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La guerra antisemita contro l'Occidente

7 ottobre 2023 Israele brucia

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Le speranze vane di una pace con Hamas

sabato 16 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 16 dicembre 2023

Mentre Jake Sullivan, consigliere strategico di Biden, tesseva ieri la sua tela di speranza di pace a nome del Presidente degli Stati Uniti prima a Gerusalemme con Netanyahu, Gallant e tutto il gabinetto, e poi a Ramallah da Abu Mazen, Hamas si è fatto vivo: ha sparato sei missili su Gerusalemme, di cui quattro bloccati da Scudo d’acciaio, uno caduto su un edificio a Beith Shemesh. Ma l’ultimo, per un espressivo scherzo della sorte, mentre qui a Gerusalemme correvamo nei rifugi con le famiglie in casa per la serata di Shabbat, è finito sull’ospedale di Ramallah. Così Hamas ha fornito un’ulteriore tessera che può far capire a Sullivan come stanno le cose: la sua ferocia ideologica contro i cittadini di Israele non ha mai fine, molto oltre il campo di battaglia, dentro le case. È apparsa ancora più ridicola la ciarlataneria di Mousa Abu Marzuk, uno dei “pragmatici” di Hamas, che ha detto che forse si potrebbe, in modo da rientrare nei ranghi militanti dell’OLP che l’ha riconosciuto, riconoscere Israele.

Due menzogne in una, la prima percepibile a prima: Hamas è nato per uccidere uno ad uno gli ebrei, è scritto nella sua Carta. In secondo luogo perché l’OLP alla fine non ha mai riconosciuto Israele. Hamas dopo quello che ha fatto il 7 di ottobre può piacere solo a chi vuole distruggere la civiltà occidentale e uccidere gli ebrei. Non a Biden. Il consigliere ha spiegato come gli USA siano vigorosamente al fianco di Israele in guerra e per gli ostaggi, ma si aspettano un rallentamento delle operazioni, chiedendo precisi “stadi” in discesa a partire dalla prima settimana di gennaio; e che ci si avvii come ha ripetuto specie ai giornalisti americani, verso un piano per il day after che al centro metta la PA di Abu Mazen. Questo, come prolusione a un recupero del disegno dei “due stati per due popoli”. Ma Hamas l’ha mandato a dire anche ieri: un declino programmato non fa fronte all’accanimento con cui, per esempio, da Gaza si sparano missili che danno la caccia ai cittadini di Gerusalemme. I lanciamissili, le riserve missilistiche, sono state preparate da Sinwar per una lunga guerra di posizione; il rallentare, darsi delle scadenze, cedere al ricatto onnipresente dell’uso dei cittadini come scudi umani è apprezzabile per il rispetto della gente di Gaza, ma non consente la conclusione della missione. L’insistenza americana porta risultati, come per esempio l’apertura del valico di Kerem Shalom per far entrare duecento camion di rifornimenti; crea più attenzione nel favorire l’evacuazione della gente, anche se Hamas seguita a impedirla. Ma i dieci soldati uccisi due giorni fa sono stati assaliti da dentro una scuola, i rinforzi di Hamas dalle gallerie che hanno eliminato i giovani corsi a salvarli… tutto è ancora Hamas.

Migliaia di giovanissime famiglie con vedove e bambini già popolano la scena israeliana, e il loro numero cresce; gli spedali lavorano a tempo pieno. E anche la scena mediatica lo è: la CNN presenta la testimonianza di un medico senza avvertire che quel medico è parte di Hamas, o ne è terrorizzato. Quanto al Fatah di Abu Mazen, cui, sia pure in versione “riabilitata” Sullivan guarda disegnandolo come un futuro partner, Hamas ormai nel Westr Bank lo schiaccia. Gli Israeliani in battaglia due giorni fa a Jenin hanno scoperto una quantità senza precedenti di armi pesanti e ha fatto 70 prigionieri sospetti di Hamas.

Secondo il Palestinian Center for Policy Survey and Research (PCPSR) 72 per cento dei palestinesi, di qua e di là, sono d’accordo con quello che Hamas ha fatto il 7 di ottobre, e fra questi, l’85 per cento nel West Bank; il supporto per Hamas è triplicato nella PA, gli attacchi terroristici dal 7 di ottobre hanno superato il migliaio. Il 90 per cento dei palestinesi che fanno capo a Ramallah chiedono le dimissioni di Abbas. Gli USA giocano quindi una partita molto rischiosa, la stessa che si è lasciato che Hamas giocasse fino alla trasformazione in belva. Si capisce che Biden debba giocare una carta pacifista adatta al suo elettorato a fronte di un’opinione pubblica di cui l’ONU cinicamente si fa portabandiera, quella della tregua a costo della vita di Israele. Israele certo non vuol perdere il rapporto con Biden, ma quante vite dei suoi soldati in una guerra rallentata questo può costare? E quanto alla fine, questo conviene agli USA stessi?      

 

Il consigliere di Netanyahu: "Il mondo non capisce, Israele lotta per sopravvivere"

venerdì 15 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 15 dicembre 2023

 

Mark Regev è consigliere del Primo Ministro per la politica internazionale e per la comunicazione, ex ambasciatore in Inghilterra, durante la guerra la voce in inglese più ascoltata nel dibattito sul 7 ottobre, la guerra, la moralità di Israele, e il rapporto coi palestinesi.

Ambasciatore, perché Israele è così solo? È un insuccesso che, dopo le atrocità subite, sui media si senta soprattutto la richiesta di rallentare, di decidere per una tregua quanto prima.

Il mondo forse ha una certa difficoltà a capire: è abituato al fatto che da 16 anni, dallo sgombero di Gaza, dopo gli attacchi di Hamas si sono viste varie risposte per bloccare i bombardamenti e gli attentati. Il 7 di ottobre ha cambiato completamente le norme del giuoco: Hamas ha messo in scena una dichiarazione di guerra totale, con una quantità e una qualità di atrocità che non richiedono di “restaurare la quiete” o di “pagare un prezzo”. Qui si tratta di una guerra di sopravvivenza, in cui Hamas deve sparire dalla scena.

“La guerra coinvolge due milioni di persone sul confine…”

Coinvolge dolorosamente anche tutta Israele. Ma quello che ha fatto Hamas il 7 di ottobre è di dimensioni maggiori del 9-11 a New York, la maggiore aggressione al popolo ebraico dopo il 1945: i modi, coi bambini nascosti in soffitta e poi macellati, le fucilazioni di massa, come ha detto Scholz, sono identici a quelli dei nazisti. Da Gaza, poi, ci hanno giurato guerra permanente: “lo faremo ancora ancora e ancora”. Si tratta di sopravvivenza, l’assassino abita nella porta accanto.

Perché avete deciso di mostrare solo a un pubblico ristretto il film degli orrori subiti? Avete un livello di empatia molto basso durante una guerra difficile, la memoria è breve.

La decisione deriva dal rispetto verso le famiglie, alcune ci hanno permesso di mostrare le immagini solo così, e poi vogliamo evitare ogni possibile manipolazione. Abbiamo cura dei nostri cari così straziati. È notevole che sia stata proprio Hamas a farne, filmando e buttando sui social i crimini, un motivo di perversa propaganda. A differenza persino dei nazisti che mantenevano il segreto, quando uccide e mutila i bambini, violenta e fa a pezzi le donne, vuole che tutti sappiano quanto ne sono fieri.

Perché la vostra guerra investe un grande numero di civili? Perché dai teleschermi si accusa Israele?

Noi agiamo solo per destrutturare Hamas che usa la popolazione civile come scudo umano. Pure fra le vittime circa 5000 sono terroristi uccisi nelle durissime battaglie in cui muoiono anche i nostri soldati. Quanto alla gente, non sapremo mai la verità: a Gaza se si intervista a un medico, un giornalista... ognuno, pena la vita, dice solo quello che Hamas impone. Anzi è significativo che finalmente qualche voce coraggiosa critichi la rovina che Hamas ha portato, distruzione, fame.

Biden è il grande amico di Israele ma chiede un miglioramento dell’impegno umanitario

I camion vanno a Gaza dalla prima mattina, senza limiti, gli avvisi alla gente e le indicazioni delle zone franche sono chiare. È Hamas che al contrario di noi che spingiamo la gente a sfuggire il rischio, la trattiene per preservare le gallerie e le strutture civili, dalle scuole agli ospedali, in cui si nascondono e sparano… Ma i pregiudizi contro di noi sono infiniti e hanno un custode molto importante, l’ONU. Persino Kofi Annan e Ban Ki-moon hanno riconosciuto che l’ONU fa una politica antisraeliana. Gutierrez ne è un campione. Le pare logico, sin dal primo inizio della guerra, chiedere un’interruzione? Dall’inizio non si è fatto problemi nel conservare il potere di Hamas.

Ambasciatore, manca la prospettiva, Israele non dovrebbe considerare l’insistenza di Biden sui rapporti con l’Autorità nazionale palestinese?

Come dice Netanyahu: c’è un tempo per la guerra e uno per la pace. Ora dobbiamo vincere. Hamas non può essere parte del futuro, né chiunque abbracci le stesse idee radicali. E’ un peccato che la PA in 70 giorni non abbia mai condannato le atrocità di Hamas, e che Abu Mazen seguiti a pagare gli stipendi ai terroristi. Noi vinceremo la guerra: io prego perché allora si facciano largo le forze moderate. Biden immagina anche un mondo palestinese “rivitalizzato”. Vediamo.

Israele piange i suoi eroi e giura di combattere fino alla vittoria

giovedì 14 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 14 dicembre 2023

Israele combatte con una mano legata dietro la schiena: tutti gli israeliani, di destra e di sinistra, dopo il 7 di ottobre, sentono di combattere una guerra di sopravvivenza. Vorrebbero che lo sentisse anche il vecchio amico americano, dall’inizio il più fedele, ma non è facile per Biden: l’opinione pubblica mondiale, e forse anche il suo elettorato, stanno dimenticando il senso del conflitto. Si dice spesso in guerra, come ha detto ieri Netanyahu, parlando con gli strumenti gracchianti dei soldati dentro Gaza: “Continueremo fino alla vittoria”. Ma ieri questa frase, ormai controversa fuori da Gerusalemme, ha suonato come una doppia promessa: la prima quella di non piegarsi di fronte a una guerra difficilissima, che ieri ha fatto altri dieci soldati, cinque della mitica unità Golani, uccisi in un giorno, fra cui due comandanti.

La seconda promessa, fronteggiare la vasta critica internazionale che sale dalle Nazioni Unite che, ignorando il pericolo vitale per Israele, in maggioranza hanno votato per il cessate il fuoco; e barcamenarsi di fronte alle ultime dichiarazioni di Joe Biden, che ha mandato martedì avvertimenti molto severi, parlando di “bombardamenti indiscriminati” e del rischio che “questo governo renda a Israele molto difficile muoversi”. Ieri tutta Israele stupefatta piangeva di fronte alla strage di Sujaya, dove una parte dei soldati procedendo in un vicolo è caduta in una trappola. Feriti da terroristi usciti da una galleria e edifici sono stati soccorsi dai compagni corsi eroicamente in loro aiuto: tutti sono caduti fra le trappole esplosive e i cecchini.

Israele discute mentre piange: si chiede perché il territorio in cui si sapeva che si dovevano cercare gli uomini di Sinwar, ancora molti nonostante gli arresti, e forse gli ostaggi (nel recupero di due corpi dei prigionieri due soldati hanno perso vita il giorno avanti) non era stato spianato per l’operazione. L’esercito ha addosso gli occhi di tutto il mondo mentre si batte su un terreno da cui spuntano i terroristi dalle gallerie e dagli edifici pubblici che Hamas ha fatto perché i cittadini diventino scudi umani. Hamas spara missili su Tel Aviv e Israele non ha il permesso di fermarli.  Tomer Grinberg, di 35 anni, solo qualche giorno fa nell’ultima intervista raccontava di come aveva salvato due bambini piccoli, fra gli altri, in un’eroica impresa di scontro personale coi terroristi nei kibbutz: “Li ho portati fuori dicendogli di appoggiarmi il viso sulle spalle per non vedere l’orrore, e mi hanno sorriso attraversando la strage. Ho pensato alla mia bambina, e sono dentro Gaza per difenderla”.

Biden ha due punti centrali che deve presentare agli elettori ormai molto preoccupati dalla sofferenza dei palestinesi dentro Gaza: Hamas deve essere eliminato, spiega, ma vuole che “Bibi” come lo chiama, si impegni nell’aiuto umanitario e coinvolga meno i civili. Israele ci prova con i corridoi e le tregue umanitarie, i camion di aiuti gli avvertimenti prima delle bombe e le zone di rifugio. Ma Biden vuole garanzie storiche sullo scopo finale della scelta americana: riaprire la strada tramite il restauro della PA alla soluzione dei “due Stati per due popoli”. Bibi è duro su questo, non intende impegnarsi su chi sostiene il terrorismo e non ha mai riconosciuto lo Stato d’Israele. Biden forse corre troppo. Meglio per ora sperare in una compartecipazione del mondo arabo che ha scelto la pace con Israele. Forse così la sceglieranno anche i palestinesi di Abu Mazen. 

 

L'ultimatum degli Usa a Netanyahu

mercoledì 13 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 13 dicembre 2023

Biden con mossa subitanea e forse legata all’ambiente di votanti democratici, quello dell’assemblea sul clima, ha detto a Netanyahu due cose finora rimaste sottintese: la prima che Bibi deve cambiare strada nel delineare l’uscita dalla guerra, mostrandosi più aperto verso l’Autorità nazionale palestinese; e poi, diretto al limite dell’intromissione, ha chiesto a Netanyahu di modificare il suo governo, il suo è troppo di destra, ha detto, per avere la legittimazione necessaria a una guerra tanto difficile. Domattina però Biden, che ci tiene a Israele e lo ripete sempre, incontrerà le famiglie dei rapiti, che in Israele sono in marcia verso la Knesset.

La situazione è ancora più drammatica, i corpi di due ostaggi Eden Zakaria uccisa alla festa da ballo, 27 anni, e Ziv Dado, un ufficiale di 36 anni sono stati recuperati al costo della vita, qualche giorno fa, di due soldati, Gal Eisenkot figlio del membro del gabinetto Gadi, e Meir Eyal Berky. La liberazione, vivi o morti, dei rapiti è una stella polare della guerra. Le sofferenze dell’inferno sono l’unico paragone possibile per le famiglie che ieri di nuovo hanno marciato sull’autostrada da Tel Aviv a Gerusalemme. Non si capisce ormai come tirino avanti le vecchie madri, le mogli sole coi bambini, i mariti, i fratelli alla 12esima settimana, stupefatti da una solitudine vuota di notizie e carica, da parte di ognuno dei cento ostaggi liberati, di notizie sempre più atroci; stravolti, smagriti, senza altro appetito e sogno che quello di riunirsi ai propri amati, ascoltano le notizie agghiaccianti i reduci.

Ci sono ancora 137 persone in mano di Hamas, fra cui anche la mamma e i bambini Bibas, su cui Israele non si vuole arrendere. “La cattività è una roulette russa” ha detto Sharon Alony Cunio 34 anni, rapita e tornata con le sue due gemelle Emma e Julie di tre anni, mentre il marito David è ancora nelle mani degli aguzzini. Ha parlato in un’intervista alla Reuters che ha bucato i teleschermi e i cuori di tutta Israele: “Là sotto non hai idea se pensano di tenerti in vita o di ammazzarti domattina”. Sharon ha raccontato come l’abbiano separata da una delle due bambine per dieci giorni, lasciandola con l’altra, ignara della sua sorte in un sotterraneo buio senza aria, quasi senza cibo, senza gabinetto, e costringendola tutto il tempo a zittire la piccolina.

È stato d’un tratto che la porta si è aperta per buttarle nelle braccia anche Emma; da allora sono rimaste tutti in una stanza in 12, a dividersi pochissimo cibo: “Tutti ne davano un po' per le bambine -ha detto- tenevamo un quarto di pita per il giorno dopo, ogni tanto qualche dattero e del formaggio”. L’aria poteva entrare solo quando l’elettricità veniva tagliata, aprendo un po' la porta. I bambini potevano solo sussurrare. I medici e gli assistenti psicologici che hanno parlato con le donne tornate raccontano terribili violenze di ogni tipo. Ma Sharon è cauta, David è ancora nelle loro mani: “L’amore della mia vita, le bambine chiedono di continuo dov’è papà”.

Il governo e l’esercito seguitano a mettere i rapiti al primo posto, diversi soldati hanno perso la vita avventurandosi nelle gallerie per gli ostaggi. Di ieri la notizia che si sarebbe riaperta una porta per lo scambio, stavolta con la mediazione del Qatar e dell’Egitto, e si discute della liberazione oltre che di donne e bambini anche di vecchi e malati. I soldati e le soldatesse restano un jolly nelle mani di Sinwar. Si dice che stavolta sia in ballo anche il rilascio di terroristi duri come Marwan Bargouti, cinque ergastoli, visto come il possibile nuovo leader dell’Autorità nazionale palestinese. Che cosa occorre perché gli scambi possano riprendere? Sinwar, dopo la dichiarazione di Biden di ieri, certo ora si sente più sicuro di sé. Sinwar dovrebbe vedere per cedere l’eliminazione dei suoi luogotenenti, come Deif, e non solo la cattura dei suoi scherani e la sofferenza del suo popolo, che anzi lui promuove in tutti i modi perché gli crea visibilità e consenso.

Semmai, cambierebbe le cose una ribellione più marcata della gente di Gaza, che già lo accusa di aver distrutto la Striscia, ma ancora non lo contesta abbastanza. La verità è che sia la sofferenza dei prigionieri di Hamas, che quella della gente di Gaza è frutto sia della pazzesca crudeltà e senso di onnipotenza di Sinwar, come anche delle piazze impazzite che in Europa e in America hanno preso la sua parte. Di questo Sinwar si fa scudo, del fatto che ci sono grandi folle pronte a scambiare l’aggressione antisemita e antioccidentale di Hamas per difesa anticoloniale e antimperialista. Insomma a favore degli oppressi contro gli oppressori. Basta studiare un po' per capire che è un imbroglio. Fu l’antisemitismo a distruggere l’Europa, tutta quanta, e anche quello era un imbroglio.     

 

Per il dopoguerra una Commissione e opzioni contrastanti

martedì 12 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 12 dicembre 2023

C’è molto lavoro, il tempo è poco, gli attori sono tanti, e Israele ha tutto l’interesse a costruire uno scenario sul futuro di Gaza senza Hamas: per questo ha costruito una commissione che disegni un futuro strategico per la Striscia. Gli alleati americani lo richiedono proponendo soluzioni che per ora non combaciano con quelle di Israele. Jake Sullivan è in arrivo nel fine settimana in una situazione ancora molto movimentata, in cui l’unica cosa sicura è che gli USA insisteranno sui tempi e la risposta non esiste. Per vincere e cancellare Hamas, Israele deve ancora combattere.

Quindi, cercherà di aprire un discorso su come trovare una strada che non deluda il migliore amico: gli Stati Uniti, sostenitore numero uno di Israele hanno appena posto il loro veto alla richiesta dell’ONU di fermare lo scontro, richiedono con urgenza, oltre agli aiuti umanitari alla popolazione, di vedere un orizzonte politico, di avere le idee più chiare sullo sbocco strategico della guerra, e la loro richiesta è quella di un eventuale ritorno dell’Autorità Palestinese, come primo passo per tornare alla vecchia soluzione magica dei due stati per due popoli.

Questo si cercò di fare nel 2006 quando, dopo lo sgombero di Israele, invece Hamas fucilò, linciò, buttò giù dai tetti gli uomini di Fatah e poi creò dentro Gaza lo staterello autoritario e fanatico che con l’aiuto del Qatar è diventata quella follia terroristica che ha portato al 7 di ottobre. Sia Biden che Kamala Harris hanno ripetuto che si dovrebbe trattare di un’Autorità nazionale palestinese cambiata, non corrotta né pervaso di rifiuto antisraeliano come oggi, che non paghi gli stipendi ai terroristi in carcere come invece fa. D’altra parte Netanyahu non ci crede, dice che comunque occorre mantenere una presenza di sicurezza in Gaza: non si tratta spiega di occupazione, ma l’odio palestinese è ormai ideologico e forte anche nell’West bank, dove Hamas è maggioritario. Dunque la commissione dovrebbe indicare in concreto dove cercare una strada dopo la fine di Hamas. Al momento ne fanno parte i due ministri più senior, Tzachi Hanegbi, consigliere per la sicurezza nazionale e Ron Dermer il ministro per gli affari strategici, oltre ai servizi di sicurezza, l’esercito, e anche l’ambasciatore negli USA Mike Herzog, fratello del Presidente Isaac.

Hanegbi e Dermer sono personaggi fra i più stimati di cui il governo israeliano disponga: intellettuali moderati e liberali, Dermer reduce da un periodo in cui, a sua volta ambasciatore negli USA, è stato protagonista del successo dei Patti d’Abramo. I due sembrano disegnati per dare una chance a una gestione che inglobi i Sauditi, gli Emirati, gli Egiziani, i Giordani, ovvero gli arabi moderati, in una coalizione che potrebbe anche allora, includere i palestinesi riformati. Ma la politica è spesso ottimista: Biden sa che dall’West Bank dal 7 ottobre sono piovuti su Israele 1300 attacchi terroristici, l’83 per cento nell’Autonomia tiene per Hamas, e mai Abu Mazen ha condannato le atrocità del 7 ottobre.

Ancora ieri il centro di Israele è stato bombardato da Hamas, ieri si è raggiunto con altri sette uccisi il numero di 104 caduti; ancora da Beit Hanun a Khan Yunis, i territori su cui si avventurano i soldati, le gallerie e gli edifici pubblici e privati sono ancora bombe a tempo, depositi di armi e nascondigli da cui i gruppi armati sorprendono Israele. C’è ancora tempo per la pace. Ma un buon segnale l’ha dato, interrogato dalla polizia l’ex ministro di Sinwar Yousef al Mansi che ha chiamato il suo capo “un pazzo, un illuso, un eretico” che “ha ottenuto solo la distruzione del 60 per cento di Gaza, edifici, infrastrutture, strade, edifici pubblici”. Le sue atrocità, ha detto, sono “l’opposto dell’Islam”.

 

Putin chiama Netanyahu. Scontro al telefono

lunedì 11 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 11 dicembre 2023

Se doveva essere una conferma del suo splendore internazionale come statista ricandidato alla presidenza russa, a fronte dell’importanza di Biden in uno degli agoni più infuocati del mondo, non gli è andata bene. La telefonata di ieri di Putin a Benjamin Netanyahu l’ha collocato definitivamente dalla parte della mappa dove troviamo con lui Iran, Hamas, Hezbollah, Houti, Assad di Siria e qualcun altro. Anzi, in parallelo con lo stesso colloquio telefonico di ieri durato cinquanta minuti per rispondere al quale Bibi è uscito alla riunione di Gabinetto, ha chiarito le cose una dichiarazione di rinforzo di Sergei Lavrov: nel mezzo del repertorio antisraeliano classico usato anche dall’ONU (“l’attacco non è avvenuto nel vuoto” ha detto proprio come Gutierrez) dichiarava inaccettabile la “punizione collettiva” dei civili palestinesi.

Gli è del tutto accettabile invece quella dei cittadini di Kiev e di tutta l’Ucraina, e anche quella, nel passato, dei cittadini ceceni. Solo che nel caso della Russia non si tratta di guerre di difesa, ma di aggressioni di conquista. La conversazione fra i due leader è andata male, un confronto fra nemici. Netanyahu ha criticato l’alleanza della Russia con l’Iran, gli ha espresso il suo scontento sull’ atteggiamento circa la guerra con Hamas. È dal 7 di ottobre che la Russia sta di fatto dalla parte dei terroristi che non chiama con questo nome, non li condanna ufficialmente, ospita a Mosca i leader di Hamas e spinge avanti senza sosta i rapporti con l’Iran. È divenuto dal 7 di ottobre il leader di riferimento, al di fuori del mondo islamico, per gli amici di Hamas.

Poco dopo le atrocità sui kibbutz, il 26 di ottobre, in Russia ebbe luogo una riunione strategica fra il capo delle relazioni internazionali di Hamas, Mousa Abu Marzuk, Michael Bogdanov, braccio destro di Putin per il Medio Oriente e il viceministro degli esteri iraniano Alì Bagheri Kani. Pochi giorni fa, il 7 dicembre, al Cremlino si è svolto un incontro fra Putin e Ibrahim Raisi, il presidente iraniano: si tratta di un’altra tappa nell’alleanza del fronte antisraeliano e antiamericano, in cui Putin ha lodato il contributo iraniano alla guerra contro gli Ucraini. Sono giorni in cui gli Houti dallo Yemen usano missili balistici iraniani in lanci su Eilat, 1700 chilometri più in là, sul territorio israeliano, e gli Hezbollah tengono accesa la possibilità di una guerra col Libano. Tutte queste entità terroriste sono agli ordini dell’Iran, e la Russia è il migliore amico occidentale, o in parte occidentale, degli ayatollah.

Putin ha cercato ieri un’esposizione nello scontro mediorientale telefonando a Netanyahu: il primo ministro israeliano non è in un periodo adatto al sorriso, ma avrà trovata ironica la denuncia della “catastrofica situazione umanitaria della Striscia di Gaza” da chi ha aggredito l’Ucraina. Putin ha telefonato anche perché ci tiene a evitare l’accusa di antisemitismo, e perché contava sul fatto che Netanyahu è stato sempre cauto nel rompere con Mosca, a causa della sua presenza armata dai confini siriani. Questo ha portato, nonostante la grande simpatia politica e popolare di Israele per l’Ucraina sostanziata da molto aiuto umanitario e da attrezzature non aggressive per evitare lo scontro diretto con Putin, all’attuale presa di coscienza della Russia come inevitabile nemico. C’è poco da fare, il dna della storia, per cui l’URSS costruì per prima la menzogna di un’Israele coloniale, razzista, imperialista, alleata degli USA contro il Terzo Mondo, non tramonta in un giorno.

Di recente la liberazione diretta, senza trattativa, di tre ostaggi di origine russa (due però sono state messe poi da Hamas sul conto di Israele) è avvenuta per intervento diretto di Putin: Netanyahu ha detto grazie, sapendo però che questo significa intimità coi terroristi. 

 

Il "contesto" foglia di fico antisemita

domenica 10 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 10 dicembre 2023

Ormai tutto il mondo sa, non importa se poi ovviamente le geniali professoresse che dirigono Harvard, Mitt e Penn hanno fatto un passo indietro: per le Università più chic d’America “invocare il genocidio degli ebrei” non è in sé contrario al codice di condotta dei loro atenei, nei cui campus gli slogan “From the river to the sea” risuonano in variazioni fantasiose e tutte nazi-Hamas. Se lo si debba invocare o no, “dipende dal contesto”. Risposta molto interessante specie se data davanti alla Camera americana durante un’inchiesta sull’antisemitismo.

Ormai la quotidiana dose di urla, violenze, le prese di posizioni e aggressioni fisiche antisemite (sul cui sfondo ormai per il 50 per cento dei giovani fra i 18 e i 25 anni negli USA la Shoah è un mito e in Inghilterra solo l’11 per cento dei giovani fra i 18 e i 24 anni tengono per Israele e gli altri per Hamas)  la verifichiamo ogni giorno senza stupore, l’antisemitismo è di nuovo fra noi sotto forma di odio per Israele, sulla base della ricostruzione fasulla della sua storia e sul suo comportamento e del negazionismo sulla strage del 7 di ottobre. Ma addirittura lo sterminio degli ebrei si giustifica col “contesto”? Quale contesto? Le nostre intellettuali non usano le parole a caso. La cornice è quello che conta: innanzitutto il “contesto” del denaro, per cui la loro istituzione, il loro campus è finanziato a centinaia di milioni di dollari, e bisogna sempre difendere l’istituzione; la retta è solo per chi può, essere antisemiti qui è diverso da esserlo in una miserabile banlieue.

Qui i giovani musulmani che si mescolano alla sinistra giovanile sono, in un “contesto” di cultura giovanile che le presidi devono considerare nell’ambito della “libertà di opinione”. E di che si tratta? Innanzitutto, della rabbia furiosa che ormai è considerata legittima, quella degli “oppressi” contro gli “oppressori”. Una furia fisica di cui vedremo espressioni sempre più gravi; una arrabbiatura teorizzata, che ha già portato a parecchie aggressioni e distruzioni, come quelle di black lives matter; si costruisce, in questo contesto, la tua ragione di odiare, aggredire, distruggere perché la società è costruita solo per i cattivi, gli sfruttatori, gli oppressori, i colonialisti.

Gli oppressi hanno il dovere di infuriarsi. Come disse Borrell? La strage non avviene in un vuoto. Ha le sue ragioni. La rabbia è contro il razzismo, contro il colonialismo, contro coloro che hanno distrutto l’ambiente, contro i maschi, contro l’occupazione; non importa se i violentatori, gli odiatori dei gay, i dittatori, i razzisti sono dall’altra parte. Gli ebrei sono al top del “contesto” woke desiderato. In più, il “contesto” della tradizione genocida antisemita dai tempi dell’antico Egitto non ti tradisce: prima contro la religione, poi contro la razza, ora contro lo Stato. Giustifica perfino lo stupro omicida a centinaia. Il contesto per gli ebrei non manca mai.   

 

I tunnel e la guerra asimmetrica. Gerusalemme ha bisogno di più tempo

sabato 9 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 09 dicembre 2023

Israele non ha intenzione di tagliare corto la guerra lasciando in vita Hamas. Sinwar conta sulla crescita della tensione internazionale contro Israele, ben esemplificata dal comportamento dell’ONU, ma non è detto che funzioni. Gli USA, migliori amici di Israele, ne hanno anche sempre ricevuto dei severi “no” ogni volta che cercando l’appeasement col mondo arabo hanno cercato di fermarlo. Ma fra Reagan and Begin, fra Rabin e Gerald Ford, fra Shamir e Bush, fra Golda e Nixon, fra Obama e Bibi, le differenze di opinioni hanno spesso portato a fratture, poi tuttavia ricomposte.

Per ora gli USA identificano il loro interesse con quello di Israele, ma chiedono di accelerare la conclusione e di ammorbidire l’attacco in modo da risparmiare la popolazione civile. Ma la richiesta non tiene contro del livello a cui Hamas ha portato la guerra asimmetrica, con l’uso di tutte le strutture civili nessuna esclusa. Una tregua è proibitiva a meno di qualche straordinaria novità sui rapiti, come uno scambio drammatico, che per ora Hamas però non mette sul tappeto. Ieri invece Hamas ha sparato una gran raffica di missili fino a Tel Aviv, e ancora Sinwar non esce con le mani alzate. I suoi uomini però si sono arresi a centinaia, la sua casa è stata distrutta a Khan Yunis. Nella battaglia ogni casa, scuola, moschea si dimostrano alla cattura un deposito d’armi. Non c’è edificio nel centro aristocratico e nelle strade popolari di Khan Yunis in cui gli appartamenti non si siano mostrati nella natura di copertura della guerra maniacale e feroce di Hamas. La guerra è galleria a galleria; ieri un altro rapito, Eitan Levy, è stato dichiarato caduto dentro Gaza, mentre si seguitano a perdere militari che combattono sul quel terreno impossibile pieno di volenterosi aiutanti di Hamas, come il direttore dell’ospedale Shifa, arrestato, e un professore di scuola dell’UNRWA che era il custode di uno dei bambini rapiti. E’ difficile razionalizzare, se non per motivi di opportunismo, che il mondo voglia tagliare corto con la conseguenza di mantenere in vita un’organizzazione pericolosa per il mondo intero.

Gli Stati Uniti di Biden nonostante si oppongano alle richieste internazionale di una tregua, vellicano l’elettorato e l’opinione pacifista internazionale con esclamazioni che però non contengono una dead line. L’ha confermato Jon Finer, membro del Consiglio di Sicurezza del Governo al foro dell’Aspen a Washington: “Francamente -ha detto- se la guerra si fermasse oggi, Hamas seguiterebbe a essere una minaccia, e questa è la ragione per cui non chiediamo di forzare un cessate il fuoco”. Per contenere l’opinione pubblica, gli USA chiedono e ottengono da Israele di fornire più “aiuti umanitari”, anche se la benzina, ad esempio, certo finisce nelle mani di Hamas. Inoltre Biden chiede in cambio del sostegno una promessa ad associare l’Autonomia Palestinese di Abu Mazen al futuro di Gaza. E’ difficile accettare questa prospettiva mentre l’AP tiene per Hamas all’80 per cento e seguita a pagare gli stipendi in carcere ai terroristi. Netanyahu non ha tuttavia disegnato nessuna prospettiva per il futuro di Gaza, sembra ancora troppo preso dalla difficoltà della battaglia, aumentata dalla questione degli ostaggi e anche delle decine di migliaia di sfollati.

Israele sa di non potere concludere le operazioni belliche altro che con la sconfitta di Hamas, che ogni altra decisione sarebbe una condanna a morte, e che per farlo combatte una guerra fra le più difficili.  Vedere piangere Gadi Eizenkot, membro del Gabinetto, ex Capo di Stato Maggiore amato da tutta Israele, mentre seppelliva suo figlio Gal e gli prometteva di combattere fino in fondo questa guerra giusta per essere degno di lui, ha segnato ancora una volta la difficoltà psicologica e anche strategica in cui si svolge questa guerra: nessuno è più solo di chi seppellisce un figlio, e ormai Israele ne ha seppelliti quasi cento in queste battaglie. Gal è caduto nel modo più temuto e più classico: un attacco con spari e esplosioni da una galleria. Una delle mille primitive selvagge gallerie che come una rete di odio connettono tutti i punti di Gaza. L’esercito avanza dentro le basi dove si nascondono i terroristi, verso la caverna dove è rintanato Sinwar, cercando le grotte in cui sono rinchiusi gli ostaggi. Un mezzo veloce per farlo, non è stato scoperto checchè ne dica il mondo.

 

Gli assassini in ginocchio, il figlio del ministro caduto: ma Israele ancora si chiede perché tanto antisemitismo

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Il Giornale, 08 dicembre 2023

Due mesi, 62 giorni di guerra, giovani medici, autisti, avvocati ora tutti in divisa che non hanno più rivisto la famiglia dal 7 di ottobre, 186 ostaggi ancora in mano di Hamas, anche ieri 3 soldati uccisi fra cui il figlio venticinquenne di un membro del gabinetto, Gabi Eisenkot, e finalmente lo spettacolo di uomini in fila, un gruppo che si è consegnato ieri, una schiera che era probabilmente parte della “nukba”, la banda di assassini, ed eccoli con le mani legate proprio a Khan Yunes dove Sinwar si nasconde sotto terra. La voce internazionale spinge Israele fuori da Gaza, fa sentire il suo desiderio di tornare all’illusione di una tregua; ma dall’altra parte, nello Stato d’Israele, è sempre più forte la determinazione a vincere, in una situazione di necessità e con uno spirito di unità sconosciuto da anni in questo Paese dove si scontrano sempre laici e religiosi, ashkenaziti e sefarditi.

I prati intorno ai kibbutz del sud ricominciano a mostrare qualche colore sotto il nero e il grigio del fuoco dei terroristi. Qualche abitante ieri frugava a Be’eri fra le masserizie distrutte per recuperare il Lego che il figlio aspetta all’Hotel sul Mar Morto. Due mesi e due domande fondamentali occupano l’orizzonte. Quel giorno il sole illuminava i kibbutz del sud fiore del movimento ecologico e democratico sul bordo di Gaza, e alle 6,30 sono arrivati i pickup bianchi e le motociclette da Gaza. Qui è la prima domanda. Gli zombie con una folla di aiutanti, infilatisi dietro di loro dalle reti e dalle mura sfondate, hanno ucciso, fatto a pezzi, bruciato, violentato oltre ogni misura dell’immaginabile. I bambini sono stati uno degli obiettivi favoriti, e anche le ragazze e i ragazzi che ballavano a una festa trans là vicino. La strage programmata, filmata dai terroristi stessi, disegnata con i suoi orrori senza precedenti da ordini precisi ritrovati scritti o confessati dai prigionieri, rende faticoso chiamare solo terroristi gli uomini di Sinwar, perché Hamas è al di là dell’Isis o di Al Qaeda: si è trattato di più di esseri provenienti da un mondo sconosciuto, e questa è stata la prima sorpresa accompagnata dalla mancanza di qualsiasi allarme. Ancora tutti si chiedono come mai siano stati ignorato i segnali che pure erano chiari, numerosi, persino presentati a chi poteva decidere di agire.

Come si è potuto ignorare una tempesta di odio senza confini ben armata, organizzata, programmata nei particolari con molteplici incontri internazionali? Eppure è accaduto, e a differenza della guerra del Kippur quando Kissinger chiese a Golda Meir di non avviare il reclutamento delle riserve per non contrariare gli arabi, stavolta la spinta è stata interiore, la fiducia presuntuosa nel “queta non movere”, fidando nella propria forza di dissuasione. La seconda domanda è altrettanto spaventosa: come è potuto succedere che invece di affiancare Israele nella lotta ai mostri che urlavano Yehud uccidendo, memori di ciò che gli ebrei hanno dovuto subire a causa dell’antisemitismo, si sia invece generata quasi subito un’ondata di odio antisemita senza precedenti nel dopoguerra?

 Proprio ieri un’indagine dell’Wall Street Journal verificava che gli studenti che urlano “From the river to the sea Palestine will be free”, ovvero un genocidio spazzerà via Israele dal Giordano al Mediterraneo, solo il 47 per cento sanno fra che mare a che fiume gli ebrei dovrebbero sparire: qualcuno provava a dire il Nilo o l’Eufrate, i Caraibi, il Mar Morto, l’Oceano Atlantico… insomma il significato unico era la sparizione degli ebrei, un genocidio compiuto dai palestinesi, o da qualcun altro. Questo odio pregiudiziale è frutto dell’incontro fra la nuova presenza islamica in Occidente e il movimento figlio della Guerra Fredda oggi detto intersezionale, che fa di Israele uno stato imperialista e coloniale, un oppressore.

Quando a centinaia, le donne israeliane sono state sottoposte alla peggiore forma di violenza, lo stupro, seguita spesso dall’omicidio, le organizzazioni internazionali e i gruppi femministi hanno seguitato a discriminarne la verità e le testimonianze e persino l’immagine: l’hashtag “#MeToo if I am not a jew”, #MeToo se non sei ebrea. Una forma estrema di antisemitismo, come quella di tre presidenti delle più eleganti università americane, membri delle Ivy league, richieste a un’audizione del Congresso se fosse legittimo nelle manifestazioni chiedere il genocidio degli ebrei, hanno risposto: “Dipende dal contesto”. È un odio antisemita; è quello per cui Hamas grida “Jehud Jehud” uccidendo. È successo. Può succedere ancora. La guerra di Israele e degli ebrei dal 7 di ottobre è guerra dura. 

 

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