La guerra antisemita contro l'Occidente
7 ottobre 2023 Israele brucia
Informazione Corretta, il nuovo video di Fiamma Nirenstein
venerdì 16 febbraio 2024
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Cari amici,
cliccando qui potrete vedere la presentazione del mio nuovo libro 7 ottobre 2023 Israele brucia registrato da Radio Radicale a Roma mercoledì 14 febbraio 2024. Dibattito organizzato da Fondazione MAXXI.
Sono intervenuti: Francesco Giubilei (direttore editoriale di Historia Edizioni e direttore della Giubilei Regnani Editori), Giuliano Ferrara (giornalista, fondatore de Il Foglio), Paolo Mieli (giornalista, storico, già direttore del Corriere della Sera), Noemi Di Segni (presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane).
Cliccando qui potrete vedere delle fotografie della presentazione pubblicate da Formiche.it.
mercoledì 14 febbraio 2024
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Il Giornale, 12 febbraio 2024
È tempo di smettere di giocherellare e di prendere responsabilità. Siamo di fronte a un'ondata di antisemitismo catastrofico, simile a quella degli anni Trenta, segnale di sfascio della società dei diritti umani: crea violenza contro persone di ogni età e condizione, contro i beni e il lavoro, distrugge la scuola e la cultura, impone un totalitarismo del pregiudizio che si trasforma in paura, dittatura. A Firenze Marco Carrai, coraggioso console onorario di Israele, presidente dell'ospedale dei bambini Meyer, viene perseguitato con manifestazioni e urla accusandolo di non aver speso una parola «sul massacro dei bambini in corso a Gaza» e con la persecuzione fisica. Persino due molotov al consolato.
Del resto secondo il Cdec nel 2023 si sono avuti 454 episodi contro i 241 del 2022. Israele è il nuovo deposito dell'odio. Netanyahu ieri sul Corriere era dipinto da Elly Shlein come il feroce progettatore di una «nuova ecatombe», Rafah per tutti non è un obiettivo strategico indispensabile, ma una fissazione violenta. L'era dell'avvento dell'Iran e di Hamas produce un rombo sordo: non è possibile che durante il Festival un cantante, Ghali, si prenda la libertà di dare del «genocida» a Israele, costretto per pura autodifesa a combattere la guerra più difficile. E che il padrone di casa, l'affabile Amadeus, non senta il bisogno di scusarsi. Vorrei spiegargli che equivoco è quello cui ha consentito di apparire senso comune alla menzogna antisraeliana. Non c'è Bella ciao qui, è una guerra nuova nata da 13mila missili sulla gente di Israele, stupri di donne e bambini, mutilazioni. Solo Hamas ne è responsabile. Gaza era nelle sue mani da 16 anni, e ne ha fatto una macchina di distruzione. Questa è la guerra più difficile mai combattuta: si combatte su 800 chilometri di gallerie contro un gruppo nazista che ha tagliato la testa ai neonati, violentato e smembrato 1.400 innocenti e rapito 360. Hamas ha 30mila guerrieri, oggi decimati ma senza segni distintivi (Israele ha la divisa e segue le norme internazionali), ha organizzato dentro le strutture civili depositi e fabbriche d'armi, tutta la popolazione è il suo scudo umano. Hamas ruba il rifornimento umanitario alla gente; nasconde i rapiti nei tunnel per difendere Sinwar.
Israele è sfollata dai suoi kibbutz, le famiglie sono private dei loro cari rapiti o uccisi, i soldati combattono dal 7 ottobre, ma a chi importa nulla? Sono ebrei. Secondo fonti di Hamas, programmi radiofonici e tv ci ripetono che una bambina che chiedeva aiuto adesso è morta sotto le rovine. Sarebbe tristissimo se fosse vero. Forse lo è. Ma non si sa: così urlata, la vicenda diventa una leggenda del sangue, la sete di sangue degli ebrei, quella antica del sangue infantile nelle azzime. Di quanti bimbi sono stati uccisi in braccio alla loro mamma e poi mutilati da Hamas, verità certificate, non si chiede mai. La prego, chieda scusa Amadeus, sono certa che lo vuole fare.
Come chiede il ministro degli Esteri israeliano Katz, l'Onu smetta di mantenere una funzionaria innamorata dell'immagine costruita negli anni, la solita Francesca Albanese. A Macron, che ha indicato il 7 ottobre come il giorno della maggiore strage antisemita, fa sapere che è dovuta all'oppressione di Israele. Che miserabile cinismo oppure ignoranza. Per lei Israele perseguita, opprime, uccide, occupa, aggredisce, il suo furore espansivo è un dogma palese, niente conta la storia dei rifiuti palestinesi continui dal 1948, niente la catena di decine di migliaia di vittime di un terrorismo messianico. Che ne sa la funzionaria dell'Onu? Adesso qualcuno deve capire, anche da quelle parti, dopo uscite del genere che il rischio è mondiale, proprio come al tempo di Hitler. Non lo aveva capito nessuno, nemmeno allora.
Il Giornale, 08 febbraio 2024
No, la proposta odierna di Hamas di cessare di combattere non può essere accettata da Israele. Netanyahu ha risposto con estrema determinazione e lo ha fatto con una dichiarazione strategica: la scelta di Israele, sulla base dei risultati positivi in guerra, dell’eroismo dei soldati, la costruzione di una Gaza liberata da Hamas è una base per la pace dell’area; con l’avanzare dell’esercito Israele vuole disegnare una vittoria definitiva, decisa, che sia di tutto il mondo democratico contro la rete terroristica internazionale pericolosa per tutti, ha detto il Primo Ministro israeliano. Ha ripetuto anche con passione la decisione di continuare a cercare un modo di liberare gli ostaggi. Qui si legge anche la volontà di venire incontro agli Stati Uniti e al mondo che desidera vedere una conclusione del conflitto a Gaza. Dall’altra Netanyahu ha alluso alla possibilità di concludere la guerra in tempi non lunghissimi.
L’esercito infatti scoperchia in queste ore le gallerie dove, in un frettoloso spostamento, Sinwar ha lasciato decine di milioni di dollari e le tracce fresche sue e di dodici ostaggi. SI vede che fugge, e Gaza è distrutta, le sue milizie sono dimezzate. È un momento complicato, con un doppio messaggio: Hamas fugge fra le rovine, ma d’altra parte lancia proposte complicate e definite da parte non di Doha, né di Haniyeh, ma di un uomo solo: Sinwar, che riesce ancora a consegnarle a Parigi e al Cairo in risposta a Israele e agli USA. Netanyahu potrà dichiarerà la fine della guerra solo battendo lo stratega del “Peggiore evento di antisemitismo dalla fine della guerra” come ha detto ieri Macron. La proposta di Hamas è una sfida, lo stop alla guerra, spiega Netanyahu “porterà alla prossima strage”. Ma i tempi e i numeri sono, così appare, ancora sotto esame da parte di Israele e di tutti gli interessati: quattro mesi e mezzo di tregua con la liberazione degli ostaggi in tre fasi in cambio di 1500 prigionieri. Ma della richiesta impossibile, la conclusione della guerra, anche Biden ha detto che la proposta è “esagerata” mentre resta “positivo”. Per Israele, gli “ufficiali” ripetono che si tratta di una proposta “non starter”, tuttavia, si seguita a esaminare il testo “attentamente”, “con intensità”. Blinken, in Israele per la sesta volta, incontra da Netanyahu, Herzog, ai capi dell’esercito e dei servizi per cercare una strada perché il disperato tentativo dei parenti dei 136 rapiti (di cui si dice che solo 85 sarebbero in vita ormai) sia soddisfatto. Kirby il portavoce di Biden, ha indicato nell’Arabia Saudita il garante possibile per il domani, e pensa che questo può portare Israele a un dialogo con la PA e a un seguito dei Patti di Abramo. Il Qatar certo vorrebbe costringere Sinwar ad accettare uno scambio, questo esalterebbe la sua influenza. Netanyahu adesso è stretto fra la richiesta internazionale di uno stop anche se non definitivo, e il disegno indispensabile di eliminare Hamas.
Se Israele dovesse ritirarsi per sempre dallo scontro di Gaza, lasciando il terreno, andrebbe contro la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, creerebbe l’impossibilità per chi abita sui confini di Gaza di tornare alle proprie città in condizioni di sicurezza. Ma il governo israeliano ha certamente al primo posto la necessità di mantenere il suo rapporto indispensabile con gli USA. La proposta che Sinwar ha fatto avere ai suoi rappresentanti dal profondo delle gallerie di Khan Yunis è zeppa di richieste che Israele non potrebbe mai accogliere, come il controllo della Moschea di Al Aqsa, uno dei temi più vecchi della contestazione islamista, già calda del fatto che il 21 marzo è Ramadan. Inoltre, Hamas chiede, fra i 1500 suoi prescelti in carcere, la liberazione di 500 assassini pericolosi. Hamas chiede 45 giorni per 45 prigionieri, più altri giorni di intervallo, libertà di movimento a Gaza, ulteriore aiuto umanitario un dilemma per Israele che sa che il 70 per cento dei camion finisce in mano a Hamas; 60mila roulotte e tende da dare alla popolazione ormai accumulatasi al sud cui si dovrebbe garantire libertà di movimento. Russia, Turchia, le Nazioni Unite, forse anche gli USA (dice Al Jazeera) dovrebbero garantire la realizzazione dell’accordo. Tutte follie grandiose di un capo terrorista in declino. Blinken è certo invece concentrato sui temi toccati dal PM israeliano, il rischio per Rafiah sul delicato confine egiziano, la continua rapina degli aiuti umanitari da parte di Hamas, e cerca quello che si può ritagliare di positivo dopo il discorso di Netanyahu.
mercoledì 7 febbraio 2024
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Il Giornale, 07 febbraio 2024
Fiamma Nirenstein racconta i fatti e il contesto internazionale dell’attacco a Israele
Cosa è stato il 7 ottobre del 2023? È stato la discesa della barbarie sul mondo, il ritorno di qualcosa che ci saremmo aspettati non accadesse mai più: un pogrom. Alle sei della mattina nei kibbutz vicini al confine della Striscia di Gaza quasi tutti dormivano. Poco lontano, migliaia di giovani ballavano al ritmo della musica elettronica, a una festa chiamata «Nova». Una festa in cui sognavano che la musica, la libertà siano la stessa cosa. In un attimo su tutte queste persone inermi è piombata una violenza che non si può immaginare. Prima una pioggia di missili, poi un attacco che non ha le caratteristiche di una operazione militare. Un attacco dove lo scopo non era sconfiggere il “nemico”.
L’unico scopo accuratamente pianificato era il massacro indiscriminato. Nessuna vittima collaterale, la strage era stata programmata per essere il più orrenda possibile, per non lasciare scampo a nessuno. Gli ordini, capillarmente distribuiti ai terroristi che sarebbero penetrati nel territorio israeliano: «Mentre da qui partono i missili e tutti si rifugiano in casa, irrompete, uccidete, violentate, fatte a pezzi, bruciate, tagliate le teste e gli arti». E così è successo, senza pietà per nessuno.
Questa è la realtà terribile raccontata da Fiamma Nirenstein in 7 ottobre 2023. Israele brucia (pagg. 278, euro 23) pubblicato oggi per i tipi di Giubilei Regnani. L’autrice, che collabora stabilmente con il nostro quotidiano (parte degli articoli da cui nasce il libro sono stati pubblicati in queste pagine) racconta le atrocità senza precedenti compiute da Hamas a partire dal 7 ottobre del 2023. Facendo capire come non siano solo atrocità contro il popolo ebraico, ma una precisa e voluta aggressione alla cultura occidentale e alla libertà. Lo fa percorrendo giorno per giorno la storia del peggiore pogrom contro gli ebrei dai tempi della Shoah. E non solo in Medio oriente.
Accanto agli orrori perpetrati 7 ottobre, Nirenstein prende in esame l’ondata di antisemitismo, che in più parti del mondo ha accompagnato, e almeno in parte giustificato, l’ingiustificabile azione dei terroristi di Hamas. Nonostante il fatto che in Israele bambini, donne, giovani, anziani siano stati uccisi, smembrati, violentati, decapitati, dopo i rapimenti di massa, una parte dell’opinione pubblica, anche in Europa e negli Usa ha cercato una “giustificazione” alle azioni terroristiche e non ha riconosciuto ad Israele il benché minimo diritto alla difesa. Questo mentre Israele, come racconta Nirenstein, combatte una guerra complessa, pagando con la vita dei suoi soldati, e affronta il tormentoso problema degli ostaggi e di difendere la sua democrazia. L’odio di Hitler per gli ebrei ha distrutto. Dove potrebbe portare ora questo nuovo antisemitismo mascherato? Nirenstein prova a rispondere.
Il Giornale, 04 febbraio 2024
È interessante che chi fa più morti, massacri, stupri, uccisione di bambini, riesca tuttora ad afferrare una chiave di potere senza confronto. Nelle ore in cui scriviamo, è Yehie Sinwar, dal fondo della sua tana a Khan Yunes, soppesa il futuro del mondo usando una semplice leva: i 136 rapiti nelle sue mani. Mentre Ismail Haniyya annuncia che la delegazione di Hamas desidera alcuni giorni in più per decidere, il capo militare (diciamo così) di Hamas sarebbe pronto per la soluzione di cui si parla, mentre Hanyeh, il capo “diplomatico” vuole un cessate il fuoco definitivo, non una tregua, che lasci Hamas padrone di restare il dittatore di Gaza. Per quel che si sa su 136 ostaggi di cui sembra una trentina non più in vita 35 sarebbero liberati in cambio di un giorno di tregua per ciascuno, o di più; 100-150 prigionieri palestinesi sarebbero scambiati con ognuno di loro (secondo il giornale libanese Al Akhbar); le fasi previste sarebbero 3 o 4, prima i civili, poi le soldatesse, i soldati, e infine i deceduti.
Israele è stretta alla gola dal ricatto impossibile fra la vita dei suoi cari e combattere contro la minaccia che riguarda i suoi 10 milioni di abitanti. L’incertezza sul da farsi non ha a che fare con la destra cattiva che non vuole cedere e la sinistra buona pronta a tutto, come si scrive scriteriatamente. L’80 per cento del pubblico israeliano è contro l’idea di sospendere la più necessaria delle guerre, quella di sopravvivenza: ma le minacce di Ben Gvir di spaccare il governo in caso di cedimenti, sono da tutti, anche dal Likud, reputati stonati. Si cerca un equilibrio impossibile, perché dipende da Sinwar. Su questo proscenio, ogni giorno di più, fa pernio la grande avventura internazionale di un mondo in bilico sulla crisi mediorientale, che gli Stati Uniti vorrebbero contenere cercando una conclusione o almeno un rallentamento alla guerra di Israele. Arriva oggi in zona il Segretario di Stato Blinken, verrà a Gerusalemme dopo essere stato in Arabia Saudita, Egitto, Qatar in questo ordine. Ciò avviene dopo che gli aerei da combattimento, i bombers B1 hanno colpito a dozzine (85 obiettivi) siti militari Iracheni e siriani usati dall’IRGC (le Guardie rivoluzionarie iraniane) e dai loro “proxy” locali. È la risposta all’attacco a “Tower 22” di una settimana fa che ha fatto 3 morti americani e 40 feriti. Risposta tardiva, ma forte e molto meditata. Biden ha detto: “la nostra risposta è iniziata e avrà i tempi e i luoghi necessari”, gli americani reagiscono con un intervento contenuto. Cioè Biden, consapevole che i ben 160 attacchi subiti dalle sue truppe in Medio Oriente, hanno a che fare con un conflitto largo, che ha il suo epicentro in Israele, ma dietro il quale si intravede l’odio dell’Iran contro il Grande Satana e quello verso il piccolo Satana, cerca una strada per trasformare il caos in una prospettiva positiva agli occhi della sua “costituency” democratica.
Dunque, evita di rispondere colpendo l’Iran, e invece cerca in questi giorni di portare Israele verso una tregua, senza forzare troppo. Blinken cerca di afferrare il toro per le corna della questione degli ostaggi, disegna coi Saditi un patto conveniente per tutti, spinge l’Egitto e il Qatar per l’accordo sui rapiti; e cerca di indurre Israele a disegnare una soluzione in cui si veda la stella polare di “due stati per due popoli”. Qui la strada si fa impervia, perché è difficile sognare uno stato palestinese oggi: sarebbe autocratico, corrotto, dominato dall’adesione all’ideologia di Hamas, incapace di fornire garanzie di educazione pacifica e di distacco dal terrorismo. Comunque, questo dibattito verrà al momento giusto. Ora persino per gli USA l’impossibile nodo degli ostaggi è il metro di misura.
Il Giornale, 02 febbraio 2024
Sorpresa: tutti si aspettavano di vedere Ismail Haniyeh rappresentare in giacca e cravatta al Cairo i terroristi di Hamas insieme ai negoziatori del Qatar, egiziani, americani, israeliani per la trattativa sui 136 ostaggi. Tutto il mondo in una farsa diplomatica alle prese con un’organizzazione terrorista. Questo, è uguale: ma diverso è come Sinwar aveva preparato anche questo incontro. Come un astuto imbroglione. Era infatti pronto al Cairo, sembra da due mesi, per riferire direttamente a lui forse con un complicato sistema di telefoni satellitari, un inviato personale: né Abu Marzuk né Osama Hamdan, i soliti, ma un personaggio misterioso che deve riferire e decidere con lui. Decidere che cosa? Sulle trattative si sanno solo due cose certe miste a parole: Israele vuole trattare per tutti gli ostaggi, e Hamas vuole trattare per tutto il tempo. Il governo israeliano è stretto in una morsa di aspettativa ansiosa e dolorante, con le famiglie dei rapiti che ormai hanno preso la strada del blocco dei camion degli aiuti umanitari. Ma solo il 35 per cento della popolazione in Israele vuole vedere una trattativa che preveda il blocco della guerra per smantellare Hamas.
Hamas è sul confine della sua distruzione, ma Sinwar gioca le ultime carte che gli fanno sperare di non dover lasciare come retaggio la shahada, di martirio per l’Islam, ma anche di afferrare un lembo del gioco del potere. Dunque: per Israele si parla di alcune settimane di intervallo, in cui Sinwar compirebbe vari tipi di rilascio (cittadini, soldatesse, soldati, cadaveri) in cambio di un numero esorbitante di terroristi incarcerati. Fin qui Israele forse ci starebbe, anche se ha pessima esperienza con le migliaia di terroristi liberati in altre occasioni, ma Sinwar vorrebbe anche, sembra, i terroristi della Nukba, quelli che interrogati della polizia spiegano che hanno bruciato bambini, stuprato e ucciso perché così gli hanno ordinato, o perché gli davano 10mila shekel e un appartamento. Questo per Netanyahu non è facile, ma forse è superabile. Tuttavia, Sinwar adesso chiede di rendere l’interruzione pari, sempre “sembra”, a una “Hudna” tregua, di dieci anni che renderebbe impossibile la ripresa della guerra; e chiede che Israele si impegni per quello che chiama uno “Stato palestinese” con Hamas alla testa. Cioè di restare al potere. Sono condizioni impossibili per un Paese che non può conservare il terribile nemico deciso a seguitare a uccidere e a conquistare definitivamente anche l’West Bank.
È una guerra di sopravvivenza. Le immense contraddizioni che attraversano queste giornate dimostrano quanto poco si capisca e si preveda di questa crisi che ormai è un gomitolo che sta avvolgendo il mondo intero. Probabilmente la richiesta di uno Stato palestinese alla fine di tutta la vicenda è una specie di funambolica “captatio benevolentiae” rivolta a Biden: Blinken ha chiesto al Dipartimento di Stato una proposta per “uno stato palestinese demilitarizzato”, Biden mostrerebbe così di guardare a un futuro pacifista. Gli USA potrebbero non vietare una proposta che un volenteroso può fare all’ONU al Consiglio di Sicurezza: questo non faciliterebbe tuttavia linconsistenza di una speranza basata sulla Autorità nazionale palestinese corrotta e ideologizzata sui canoni dell’antisemitismo identico a quello di Hamas. È per questo che fa pensare il viaggio del Ministro per gli affari strategici Ron Dermer, da Israele alla Casa Bianca in questi giorni: indica che insieme ai rapiti si discute il futuro della Striscia, e con la proposta americana sui palestinesi anche la chiamata in causa dei vecchi alleati dei patti di Abramo, e l’Arabia Saudita che ha promesso di impegnarsi. In questi termini il tema sarebbe più plausibile per Israele, senza evitare il tema del controllo di sicurezza israeliano completo per un certo periodo. Dallo svolgersi della guerra, si sa per certo che Sinwar se la passa male, che sottoterra a Khan Yunes sente il rombo dei carri armati e delle esplosioni, mentre i suoi a Gaza urlano per le strade che lui è un vigliacco che “mangia carne mentre loro digiunano”. Israele va lenta nella guerra perché teme per gli ostaggi sottoterra, ma quanto più cresce la presenza militare, tanto più Sinwar ha una ragione per fermare i tank almeno qualche settimana. Troppa guerra, però può spingerlo a uccidere ancora. La nebbia è fitta.
Il Giornale, 29 gennaio 2024
La richiesta di Antonio Guterres, il segretario delle Nazioni Unite di riprendere a finanziare l’UNRWA mentre si allarga anche alla Francia il numero dei Paesi che hanno bloccato i finanziamenti dopo la (ancora) sospetta partecipazione al massacro del 7 ottobre di 12 dei suoi membri, secondo l’ambasciatore all’ONU di Israele Gilad Erdan rivelano di nuovo che per il capo dell’organizzazione internazionale “la vita e la sicurezza dei cittadini israeliani per lui non contano” perché prima di chiedere si continuare a finanziare l’UNRWA dovrebbe occuparsi di “una indagine complessiva per localizzare i terroristi e gli assassini di Hamas dentro l’UNRWA”.
Ma ormai la questione della natura dell’UNRWA è aperta: oltre alla questione dei dodici terroristi, quella che viene alla ribalta è la domanda più vasta su una potentissima organizzazione che si occupa di più di cinque milioni di persone in molti Paesi, definiti “profughi” secondo una definizione che differisce da quella di chiunque altro nella stessa condizione. Era un dibattito sottotraccia da decenni, sull’uso del largo sostegno dell’organizzazione per aiutare terrorismo palestinese e in particolare Hamas, e sulla sua generale impostazione nel sostegno e nell’educazione dei bambini Palestinesi. La più recente e semplice delle prove è il larghissimo, esplicito, entusiasta supporto del 7 ottobre dimostrato nel gruppo Telegram di 3000 membri dell’UNRWA, impiegati e insegnanti, che celebrano la “nukba” fra immagini del massacro da loro postate, mentre peraltro chiedono anche quando verranno pagati gli stipendi. Lo staff dell’UNRWA condivide foto e video e prega per il successo dei terroristi e per la distruzione di Israele (Isra Abu Karim Mezher: “Dio è grande, è finito il tempo di Israele”; Yaser fotografato davanti alla lavagna della classe; “Oh quanto odio gli ebrei”; Shatha Husam al Nawajha: “Che Dio li protegga e diriga il loro braccio” etc.), e si entusiasma per le uccisioni e le torture. Questo accade certo in violazione delle norme di neutralità dell’ONU; ma la norma è sempre istituzionalmente violata dal tipo di educazione data nell’ organizzazione della scuola se si guardano i libri di testo, o l’addobbo dei muri: è tutta un’esaltazione dei terroristi di ieri e di oggi, dello Shaid, del martire, dell’eliminazione degli ebrei e di Israele. Così nelle interviste presso strutture dell’UNRWA per esempio nel campo profughi di Askar presso Nablus, West Bank, i bambini anche piccolissimi, parlano delle loro speranze, cioè vogliono essere shahid, uccidere gli ebrei, snocciolano tutti i nomi dei terroristi loro eroi. Durante la guerra sono state scoperte sotto le strutture dell’UNRWA cumuli di missili e armi. Più alla radice del problema, l’UNRWA è un’organizzazione unica rispetto a chi si occupa all’ONU dei circa 26 milioni di rifugiati: l’UNHCR.
L’UNRWA è finanziata a parte per più di un miliardo e mezzo di dollari, secondo David Bedein, un esperto del campo, e ha 30mila impiegati. I profughi sono diversi da quelli affidati all’UNHCR: per i palestinesi non c’è politica di assorbimento, o ricollocamento; generazione dopo generazione si resta “profugo” e si perpetua lo scontro, perché: “il profugo è una persona che viveva in Palestina fra il giugno del 1946 al 15 maggio del 1948 e che vi ha perso i mezzi di sussistenza in seguito al conflitto del 1948” e i suoi discendenti. Il lettore sa che, mentre Israele accettò la partizione dell’ONU, gli stati arabi attaccarono, e invitarono gli arabi residenti ad allontanarsi con la promessa di riportarli a casa. Quel che è certo è che si crearono 700mila profughi contro i 7-800mila circa profughi ebrei dai Paesi arabi, e che mai chiesero di perpetuare il loro status. Invece qui l’UNRWA ha il mandato politico di perpetuare lo stato di rifugiato: nel 1965 fu inclusa la terza generazione e di nuovo nel’82 fu allargato. Perpetuare l’idea del “ritorno” per tre quattro generazioni è ciò che rende impossibile la pace, e spinge l’idea che la vera casa sia oltre il confine. Dunque, per chiudere il capitolo UNRWA-Hamas, occorre che l’ONU accetti la questione.
Il Giornale, 27 gennaio 2024
Mai Giorno della Memoria è stato più triste e più difficile da celebrare. La memoria della Shoah non può essere una formula di circostanza, se lo diventa l’antisemitismo che ha portato a sei milioni di morti resta oltre un invalicabile vetro opaco: solo con la conoscenza, la sincerità, la chiarezza morale per non ripetere agli errori del passato essa ha un significato. Ma il 7 di ottobre ha messo le carte in tavola, ha rivelato una verità che si verifica stupiti: per esempio, nella vicina Francia l’antisemitismo si è moltiplicato del 2000 per cento da quando ha visto i bambini dei kibbutz sul confine di Gaza bruciati in braccio alle madri, la madri uccise davanti ai loro figli, ragazze e ragazzi violentati e smembrati, vecchi deportati a Gaza su motociclette, mucchi di ragazze spogliate e insanguinate: non solo il popolo ebraico ha dovuto subire un’aggressione a famiglie innocenti che è costata il numero più alto di uccisi in un giorno dal tempo della Shoah, compiuta con intenti genocidi come testimonia il grido “Yehud Yehud”,ebreo ebreo, degli zombie di Hamas in caccia; ma subito dopo si è sollevata un’ondata di menzogne costruite sull’ignoranza e la diffamazione, una raffica di antisemitismo da restare allibiti, anche quando, come nel mio caso, si scrive da anni sul nuovo antisemitismo che ha al centro lo Stato d’Israele. L’apice, ironico se non fosse tragico, è rappresentato dall’accusa di genocidio presentata all’ICJ, l’Alta Corte di Giustizia dell’Aja, dal Sud Africa: non contro Hamas, che ne ha perpetrato uno palese, filmato con orgoglio dalle sue stesse telecamere (mamma ho ucciso i miei ebrei! grida il terrorista al telefono molto contento) ma contro Israele, in un’azione concertata coi terroristi stessi e con i loro sostenitori internazionali.
Il secolo scorso ha conosciuto immense stragi dovute alla vittoria di ideologie politiche assassine: sull’altare dei messianismi come il nazismo, lo stalinismo, l’islamismo estremo, abbiamo visto milioni di persone perseguitate, deportate, uccise barbaramente. Col disegno genocida di uccidere il popolo ebraico, sempre, ogni volta, si è progettato di distruggere la democrazia e i valori giudaico cristiani della liberal democrazia. Quindi non solo gli ebrei devono temere l’antisemitismo ma tutto il mondo. Ma la forza dell’antisemitismo è formidabile, ci vuole un’azione educativa, politica, istituzionale… invece questo non è successo, mentre l’incitamento populista contro Israele si è avvalso di una costruzione molto complessa, un background storico di diffamazione basilare costruita fin dai primi anni dello Stato Ebraico che ha fatto perno sulla pigrizia culturale e l’esaltazione politica delle folle nei campus e nelle periferie, sulla faciloneria woke dell’intellettualità che vuole essere up to date, alle NGO dei diritti umani che scelgono sempre e comunque la strada antiamericana e pro terzo mondo, alle grandi istituzioni come l’ONU, ma anche purtroppo l’Unione Europea, accecate dalla soggezione culturale e economica verso il mondo arabo, e verso la minaccia islamista nelle città europee… dopo le atrocità del 7 di Ottobre, si è potuto osservare l’inimmaginabile, ovvero come un grande pogrom di ebrei, disegnato nei particolari orribili, dagli stupri alle decapitazioni e l’omicidio dei vecchi, bene organizzato, immaginato dai suoi capi in tutti i particolari sia non solo tollerato ma esaltato dall’opinione pubblica internazionale; non preoccupa nessuno che chi ha ordinato una deportazione di massa di bambini e vecchi e donne in sotterranei in cui soffrono ogni violenza adesso partecipi a trattative “diplomatiche” al Cairo, a Doha, e persino in Europa. Anzi: la loro richiesta di tempo, che è una palese domanda di restare al potere per riorganizzare altri eccidi viene sostenuta da folle che aggrediscono invece Israele e chiedono un cessate il fuoco per i nazisti. Come ha scritto prima del 7 di ottobre un grande storico dell’antisemitismo Robert Wistrich, nel secolo scorso, come ultimo stadio in ordine di tempo dopo l’antisemitismo religioso e quello razziale, si è generata un’ossessione omicida niente affatto esaurita con la sconfitta del nazismo: essa si è invece infiltrata prima nell’Unione Sovietica e nel mondo islamico in un movimento di cui il mufti Haj Amin Al Husseini è il fondatore e che ha il suo degno rappresentante in Hamas come in tutta la Fratellanza Musulmana, sostenuta dall’Iran dopo la sconfitta del nazismo, dal comunismo dell’URSS e più avanti diventato parte della cultura woke che vede un mondo di oppressi, i poveri, i colonizzati, i neri... e una di oppressori, i bianchi, i coloni, i ricchi, i razzisti. Israele non è niente di tutto questo, ma Hamas ha inaugura una guerra per fare della Palestina il primo nocciolo di un Medio Oriente “judenfrei” libero dal sionismo e dagli ebrei, La distruzione di Israele è diventata quel nuovo antisemitismo che ha messo via via tante pietre miliari sulla sua strada: nel 1975 la risoluzione dell’ONU “sionismo uguale razzismo”, nel 2002 la Conferenza razzista dell’ONU a Durban contro Israele, le infinite, ridicole condanne delle commissioni dell’ONU costruite apposta per perseguitare Israele come nessun altro, né la Russia, né l’Iran nè la Cina, nel 2016 la risoluzione del Consiglio di Sicurezza in cui Obama decide che gli USA avallano una condanna per territori occupati; ciò si accompagna all’oblio degli accordi di Oslo con cui Israel ha sgomberato quasi tutti i Territori e aspetta solo un accordo per due stati per due popoli mentre i palestinesi rispondono “no” tutte le volte, un’Intifada con quasi 2000 morti sugli autobus che esplodono. Israele insiste con la proposta di pace, sgombera Gaza nel 2005. Le proposte di pace si moltiplicano mentre gli ebrei seguitano ad essere l’obiettivo da eliminare. “From the river to the sea”. Dal fiume al mare, e chi lo urla per la strada non ha la più pallida idea di che fiume e di mare si tratta: la parola d’ordine, che oggi fa sì che anche a Harvard si sia convinti che uccidere gli ebrei è un reato solo di quando in quando.
La memoria che promette di abbandonare il male compiuto altro non è che una chiara analisi del presente, il coraggio della verità costi quel che costi. Never again è andato a sbattere contro la proposta di fare diventare Israele la nuova “questione ebraica” base dell’antisemitismo, violentemente osteggiata dal mondo arabo e quindi pericolosa, ostracizzata dal blocco comunista che ha creato per Israele l’involucro della menzogna dell’odiosità imperialista, colonialista, capitalista e oggi odiata da chi pretende di praticare la religione del nostro tempo, quella dei diritti umani, e sta invece, accecato dall’ignoranza di tutto per affossarli. Gina Semetrich aveva 91 anni, era in origine Cecoslovacca, da sopravvissuta dell’Olocausto aveva ricostruito una vita e una famiglia a Kissufim, un kibbutz sul bordo di Gaza. Trascinata, picchiata, uccisa dai terroristi di Hamas, ha rivisto la Shoah e ne è morta. Sara Jackson 88 anni, sopravvissuta della Shoah, si è barricata in casa al kibbutz Sa’ad dopo aver accolto tre ragazzi che erano riusciti a scappare dalla festa di Nova, dove 360 sono stati massacrati: come durante un pogrom in Polonia, hanno appoggiato alla porta un grosso armadio, come facevano i genitori di Sara quando era piccola. Avigdor Neuman, 93 anni, ai tre ragazzi rapiti e adesso vicini a lui, disperati perché sentono che anche sulla strage che hanno visto coi loro occhi si è sollevata una cortina di menzogna mostra il numero azzurro sul braccio: “ci sono cose che non si possono cancellare”.
Questo è accaduto, la caccia agli ebrei ha compiuto orrori noti solo ai nazisti. Adesso per conquistarsi il diritto a dire “Never Again” prima di tutto bisogna che con coraggio churchilliano, con amore per la riscossa contro l’orrore della strage si cerchi prima di tutto di capire cosa sta succedendo, perché Israele è obbligata a concludere questa guerra sgomberando dal suo confine la strage della prossima volta, e dal mondo intero la minaccia di questa nuova Isis che vede, proprio come l’Iran, la distruzione di Israele come una prima tappa di sovranità e conquista. Questo è il “never again” adesso: vincere una guerra sul terreno più difficile del mondo, dove ogni metro di terra nasconde una galleria da cui può spuntare un gruppo di terroristi, ogni struttura civile, case, ospedali, scuole, nasconde un lanciamissili, una santabarbara preparata per la guerra, e ogni cittadino è o il custode o lo scudo umano che protegge la guerra di Hamas. Guerra atroce, triste, in cui piangiamo anche i palestinesi vittime della ferocia di Hamas, unico responsabile della loro fine, muoiono tanti soldati di Israele; in cui la responsabilità per ogni cittadino di Gaza e su chi ne ha fatto non un luogo per vivere ma una trappola di morte. “Never Again” è prima di tutto avere il coraggio di capire che in Israele è la nuova trincea della libertà e della vita. Per tutti.
Il Giornale, 24 gennaio 2024
Israele ha subito l’incidente più mortale dall’inizio della guerra, con 24 uccisi di cui 21 in un’esplosione causata da due missili da spalla che hanno colpito le grandi cariche di tritolo che hanno in parte ferito direttamente, in parte causato il crollo di due edifici che hanno travolto i soldati dell’unità 261. Due sono invece stati uccisi nel loro tank. È stato travolto dallo scoppio un grande gruppo, formato da giovani e meno giovani delle riserve, figli, padri, mariti. Il più giovane era Nicolas Berger di 22 anni, di Gerusalemme, il più vecchio Shay Biton Hayun di 40 anni, di Zicron Yaakov, vicino a Haifa. L’elenco degli uccisi è una tragica carta geografica di tutta Israele, da Tel Aviv (Cedrick Garin 23 anni,) a Elkana Yehuda Sfez,25 anni, nei territori, a Kyriat Arba.
Piange tutta Israele da Pardes Hanna-Karkur un’elegante cittadina residenziale al centro, a Rosh Haayn all’estremo nord ad Alon Shvut in Cisgiordania. Guardando una mappa di tutti i caduti, si vede che la vita del Paese piccolo e comunitario è crivellata ovunque dalla strage dei 219 soldati uccisi in una delle più difficili guerre mai combattute, dalle migliaia di feriti e mutilati causati dal lunghissimo combattimento sopra e sotto la terra, in un terreno organizzato da Hamas non per la vita della gente ma per essere la fortezza di una delle organizzazioni terroriste più forti e organizzate del mondo.
L’ origine degli uccisi, disegna una mappa esatta: laici e religiosi, con radici nei Paese arabi e negli USA, molti in servizio dal primo giorno di guerra, quasi tutti con bambini piccoli a casa, un lavoro nell’high tec, nella scienza, comandanti e soldati semplici, determinati a combattere fino in fondo una guerra di necessità. Ieri i soldati sul campo pregavano la folla israeliana di non scoraggiarsi e di restare uniti dietro lo sforzo attuale, a Khan Yunis, di scovare e sconfiggere Sinwar. Questo è lo spirito del momento. Alla strage di ieri Israele cerca di rispondere con l’arma della fantastica resilienza che l’ha sempre salvata durante guerre impossibili come quella del 73 o la seconda Intifada, e che l’ha guidata in imprese come quella di Entebbe. Netanyahu, Gantz e Gallant si sono presentati tutti insieme solo per testimoniare sofferenza e impegno a combattere fino in fondo.
Il capo di Stato maggiore Herzi Halevi ha fatto lo stesso. I concetti sono identici: combattiamo una guerra indispensabile, Gaza deve essere sgomberata da Hamas perché Israele possa vivere, indaghiamo l’accaduto perché non si ripeta. Meno che mai, nonostante bruci l’impegno verso i rapiti, si sente parlare di cessare dalla guerra. Nessuno, nè a destra ne a sinistra avanza questa prospettiva. Il disegno di Netanyahu per uno scambio con due mesi di intervallo e lo scambio di prigionieri palestinesi (ora si parla anche di quelli della Nukba) con tutti gli ostaggi, pare sia stato rifiutato da Hamas. Ma tutto può cambiare: Hamas festeggia il colpo inferto, ma sottovaluta il contraccolpo. L’esercito, all’attacco nel sud, ha quasi interamente circondato Khan Yunes, combatte più deciso, lo scopo è una sconfitta sia simbolica che pratica della patria e della centrale operativa di Sinwar.
Non si dice, ma il sottinteso è sempre qualche speranza di raggiungerlo, e di salvare i rapiti. Se si guarda dove è accaduto il disastro, la cartina mostra un luogo di confine a millimetri dai kibbutz della strage, Be’eri, Kfar Aza, Kissufim, accanto dall’area di Re’im dove furono sterminati i giovani di “Nova”. I soldati creavano sul terreno di confine una zona vuota, visibile da ogni parte, così che da dentro Gaza non sia di nuovo possibile entrare e uccidere. Mentre Israele promette di continuare la battaglia, si insiste da parte americana di nuovo per una “pausa umanitaria” e cinque paesi arabi si stanno occupando, si dice, di cercare un impegno Saudita che spinga avanti la soluzione palestinese. Possibile: ma prima di tutto, da Gerusalemme si vede un Paese innanzitutto deciso a non abbandonare la necessità primaria della guerra: distruggere Hamas.