim Rantisi e la sua controparte turca, Recep Tayyp Erdogan, quando si incontreranno il 4 di gennaio ad Ankara. Tutti e due evidentemente pensano che sia il momento giusto per parlare della guerra: ne hanno una in comune nonostante siano uno sciita e l’altro sunnita, quella contro Israele. Abbracciare Hamas, per loro è un’abitudine. Il tema fissato per il 4 è tipico da “asse della resistenza”: Erdogan non ne fa ufficialmente parte, conta sempre su chi spera di recuperarlo. Fino a poco tempo fa giocava sul crinale di una doppia appartenenza al mondo occidentale e alla Fratellanza Musulmana di cui è uno dei maggiori esponenti mondiali; ma la Turchia fa parte nella Nato. Hamas gli è sempre piaciuto, lo ha ospitato e aiutato, ha molte foto con i suoi leader, non ha mai condannato il grande pogrom antisemita del 7 ottobre. Poi ieri ha superato sé stesso: “Non c’è differenza fra le azioni di Netanyahu e quelle di Hitler”.

Netanyahu gli ha risposto ricordandogli il suo genocidio di Curdi e il record di giornalisti dissidenti in prigione. Ma non servirà: che Israele sia come la Germania di Hitler Erdogan l’aveva già detto nel 2014. Solo nel luglio avanzato ad Ankara ha tenuto una riunione con Ismail Haniyeh e con Abu Mazen, insieme. Cioè, 6 settimane prima del 7 ottobre i due discutevano con Erdogan: non è stato ancora notato. Ma a rivendicare ieri, e forse incautamente, la firma stessa della carneficina, è stato il generale della Guardia Rivoluzionaria, Ramadan Sharif. In una dichiarazione riportata da Al Jazeera Teheran fa sapere che il massacro è stata una risposta all’assassinio del grande leader Qassem Suleimani, compiuto, sembra, da emissari americani.

Questo dopo che due giorni fa il generale iraniano che soprintende alla Siria, cioè alla strategia dal confine di Israele e alle armi a Hezbollah e altri “proxy”, è stato assassinato. Ma Hamas ha con rispetto smentito la dichiarazione, anche se è evidente che il 7 ottobre è il primo grande passo pubblico di distruzione di Israele che l’Iran ha compiuto dopo anni di costruzione di un potere inter-sunnita-sciita, grande stratega appunto Suleimani. Ne fanno parte il Libano, i palestinesi, lo Yemen, la Siria, l’Iraq, si conta anche su amici discreti tipo il Qatar, e su un grande sfondo antioccidentale che infatti non ha condannato Hamas (la Russia e la Cina).

Hamas è ovvio, rivendica di aver agito da sola, per la moschea di Al Aqsa, “contro l’occupazione”. Ma è noto che l’Iran gli fornisca il 93 per cento del budget, che le armi iraniane sono ovunque a Gaza, che Hamas stesso ha più volte ringraziato dopo l’attacco. La guerra è la bandiera della dichiarazione di Khomeini: “Noi sosterremo e assisteremo ogni gruppo che combatte il regime sionista”; e di Khamenei: “La questione palestinese non è geopolitica, è un credo, una questione di fede”.

Questo mette l’Iran in testa a una coalizione che rompe lo storico screzio fra sunniti e sciiti in nome di una battaglia sacra, e ne consacra la leadership. Erdogan si entusiasma nell’odio antisemita perché sente che quel fronte è forte e deciso: gli Houthi mettono a rischio il commercio internazionale, in Siria e in Iraq milizie sciite divengono parte della macchina di predominio e provocazione antioccidentale, in India vediamo attacchi terroristici contro l’ambasciata di Israele… C’è molta fantasia strategica mentre Israele combatte una vera guerra di liberazione e sul territorio europeo e americano cresce una giungla di antisemitismo.

L’Iran ha destabilizzato le aree di antica influenza egiziana e Saudita, i leader cauti non si sentono abbastanza sostenuti da un’America che non osa dare un nome alla guerra che l’Iran ormai alla vigilia del potere atomico, ha dichiarato all’Occidente. Una guerra dura, che affronti il pericolo che il mondo corre, e prenda le misure necessarie per difenderlo.     

 

Con gli Ufficiali della 14esima Brigata: "Conflitto diabolico ma stiamo vincendo"

mercoledì 27 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 27 dicembre 2023

Giallo è il colore di questa guerra. La polvere è alta anche nelle prime giornate di fango. Le nuvole nere e i bum sul nord della Striscia segnalano la battaglia. Ancora, dalle rovine partono fantasmi di missili che si avventano su Sderot. I tank, i nagmash, i namer, i veicoli corazzati sono in fila per la revisione, un numero enorme: siamo nella base di Tze’elim. Una città di tende e capanni di cemento da cui si entra e si esce a combattere. Qui incontriamo i soldati che devono fornire, in giornate di coraggio e di lutto (in due giorni ne sono caduti 18) la risposta a quella che il New York Times ha appena definito “una guerra diversa da qualsiasi altra combattuta fino ad oggi”. Da Tze Elim la si combatte nel nord, a Gaza città, a Jabalia: qui le prime fortezze del terrore sono state quasi spianate e conquistate.

Eppure, i soldati continuano a essere sorpresi da agguati improvvisi, nelle trappole esplosive, ormai dall’inizio della guerra 160 sono stati uccisi. Eppure, lo spirito è alto da 70 giorni. La Striscia è costruita solo la guerra di distruzione contro Israele, vicoli, edifici, scuole, ospedali, appartamenti, un’incredibile rete di gallerie dove tutto è esplosioni e spari, e ogni abitante per paura o fede è uno shahid. Per battere Hamas, perché Israele possa esistere, da Tze Elim le unità dei miluim, le riserve, escono ogni giorno per combattere, senza tornare al lavoro, alla famiglia: Asaf, un colonnello di 51 anni, che a casa dirige un ufficio di robotica giapponese, moglie medico e tre figli, qui dirige la guerra: è il comandante delle operazioni. Tutto è nelle sue mani: sotto una tenda con tecnologia super raffinata, coordina, secondo le decisioni strategiche, esercito di terra, marina, ingegneri, informazioni, e yalom (che vuol dire “diamante” e sa fare tutto, come entrare in una galleria). Lui ordina di andare avanti, indietro, “adesso!” “Stop!”, cambiate strada, distruggete, evitate. Dal 7 di ottobre ha questo gigantesco incarico.  Esce da una tenda come di malavoglia; è un eroe moderno, un patriota tecnologico carico di responsabilità e di ironia: “Io guido la guerra dall’alto” sorride.

È lui che muove la Brigata 14 delle riserve, la mitica, che ha salvato Israele durante la guerra del Kippur scavalcando lo Stretto di Suez agli ordini di Sharon e che per prima è entrata a Gaza dopo le atrocità. “Da qui dirigo la guerra della fanteria, dell’artiglieria, gli dico dove andare, dove evitare, cosa fare. Faccio levare in volo i droni, per vedere bene gli obiettivi, le armi, i terroristi… se ce n’è necessità e non ci sono cittadini innocenti, muovo l’aviazione a preparare il terreno, ma la richiamo indietro se improvvisamente dei bambini appaiono sulla strada o nelle case…”. Capita spesso?  “Dopo tre mesi, meno. Ma la scelta resta: non violare le leggi internazionale, salvaguardando la vita dei miei. Allontano da un obiettivo, dico di spostarsi, di aspettare, di considerare che da quella finestra possono sparare. Faccio muovere avanti al momento giusto”. Asaf si irrita: “Non è vero che il 7 siamo arrivati tardi. Tardi esprime una percezione, ma qui un esercito intero si è mosso a fronte si un caos inaspettato coi carri armati, gli aerei, siamo arrivati nel minor tempo possibile. In difesa. E quando finalmente siamo andati all’attacco… tutto ha funzionato”.  Ma le tante perdite, la guerra lenta, Sinwar latita… “Stiamo vincendo la guerra più difficile: i risultati sono sempre maggiori, molte gallerie scoperte, i rifugi dei terroristi conosciuti, i covi di armi rivelati e distrutti. Ogni giorno ne sappiamo di più, facciamo passi importanti. Se lei aspetta che Sinwar esca a mani alzate, non so, ma penso che senta i nostri tank sopra la testa. Calma, Tempo. DI questo abbiamo bisogno. Combattiamo bene. Lasciateci fare. Tempo. Distruggeremo il nemico di tutti”. Tornato da poco da un’operazione, il maggiore Yehuda, ingegnere industriale, 43 anni, della 14 brigata, anche lui da 70 giorni quasi non ha visto moglie e quattro figli. Ha combattuto prima kibbutz per kibbutz contro i terroristi. È stato anche lui settimane senza levarsi le scarpe? “Ci si fa l’abitudine”, magro alto, l’ingegnere è sorridente. È soddisfatto di sé e dei suoi compagni, che ci girano intorno anche loro appena tornati e già pronti a rientrare. “Nei primi giorni di guerra una quantità di volontari si è precipitata da noi carica di pentole dolci e cioccolata… non facevamo che mangiare”. La notte si riposa sempre pronti a uscire in 15 in una tenda. Dei compagni perduti Yehuda non vuole parlare: “troppo fresco”. “Deve capire che siamo tutti comunque decisi a combattere fino alla vittoria: quattro giorni prima del 7 ottobre con moglie e figli, siamo venuti a fare “biking” a Be’eri. Se venivamo quattro giorni dopo, saremmo stati macellati”.  “Io sono un Kasha” spiega il maggiore, ed è una cosa seria “In prima fila camminano alcuni soldati aprendo la strada, poi subito dopo, a piedi, arrivo io”. Yehuda cammina solo sulle rovine delle strade sventrate, deve indicare al tank che segue dove è nascosto il pericolo da abbattere e l’obiettivo da combattere. Ha paura? “Dopo, semmai. Là stai ben concentrato su che cosa fare” Ci sono finestre in cui si nascondono i cecchini, bocche delle gallerie da cui ci si può aspettare di tutto, porte, vicoli: “Devo scovare i terroristi, evitare i civili, scovare i covi da cui si possono sparare i proiettili anti tank e decidere di colpire. Vado avanti piano. Certo, se sparassimo sulla gente faremmo prima. Ma cerchiamo di non colpire innocenti”. Però da tutto il mondo si dice che lo facciate “Purtroppo può capitare. Ma è la struttura stessa di questa guerra che è preparata in modo diabolico: la mia unità ha appena trovato sotto due letti dei bambini missili RPG, capirei che li tenessero in casa, ma nella camera dei bambini”. Yehuda non incontra molti gazani: invitata coi volantini a scendere al sud, in genere la gente l’ha fatto “E se vediamo individui in movimento o sono terroristi o loro amici”. Yehuda da vent’anni viene nelle riserve con un amico, Dror, la sua sicurezza, l’incarnazione della solidarietà che qui si respira fra i soldati: “Mentre cammino ci parliamo con gli auricolari: mi avverte di ogni rischio, gli chiedo di proteggermi su un fianco, di dirmi cosa c’è qua, là, ed è sempre con me. Il mio angelo personale. Mi fido di lui ad occhi chiusi. Se sospetto una trappola, subito agisce”. È amicizia consolidata dalla sensazione di stare facendo qualcosa di indispensabile, la respiri fra i soldati che sono là, e solo là vogliono essere. Te lo ripetono, si scocciano quando chiedi se hanno nostalgia, o paura… certo, e allora? Salviamo il Paese, siamo noi il muro di difesa. Lasciateci fare. Sanno qualcosa che nessun’altro sa. Responsabilità, eroismo? “Il mio sogno? Entrare in un palazzo e trovare la sorpresa di un gruppo di rapiti, vivi! Abbracciarli, difenderli, riportarli a casa”.     

 

Un buon Natale da chi combatte contro il male

domenica 24 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 24 dicembre 2024

Buon Natale. L’augurio che ogni persona, a qualsiasi religione appartenga, può ricavare da questo saluto è: amore, rispetto, compassione. È facile. Basta guardare le pubblicità, i film per bambini. Dicono: i buoni sentimenti devono vincere. La società democratica è fatta per questo, intorno vi abbiamo costruito una morale che ha al suo centro i diritti umani. Ci abbiamo messo un impegno particolare costruendo l’Unione Europea oltre all’ONU, da quando, con la fine della Seconda Guerra Mondiale, il mondo occidentale si è impegnato per una seconda occasione di riscatto della storia umana, dopo il nazismo. E più avanti, ha ripreso la strada con la fine del comunismo.

Purtroppo, però il mio augurio odierno si accompagna a una constatazione: dobbiamo di nuovo, ancora una volta, concentrarci per salvare il mondo perché, dopo il 7 di ottobre, di nuovo abbiamo in mano solo i cocci di un cammino globale verso il bene. Quel giorno si è compiuta la rottura dell’idea che comunque, con fratture e falli temporanei, si sia tuttavia su una strada di miglioramento globale, che i conflitti possano essere gestiti con trattative o scontri contenibili, che le diverse etiche, religioni possano trovare un punto di accordo. Ciò che si è visto a Sderot, a Be eri, a Kfar Azza… è gigantesco; può essere capito solo recuperando la categoria dell’esistenza del male, e. quindi impegnandoci poi a combattere.

Il mondo ha visto quello che, esaltati da una ideologia omicida, esseri umani hanno fatto e possono fare ad altri esseri umani. L’avevamo già visto col nazismo, in Asia coi genocidi comunisti, poi il terrorismo islamico di Al Qaeda e dell’Isis ci hanno rieducato all’orrore insieme all’aggressione russa all’Ucraina. Ma qui è stato peggio, è stato uno ad uno, bambino per bambino, madre per madre, con immensa soddisfazione degli assassini. Purché fosse ebreo.

E subito, è seguita l’ondata mondiale di antisemitismo che indica la pericolosità globale, nel mondo dell’Islam estremo e dei suoi alleati, del fascino del male. Non voglio nel giorno di Natale ripercorrere la memoria degli stupri, dell’incenerimento, delle decapitazioni. La scena distrutta dei kibbutz nei colori, negli oggetti, negli ambienti domestici di estrema civiltà… esprime la fallimentare ipotesi che basti porgere la mano perché venga stretta. Il più atroce errore, portatore di altri disastri, è quello di disconoscere la necessità di battere un nemico ideologico pronto a tutto pur di eliminarti, e cercarne l’appeasement.

Così fanno quelli che chiedendo la pace senza aggettivi: il Papa manda Krajeewski a Betlemme, certo è pieno di buona volontà. Ma è difficile abbandonare i cliché pacifisti in nome di una visione che separi il bene dal male, e che aiuti a organizzare spiritualmente la lotta per quello che è. Ma proprio per difendere i Cristiani è l’ora di farlo. Modestamente, vorrei dedicare questo Natale, da Gerusalemme, a un bambino sugli 8-10 anni che in un footage filmato dagli assassini, corre su un prato verde inseguito dai grossi figuri mascherati e armati.

È più stupefatto che terrorizzato: si legge nel suo alzare le piccole braccia e piegarsi per terra ormai vinto, che finora ha conosciuto solo dolcezza. Forse si è chiesto se fosse tutto un gioco, finché lo si vede aggredito a botte mortali in testa.  

 

Gli eroi silenziosi che salveranno Israele

sabato 23 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 23 dicembre 2023

Si chiama Iris Haim. È la madre che ha perduto il figlio nel modo più atroce, Yotam, un ostaggio rapito da Kfar Aza il 7 ottobre; per sbaglio, scambiato per terrorista, è stato ucciso dai soldati, dopo essere sfuggito a Hamas, mentre cercava di farsi riconoscere dai soldati, insieme a altri due ragazzi. Sventolavano una bandiera bianca, ma non è servito. A Gaza, la confusione della guerra, le trappole perverse, i travestimenti di Hamas, hanno giocato un effetto mortale: e il batterista coi capelli rossi, insieme a Alon Shamriz e a Samar Talaka è stato ucciso.

La sua mamma, dal 7 ottobre fra le famiglie dei rapiti con dolcezza e senza risparmio stavolta, si è rivolta così ai soldati del diciassettesimo battaglione della Brigata Bislamach: “Sono la mamma di Yotam, voglio dirvi che vi voglio tanto bene, quello che è accaduto non è colpa vostra, la colpa è solo di Hamas che il loro nome sia eraso dalla storia; non esitate se vedete un terrorista, tutti abbiamo bisogno di voi, venite ad abbracciarmi”. Iris ha lasciato tutti senza parole, in un Paese in cui oggi, tuttavia, si richiede miracoli da ciascuno: se la maggioranza in una situazione difficile cerca il riparo, l’eroe o l’eroina invece si espone.

Così Iris, invece di polemizzare come hanno fatto in molti (il Capo di Stato maggiore ha ammonito che non si spara a chi ha le mani in alto!) ha preferito perdonare l’errore: ai ventenni che in divisa sfidano la morte che esce dai cunicoli o si avvicina travestita, ha suggerito di difendersi per il bene di tutti, nonostante l’atroce dolore per il figlio. Iris ha costruito così un ponte fra la battaglia straziante delle famiglie dei rapiti e il sacrificio terribile dei soldati: indispensabile, e per niente ovvio. Proclamare “beato il popolo che non ha bisogno di eroe” significa privare il popolo di una grande risorsa, a volte indispensabile. Israele in particolare dal 7 di settembre, ha bisogno di eroi per risorgere da quelle ceneri: a loro è affidata il recupero della forza, dell’onore stesso. Dal 7 di ottobre le storie del valore civile e militare sono un’enciclopedia.

 Se proviamo a scegliere le donne risplendono: per esempio, il 7 di prima mattina la bella Amit Mann di 22 anni, infermiera, si è fatta strada mentre le sparavano fra i feriti e i cadaveri fino all’ambulatorio, e là ha preso cura di tutti quelli che si sono trascinati da lei, finché al telefono ha detto ai suoi “siate forti sono entrati i terroristi”; è stata uccisa col dottore. Gli arabi israeliani, specie i beduini, sono corsi in tanti ad aiutare: Awad Darawshe, paramedico, corso alla festa Nova, ha curato le orribili ferite dei ragazzi uno dopo l’altro mentre Hamas faceva strage, è stato ucciso mentre fasciava un ragazzo; il tassista Yussef Alzianda, beduino, che aveva portato una dozzina di ragazzi alla festa, per fuggire ne caricava trenta per volta e tornava ogni volta per una spoletta di salvataggio.

È sopravvissuto; Or Ben Yehuda, una bella ragazza madre di tre bambini, comandante di un tank, si è bittata a combattere al kibbutz Sufa e con i suoi dodici soldati e li ha uccisi e messi in fuga salvando la gente, mentre il suo collega Avi Kolelashvili, di 24 anni, tentando lo stesso tipo di attacco, invece è caduto. Al Kibbutz Kfar Aza, il comandante dei Golani Tomer Greenberg, ha combattuto senza ordini salvando decine di persone, e poi ha portato in salvo due piccolissimi gemelli ritrovati fra i loro genitori, ambedue morti per terra. Greenberg, al comando del tredicesimo battaglione Golani dentro Gaza, cercando di salvare un soldato caduto in un’imboscata è stato ucciso da Hamas.

A ogni funerale dei soldati uccisi i loro colleghi raccontano nei particolari, uno ad uno, che la fine di questi ventenni è quasi sempre legata alla scelta di lanciarsi al salvataggio dei compagni. Ma dentro casa il sangue freddo non è diverso: Rachel Edri di Ofakim, un’anziana signora, per ventiquattro ore, come in un film dell’orrore, ha servito cibo, raccontato storie, cantato canzoni frenando i terroristi, finché è arrivato l’esercito che ha perduto nello scontro due uomini. Israele risuona di episodi stupefacenti, che sanno di un’epopea antica e nuovissima, antica e in costruzione. Achille scelse una vita breve ma valorosa piuttosto che lunga e inane. Le sue imprese si leggono da millenni.

 

"Colloqui seri sulla tregua". Ma l'ONU non trova l'intesa

giovedì 21 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 21 dicembre 2023

La guerra di Gaza è in un momento delicato: a Shejaia e a Jabalia, al nord, il lavoro dell’esercito sembra avere concluso una fase; qualche battaglione di paracadutisti esce per qualche giorno, si misura lo sforzo militare e economico di tenere al fronte 250mila riservisti, e ogni mattina si mescola al dolore con cui si devono annunciare i nomi di due, tre, cinque soldati che hanno perduto la vita nella notte.

Oltre alla battaglia, bruciano gli ostaggi: due video di Hamas, hanno mostrato la desolazione, lo stato di bisogno di cinque rapiti che supplicano di salvarli. La tragedia dei tre ostaggi uccisi per sbaglio dai soldati è ancora più crudele: adesso si è scoperto che i soldati, cinque giorni prima avevano ucciso i terroristi a guardia degli ostaggi, poi costretti a girovagare disperati alla ricerca di aiuto, finché l’esercito non li ha sbagliati per uomini di Hamas. È troppo doloroso: Israele agisce per riportare i suoi a casa. Dopo una riunione delle famiglie con Netanyahu, Israele è apparsa decisa a fare le sue proposte, mentre Hamas aspettava, puntando sull’effetto perversamente manipolativo delle sue mosse. Ma il suo teatro proviene da sotto le rovine, Sinwar ha bisogno di una tregua: e così, mentre Israele segnala disponibilità, stavolta si è mosso Ismail Haniyeh dal Qatar, dove sta comodo e protetto.

È andato fino al Cairo per una nuova trattativa: sarebbe uno scambio fra ostaggi “umanitari” e grossi prigionieri di sicurezza, e una tregua accompagnerebbe dallo scambio. Sinwar sa che se riesce a pilotare dentro il West Bank tre o quattro autobus di prigionieri di sicurezza, non le donne e i giovani di poca fama ottenuti fino ad ora, diventa il re del terrorismo palestinese e della jihad internazionale. Secondo la sua perversa visione, questo lo consegna alla schiera dei martiri di Allah, esalta la santità della sua guerra, rimotiva chi abbia dubbi. Inoltre, se ottiene una tregua lunga, può rilanciare il lavoro nelle gallerie (al sud, perché al nord non sono più tante) e cercare di conservare una presa futura sulla Striscia. Israele sa benissimo che la posta è alta, chi dice “tregua” e “pace” e pensa alla lunga durata, non capisce, non parla di Hamas, le sue aspirazioni sono diverse. Quindi, tutto è incerto, salvo il fatto che gli americani tifano per una pronta risoluzione, e che mentre riaffermano il loro sostegno a Israele, pure disegnano, come fa un documento del Dipartimento di Stato, una prospettiva in cui Israele passi a una fase “meno intensa” in cui si immagina la partecipazione a un futuro governo della Striscia da parte di Palestinesi anti-Hamas. Un’ipotesi che Israele mentre accetta l’idea che le fasi sono in evoluzione, non considera realistico: nell’Autonomia Palestinese l’appoggio a Hamas supera l’80 per cento, e gli attacchi terroristici dal 7 di ottobre sono stati circa 1300. Ma lo scambio dei prigionieri è imperativo, anche se Netanyahu ha sentito ieri il bisogno di sgombrare il campo: “Combatteremo fino all’ultimo” ha detto “fino alla vittoria, Sinwar ha solo la scelta fra la resa e la morte, i nostri tre fini sono la cancellazione di Hamas, la liberazione dei rapiti, la cancellazione di qualsiasi pericolo proveniente da Gaza”. E parallelamente, si tratta: stavolta si tratterebbe di 40 ostaggi, tenendo conto di dove Hamas ruppe gli accordi la volta scorsa, ovvero davanti alla promessa di riconsegnare le prigioniere; insieme a loro, si parla del ritorno di persone anziane, malati e feriti.

In cambio forse sarà una settimana di tregua; i tempi sarebbero aumentabili nel caso si possa allargare lo scambio. Quello che vuole fare Sinwar, lo sanno soltanto Haniyeh e i suoi amici, prima di tutto il Qatar e l’Iran; l’Egitto è più importante del solito in quanto ospite. È una trattativa che al solito implica un grande rischio: che l’esercito si scompigli, e la gente perda la forza e l’unità che l’ha guidata dal 7 di ottobre. Il governo intanto dice che la trattativa non si farà con le mani in mano.  

 

Il direttore dell’ospedale: "Qui una base di Hamas. Covi, armi, 100 miliziani e un’ambulanza dedicata"

mercoledì 20 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 20 dicembre 2023

Orrore segue orrore quando si parla di Hamas. Quando per esempio la CNN intervista il direttore di un ospedale, ne ricava notizie inequivocabili che in genere creano un’ondata di rabbia a senso unico: parlano dei morti e feriti che la guerra provoca e si rovesciano nelle corsie, ed è sempre colpa dell’esercito israeliano. Ogni vita, ogni ferito è una tragedia: ma chi ne racconta?

È diverso se d’un tratto si capisce che il direttore dell’ospedale Kamal Adwan di Jabalia è anche un generale di Izzadin al Kassam, l’ala più feroce di Hamas. Si chiama Ahmed Hassan Kahlot, nel suo ospedale erano stati arrestati 90 terroristi operativi, dice Tzahal, fra cui diversi hanno partecipato ai massacri del 7 ottobre, e la loro cattura è avvenuta fra armi automatiche, lanciagranate, ordigni esplosivi tutto nascosto dentro l’ospedale.  Dalla deposizione di Kahlot, un uomo non giovanissimo, concentrato e diretto, esce il ritratto più vero di Hamasland, un piccolo stato nazificato dove non c’è istituzione, anche quella per definizione più umanitaria, che non sia una sentina di crudeltà e paura. Kahlot racconta di far parte di Hamas dal 2010, di esserne un alto grado militare. Gli ufficiali di Hamas si servono del suo ospedale per nascondersi e preparare azioni; se si nascondono, hanno là delle stanze che usano per una decina di giorni, e poi cambiano nascondiglio: “L’ospedale è un posto sicuro, qui non li colpiscono”; ultimamente, dice, ci sono stati fino a cento armati fissi dentro l’ospedale. In genere hanno ruoli fasulli fra i dottori, i paramedici, i portantini, ne ha contati 16 … Hamas è ovunque, ha uffici, depositi, stanze di emergenza interna e speciale, linee telefoniche proprie. Vi stazionano due comandanti importanti, Majdi abu Amcha e Majud al Masri, un volto militare e anche politico dell’organizzazione. I terroristi dispongono di ambulanze private, testimonia Kahlot, senza numero e con colori speciali, le usano per sé, e adesso per spostare un soldato rapito, e cadaveri. Kahlot ha chiesto di usare le auto per trasportare feriti, ma la risposta è stata “no”. Perché? “Avevano cose più importanti di aiutarci portare i feriti”.

Alla fine Kahlot dichiara “codardi” i suoi capi: è sincero, o cerca la simpatia degli israeliani? “Loro scappano, si nascondono, ci hanno lasciato sul campo, noi paghiamo il prezzo”. E’ un pensiero diffuso: lo è fra la gente affamata che assalta i camion di aiuti, fra chi prende la strada del sud quando gli israeliani avvertono di andarsene e Hamas li trattiene. Insomma, Hamas semina una storia repellente: l’ospedale trasformato in base per terroristi, i malati in scudi umani, gli armati travestiti da medici; le bambole che piangono in ebraico per chiedere aiuto e poi esplodere sui soldati; le donne con le cinture di tritolo; un uomo di 74 anni che è saltato per aria mentre andava verso i soldati; le mitragliatrici e il tritolo nella camera dei bambini, le moschee, le scuole dell’UNRWA, le case come coperture di gallerie buie e lerce per nascondersi, per scappare, per ficcarci i disperati ostaggi. Valige di soldi negli appartamenti, i capi all’estero a godersi la vita mentre i gazani restano nel fango dell’inverno e Sinwar è sottoterra. Non è bastata la forsennata immagine di cannibalismo del 7 di ottobre, dove ai ragazzi che ballavano alla festa venivano tolti gli occhi dopo avergli sparato.

Adesso Gaza stessa che grida che cosa è Hamas. Ed è stupefacente che di fronte alla dura ma chiara e regolata condotta di un esercito che combatte per distruggere Hamas, ma non ha nei suoi schemi di infierire sui civili, si possa insinuare che i soldati di Tzahal se la prenderebbero per perversione bellicistica coi due donne in Chiesa. Se Tzahal fa un errore, anche terribile, come per i tre rapiti uccisi per sbaglio, si muove anche il Capo di Stato maggiore per prendere responsabilità, mettere sotto accusa i suoi. Adesso, anche monsignor Pizzaballa dichiara che forse c’erano cecchini di Hamas in zona. Resta certo solo che Hamas non ha un codice morale di comportamento, anzi, li viola tutti.

 

"Io, l'autore del Codice etico dell'Idf. Non si spara a chi ha le mani alzate"

martedì 19 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 19 dicembre 2023

Il professor Asa Kasher non fa sconti. È lui stesso il codice di comportamento morale dell’esercito israeliano, l’IDF: di fatto, ne è l’autore. L’espressione severa del filosofo e linguista ottantatreenne, la sua vitale determinazione a scoprire il senso di ciò che è giusto o sbagliato anche quando è quasi impossibile, ne fanno un deciso interlocutore in tempi in cui il suo esercito è sotto dura accusa.

Sull’episodio di venerdì in cui i soldati dentro Gaza hanno ucciso tre rapiti per errore, in lui prevalgono i toni d’ira. “Prima di tutto un combattente di Tzahal deve sapere che è un soldato d’Israele, e che questo fa di lui un difensore della santità della vita umana. Noi non spariamo se non si deve farlo: ha detto bene il Capo di Stato Maggiore. Non devi uccidere neanche un terrorista se viene incontro a mani alzate”.

Ma la situazione in cui si combatte a Gaza è piena di sorprese terribili, un uomo di 74 anni carico di tritolo è stato buttato addosso ai soldati, bambole che piangono in ebraico portano i soldati in trappola…

“Qui bastava, come ha detto Halevi, pensare un attimo. È la prima regola: sapere chi sei, un soldato d’Israele, non un giovanotto con un’arma in mano. Il soldato che ha sparato era un cecchino, era lontano, non aveva solo un secondo per decidere. Voglio dire di più: una parte della società immagina che sparare sia quasi naturale, in tempi difficili. C’è il nemico, spari. Persino due ministri lo dicono. Ma un soldato ha regole, fa corsi, esercitazioni, ha comandanti: la sua scelta è oggettiva, non soggettiva”.

Lo processerebbe?

“No. Non a Gaza. Gli ufficiali decideranno per il meglio, ci sono tanti modi per correggere, per cambiare i ruoli. Mi fido di chi guida la guerra sul campo, sapranno come trattare il terribile evento”.

Professore, l’esercito israeliano, ha detto Biden, è accusato di “indiscriminate bombing” in cui colpisce i civili. Persino Biden chiede a Netanyahu di cambiare.

“Biden è un amico straordinario, a lui tutta la mia stima e ammirazione. Ma con tutto il dovuto rispetto, sbaglia. Ci si accusa in sostanza di non applicare il principio di distinzione fra combattenti e cittadini. Se parliamo di un qualunque agglomerato civile palestinese, non dobbiamo di certo toccarlo: sono cittadini. Ma Hamas e Hezbollah usano un sistema di guerra in cui mescolano le due componenti”.

E tuttavia i cittadini esistono.

“Qui interviene la questione della proporzionalità: si deve valutare con saggezza, con obiettività e secondo la legge internazionale la proporzionalità (le ricordo che gli inventori di questo sistema sono Sant’Agostino e Tommaso D’Aquino) dell’intervento, cioè l’effetto positivo e quello negativo. Anche se una sola donna o un solo bambino soffrono l’effetto è negativo, ma ciò va commisurato col danno inferto al nemico. Nel caso di Hamas, non c’è edificio, scuola, ospedale, in cui, come molta pazienza e serietà la cosa non venga da noi valutata. Voi non avete idea di quanto noi sempre, e non solo adesso, blocchiamo aerei già in volo se si vede all’orizzonte un’auto che porta bambini. Noi agiamo quando è obbligatorio, anche se ci spezza il cuore”.

Ma il numero dei morti è alto.

“Noi prima avvertiamo, spingiamo ad andarsene da dove bombarderemo, creiamo tempi e luoghi necessari… È la crudeltà del nemico che usa scudi umani che impedisce alla gente lo sgombero”.

Professore, il suo Codice è ancora nelle tasche dei soldati?

“Ne sono sicuro, e le prime due cose che imparano sono scritte solo da noi: santità della vita, e limitazione della forza”.

Vedo che vi chiedono di restringere i tempi…

“Combatteremo per il tempo e come che ci serve, applicando solo il diritto all’autodifesa. Non c’è scenario di rinuncia ad esistere. Non vedo problemi esistenziali all’orizzonte”.

Vi si suggerisce di nuovo di accettare una condivisione coi palestinesi, due Stati…

“Considero legittima l’idea di uno Stato palestinese. Ma se nasce sull’intenzione di uccidere gli ebrei, allora il terrorismo non è una aspirazione che può essere pietra di fondazione di un Paese”.

  

 

 

   

 

Hamas, trovato il mega tunnel. E a Gaza è assalto ai tir di aiuti

lunedì 18 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 18 dicembre 2023

Combattere dentro Gaza non è come affrontare un nemico normale, non è una guerra conosciuta, descritta nei libri di strategia. Non ci sono regole di combattimento, né divise, solo un nemico perverso. Israele, che discute amaramente il disastro dei tre ostaggi uccisi per sbaglio venerdì dall’esercito, ieri ha dovuto sobbalzare di nuovo alla scoperta di un tunnel gigantesco, una costruzione strategica in cui Hamas ha messo tutto il cemento che secondo gli accordi, riceveva per costruire case e scuole: è 50 metri sotto terra, fuori coperto da hangar e serre, è lunga decine di chilometri ma Israele ne ha scoperti 4 fino all’uscita del passaggio di Erez. In un filmato, il fratello di Sinwar, Mohammed, numero due dell’esercito terrorista, guida un veicolo al suo interno. Da Erez i cittadini di Gaza andavano a lavorare e all’ospedale, la galleria punta sul cuore di Israele. nel tunnel possono entrare veicoli e armi, è progettata per la prossima invasione, ma conservata per il prossimo eccidio. Le uscite interne sono in centro; è fornita di elettricità, acqua, gas.

Il disastro dei rapiti uccisi sofferto venerdì scorso a Sejaya, è al centro della discussione: si dibatte il codice di guerra dei soldati, cercando di non infierire dato il sacrificio continuo. La situazione sul campo è dura, siamo già a 122 soldati uccisi, oggi ne sono morti tre: Joseph Avner Doran, 26 anni, Shalev Zaltsman, 24, e Boris Dunavesky, 21. Tutta Israele li piange, e così ogni giorno. Ma la critica ha portato ieri il capo di Stato maggiore Herzi Halevi a entrare a Gaza per parlare sul campo: combattete, siate coraggiosi e forti, siete eroi, ha detto, ma i ragazzi fuggiti da Hamas erano senza camicia, sventolavano una bandiera bianca, hanno gridato in ebraico “azilu” (aiuto): “Da adesso almeno, imparate, quando si vedono le mani in alto, se c’è una bandiera bianca… non si spara mai. E soprattutto, soldati, non smettete mai di pensare, usate il cervello anche durante la battaglia”.  Al funerale di Alon Shamris, del kibbutz Kfar Aza, tenutosi a Shfaim, tutte aree ferite a morte dalle atrocità di Hamas, il fratello Yonathan ha lanciato un’epica requisitoria in cui ha accusato il governo, ha promesso la vendetta politica. Le accuse sono puntate specie su Netanyahu: lo si accusa di scansarsi dalla responsabilità che invece il Capo di Stato Maggiore e il Ministro della Difesa si sono presi. I parenti dei rapiti chiedono un accordo che liberi tutti i rapiti a qualsiasi prezzo. Il Qatar sembra finalmente un po' più ottimista su un qualche accordo.

Ma anche altri genitori chiedono di onorare il sacrificio della vita dei loro figli soldati andando fino in fondo nella guerra contro Hamas, una guerra, ripetono, di sopravvivenza per Israele stesso: ieri Netanyahu ha letto pubblicamente una loro lettera, e si è impegnato a raggiungere la vittoria. Anche Jake Sullivan ha ricevuto una lettera simile: lascia che Israele combatta quanto e come è necessario. Se Sinwar immagina che a gennaio la guerra si fermi o rallenti, come chiedono gli USA, temporeggerà anche sui rapiti, che continuano a morire nelle sue mani. Intanto è difficile per Israele anche soddisfare Biden con gli aiuti umanitari, la gente assale i camion di aiuti sfidando persino Hamas.

È difficile combattere, spiegano i soldati, quando si è su un terreno sconquassato, dove ogni cittadino che ti si avvicina può essere una trappola umana zeppa di esplosivo; quando per esempio a Jabalia si scopre, che nella camera dei bambini da sotto la culla si diparte un tunnel; che in un ospedale si sono trovate armi dentro le incubatrici; che trappole per attirare i soldati sono state fatte con neonati di gomma che piangono con parole in ebraico; che il terrorismo suicida è frequente, i terroristi saltano fuori all’improvviso… tuttavia, dopo la visita del Capo di Stato maggiore i soldati sanno meglio che i rapiti possono spuntare fuori da edifici che forniscono loro rifugio. Una roulette russa.

 

Ostaggi uccisi, choc Israele. "bandiera bianca ignorata"

domenica 17 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 17 dicembre 2023

La spiegazione è venuta in un minuto dopo il disastro: è nostra responsabilità, ha detto l’esercito israeliano, è una tragedia e ve ne diamo conto. Ma è il cuore del dramma attuale che è ferito: il nesso fra la guerra e la questione dei rapiti. Tre giovani che cercavano di fuggire sono stati uccisi per sbaglio dalle truppe in guerra dentro Gaza, scambiati per terroristi.  Peggio ancora di soffrire una ferita dal nemico, è il dolore inferto da una persona cara: e nessuno è più caro a Israele in questo momento dei soldati che 24 ore al giorno combattono a rischio della vita e perdono i loro compagni dentro gaza. Ma nessuno è più importante degli ostaggi selvaggiamente trattenuti, comma coerente della strage del 7 ottobre, da Sinwar.

Ma è accaduto: ed è un paradosso quasi insostenibile quando sei in guerra, come è Israele, contro il più feroce di tutti i nemici. Il gabinetto si è riunito, Netanyahu in un messaggio televisivo ha abbracciato le famiglie dei rapiti (“piango con voi”) e ha ribadito la sua fiducia nei soldati che rischiano la vita sul campo, e poi, anche in polemica con gli Stati Uniti, ha ribadito senza sconti la strategia oggi discussa duramente dalle famiglie e da parte del Paese: “Seguiteremo a combattere mentre ci impegniamo a riportare a casa i rapiti, ai nostri cari amici americani che ringraziamo dell’aiuto diciamo che l’Autorità nazionale palestinese che differisce da Hamas solo nei tempi, e non nel fine, non potrà prenderne il posto sulla Striscia. Saremo noi a controllarne la sicurezza in modo che non si possa minacciare la nostra vita”. Ma al di là dei programmi di lungo termine il clima di contestazione è inquieto, le famiglie dei rapiti hanno incontrato oggi il Gabinetto protestando duramente. Il Paese aspetta un’accelerazione sui rapiti. Venerdì, mentre Hamas sparava 6 missili su Gerusalemme, tre ragazzi caduti nelle mani di Hamas dal 7 di ottobre, Yotam Haim, di 28 anni, noto a tutti ormai, capelli rossi e mestiere di batterista, Alon Lulu Shamriz, di 26anni, un sorriso solare, studente di ingegneria dei computer, rapiti dal Kibbutz Kfar Aza, Samar Talalka di 22 anni, beduino israeliano agricoltore nel kibbutz Nir Am, si sono trovati liberi nei vicoli di Gaza, fra le pallottole e la polvere della battaglia. Forse erano fuggiti, forse erano stati buttati nel mezzo dello scontro.

Avanzavano, secondo il primo rapporto, senza camicia per segnalare di non essere terroristi suicidi, e con uno straccio bianco su un bastone: ma un soldato non si è fidato. Si tratta di un terreno su cui gli agguati nei vicoli e dai cunicoli sono continui, i soldati che combattono 24 ore su 24 dal 7 di ottobre hanno visto uccidere giorno dopo giorno 116 compagni. Hamas non indossa divise, i terroristi sono irriconoscibili, la tensione è terribile. Il soldato spara, uccide due delle persone che avanzano, il terzo ferito si è nascosto nell’edificio da cui era uscito. Il cuore si spezza al racconto di come gridasse “Azilu”, aiuto, in ebraico e non è stato sentito o creduto. IL comandante aveva ordinato l’alt vedendolo, ma quando è uscito un terzo soldato ha sparato lo stesso.

La tragedia si è compiuta: sono altri ostaggi morti, solo il 14 dicembre altri 2 corpi di ragazzi rapiti e tre giorni fa i corpi di Eden Zakaria, 28 anni, una bellissima ragazza seppellita solo ieri, e di Zvi Dado, soldato. Per recuperare i loro colpi due soldati sono stati uccisi, fra cui il figlio di Gadi Eisekot, membro del Gabinetto. Adesso si indaga, si risponderà sulla dinamica della vicenda, ma le famiglie chiedono adesso in grande polemica col governo che ci si decida, ci si muova subito per un nuovo scambio, qualsiasi scambio collettivo: ciascuno, dicono, è in pericolo immediato di vita e non si riesce a recuperarli con lo scontro bellico, come ripete Netanyahu. Anche il capo di Stato Maggiore Herzi Halevi ha ribadito che l’errore è terribile, non si deve sparare di fronte a una bandiera bianca. Ma ha detto che la battaglia continua con determinazione. Un altro annuncio tragico giunto da dentro Gaza ieri è stato quello della morte nelle mani dei Hamas di una ragazza rapita alla festa di Reim, Inbar Haiman di 27 anni.

Oggi i prigionieri sono ancora 128: Israele ha sempre sostenuto che Sinwar è stato costretto a cederne una parte in stato di choc e di necessità: i 105 tornati a casa sono stati scambiati perchè l’esercito aveva colpito a tutta forza, Hamas aveva bisogno di tempo. Adesso, a Oslo Primo Ministro del Qatar ha incontrato i maggiori rappresentanti della sicurezza Israeliana, forse si arriverà a un nuovo accordo, certo Hamas chiede un alto prezzo per lo scambio. Può esigere la liberazione di un gran numero di terroristi di prima linea, chiedere una lunga tregua con cui rimettersi in piedi e restare al potere. Due giorni fa nel Nord Europa è stata scoperta una congiura, Hamas aveva organizzato attacchi armati a istituzioni ebraiche in vari Paesi; venerdì, SInwar, il “difensore della Moschea di Al Aqsa” ha bombardato Gerusalemme.  La scelta è, comunque, sempre fra lasciare sopravvivere un’organizzazione come l’ISIS, pericolosa per tutti, o combatterla a prezzi anche molto amari.  

 

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