"Se c'è un genocidio è contro di noi". Israele si difende contro le follie Onu
Il Giornale, 13 gennaio 2024
Ieri Israele si è difesa con bravura e pazienza in un teatro dell’assurdo, davanti ai quindici giudici che all’Aia da due giorni dibattono le accuse del Sud Africa a Israele di perseguire il genocidio dei palestinesi. Un segnale che il mondo non è del tutto impazzito è finalmente giunto dalla Germania, il Paese che sa, che ricorda che cosa è un genocidio, la Shoah: i suoi rappresentati hanno espresso la richiesta di prendere parte al dibattito quando verrà riconvocato il tribunale dell’ICJ, l’International Court of Justice. Dopo la particolareggiata risposta alle tre ore di inconsistenti e addirittura scombinate accuse di giovedì (si è persino detto che i soldati israeliani violentano le donne palestinesi, e impediscono le nascite!) un filo di ottimismo illumina la serata di ieri all’Aia: prima ha parlato il consigliere legale del Ministero degli Esteri, Tal Becker e poi l’avvocato inglese Malcolm Shaw con una linea che si basa nella storia degli eventi, tutto il contrario della scelta del Sud Africa che ha obliterato dal racconto le azioni di sterminio programmato che hanno causato la guerra e, come un ventriloquo ha cercato la soluzione politica utile per Hamas: sospendere la guerra così da riorganizzare il suo potere terrorista. Israele è ripartita dal 7 di ottobre, ha scelto di spiegare che il genocidio è stato compiuto da Hamas il 7 di ottobre, ne ha ripotato alla luce la strage di famiglie, le mutilazioni, le violenze sessuali, le decapitazioni, i rapimenti; quindi, ha spiegato che la guerra non è stata scelta da Israele, ma causata dalla necessità di difendersi dagli assassini, con i loro chiari intenti genocidi, promettono “ancora e ancora”. Show ha dimostrato che è impossibile attribuire un intento genocida a chi ha fornito aiuto umanitario, vie di fuga, avvertimenti ripetuti così da risparmiare la popolazione.
Ha però anche chiarito che Hamas usa in guerra tutte le strutture civili rendendo molto difficile risparmiare gli scudi umani di impianti bellici. Mai però nella storia di Israele si è avuto l’intento di cancellare i palestinesi. Al contrario l’idea, la proposta della convivenza domina tutta la storia d’Israele, nonostante il rifiuto continuo dei palestinesi e i progetti genocidi, “from the river to the sea”, dal fiume al mare. Sulle citazioni di alcuni uomini politici che furiosi, sono esplosi in maniera impropria parlando di bomba atomica, l’avvocato ha ricordato che si è trattato di personaggi marginali e comunque smentite da Netanyahu. Forse lo squilibrio fra le ragioni del Sudafrica, ovvero di Hamas, e quelle di Israele, indurrà l’ICJ a cercare altre strade rispetto a fermare la guerra. E tuttavia resta che si è parlato di Israele per due giorni interi sotto il titolo “genocidio”, non quello vero subito dagli ebrei con la Shoah, e in chiave limitata, il 7 di ottobre.
La Germania, gli USA, l’Inghilterra, i Paesi occidentali democratici che siedono nel tribunale voteranno per Israele, ed esso ha potuto dispiegare la sua difesa come deve, solo orgoglioso, in guerra contro il male quale che siano i risultati. Ma sullo sfondo fra le bandiere di Hamas alle manifestazioni, è risuonata una condanna a morte molto chiaramente espressa dal rappresentante sudafricano e che si rispecchierà nel voto finale che sarà il solito di tutto ciò che è un derivato dell’ONU: egli non ha parlato di genocidio a partire dall’inizio della guerra ma del peccato originale di Israele di esistere “da 75 anni” come ha detto, e questo sarà comunque punito. Allora non esisteva ancora il concetto di “palestinese” se non per riferirsi agli ebrei sionisti che lavoravano nel Paese a loro restituito dal movimento sionista, dalla Società delle nazioni, dall’ONU, dal diritto storico di un popolo indigeno. E dalla necessità di avere un rifugio dall’antisemitismo genocida. Ma all’Aia gli ebrei sono stati di nuovo delegittimati, definiti razzisti, stato di apartheid, colonialisti, e adeso anche genocidi. Una bordata di odio e di delegittimazione che si chiama antisemitismo. Di questo ha discusso tutto il mondo.
Nazione nata dalla Shoah. Che infamia
Il Giornale, 12 gennaio 2023
La Corte internazionale di giustizia ieri, comunque finisca, si è screditata agli occhi dell’opinione pubblica internazionale: tutti quelle vestaglie e parrucche non copriranno il fatto che per la prima volta ha accettato di discutere le accuse presentate contro un Paese democratico e liberale da un Paese corrotto che ha fornito il suo megafono a un’organizzazione terrorista.
Lo scopo è politico: mettere in questione il diritto di Israele a combattere, a difendersi dall’attacco genocida di Hamas cui è stato sottoposto il 7 di ottobre. Nell’ombra, l’Iran e l’attivo impegno di Hezbollah. Russia, Somalia, Cina, tutta l’asse antioccidentale può, secondo la tradizione dell’ONU, votare perché Israele fermi la guerra e quindi si metta in moto il Consiglio di Sicurezza per obbligare Israele a ubbidire, costringendo così Biden a fare uso del veto, evento mortificante. Israele è in sé, come Stato ebraico, il contrario del genocidio: è la rinascita dal genocidio, l’ha subito con la Shoah.
Dal 1948 ha cercato la condivisione trovando il rifiuto dei palestinesi. In questa guerra avverte i civili, fornisce i beni fondamentali, rallenta la guerra per evitare l’uccisione di innocenti. Ma l’alto numero dei morti è fornito dal ministero agli ordini di Hamas. 8500 sono gli armati di Hamas uccisi in guerra; i loro stessi missili fanno molte vittime. La dissonanza è immensa: sul confine le famiglie gridano con un megafono ai loro cari “ti amo, resisti” sperando che la voce voli a Gaza. Sul Daily Mail appaiono 4 ragazzine insanguinate, ostaggi come gli altri 132. Alla tv un eroe che fra ragazze e ragazzi violentati e smembrati ha salvato i sopravvissuti di Nova, racconta.
Una madre torna nella stanza in cui le hanno ucciso il figlio. Alcuni soldati stanchi raccontano l’eroismo dei caduti. Questa è Israele oggi, dal 1948 la patria nata dopo la Shoah, subito assalita dagli arabi, in guerra contro il rischio genocida di Hamas, la patria dell’unico “Never Again” che non verrà distrutto dalla Corte internazionale di giustizia.
Difesa di Israele sulle accuse di genocidio
Il Giornale, 11 gennaio 2024
È un bel palazzo gotico quello che all’Aia ospiterà da oggi per due giorni l’accusa di “genocidio” che il Sud Africa ha sollevato presso l’ICJ (international Court of Justice da non confondere con l’ICC, International Criminal Court) contro di Israele. L’intento del Sud Africa è fermare l’azione militare di Israele, sostenendo che la guerra è combattuta con intenzioni genocide. Ci vorranno alcune settimane perché la Corte dia un parere, e poi un seguito di mesi nel merito delle singole accuse e la competenza della Corte. L’evento di oggi è ironico, interessante, e molto allarmante e triste dal punto di vista della cultura mondiale. Ironico: perché il termine genocidio è stato coniato nel 1944 da un avvocato ebreo Raphael Lemkin per definire le atrocità e le intenzioni naziste. Nel 1948 la corte fu creata su questa ispirazione, e ecco che la “nazificazione” di Israele”, una base dell’antisemitismo contemporaneo come dice il grande storico Robert Wistrich, appare in tutta la sua forza mentre Israele si batte per la vita.
Interessante, perché sulle sedie degli imputati invece di Israele dovrebbe palesemente esserci chi ha espresso e messo in atto ultimamente intenzioni genocide: ovvero, Hamas che nella sua Carta chiama ad uccidere tutti gli ebrei, e lo fa, indistintamente nella pratica terrorista. Allarmante: perché denuncia una grande confusione cognitiva che sotto l’egida degli “oppressi contro gli oppressori” ignora la storia: solo tre mesi fa abbiamo avuto nel Paese accusato una strage inenarrabile di bambini e famiglie al grido “Yehud Yehud” (ebreo, ebreo) con intenti genocidi. Israele sta ancora raccogliendo i resti della strage mentre combatte due guerre di sopravvivenza: una per sconfiggere a Gaza l’esercito terrorista del 7 di ottobre; l’altra per strappargli i poveri 136 ostaggi, anche loro solo “ebrei”.
Tutto questo è quasi inesistente nella memoria di più di 80 pagine presentata all’ICJ. Da stamani essa è vagliata da 15 giudici all’Aia. Il tribunale è incaricato dall’ONU, i giudici, fra cui Aharon Barak sono di alto livello, fra di loro siedono gli americani, i francesi, tutti gli occidentali vantano un giudiziario libero; ma ci sono anche Russia, Cina, Somalia, Uganda, Libano, Paesi in cui si può supporre il legame fra giudiziario e politico. L’accusa di genocidio a Israele è un’aggressione politica, negli anni, Israele ha sempre cercato un compromesso coi palestinesi, (i processi e gli accordi di Madrid, Camp David, Oslo…), le guerre sono state di difesa, lo sgombero di Gaza come altri, dimostra la speranza nella convivenza che è sempre stata nel sionismo. I numeri dei morti civili a Gaza purtroppo sono alti, ma innanzitutto sono forniti dal governo di Gaza, lo stesso che ha organizzato le atrocità del 7 ottobre, difficile fidarsi; dei circa 15mila membri dell’esercito di Hamas sembra che circa 8000 siano stati uccisi in battaglia, e che sia alto, come si è visto dall’episodio dell’ospedale colpito dal missile palestinese, sono frequenti i lanci sbagliati. Soprattutto il terreno è una fortezza in cui le strutture civili sono casematte e la popolazione è usata come scudo di difesa. Israele ha cercato con volantini di indurre i cittadini a sgomberare, e ha fornito gli aiuti umanitari richiesti. Il Sud Africa porta affermazioni di alcuni politici che annunciavano incaute intenzioni di radere al suolo Gaza, poi però modificate con l’intenzione di cancellare Hamas. Durante questo giovedì si discuteranno le accuse, e venerdì parlerà l’avvocato inglese Malcolm Show in difesa di Israele.
Ma già un’accusa tanto cruda invoca la delegittimazione dell’esistenza stessa dello Stato Ebraico, quella che “From the river to the sea”, dal fiume al mare, chiede l’obliterazione degli ebrei. Se, la Corte accettasse la richiesta sudafricana, la prima conseguenza sarebbe l’imposizione a Israele di fermare la guerra a Hamas. In seguito a un “no”, potrebbe essere convocato il Consiglio di Sicurezza. Sarebbe una sconfitta penosa del buon senso, del prestigio stesso dell’ICJ e del diritto all’autodifesa dal terrorismo.
La svolta di Israele: basta compromessi
Il Giornale, 09 gennaio 2024
Le svolte storiche sono fatte di molte tessere di un mosaico che si compone lentamente, a volte negli anni. Israele dopo il 7 di ottobre ha più volte dichiarato che niente sarà come è stato, e il significato è chiaro: non si dovrà mai più dare una situazione in cui i cittadini debbano subire un’aggressione mortale, in cui siano minacciati giorno dopo giorno, e che da questo derivi un condizionamento della politica, delle idee del comportamento. È arrivato a Gerusalemme Blinken proveniente dall’Arabia Saudita e prima dall’UAE e dalla Turchia, e ha portato la sua politica di solidarietà ma anche di contenimento di Israele: oggi uno scontro con gli Hezbollah è l’ultima cosa al mondo che Biden desidera.
Ieri, Netanyahu sul confine col Libano coi soldati che al freddo difendono dal 7 ottobre il confine, ripeteva che i profughi sarebbero stati riportati a casa loro, le montagne bombardate e dove una sede di controllo aereo era stata colpita da Hezbollah sarebbe divenute sicure, pena un attacco sul Libano simile a quello su Gaza. Sempre ieri, “secondo fonti straniere”, Israele ha eliminato Issam al Tawil, molto vicino a Nasrallah, fra le foto ricordo quella con Kassem Suleimani, il generalissimo iraniano dell’asse sciita patron di Hamas. Israele ha già eliminato il 2 gennaio a Beirut, a Dahiah, fra gli Hezbollah, Saleh al Aruri, un altro nome importante, ma sunnita e di Hamas. La sfida non era così diretta e Hezbollah ha risposto con la solita guerra di attrizione.
Adesso sotto gli occhi di Blinken, che non gradisce, Israele mostra che sul serio non sopporterà che Hamas gli sposti il confine: le città e i kibbutz vuoti come ha detto ieri in un’intervista all’Wall Street Journal il ministro della difesa, Yohav Gallant, sono una vittoria dell’Iran. Israele sta anche spostando con la terza fase le sue pedine nella guerra a Gaza con una strategia che implica maggiore impegno nel centro sud, dove Sinwar si nasconde e dove si spera di riuscire anche a progredire nella ricerca dei rapiti: qui ogni passo è difficile, è la questione più dolorosa e politica per uscire dall’ombra nera del 7 di ottobre. La resa dei conti è rimandata ancora per un po': un’unica bandiera, molto difficile, si vede nella scelta di Netanyahu di scegliere il giudice Aharon Barak, 87 anni, sopravvissuto alla Shoah, il suo grande oppositore nella questione giudiziaria, per andare all’Aia a contrattaccare il Tribunale Internazionale che da giovedì discuterà l’accusa di genocidio del Sud Africa. Un’accusa del genere sarebbe stata ignorata fino a ieri: tutte le organizzazioni onusiane sono prevenute contro Israele, in genere Israele non si cura delle continue accuse, assurde accuse dominate dal doppio standard. Stavolta è diverso: à la guerre comme à la guerre, ovunque, guerra di sopravvivenza.
Gerusalemme pronta alla fase tre. Caccia a Sinwar e Deif nel Sud della Striscia. Obiettivo liberare i rapiti
Il Giornale, 08 gennaio 2024
La guerra a Gaza fa manovra mentre Israele deve vedersela da adesso, anche se ancora la guerra con gli Hezbollah è un insieme di missili e punti interrogativi, su due fronti: un terzo dell’esercito è già al fronte nord; si mormora con insistenza anche di una mancanza di munizioni cui supplire con l’aiuto americano. A nord e a sud sul confine città come Sderot a sud e Kiriat Shmone a nord, kibbutz, sono stati sgomberati e almeno 200mila cittadini chiedono di tornare a casa in sicurezza. Ma certo non per vivere fianco a fianco con dei nemici che promettono di uccidere tutti gli ebrei. Nasrallah ha aumentato il volume della minaccia sparando missili molto raffinati, di vario genere e grado, su importanti istallazioni israeliane sul monte Merom dopo che il suo ospite Al Haruri era stato eliminato sul suo territorio. Ma le decisioni grosse girano nella giostra della fortuna.
Può diventare una guerra terribile, che investa Tel Aviv di missili iraniani, o bloccarsi sulla paura che Nasrallah ha di passare alla storia come il distruttore dell’intero Libano: questa è la minaccia, se Israele sarà costretto a entrare in guerra. L’ha ripetuto Netanyahu e il ministro Gallant ambedue d’accordo anche su un punto non facile: la guerra continua fino alla vittoria su Hamas, fino a che tornino i rapiti, finché ci sarà sicurezza per Israele. Una scommessa che ancora aspetta un piano: se ne discute freneticamente in questi giorni. A Gaza, fase di grande passaggio, dalla fase due alla fase tre. Si va dal nord verso al sud, passando per Sinwar, al centro di Khan Yunes: nei suoi anfratti di case e uffici è stato trovato di tutto, dalle armi di precisione autoprodotte, fino a grandi archivi che disegnano un’organizzazione miliardaria e minuziosamente preparata a uccidere. Una nuova foto di Mohammed Deif, ce lo mostra con una mano piena di dollari e l’altra, funzionante contro le informazioni precedenti, con una tazza di caffè.
Con precisione, ricchezza di episodi e una vivacità il cui sottinteso sembra essere “noi soldati facciamo la nostra difficile parte, a voi politici le mosse politiche per il futuro” il portavoce dell’esercito, l’ ammiraglio Daniel Hagari ha svoltato l’angolo della terza fase: già alcuni battaglioni di riserve, hanno ritrovato per il momento la via di casa; il nord della Striscia , a Jabalia e altre otto aeree, è a pezzi, i terroristi non hanno più leader nella zona, eliminati; la tensione adesso, e con imprese più specifiche e modificate, è sul centro e sul sud. Il disegno della immensa rete di gallerie diventa più chiara e molto intensa la campagna per distruggerle, si capisce che c’è un’evidente ricerca a Khan Yunis e dintorni dei grandi capi della carneficina, specie Sinwar e Deif. La grande speranza è quella di salvare un numero rilevante di ostaggi, riportarli a casa, specie le ragazze.
È di questi giorni la generosa testimonianza di prigioniere tornate, una diciasettenne, Agam Goldstein rapita dopo che le hanno ucciso il padre sotto gli occhi, ha raccontato episodi terribili di violenze sessuali e ferite alle ragazze rinchiuse con lei, i pianti, le fasciature inutili e insufficienti, la vergogna e l’oltraggio. E una madre Danielle Aloni ha raccontato come ha detto alla bambina di tre anni, mentre le rapivano per poi strapparle l’una dall’altra, che stavano per morire, e di come la creatura la consolava e le asciugava le lacrime dicendole “mamma io sto bene”. Questi e altri episodi, insieme al lutto per i soldati uccisi, ogni giorno si intrecciano con la voce del primo ministro Netanyahu di combattere fino in fondo: le insinuazioni del Washington Post che Netanyahu continui la guerra per restare al suo posto di Primo Ministro, hanno trovato la reazione scandalizzata persino di Benny Gantz. Anche i politici capiscono che niente conta fuorché la guerra di sopravvivenza, e lo si è visto anche nel rifiuto di scontrarsi sulla decisione della Corte suprema di cassare la riforma giudiziaria.
Oggi il sindacato farà uno sciopero di cento minuti dalla parte dei rapiti: come se a Sinwar importasse qualcosa dello sciopero. Nulla lo smuoverà fuorché il suo obiettivo: una tregua lunga, che gli dia il tempo di riorganizzarsi, o addirittura l’interruzione della guerra. Non avverrà anche se ci cerca di spaventarlo da una parte, e dall’altra di attrarlo con uno scambio di terroristi pesanti. Si misura qui il tema molto interessante e spaventoso di come a fronte della furia ideologica del mondo islamico, degli attacchi terroristici, Israele e gli americani, fanno di tutto per mantenere un terreno di discussione in cui tutti gli attori, nazionali e internazionali, portano opinioni diverse e mosse contrastanti. Per esempio, il messaggio che Blinken porta qui oggi a Netanyahu è evidente: “Non vogliamo vedere un’escalation a nord”. Dall’altra parte è stato proprio lui che pochi giorni fa ha dichiarato che Israele deve riportare la gente nei luoghi da cui sono stati espulsi. Hochstein viaggia in Libano cercando un rapporto fra le parti con pochissime possibilità di successo mentre Blinken dice a Erdogan, dopo che ha dato di Hitler a Netanyahu: “Se vuoi conservare un ruolo, calma”. Poi, è andato a Doha… e via avanti. Adesso spera che da un cocktail avvelenato, esca una nuova ricetta.
C'è il piano per Gaza. Ma la destra attacca il capo dell'esercito. E Bibi è sotto assedio
Il Giornale, 06 gennaio 2023
Non è una crisi di nervi né uno scontro solo politico quello che alle una di notte ha scosso la riunione del Gabinetto di Guerra fino a che Netanyahu ha dovuto sospenderlo. È la crisi esistenziale che Israele deve attraversare dopo il disastro del 7 di ottobre. Una conseguenza dello scontro è stata la reazione di Benny Gantz, antagonista storico di Netanyahu ma oggi insieme nel governo di emergenza, che lo ha pubblicamente invitato a prendere posizione chiara scegliendo l’unità, evidentemente con lui, oppure la politica. L’origine dello scontro è stato l’annuncio, durante la riunione di ieri, del Capo di Stato Maggiore Herzi Halevi di una commissione di indagine sull’esercito che partisse dal fallimento di ottobre.
Non è chiaro se Halevi vuole risposte sull’ottobre, quindi anche sul suo operato, o sui problemi di un esercito che oggi affronta la guerra più difficile, sopra e sottoterra, negli ospedali, nelle case, nelle moschee. Gli si chiede di combattere più deciso, più forte, con più interventi dall’aria, per affrontare la sofferenza del paese di fronte ai soldati uccisi; o al contrario si vuole cautela perché sottoterra o negli edifici possono trovarsi gli ostaggi. La disputa si è accesa su due punti: il primo sull’opportunità di porre ora all’esercito questioni mentre sta combattendo, senza aspettare la fine della guerra. E il secondo riguarda le scelte dei nomi: soprattutto Shaul Mofaz, ex Capo di Stato maggiore, e il generale Aharon Zeevi Farkash, ex capo dell’intelligence dell’esercito. Quattro ministri nell’imbarazzo della commissione presieduta da Netanyahu, che infatti ha chiuso l’incontro dopo improprie grida udite anche fuori della stanza, si sono scagliati contro il Capo di Stato Maggiore: sono i ministri della destra Ben Gvir e Betzalel Smotrich, e due membri del Likud, Miri Regev e David Amsalem.
I quattro hanno ricordato che Mofaz tenne per lo sgombero di Gaza nel 2005, che Farkash ha sostenuto l’obiezione militare nello scontro sulla riforma giudiziaria… punti poco legati al tema. Punti sostenibili, ma certo improprio l’attacco al pilastro dell’attuale difesa israeliana sul campo, e quindi al punto di riferimento dei soldati in battaglia. Gallant ha cercato di bloccare con Gantz i quattro, Bibi ha chiuso la riunione senza parlare e d è criticato per questo Adesso si tratta di affrontare come in programma, dato che Blinken è in arrivo, la questione del “day after”, oggetto della riunione fallita. IL ministro degli affari strategici Ron Dermer e Gallant ministro della Difesa, hanno il compito difficile di illustrare i punti in comune e le differenze con gli USA. Si sa del piano di Yoav Gallant che Israele manterrà libertà di azione militare ma che non ci sarà presenza civile israeliana a Gaza dopo che gli obiettivi della guerra siano stati raggiunti. Una forza multinazionale di stati europei e arabi sosterrà la responsabilità della ricostruzione e della gestione insieme ai palestinesi, Stati Uniti e con Israele e Egitto contribuiranno a isolare il confine fra Gaza e L’Egitto. L’entità palestinese riformata e affiancata dalla forza multinazionale governerà coi meccanismi amministrativi esistenti dentro Gaza, basata su comitati locali. La forza multinazionale sorveglierà e aiuterà. Parole dietro le quali si celano mille domande. Che il piano sia o meno realizzabile, è il terreno di incontro che si può concordare con Biden, un rilancio da Premio Nobel, fantasioso, volenteroso, di “due stati per due popoli”. Ma che i palestinesi di Abu Mazen (all’ospedale in queste ore), che fino ad ora tengono per Hamas, diventino un partner, è possibile se abbandoneranno il loro sogno: vedere crescere la mezzaluna iraniana che, come dimostra anche il discorso di Nasrallah, pensa di strangolare Israele circondandola di nemici. Per questo che quando Ben Gvir dice che vuole rioccupare Gaza, prospettiva davvero poco attraente che non a caso fu rigettata d Sharon con lo sgombero nel 2005, ha un peso nell’opinione pubblica. Prima dell’aggressione del 7 aprile, Israele non conosceva una lezione che purtroppo ha poi dovuto imparare: quella dell’odio che non conosce confini. Su come gestire questa nuova consapevolezza in un Paese democratico, è aperta una difficile discussione.
"ll Libano è pronto". Nasrallah minaccia (ma non morde)
Il Giornale, 04 gennaio 2024
Nasrallah durante il suo atteso discorso di ieri ha detto tutto quello che ci si poteva aspettare: ha maledetto il nemico sionista, ha promesso una terribile vendetta che verrà quando opportuno per l’eliminazione del vicecapo di Hamas Saleh al-Arouri martedì alle 6 in Libano, a Beirut, nel suo quartiere Dahiah. Ma non è andato oltre, perché, ha spiegato “ci barcameneremo fra l’odio per Israele e la necessità di salvaguardare il Libano. Ha esaltato, congratulandosi, la grande impresa di Hamas, definendo le rovine di Gaza una immagine di vittoria per i palestinesi, ha detto che “gli ebrei ormai non sono più sicuri in Israele” ed “è tempo di fare le valige”.
Ha anche porto le sue condoglianze al suo master e padre spirituale, l’Iran, che ha sofferto ieri l’attentato alla tomba di Soleimani: un modo di ribadire il legame con gli ayatollah; ma ha anche, come si deve, ribadito l’indipendenza dei membri dell’asse iraniano. Per quanto abbia parlato due ore l’eventuale grande esplosione sulla morte di al-Arouri non c’è stata. Nasrallah non ha sfidato la minaccia di Israele dopo aver osservato la guerra a Gaza. E dopo tutto al-Arouri è stato ucciso con cinque dei suoi, tutti di Hamas, in un ufficio dell’organizzazione, da due missili ben mirati che hanno evitato di colpire uomini o cose degli Hezbollah. Nasrallah considerava il suo ospite un alleato che aveva anche costruito sul confine una sua forza armata e agiva per Hamas ma secondo le comuni indicazioni ricevute dall’Iran: tuttavia subito il portavoce dell’esercito israeliano, dopo l’eliminazione ha ripetuto, sempre evitando di prendere responsabilità, che Israele è solo concentrata sulla guerra contro Hamas.
Cioè: non contro Nasrallah. Altro segnale: il capo degli Hezbollah era uscito per la prima volta da mesi dal suo bunker dove è significativamente tornato tranquillo. Quindi, niente guerra totale. Tuttavia, i missili Nun Tet hanno riempito ieri di botti e di fuoco il confine di Israele col Libano. La guerra di attrito potrebbe diventare più minacciosa ancora di quella in corso con Gaza se si riscalda. Gli hezbollah hanno stipato negli anni la capacità di colpire Israele quasi ovunque coi 250mila missili di cui li ha forniti l’Iran.
L’eliminazione proprio a Dahiah appare comunque molto audace: ancora in agosto, mentre già al-Arouri si appoggiava al Libano per costruire una nuova forza armata di Hamas, Nasrallah aveva minacciato di tremenda vendetta chiunque toccasse gli ospiti sul suo territorio. Ma Israele non poteva fare a meno di abbracciare l’occasione di eliminare l’uomo che fa concorrenza a Sinwar l’articolato tessitore di rapporti internazionali, l’Iran, la Siria, il Libano, e soprattutto era l’uomo che nell’Autorità Palestinese aveva costruito una grande rete di terrore che colpisce da anni Israele, sostituendo con Hamas il Fatah di Abu Mazen che certo non piange la sua dipartita. La sua impresa di catturare tre adolescenti che andavano a scuola nell’West bank e ucciderli tutti, provocò la guerra con Gaza del 2014.
Alcuni dicono che la sua uccisione può frenare la trattativa sugli ostaggi, di cui il Cairo ha annunciato ieri lo stop: ma altri mediorientalisti pensano che fosse lui il più duro nel chiedere uno stop della guerra contro gli ostaggi, e inoltre adesso Sinwar, allarmato dalla sua eliminazione, potrebbe piegarsi a uno scambio più morbido. Al-Arouri aveva la sua sede più consueta a Istanbul. Là si incontro con Ismail Haniyeh subito dopo l’attacco del 7 ottobre, e solo due settimane fa vi ha tenuto un’altra riunione di vertice. Probabilmente il suo disegno era organizzare dall’Autonomia Palestinese un massacro nelle città ebraiche nello stile del 7 di ottobre. Adesso, in Turchia si sta dirigendo il primo ministro iraniano Raisi per incontrare Erdogan. Sarà un summit su Gaza. Dopo che il premier turco ha dato di “Hitler” a Netanyahu, i due avranno molti argomenti di conversazione.
Il paradosso di Israele, all'Aja per genocidio
Il Giornale, 03 gennaio 2023
Quando potrà Israele dichiarare vittoria nella guerra contro Hamas? La risposta si trova oltre il territorio di Gaza, al di là della politica che ha portato al 7 di ottobre. Niente potrà mai essere uguale, Io Stato Ebraico dopo aver visto l’odio divenuto strage di massa, reagisce alle accuse che l’hanno accompagnata mentre il terrorismo colpiva negli anni, e va alla Corte di Giustizia dell’Aja (ICC) i per difendersi e per accusare. L’hanno preceduta 9 fra le famiglie delle vittime del massacro. Gli avvocati preparano già le carte, si spiegherà al di là degli schermi televisivi e della propaganda su tic toc il perché dei morti e dei feriti, delle distruzioni e dei profughi. Si ripercorrerà anche il massacro, perché l’ICC indagherà anche questo.
Israele nello specifico reagisce alle accuse di genocidio mosse dal Sudafrica, ma vuole parlare al mondo, e specie a quello delle istituzioni internazionali. Il Sudafrica ha chiesto un ordine immediato di sospensione delle azioni militari di Israele accusandolo di crimini di guerra, anzi, di genocidio. Già il 19 novembre il presidente Cyril Ramaphosa aveva lanciato l’attacco: “Gaza è un campo di concentramento dove si svolge un genocidio”. La tipica accusa del nuovo antisemitismo, un “blood libel”: la nazificazione di Israele. Il 16 novembre Pretoria aveva richiamato i suoi diplomatici e passato una risoluzione per chiudere l’ambasciata d’Israele. La parola apartheid è una specie di ritornello in tutte le condanne, immemori del fatto che Mandela era buon amico di Israele.
Netanyahu ha risposto: “No, noi non perpetriamo genocidio, è Hamas che ha aggredito per questo scopo. Ci ucciderebbe tutti se potesse. Al contrario l’esercito agisce al massimo della moralità, cerca di evitare di colpire i civili mentre Hamas fa di tutto per riuscirsi, e li usa come scudi umani. E poi, dov’eravate quando milioni sono stati assassinati e sradicati in Siria, Yemen, in altre aree? Ciò che dite è solo bugia e vanità. Noi continueremo la nostra guerra difensiva con giustizia e moralità senza pari”. Dunque, Tzachi Hanegbi capo del Consiglio di Sicurezza nazionale ha annunciato che Israele non boicotterà l’indagine e il giudizio dell’ICC. Ha spiegato che Israele è firmatario della convenzione sul genocidio e che l’accusa equivale a diffamazione. “Il nostro popolo ha sperimentato il genocidio più di qualsiasi nazione con la Shoah. Una crudeltà analoga, che si sarebbe sviluppata su tutto il popolo se avesse potuto, è stata inflitta ai nostri cittadini col massacro del 7 di ottobre. Ma adesso c’è Israele a difendere gli Ebrei, e lo farà”.
L’ICC è’ un’istituzione che Israele ha sempre guardato con distacco e disgusto, è parte del sistema onusiano del doppio standard dei diritti umani: suo mestiere, una massa di risoluzioni, imprese legali, indagini su Israele. Esso, dunque, ha rifiutato ogni coinvolgimento anche perché il non esistente Stato palestinese è diventato nel 2015 il 123esimo membro dell’ICC. È ironico e triste che la Corte sia nata nella mente dei padri fondatori proprio in seguito alla Shoah. Israele è già stato messo sotto accusa almeno tre volte dalla sua famosa ex pubblico ministero Fatou Ben Souda, una nemica giurata. Un paese amico al tempo di Mandela, poi trasformatosi nel promotore sotto la nuova leadership dell’accusa di apartheid. A Durban nel 2001 la conferenza dell’ONU contro il razzismo si trasformò in una conferenza razzista contro Israele.
L’indagine studierà se nella diabolica guerra con Hamas che ha trasformato sopra e sottoterra in caserme gli ospedali, le scuole, le moschee, le case, che ha visto l’uso totale della gente come scudi umani, Israele si è attenuto al concetto basilare della proporzionalità. Essa non ha a che fare con i numeri, ma con la ragionevolezza dello scopo e con la pericolosità del nemico. Israele può vantare i continui avvisi ai civili ad allontanarsi dal pericolo imminente, il rispetto delle regole di tregua e di aiuto umanitario. Hamas ha poco di cui vantarsi. Le testimonianze raccontano le torture dei rapiti e l’uso schiavistico dei suoi cittadini.
Israele, l'anno più duro e le incognite. E i giudici riaccendono lo scontro: stop alla riforma della giustizia di Bibi
Il Giornale, 02 gennaio 2024
Finalmente è finito: il 2023 per Israele è stato un anno che ha cambiato il corso della storia, niente di ciò che era sarà. Si può paragonarlo al 1948, al 1967, al 1973, in cui guerre fondamentali decisero della vita di Israele e ne cambiarono il carattere. Crearono inventività, resistenza e anche presunzione. Ma nulla ha travolto l’epos, il carattere del Paese come il 7 di ottobre. Tutto è ancora da scrivere: come e quando finirà, torneranno gli ostaggi, quanti morti avremo? Hamas verrà distrutta? Nessun anno ha mai avuto le conseguenze di devastazione e anche di valore che ancora si scoprono.
L’israeliano medio, di ogni idea e classe sociale, di ogni età, è protagonista di un film di cui non conosciamo la fine. L’Annus orribilis si è concluso, ma siamo nel mezzo a una tempesta che scuote la nave; la sicurezza costruita dopo la maggiore delle persecuzioni, la Shoah, è in dubbio. Anche l’antisemitismo occidentale insieme ai nemici mediorientali e una terribile sorpresa. Israele prima del 2023 non immaginava che Hamas sarebbe andata oltre gli attacchi terroristici, che sarebbe stata contenuta; non sapeva affatto che avrebbe in massa macellato famiglie, bambini, ragazze, fino a 1400 vittime. La tecnologia, la medicina, la forza dei Patti di Abramo avrebbero funzionato da deterrente. Israele si era illuso di annebbiare i palestinesi, l’Iran, i suoi proxy.
Tutti hanno sbagliato: Netanyahu che pensava di combattere a basso volume ignorando che l’ideologia è più inebriante della politica, Yeir Lapid che ha stretto un patto con gli Hezbollah sul gas nel Mediterraneo. Il governo ha valutato il prossimo patto coi sauditi più che l’aggressività dell’Iran coi suoi servi Gaza, Libano, Iraq, Siria, Yemen. Israele nel 2023 fino a novembre era tutto nel suo scontro super democratico, fifty-fifty: da una parte la riforma della giustizia sostenuta duramente dal governo di Netanyahu e dall’altra manifestazioni estreme, blocco di autostrade, ospedali, aeroporto. Tutti ciechi, ignari dei rischi. Adesso, potrebbe riaprire ferite gravi il voto di ieri, 8 a 7, dei giudici della Corte Suprema per cancellare la parte della riforma già votata, quella sulla “ragionevolezza”.
Ovvero, i giudici tornano a decidere con parere insindacabile “la ragionevolezza” di una legge, senza un parametro come la costituzione. Questo ripristino può creare scontro politico rinnovato. Vedremo: è un fuoco in un cespuglio, ma c’è la guerra. Il 7 di ottobre ha cambiato tutto: il Paese non è ancora pronto a spaccarsi di nuovo, come i media o i politici. I soldati combattono insieme. A suo tempo quando piloti e riserve contro la legge minacciarono di non presentarsi a combattere, Hamas guardava.
Ora tutte le riserve hanno un messaggio: combattere insieme. Il 7 di ottobre è stato uno tsunami: stupri, decapitazioni dei bambini… e le sfibranti trattative sui rapiti, la sofferenza delle famiglie. Le centinaia di migliaia di sfollati, l’incertezza del fronte nord con gli Hezbollah, e persino una guerra globale con l’Iran all’orizzonte. Le domande bruciano: perché gli avvertimenti non sono stati ascoltati dalla sicurezza, dai politici? Dov’era l’esercito? Perché gli elicotteri non hanno sparato? E come mai l’ONU non ha condannato? Perché Putin aizza il Consiglio di Sicurezza? Intanto si è consolidato il rapporto fra Israele e Biden, grande amico: pretende aiuto umanitario, ma insiste sul diritto all’autodifesa… Israele ha pazienza nonostante 170 soldati siano morti in battaglia, ogni mattina la radio annuncia caduti la cui perdita per questa piccola società è un disastro. Ragazzi e ragazze feriti in guerra, come i sopravvissuti dei kibbutz, vogliono combattere e vincere per tornare alla vita: destra e sinistra, religiosi e laici.
Sarà forte nel 2024 il tema delle responsabilità del Governo, e così deve essere, non per la Corte Suprema, ma con una commissione d’inchiesta e le elezioni. Persino le famiglie dei rapiti, che vogliono subito lo scambio, alla fine vogliono combattere. Il New York Times ci ha messo tre mesi ad accettare che gli stupri omicidi erano un’arma di massa. Forse però questo segnala una fase di verità sull’obiettivo della guerra: Hamas deve essere sconfitto, contro i terroristi e i movimenti integralisti islamici, ovunque. Il 2024 sarà ancora un anno di guerra per tutti.
Antisemitismo genocida, il ritorno del «mostro». Quegli slogan di odio nel cuore dell’Occidente
Il Giornale, 30 dicembre 2023
Gina Semetich era sopravvissuta al campo di concentramento di Terezin, là era stata trascinata dalla Cecoslovacchia invasa dai nazisti. Adesso, a 91 anni, in Israele, a Kissufim, quattro chilometri da Gaza, i nazisti l’hanno trovata di nuovo, trascinata, picchiata, buttata per terra, uccisa. Perché era ebrea. I sopravvissuti che nel mondo hanno visto questa scena hanno capito che era tornata la Shoah. Diversa, come sempre è la storia, ma come nella loro vita precedente, i bambini sono stati ammazzati e fatti a pezzi (i nazisti li sbattevano nel muro, Hamas gli ha tagliato la testa), le donne in cinte sono state sventrate, i giovani e le giovani violentati e uccisi, all’improvviso, in un pogrom.
Nell’Essex la polacca Fran di 85 anni dice a un giornale che lei non si sente più sicura. Ha paura. Come lei tutti i sopravvissuti che hanno bisogno solo di abbracci. Tutti gli ebrei del mondo hanno dentro la memoria di una fuga, di una guerra, di un miracolo: c’è sempre in famiglia un avo, un nonno, una madre, vittime dell’antisemitismo. Ma dopo la Seconda guerra mondiale, il mondo gli aveva giurato “Never Again”: Exodus era arrivata in porto, il legittimo sogno di decolonizzazione del Medio Oriente in cui ci fosse posto anche per lo Stato Ebraico mai abbandonato, era stato la prima legittima affermazione di una promessa dopo Auschwitz. E adesso? Molte terribili storie, senza mai dimenticare quella Ucraina, marcano questo 2023, ma nessuna è minacciosa, dopo la strage di Be’eri o Kfar Aza, al grido di “Yehud yehud”, come l’inseguimento degli ebrei nelle vie di New York, di Londra, di Parigi, di Milano… Questo è stato l’anno del ritorno dell’antisemitismo genocida, il mostro che ha devastato la Terra solo 75 anni fa, e che lo farà di nuovo se non si compirà una rivoluzione per ora non all’orizzonte.
Un famoso sindaco italiano qualche giorno fa in tv diceva che era stato a una manifestazione che era certo, filopalestinese come lui, ma certo non antisemita, era solo antisionista. Niente più essere più ingenuo, o truffaldino. L’antisionismo odierno e antisemita, perché è genocida, vuole la distruzione di Israele, e degli ebrei di tutto il mondo. E lo dimostra in ciò che fa e dice. Nelle botte, negli assassini, nelle minacce, nella teorizzazione degli ebrei come male assoluta, quella dell’antisemitismo contemporaneo dopo quello religioso ed etnico.
Mentre l’antisemitismo subito dopo l’attacco di Hamas si moltiplicava del 400 per cento, su Facebook occupava i post col 193 per cento in più, in Francia gli ebrei venivano attaccati per strada 1040 volte. I suoi cori di strada nel mondo dicono: “Fuck the jews”, “A morte Israele”, “Hamas Hamas uccidi gli ebrei”, “Ci mangiamo gli ebrei”, “Aprite i confini uccidiamo gli ebrei”, “Fuori i sionisti da Roma”, “Rivedrete Hitler all’Inferno”, ”Loro hanno le armi noi abbiamo Allah”.
Il motto più significativo è quello “dal fiume al mare la Palestina sarà libera”: ma si è verificato che la folla non sa da che fiume a che mare, è un’indicazione di genocidio metafisico, ma il sangue degli ebrei non lo è, e si è visto. Chi marcia o fa comizi, non vuole uno Stato palestinese accanto a Israele, ma la distruzione di tutto ciò che sia ebraico, in Israele come a Roma, come a Parigi. Università prestigiose, teatri, organizzazioni culturali, musicali, artistiche, espellono, terrorizzano, vilificano gli israeliani e gli ebrei. Ci hanno costretto a sorridere quando le tre direttrici dell’Ivy League fra le urla dei campus a caccia di ebrei si sono esibite nel loro: “Il genocidio dipende dal contesto”. Ma non fa ridere che all’Onu, dopo aver conosciuto le atrocità mai viste nemmeno con l’Isis, Guterres se ne esca dicendo: “Non nasce nel vuoto”. Era già successo che Israele annegasse nel sangue, per esempio della Seconda Intifada senza un cenno di compassione.
Ma adesso siamo più avanti. Anche la Kristalnacht ebbe luogo nel novembre del 1938, e ancora non c’era la guerra, né le deportazioni. Ma “From the river to the sea” parla chiaro: “Globalize the Intifada”. Non è il sionismo che crea il nuovo l’antisemitismo e con esso l’odio per l’occidente; esso è solo il nuovo veicolo dell’antisemitismo che ha già distrutto l’Europa e si sta estendendo dai kibbutz sul confine di Gaza all’affermazione violenta del movimento woke, dell’assertività mussulmana, chiama guerra di liberazione il terrorismo, cerca alleanze (Iran, Russia…) che destrutturino il mondo contemporaneo da religione a religione, da razza a razza, da sesso a sesso. Investe la conversazione di sinistra, distrugge la religione dei diritti umani.
Il rifiuto di capire che uccidere 1500 ebrei facendo a pezzi i bambini e le donne urlando “Yehud yehud” è antisemitismo, è pari alla rinuncia del principio di decenza per cui il mondo occidentale cercava, dopo aver ucciso 6 milioni di ebrei, di riscattarsi con “Never Again”. Ma adesso, non ci possiamo più credere. Non sono le piazze di ragazzi ignoranti o di immigrati furiosi che hanno la responsabilità della svolta attuale, e che la rendono pericolosa. Sono le anime gentili degli intellettuali e delle istituzioni. L’antisemitismo ha avuto una radice di odio religioso, poi etnico, e coi passaggi teorici legati al nazismo e poi col comunismo leader del mondo arabo, e infine con l’integralismo islamico contro l’impresa nazionale ebraica, si è trasformato in odio teorico, che ha invaso i media e le istituzioni.
Tutti gli slogan di invenzione sovietica, poi trasferiti nella cultura woke, contro il colonialismo, l’imperialismo, il capitalismo, persino la supremazia bianca per cui gli ebrei sono diventati bianchissimi, persino l’odio lgtbq per il Paese in cui si rifugiano tutti i gay arabi… tutto si è rovesciato su Israele. Le maggiori istituzioni, specie l’ONU sono diventate la sentina dell’odio antiebraico mondiale: ogni mese il Consiglio di Sicurezza fa una finta “riunione sul medio Oriente” contro Israele, l’anno scorso l’assemblea generale ha passato 15 risoluzioni contro Israele, e 13 sul resto del mondo, Iran, Turchia, Siria,Russia… Bernard Lewis, ricorda come la strage di 800 palestinesi perpetrata da cristiani libanesi a Sabra e Chatila nello stesso tempo in cui 20mila persone furono uccise a Hama da Assad padre, fu l’unica strage di cui si parlò perché la presenza militare di Israele in zona consentiva di biasimare gli ebrei. Sharon fu assolto da un tribunale internazionale. Nella difficile guerra in corso, Israele, dopo il 7 ottobre deve liberare sé stessa e il mondo a liberarsi da Hamas, batterlo sopra e sottoterra mentre usa i civili come scudi umani rispettando i diritti umani. Israele difende la sua esistenza cosa che a differenza di qualsiasi altro stato, non gli viene riconosciuto.
“Never Again”, cioè, lo deve dire Israele stessa; nessuno glielo potrà impedire. Quello che il nuovo antisemitismo ignora è che è la prima volta in cui annichilire gli ebrei, con pogrom, stupro, sterminio, reclusione, non è più possibile. Per questo Israele deve purtroppo combattere: il mondo deve capire che non capiterà mai più che si lascino uccidere in silenzio. Pensarlo, immaginare che non debbano difendersi perché segnati da qualche colpa originaria, è antisemitismo: quindi, per esempio, è segno di doppio standard, ovvero di antisemitismo, chiedere un cessate il fuoco che riproponga la minaccia di Hamas. Non lo si chiederebbe a nessuno. Se si vuole essere degni di dire “Never Again” non ci sono scorciatoie.