Il messaggio di Israele per riprendersi lo scettro. "Iran vulnerabile al cuore e decidiamo soltanto noi"
Il Giornale, 20 aprile 2024
L’impegno comune nelle ore precedenti l’attacco, almeno da parte del mondo occidentale, tutto preso nell’esclamazione dell’ansia, della paura, della presa di distanza da qualsiasi “escalation”, è stato quello di chiamare Israele all’inazione. Ma Israele, come tutto il Medioriente, sa molto bene cosa si dice quando si parla di Iran, e come può davvero generarsi una pericolosa guerra di distruzione dalla sua natura aggressiva e terrorista: ciò avviene se l’Iran è convinto di poter piegare, dominare, terrorizzare. “È il Medioriente, stupid”. Hamas ha attaccato a morte perché pensava che Israele fosse in ginocchio; Teheran con i suoi missili perché l’ha ritenuta indebolita e divisa. Adesso tutti sanno che le cose non stanno così. Israele alle quattro di mattina ha attaccato. Ha fatto l’unica scelta possibile dopo che Khamenei lo ha bersagliato con 60 tonnellate di esplosivo che avrebbero potuto colpire un grattacielo di Tel Aviv, le strutture atomiche di Dimona… missili balistici enormi, fuori e dentro l’atmosfera hanno invece trovato una risposta di incredibile potenza: i piloti israeliani e di altri Paesi li hanno fermati restando in aria in un’operazione acrobatica per 8 ore. La stima, l’ammirazione, la solidarietà, sono tornate a riscaldare i rapporti globali con Israele. E adesso, per il compleanno di Khamenei, la sorpresa di Isfahan. Israele non poteva fare di meglio, ambedue le volte.
Se non avesse risposto, sarebbe stata la fine della deterrenza, dell’idea che l’IDF valga; i suoi servizi di informazione e di sicurezza si sarebbero confermati fuori giuoco come il 7 di ottobre. Uno scherzo distruggere Israele ormai. Invece, ieri il nome del Mossad è tornato a far parte del mito, l’aviazione è arrivata e tornata indietro intatta dal terreno iraniano, gli obiettivi sono stati colpiti. Era essenziale rispondere subito. Gli F15 sono volati fin dove si può infliggere un danno catastrofico al nemico, dimostrando anche che non dispone di strutture antiaeree anche se possiede i missili e i droni. Israele può arrivare sul cuore delle strutture nucleari: l’hanno visto bene gli amici dei patti di Abramo e oltre; sanno di nuovo quanto Israele può essere utile nella difesa dal nemico messianico shiita, che prepara la venuta del Mahdi con la conflagrazione universale. Proprio il giorno prima dell’attacco Nasrallah aveva detto che Israele aveva perso la guerra, e che non poteva muovere un passo senza il permesso degli Stati Uniti. Invece ecco che Israele si è mosso in totale libertà nonostante i lacci e lacciuoli da ogni parte, ogni giorno.
Sembra che Biden sia stato avvertito, ma la decisione non è dipesa altro che da una concentrata, intensa riflessione strategica del gabinetto di guerra: la scelta di realizzarla senza colpire duro consente agli USA e agli altri di non contrastare la scelta compiuta e limitarsi a auspici irenici. Israele ha volato fine alla bocca della belva: vicino a Isfahan, c’è il cuore dell’arricchimento dell’uranio. Così ha affrontato il tema atomico, e indicato la strada. Là tutti devono guardare, e prepararsi a gesti indispensabili alla salvaguardia dell’umanità. Si dice che nel giro di sei mesi l’Iran potrebbe avere 8 bombe pronte.
A Isfahan viene custodito lo yellow cake, Israele ha voluto ribadire che è ben conscio del pericolo, e può affrontarlo: è anche una freccia rossa che mostra l’obiettivo perché si vada oltre le piccole sanzioni in atto oggi. Durante le ore dell’attacco, Israele ha anche colpito varie postazioni dei proxy iraniani in Siria, Libano, Iraq, Yemen... e intanto non ha abbandonato Gaza e la determinazione a entrare a Rafiah e a mettere al primo posto i rapiti. Israele segnala la sua capacità di affrontare in attacco la guerra su più fronti che deve combattere per sopravvivere. È chiaro che pensa anche che il coraggio dimostrato di fronte alla piovra khomeinista sospinga l’opposizione coraggiosa che non ne può più del regime. In ebraico si dice “hutzpà” quella sfrontatezza un po' maleducata con cui si dice pane al pane e poi si fa quello che è giusto: prende corpo l’Israele del post 7 ottobre, quella che ha capito la lezione, alza il capo, non lascerà che gli ebrei vengano di nuovo sterminati.
L'errore di pensare una de-escalation regionale: così Teheran potrà pianificare il suo assalto finale
Il Giornale, 17 aprile 2024
Chi oggi si immagina uno scenario di pace in cui l’Iran rinunci alla sua strategia di distruzione di Israele e dell’Occidente solo che lo stato ebraico accetti “una de-escalation regionale” come ripetono molti protagonisti della politica internazionale, primo di tutti Biden, dopo l’attacco di due giorni fa, si sbaglia. Non potrebbe esserci errore peggiore oggi di quello di dimenticare ciò che l’Iran è, ciò che ha in programma secondo la sua strategia e il suo credo, e lasciarlo organizzare il suo 7 di ottobre, un assalto definitivo ben più feroce delle atrocità del suo pupillo e mantenuto, Hamas. Qualcuno si ricorda certamente come, dopo 8 anni il presidente Ahmadinejad il 26 settembre del 2012 di fronte all’assemblea dell’ONU minacciò di morte “il presente insopportabile sistema oppressivo che domina il mondo” e vi portò la sua fede nella venuta del Mahdi, il profeta shiita, che avrebbe portato la redenzione con una conflagrazione universale di cui America e Israele per primi, il Grande e il Piccolo Satana, avrebbero fatto le spese? Molti ricorderanno come la rivoluzione del 1979, che subito prese in ostaggio gli americani dell’ambasciata a Teheran, abbia stabilito per volontà di Khamenei che gli Imam non erano più saggi custodi del Corano, ma capi politici e strategici della riscossa iraniana?
Ecco, la situazione è giusto questa: Khamenei con le guardie della Rivoluzione stabilisce la rotta messianica e distruttiva, la teocrazia ordina direttamente l’attacco della notte fra il 13 e il 14 come il rinnovato sforzo della polizia a picchiare e arrestare le donne “malvelate”. L’attacco è stato un vero attacco, non ha affatto avuto un significato dimostrativo: si illudeva di nuovo, come quello di Hamas del 7 ottobre, sempre concordato con gli Ayatollah, di distribuire strage e panico in Israele, forse in modo definitivo: un attacco enorme, superdispendioso, così ben armato, con 300 lanci fra missili e droni, che ha addirittura sparato sopra la Spianata delle Moschee con le sue luci mortuarie invece di onorare il santuario islamico, non serve a impressionare, ma per piegare, umiliare, e quindi vincere, guidare, conquistare Israele. Il generale Zahedi non è il protagonista: Suleimani, ben più importante, non ha destato questa reazione, l’Iran sa come nessun altro che la Siria è il centro di distribuzione delle armi a Hezbollah e Hamas, Zahedi era un capo terrorista in attacco, non è una vittima, e Khamenei lo sa bene. Adesso, Israele ha rovesciato l’offesa, i suoi sistemi Oron nelle mani di piloti coraggiosi che hanno sfidato la morte per eliminare i missili hanno distrutto e ridicolizzato l’attacco. Tuttavia, è un gigantesco attacco sui suoi piccoli confini. Cosa deve fare Israele, il mondo lo suggerisce senza sosta: stare tranquilla, consolidare la coalizione occidentale-sunnita che l’ha difesa, l’ha aiutata, ne ha fatto di nuovo uno scudo contro la barbarie. Perché reagire, dunque?
La risposta è semplice. Per l’Iran una pace sarebbe un’ennesima forma di taqiyya, la stessa dissimulazione usata nella costruzione del reattore nucleare, sempre negato, sempre perseguita con mille sotterfugi. Inoltre l’Iran in pace, preparerebbe una guerra ancora più irrazionale, crudele, orrida come le atrrocità da lei promosse sponsorizzando Hamas. In secondo luogo, Israele rinunciando a rispondere non rafforza i suoi rapporti internazionali, ma, di fatto, li indebolirebbe. I Patti di Abramo sono nati nel 2015 dal discorso che Netanyahu tenne al Congresso Americano suggerendo di cancellare il patto con l’Iran sul nucleare e di intraprendere una dura lotta contro il regime tirannico, terrorista. Fu allora che i Paesi Sunniti capirono che potevano fidarsi di Israele per la difesa comune, lo sviluppo dell’area e il rapporto con l’Occidente, con gli USA e con l’Europa piuttosto che con la Russia e la Cina, cui si appoggia l’Iran. Gli Stati Uniti che temono una conflagrazione potranno certo avere voce in capitolo sui modi e i tempi, e anche sulla guerra di Gaza.
Ma la delusione che porterebbe una mancata risposta di Israele sarebbero fatali per la fiducia dell’Arabia Saudita e degli altri Paesi: l’Iran non è un pericolo solo per Israele. E qui viene spontanea una domanda. Vedendo i missili fioccare su una democrazia liberale provenendo da migliaia di chilometri di distanza, da un Paese che odia le donne, i dissidenti, gli omosessuali, che ha fatto esplodere centri sociali e basi militari in tutto il mondo, i romani, i milanesi, la gente di Parigi e di Londra non ha alzato gli occhi verso i propri cieli? Mala tempora currunt per chi non sa vedere la realtà e mantenere la sincerità con sé stesso.
Israele e il dilemma sulle mosse dopo il successo
Il Giornale, 15 aprile 2024
Evento storico ieri, mai un Paese è stato preso di mira da più circa 300 missili in poche ore salvo l’Ucraina il 22 marzo del 2022 da un attacco di Putin. E mai un Paese attaccato ha reagito distruggendo il pericolo per il 99 per cento, combattendo in aria una battaglia straordinaria, spengendo come stelle morenti missile per missile e raccogliendo il consenso e l’aiuto di tutto il mondo civile. Certo: l’Iran ha comunque festeggiato nel suo parlamento l’attacco al Piccolo Satana gridando “morte a Israele”, come avesse vinto la guerra occupando il cielo degli Ebrei per qualche ora: è un segnale dell’estasi messianica che il regime degli Ayatollah annette alla questione israeliana, la sua bandiera d’odio per l’Occidente. E deve suonare come una sirena d’allarme che quel Paese agisca e parli secondo una logica aliena alla mente occidentale, come Hamas che ha compiuto le sue atrocità scambiandole per una vittoria e preparando così il disastro del suo popolo. Cioè, praticare l’odio per l’Iran è sufficiente, lo è perseguire la morte anche senza risultati, senza rispetto neppure per il concetto di vittoria.
Adesso Israele si trova di nuovo a scelte fondamentali. La notte scorsa ha visto un gran bel successo militare perché ha distrutto le armi iraniane, e strategico perché ha riformato una grande alleanza occidentale dopo mesi di continuo acuto dibattito con tutti. Per la prima volta, oltre che utilizzando i suoi “proxy” per lanciare attacchi a Israele, l’Iran, che della distruzione di Israele ha fatto il suo scopo, ha avuto invece un disastro strategico. Il 99 per cento dei missili sono stati distrutti dagli scudi di difesa Hetz e Kipat Barzel, la grande invenzione israeliana, ma anche dall’aviazione in volo tutta la notte con gli aerei americani e francesi mentre il mondo degli accordi di Abramo e della pace, specie la Giordania, ricostruiva un fronte di difesa comune. L’Egitto teneva i suoi cieli aperti. Mentre dall’altra parte i soliti terroristi legati all’Iran intervenivano in supporto dal Libano, l’Iraq, la Siria, lo Yemen... dalla Giordania all’Arabia Saudita all’Egitto agli Emirati, tutto l’arco sunnita (escluso Erdogan che ha proibito di usare il suo spazio aereo) ha dato segni vari di sostegno a Israele.
Una sorta di Nato del Medio Oriente non ha permesso all’Iran di andare oltre il disastro che ha portato al 7 di ottobre Hamas col suo sostegno. Fidando sull’assedio a Israele sulle tracce della strategia di Suleimani di conquista del Medio Oriente, l’Iran ha compiuto il grande passo. Un esperimento in vivo. La mattina, dopo una giornata di tensione, di preoccupazione, di chiusura degli aeroporti per parte della serata, dopo una nottata di sirene in cui i missili volavano senza riguardo a dozzine sulla Moschea di Al Aqsa solo una povera bambina beduina di sette anni è stata colpita ed è in gravi condizioni. L’ aeroporto ora è aperto, l’allarme è finito. Netanyahu dopo i giorni di difficoltà con Biden, ha parlato con lui al telefono per 25 minuti recuperando il senso di quello che è un rapporto “ironclad”, di acciaio, di fronte alle minacce selvagge del fronte islamista estremo soprattutto sciita, ma in cui brilla oggi la presenza palestinese. Israele ora si dibatte nei dilemmi posti dal fortissimo rapporto con Biden, che spera di recuperare una situazione di pace nell’area. Solo Israele probabilmente capisce che se non si taglia la testa alla piovra essa seguiterà a nutrire tutti i peggiori incendiari per strangolare il mondo occidentale. Israele dunque che cosa deve fare dopo l’attacco? Contentarsi della fortuna in battaglia, o finalmente cercare di porre fine alla grande minaccia degli Ayatollah, che certo si rinnoverà sempre più aggressiva, e dei loro proxy? Ieri su questo è iniziata al Gabinetto una discussione che non finirà in un giorno.
Seguire il desiderio di Biden, quello classico degli USA, di non dare seguito all’attacco iraniano con una risposta sul territorio degli ayatollah o rispondere con un attacco diretto al Paese che da mille strategie indirette passa adesso a un’aggressione che può ripetersi, se incoraggiata dal silenzio, in termini peggiori fino alla minaccia atomica? Israele ha di nuovo interessi diversi da Biden, ma una maggiore condivisione di scopi col mondo sunnita. Che dice il G7? Che avrebbe detto la Giordania se un missile iraniano fosse caduto su al-Aqsa? Che cosa l’Arabia Saudita o l’Egitto?
Ma il Paese è unito: la vittoria è necessaria per la sopravvivenza
Il Giornale, 13 aprile 2024
L’allarme per un possibile attacco iraniano non è ufficiale ma nei rifugi si accumulano bottiglie d’acqua; la guerra con Hamas è in corso; a una settimana dalla Pasqua le famiglie preparano un triste tavolo per i rapiti; i ragazzi nell’esercito restano tutti consegnati. Israele non è solo in guerra: è una democrazia appassionata in guerra, e questa passione crea scontro. Ma la storia dello scontro per condannare Israele alla sconfitta a causa di Netanyahu crea confusione. E quindi: nonostante la ormai proverbiale rottura fra gli USA e Israele che avrebbe allontanato Biden dall’America, a fronte delle minacce iraniane gli USA, dice il presidente, sono alleati “ironclad”, di Israele. Ripete anche che concorda sull’eliminazione di Hamas, e che Bibi deve mantenere la promessa di aiuti umanitari per la gente, e non deve entrare a Rafah. Israele risponde: i camion si affollano a centinaia, si aprono i passaggi, dentro Gaza si combatte meno e si apre alla gente la strada per Khan Yunes. Come richiesto. E se Hamas si avventa sugli aiuti umanitari, è colpa sua, come del resto l’ennesimo “no” sugli ostaggi. Ma come si dice sempre che Bibi che non è disposto a dare abbastanza e le famiglie sono contro di lui.
Ma la verità è che le famiglie sono divise: le manifestazioni che chiedono di concedere tutto e subito, hanno come contrappeso quelle che protestano perché il numero dei soldati dentro la striscia è stato diminuito, chiedono di combattere duramente e di non fornire aiuti umanitari. Pensano che solo la pressione militare consentirà un accordo. Ma Sinwar vede che il mondo intero insiste sul suo scopo: un cessate il fuoco definitivo per ricostruire Hamas (Netanyahu ha proposto lunghi cessate il fuoco in cambio dei rapiti, tutti rifiutati) contando sull’ONU e l’UE, Sinwar aspetta che l’ingresso a Rafah sia cancellato: là ha ancora 4 battaglioni. Israele da settimane lavora con gli USA per entrare senza un disastro umanitario. Il PM non è il colpevole protagonista della scelta di Rafah: non c’è un solo membro del Gabinetto e della maggioranza alla Knesset che sia contro. Benny Gantz lo ha ribadito: “Distruggeremo Hamas, andremo a Rafah… se smetti gli antibiotici a metà, di sicuro ti ammali di nuovo”. Si può essere di destra o di sinistra e volere le elezioni per un nuovo PM: niente di male. Ma che la vittoria sia necessaria per la sopravvivenza, in Israele è senso comune. Senza eliminare Hamas, nessuno accetterà, neppure l’Autorità palestinese, di gestire il futuro di Gaza.
Quando Israele distrusse il nucleare iracheno gli USA li condannarono. Nel ‘67 Lyndon Johnson minacciò: se andate soli, resterete soli. Gli USA hanno le elezioni, Biden fa il proprio gioco. E Bibi non è di sinistra, ha vinto troppe volte, e un conservatore liberal che gestisce le leggi più avanzate per le famiglie LGTBQ ma piace ai religiosi; ha reso Israele un’avanguardia .. e ha anche portato a casa il peggior disastro possibile, il 7 ottobre. Combatte una guerra lunga, ma avanza, i missili sono cessati, le perdite a Gaza sono contenute dato che 13mila terroristi sono stati eliminati, le tragedie tipo quella della World Central Kitchen capitano… Il Paese ha una gran voglia di recuperare, di vivere, di pace. Lo sforzo è eroico. L’attacco continuo a Netanyahu confonde e distoglie l’Occidente da tappe fatali.
Israele sei mesi dopo. La lotta della democrazia per sopravvivere alla strategia del terrore
Il Giornale, 07 aprile 2024
Nessuno sarà più lo stesso dopo i sei mesi dal 7 di ottobre. Questa guerra ha reso chiunque vi abbia partecipato, da protagonista o da testimone, molto più stupito del prezzo della vita, molto più deciso a non farsela strappare via, molto più triste che si possa tanto odiare e compiere atrocità, molto più determinato a combatterle. Guardo, qui sul mio tavolo, un cuore di plastilina raccolto a Be’eri letteralmente in un lago di sangue in un asilo nido: l’odore era terribile, e torna ad ogni momento nella mia memoria, insieme agli scenari che ogni giorno si rivelano, stupri, torture, schiavitù dei 134 rapiti ancora nelle mani di Hamas. E insieme, nuove storie, di coraggio inaudito, di sfida e fede. Israele ha combatte la guerra più lunga e difficile: generata dal peggiore attacco subito dagli Ebrei dopo la Shoah ha costretto a capire che l’odio può essere molto più forte della storia di tentativi di condivisione, di scontri e incontri, di sgomberi dolorosi come quello del 2005. Le forze in gioco sono poderose: Israele con l’Ucraina, di una rivoluzione mondiale in cui l’asse del male ha molti amici, e pensa di vincere. Così la Russia, così l’Iran che ha messo l’assedio a Israele tramite Hamas al centro della sua aggressione messianica. Ha tessuto la sua tela velenosa per l’attacco del 7 ottobre, per poi assediarla dal punto di vista morale, con l’antisemitismo, che con la violenza. Con Hamas ha associato al negazionismo della Shoah, fieramente praticato, la delegittimazione di Israele. È il gioco assurdo per cui mentre neghi la Shoah e il nazismo, accusi Israele di essere nazista: con complici come Nasrallah, Erdogan Assad, i gruppi iracheni e yemeniti, ha criminalizzato Israele mentre doveva combattere per salvarsi; l’antisemitismo occidentale, perbenista, politically correct terzomondista, vile, è cresciuto con la guerra: un fenomeno già sperimentato, in tono minore, al tempo della Seconda Intifada. E l’esaltazione che crea in Hamas e i suoi alleati il consenso degli antisemiti a Londra, a Parigi, a Roma, promette che la guerra non avrà un termine prossimo, e che potrebbe anche allargarsi. Eppure, oltre la cortina di bugie e di delegittimazione, c’è un modo di capire questi mesi di guerra molto realistico e interessante per chiunque voglia immaginare come potrebbe essere l’intero mondo occidentale se costretto a combattere. E’ un esperimento drammatico, tragico e incoraggiante al contempo.: guardare con intensità con attenzione, i soldati senza paura che dal 7 di ottobre, perdendo gli amici più cari, 500, e feriti a migliaia, hanno combattuto uniti pur essendo figli di una cultura in cui la pace è cantata, predicata, esaltata da tutti: mentre si odono da ogni tv e da ogni mezzo di comunicazione le voci di chi accusa Israele invece di concentrarsi su ciò che è accaduto e che accade. Israele si trova addosso il peso di combattere una guerra giusta in un momento storico in cui la parola “guerra” è per il mondo democratico una bestemmia. La tragedia ha aggredita sei mesi fa una società iperdemocratica, postmoderna, che dal 1948 ha immaginato che con le concessioni e il liberalismo avrebbe guadagnato il paradiso della pace. Si è risvegliata a mala pena da un sogno che le è costato caro, rischiando la vita, il presente, il futuro.
Dall’inizio, a mani nude, una volta confusamente resosi conto che il mondo del bene andava a fuoco con i suoi bambini nei kibbutz, ecco che guidatori d’autobus, maestri di scuola, operai, camerieri e cuochi, medici, scienziati, startupper, ingegneri, giovani padri di famiglie numerose, impiegate di banca, arabi pieni di buon senso, sono corsi a mettere in gioco la loro vita e quindi quella delle loro famiglie, e poi, come soldati delle riserve sono rimasti sul campo. Si sono addentrati nei vicoli minati, nelle gallerie piene di armi e terroristi, dormendo con le scarpe addosso mentre sui reticolati si affollavano volontari con i sandwich, gli schnitzel, la pita con humus, la cocacola. Il tormento è stato triplo: combattere una guerra di sopravvivenza con la responsabilità consapevole di centinaia di migliaia di sfollati e della tuta famiglia. Hanno sopportato contro la loro stessa educazione morale la sofferenza del nemico; e hanno cercato di salvare le masse di Gaza dagli attacchi con le vie di fuga e grandi derrate di cibo, acqua, benzina. Ogni giorno hanno vissuto l’impossibilità di parlare con casa, coi bambini, con una moglie che stava partorendo; di coprirsi le spalle da chi spunta e ti spara all’improvviso dalle gallerie mentre vai avanti e il tuo migliore amico viene colpito e sanguina; hanno sognare un materasso dove dormire almeno una notte; hanno visto i camion a migliaia portare i rifornimenti umanitari e all’improvviso Hamas li saccheggiava senza che potessero fare niente; hanno raccolto i corpi dei compagni dopo che un’esplosione li ha fatti a pezzi; si sono riuniti e con uno psicologo che cerca almeno di iniziare a prendersi cura del postrauma, un soldato racconta che un uomo con un pacco in mano, grazie a Dio all’ultimo minuto ha mostrato che non era una bomba, ma un bambino; un altro che una bambina di cinque anni aveva un panierino pieno di bombe a mano; un terzo che si era trovato nel sangue dei tre ostaggi che per sbaglio l’esercito ha ucciso-.
Sono gli stessi ragazzi che a Be’eri e a Kfar Aza hanno raccolto i pezzi di corpo cui altri santi hanno cercato di dare sepoltura studiando ogni indizio di identità in quei resti bruciati di creature piccole e grandi; il giovane che mi dice “mio nonno era ad Auschwitz, mio padre ha combattuto la guerra del Kippur nel ‘73, adesso “never again” sono io” deve ricominciare una vita, ma ancora sta combattendo, dopo sei mesi. Un affetto che gli illumina gli occhi lo lega ai suoi compagni, chi religioso, chi laico, chi di sinistra, chi di destra…. Prima di sei mesi fa non si parlavano, la società era spaccata. Perché Israele è una democrazia estremista, illusa che il progressismo sia la sostituzione dell’ebraismo, che ha riportato Arafat da Tunisi scommettendo su “due stati per due popoli” per poi ritrovarsi in piena Intifada. Sei mesi di concordia sono stati il regalo della guerra. Ma adesso la democrazia chiede il suo tributo, la pressione internazionale, divorata a sua volta da interessi locali come le elezioni americane, non capisce una guerra giusta, non conta su sei mesi di valore e di disperazione, ignora colpevolmente ciò che nessuno può sopportare: la minaccia di un mondo che urla all’Occidente impaurito la sua minaccia di morte, e la difficoltà nel difendersi. Nessuno vuole sentire quell’urlo, Israele, solo, vi è costretto da sei mesi a questa parte.
Zahedi ucciso, messaggio a Iran e Hamas
Il Giornale, 03 aprile 2024
La scena in cui è stata eliminato Mohammed Reza Zahedi, comandante in capo delle Forze Quds delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane (IRGC) per il Libano e la Siria, con sei dei suoi, ieri è rimasto a lungo avvolto nella polvere dell’edificio bombardato chirurgicamente accanto al consolato iraniano a sua volta contiguo all’ambasciata: la polvere ha avvolto la bandiera iraniana e il ritratto del generale Qassem Suleimani, lo stratega fondatore della conquista mediorientale da parte iraniana, a sua volta eliminato nel 2020. Suleimani, raccontava fra l’altro il leader di Hamas e suo ex ministro degli esteri Mahmoud al Zahar, nel primo dei loro incontri gli portò 22 milioni di dollari. La prima tranche, fino al 7 di ottobre. Reza Zahedi è stato un leader fondamentale su quella stessa via, ovvero quella della distruzione di Israele tramite l’uso concentrico di eserciti di “proxy” ben allenati e ben armati e la conquista del Medio Oriente, prima di quella del mondo intero all’islamismo sciita. Così pensa l’Iran. Mohammed Zahedi era certamente il maggiore pilastro, dopo la morte di Suleimani, di questa strategia, diretto interlocutore di Nasrallah, ovvero degli Hezbollah, il braccio destro dell’Iran.
Negli anni sono stati forniti passando per la Siria, altra pedina iraniana, circa 200mila missili; che ruolo diretto possa avere avuto Zahedi nella guerra del 7 di ottobre è difficile dirlo, ma un generale agli ordini diretti di Khamenei e Raisi non può essere stato distante dall’affiliazione di Hamas, frequente ospite a Teheran, e dai continui rifornimenti di armi e di mezzi ad Hamas. L’Iran ha posto al centro della conquista del Medio Oriente l’erosione dell’esistenza stessa di Israele: nelle ultime settimane le visite a Teheran di Ismail Haniyeh sottolineano la comunanza strategica e il sostegno alle mostruosità del 7 di ottobre, come anche i missili piovuti su Eilat da milizie sempre armate dagli iraniani dall’Iraq e dagli Houti in Yemen… insomma l’accerchiamento ormai ventennale che va in parallelo alla costruzione dell’atomica, non poteva più restare senza risposta dopo che dal 7 di ottobre Israele ha capito che lasciar prosperare il nemico può condurre a episodi irreparabili. Persino se è chiaro che in Siria l’Iran non può certo agire senza il permesso di Putin: del testo i due sono ormai solidi alleati anche in Ucraina.
L’Iran è il maggior nemico strategico di Israele, e qui, anche se Israele non lo ammette, è stato affrontato come tale, stando attenti a non colpire l’ambasciata per non violare il diritto internazionale. Data la stretta sorveglianza su Gaza, è ovvio che il training per l’attacco del 7 ottobre è stato fatto all’estero, la fornitura di missili di lunga gittata Fajr e Syrian M302 oltre che altre armi come le granate che raggiungono i duemila gradi di temperatura (quelle usate usante la Nukba per bruciare intere famiglie dentro le case) sono di fabbricazione iraniana. Yemen, Siria, Libano, Gaza, tutti sono riforniti di armi iraniane contro Israele: la strategia è quella di scavalcare il potere militare di Israele e avventarsi direttamente col terrorismo sulla società. L’Iran ha anche un largo, pericoloso accesso all’Autorità nazionale palestinese, dove finanzia e arma più terroristi possibile e prepara un’invasione come da Gaza. Israele, dunque, se ha compiuto l’attacco, colpendo il generale e sei dei suoi sottoposti ha voluto rendere chiaro che dopo il 7 ottobre le cose sono cambiate: “Noi affrontiamo una guerra su più fronti… e combattiamo da ogni parte per spiegare a chiunque che combatte contro di noi che il prezzo è alto”. Così, senza rivendicazione, il ministro della difesa Gallant ha dichiarato. Le minacce di vendetta dell’Iran hanno creato uno stato di allerta sia al nord, al confine con il Libano, che nelle ambasciate di Israele nel mondo.
Le bombe e i caccia F35. Biden arma Netanyahu e prepara il post Hamas
Il Giornale, 31 marzo 2024
La nuvola di bugie che copre Israele ha molti spessi strati, uno è dedicato al rapporto fra USA e Israele, anzi, fra Biden e Netanyahu: logico che i due, due scuole politiche e di pensiero diverse, ognuno con una sua “constituency”, non vadano d’accordo, che a Netanyahu stia a cuore prima di tutto vincere la guerra, a Biden oltre che questo obiettivo (l’ha ribadito più volte anche in questi giorni) un rafforzamento dell’aiuto umanitario. Di fatto l’interesse politico di Biden ha primeggiato quando ha deciso di non bloccare il voto del Consiglio di Sicurezza, e la cosa strana è che per questo, sia Netanyahu ad essere accusato della lite col migliore amico di Israele. DI fatto, la scelta del presidente americano non si capisce perché non è sostanziata da mosse ulteriori che facciano pensare a un abbandono di Israele, o persino di Bibi.
Nel cielo fra gli Stati Uniti e Israele con una decisione di ieri, volano una quantità di armi indispensabili alla guerra, perché gli USA hanno approvato la consegna di più di 2000 bombe, altri proiettili e di 25 F35 che portano la flotta a 75. Voleranno forse oggi anche due ministri, Ron Dermer e Tzachi Ha Negbi, per discutere dell’ingresso a Rafah; il loro viaggio era stato sospeso dopo che lunedì scorso l’America aveva deciso di non porre il veto sulla risoluzione dell’ONU; vola di nuovo il capo del Mossad e riceve ancora una volta indicazioni di flessibilità sullo scambio degli ostaggi. E intanto il ministro della difesa Gallant, tornato dagli USA, porta notizie importanti: un piano in fieri fra Israele e USA per l’istituzione di una forza internazionale di “peacekeeping” a Gaza. Faciliterà la distribuzione di aiuto umanitario (vuol dire finalmente fare la guardia con le armi a tutti camion che già Israele introduce con gli altri stati impegnati in questo); la comporranno tre stati arabi che guideranno le prossime mosse sul terreno: si parla dell’Egitto, degli Emirati Arabi, e il terzo stato è misterioso, ma non saranno né l’Arabia Saudita né il Qatar, troppo segnati politicamente. Le nuove forze arabe sarebbero i depositari della legge e dell’ordine, l’America dirigerebbe il traffico da fuori, e si preparerebbe così il famoso “day after” in cui palestinesi non ostili a Israele dirigerebbero gli affari civili; Israele conserverebbe la supervisione di sicurezza. I Palestinesi, come al solito danno segnali di voler tutto e subito, ovvero la strada aperta mentre ancora Abu Mazen paga i salari ai terroristi, ma con la nomina del nuovo governo palestinese forse si apre a una discussione su quella deradicalizzazione che è indispensabile per Israele.
Dunque, Israele ancora non è entrata a Rafah di fatto osservando, essenzialmente, il cessate il fuoco di Ramadan previsto dall’ONU; ma la seconda parte della risoluzione che chiama (senza mettere i due punti in relazione) alla restituzione degli ostaggi è stata ridicolizzata da Hamas che non ci pensa nemmeno. Di fatto, non c’è una crisi ma una discussione più o meno positiva a seconda dei momenti, Biden è in campagna elettorale e Netanyahu, in questo momento, ha soprattutto lo scopo di combattere e vincere la forza terrorista che occupa Gaza. Tuttavia, Netanyahu fa le sue mosse con l’aiuto umanitario, lo stop di Rafah, la salvaguardia della popolazione civile, molto difficile, considerando che a Biden deve particolare gratitudine per il sostegno sin dai primi giorni di guerra. E lo scopo comune è ribadito: distruggere Hamas. Su questo, non c’è revisione americana. È difficile in realtà capire l’ONU, se si pensa che il Consiglio di Sicurezza aveva il 22 marzo condannato l’attacco terrorista a Mosca e mercoledì l’attacco sucida in Pakistan; adesso, dopo 175 giorni avrebbe potuto almeno essere spinto dagli USA a condannare le atrocità Hamas ha ucciso, violentato, smembrato fra i 1200 e le 1400 persone e rapito 240 ostaggi.
Non è accaduto. Infine: Israele ha dovuto di nuovo intervenire a Shifa, e di fatto vi ha arrestato almeno 500 sospetti membri di Hamas; 170 che hanno sparato sui soldati dai reparti di maternità e di emergenza sono stati uccisi, i dottori e malati sono stati salvaguardati mentre si trovavano di nuovo quantità di armi e strutture dei terroristi. Nessuno nelle istituzioni internazionali ha presentato una mozione per affermare di essere scandalizzato dell’uso dell’ospedale Shifa come roccaforte del terrorismo, mentre nella prima incursione tutto il mondo aveva condannato Israele per avere osato perseguire il terrore dove di fatto era. La colpa, anche nell’ondeggiare dei rapporti con gli USA, è sempre di Israele, mentre le si danno intimazioni che non concordano con i fini che restano comuni: guerra al terrorismo. La vera mossa che manca è quella della chiarezza morale più ovvia: gli USA devono imporre a Hamas di rilasciare gli ostaggi, denunciandone la sfrontatezza internazionale, e legando il proprio intervento umanitario e contro Rafah a questo fine. E non a un’inutile, fatua, finta polemica con Israele che induce il facile applauso filopalestinese.
Tradimento dell’America. Hamas ride
Il Giornale, 27 marzo 2024
Non è vero che niente è cambiato nella politica americana: Biden dopo il 7 di ottobre aveva aiutato, capito l’immensità dell’evento, si era reso conto che l’attacco a Israele era un attacco alla sua esistenza e alla civiltà, che le atrocità compiute non potevano altro che essere controbattute con l’eliminazione del criminale terrorista. Adesso, all’ONU gli USA hanno pugnalato Israele mentre è in guerra, mentre nel mondo la tempesta antisemita impazza, aprendo la strada all’estremismo di Guterres e del mondo islamista, alle operazioni di taglio delle armi come quella canadese. Non ci sono più freni, chiunque ora può chiedere a Israele di preservare Rafah in nome della legalità internazionale, Hamas e l’Iran sono contentissimi dell’accaduto, la Russia gli sta dietro, e anche questo è un bizzarro risultato per la politica americana. Prima di tutto, una risoluzione per la quale Hamas si entusiasma non può essere buona e Biden, che certo se l’aspettava, non dovrebbe essere giunto a quel punto di cinismo politico anche se ha le elezioni. Invece Ismail Haniyeh, travestito da diplomatico, un dignitario sporco di sangue sotto la cravatta, è andato a Teheran con il capo della Jihad Islamica ospite del ministro degli Esteri e di Khamenei.
Riaggiustano la strategia: si rafforza l’asse del male si discute della prossima mossa, si concorda certo che le stragi fruttano. L’America sembra aver perso il senno: a Parigi, al Cairo, a Doha era l’apostolo della liberazione degli gli ostaggi dalle grinfie di Hamas. Adesso a causa della sua mossa, Hamas un minuto dopo ha dichiarato chiuso lo scambio: che bisogno c’è di scambiare se si può avere la tregua gratis? L’ONU inoltre impone di bloccare la guerra per il Ramadan e si dimentica che le due settimane in gioco sono ben meno delle 6 che Israele aveva già stabilito di concedere in cambio di 40 ostaggi, con l’aggiunta di 500 prigionieri jihadisti “con sangue sulle mani”. Già, ma quelle sei settimane prevedevano un contraccambio, su cui peraltro si era impegnata l’America. E ora tutto il suo lavoro cade: il documento prevede tregua immediata e solo la generica liberazione degli ostaggi, sconnessa dal cessate il fuoco. Curioso, visto che l’accordo era già quasi raggiunto, che le famiglie disperate aspettavano finalmente i loro cari. Ed ecco invece che gli USA si giocano tutto per bloccare sulla linea di Kamala Harris, che ritiene “una cattiva idea” entrare a Rafah. Strano anche questo: gli Usa aspettavano a Washington i due ministri di Netanyahu proprio per discutere come entrare a Rafah: i quattro battaglioni di Hamas, larga sezione ben armata di un esercito robusto, sono ancora in grado di riformare il potere di Hamas a Rafah e quindi di restituire il potere a Hamas.
Quindi, Dermer e Hanegbi dovevano discutere con gli americani come limitare il problema umanitario del grande conglomerato di esseri umani affollatosi nella zona, entrando a Rafah: gli USA, votando la risoluzione hanno imposto il cessate il fuoco disconnettendolo dagli ostaggi e disconoscendo la ripetuta necessità di entrare a Rafah. Risultato: la disperazione delle famiglie dei 134 miseri, infelici, violentati, affamati ammalati innocenti che nelle gallerie sono la ricchezza di Sinwar. Altro risultato: Hamas è felice. Un altro ancora: l’Occidente va in pezzi.
Così tradito un Popolo e tutto l'Occidente
Il Giornale, 26 marzo 2024
Nella jungla dell’ONU, dove la maggioranza delle risoluzioni di condanna sono dedicate in modo quasi pagliaccesco a Israele, il veto degli USA al Consiglio di Sicurezza ha rappresentato spesso un’ancora morale rispetto al doppio registro, all’eredità sovietica della maggioranza automatica che sempre si realizza in assemblea e nelle commissioni, al doppio standard fisso contro lo Stato Ebraico. E’ stato una diga rispetto alla mancanza di chiarezza morale per cui Antònio Guterres si sente comodo a mettere le atrocità di Hamas sullo stesso piano, uguali alla indispensabile guerra di sopravvivenza di Israele, accusandolo di “punizione collettiva”. Chi ha riflettuto sul 7 ottobre e le sue conseguenze sa che è la più lontana delle intenzioni di Israele.
Come ha detto il ministro degli Esteri Gallant la guerra contro Hamas ha un senso morale: adesso gli USA lo tradiscono tradendo se stessi e tutto l’occidente. Si tratta di distruggere la forza che ha reintrodotto l’odio genocida contro gli ebrei con una strage senza pari nei modi e nei numeri, e si tratta di liberare gli ostaggi. Invece la risoluzione che l’ONU ha votato scatena il biasimo antisemita, cerca di impedire di vincere, scandalosamente non mette in relazione al cessate il fuoco la restituzione degli ostaggi. L’ONU così viene coadiuvato da Biden nel non condannare (non l’ha mai fatto) le stragi e le azioni di Hamas, né richiede in modo convincente la restituzione degli ostaggi. Nemmeno, come ha invece fatto subito per la Russia, ha condannato il terrorismo del 7 ottobre. Dopo la risoluzione Hamas si è congratulata: da questo momento è più fiduciosa di bloccare la guerra a Rafah, Sinwar è incentivato a non alzare le mani, a non proseguire la trattativa, a puntare al rinsaldarsi della sua posizione fra gli alleati che l’Iran dirige nella sua guerra di conquista e che certo ieri hanno festeggiato con gli Hezbollah, gli Houthi, gli islamici che nelle piazze con i filopalestinesi occidentale gridano “dal fiume al mare”. IL muro di difesa è stato rotto dalle vicine scadenze elettorali di Biden, ma il picconamento di Netanyahu scelto come esempio di fedeltà a sinistra, non funzionerà in questo caso: i tre quarti degli israeliani, religiosi e laici, di sinistra e di destra, sanno che distruggere Hamas occorre entrare a Rafah.
Non è un’opinione, è un dato di fatto. Il ministro Ron Dermer stava arrivando a discutere proprio come farlo in modo accettabile per gli USA. Anche le trattative per i rapiti erano sotto giurisdizione USA. Peccato, errore americano. La visita di Dermer poteva creare un accordo. Biden ha sciupato la fiducia di Israele senza ottenere altro che lo scopo di rafforzare Hamas.
Lasciate entrare la mia gente a Rafah. O il mare dell’odio vi sommergerà
Il Giornale, 23 marzo 2023
Let my people go. Il faraone rifiutò a lungo il diritto del popolo ebraico alla libertà. Ma il mare che alla fine si aprì per Mosè e il suo popolo, si rovesciò alla fine sulle sue truppe all’inseguimento degli ebrei che camminavano verso Israele. Israele è abituata alle sirene di allarme, ma oggi l’ululato si dovrebbe avvertire in tutto il mondo: sia pure avvolte in parole flautate, nella stessa giornata si sono votate due risoluzioni per fermare Israele, uno da parte della maggiore istituzione mondiale, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e l’altra dalla Casa in cui si è generata la democrazia e che tuttavia conosce il male assoluto, l’Europa. Cercare di bloccare Israele è segno di oblio della storia, delle atrocità del 7 ottobre, di incomprensione del loro significato universale, è una firma sulla condanna di decine di migliaia di profughi a non tornare a casa, una consapevole acquiescenza al ritorno di Hamas al potere e a una nuova guerra terrorista, oltre che una chiara condanna per il destino dei palestinesi. Non è utile a nessuno. Al contrario, battere Hamas è indispensabile al mondo, ed è sconcertante, triste, che si agisca al contrario. Poiché le risoluzioni sono formulate con una certa cautela, si ricorda la strage del 7 ottobre, si chiede dall’ONU la restituzione degli ostaggi, nella seconda, quella europea, è meno chiaro quello che si pretende. Israele è l’obiettivo.
Gli si chiede di fermarsi prima di Rafah (un nome ormai diventato una bandiera per biasimare Israele di una sua supposta noncuranza verso la folla palestinese, ipotesi inconsistente, dato che ancora l’attacco non ci è stato proprio per consentire uno sgombero e una cura della gente efficaci e dato che una delegazione israeliana è in America proprio per parlare di questo, bontà sua) e in sostanza lo si condanna per le sofferenze della gente di Gaza. Sì, Israele è colpevole, gli ebrei lo sono, devono stare attenti, anche rinunciare a obiettivi essenziali, anche lasciar perdere Sinwar, o i rapiti se sono a Rafah. Rafah, non si tocca. Non devono stare attenti i cinesi con gli Uiguri, non gli iraniani, non i siriani, a suo tempo non gli americani, non gli inglesi. È solo Israele che deve stare attenta a come gestisce la guerra. Un paio di deputati europei hanno persino osato utilizzare un parallelo osceno, accusando di doppio standard chi non colpevolizza Israele come i russi. Un piccolo particolare: Israele è stata aggredita, e come. Ma non importa. Tutto il mondo le sta addosso. E anche se perde, è chiaro che non importa. Forse, è meglio. Non si rinunciato all’uso della parola “sproporzionato” e quella della richiesta di fermarsi.
Sinwar di certo oggi festeggia coi suoi boia, se aveva in mente di portare a conclusione un accordo sul rilascio degli ostaggi, il prezzo sale. Hamas è un problema privato di Israele, l’Occidente nega la necessità complessiva di vincerlo e dà a Gaza il suo appoggio, senza ammettere che cercare di fermare Israele è un appoggio a Hamas e una condanna per Israele. In più la colpevolizzazione ulteriore di Israele solleverà le onde nere dell’antisemitismo mondiale in crescita. Sulla politica dell’ONU e dell’UE si affollano gli opportunismi, la mancanza di chiarezza morale, la confusione di un Occidente preda della paura di folle sgangherate come quella che ha imposto al collegio accademico di Torino una risoluzione simile a quella imposte dal fascismo. È un accerchiamento che proviene dal martellamento elettorale americano, dalla decisione del Canada di non vendere armi a Israele, dalle minacce di isolamento di Germania, Spagna, Olanda, Inghilterra, dall’odio belga e irlandese… Sono il seguito delle posizioni sia di António Guterres che di Borrell, il primo che a pochi giorni dalle atrocità di Hamas commentava l’attacco del 7 ottobre colpevolizzando Israele: “non avviene in un vuoto”; l’altro, fra le tante uscite, una geniale su Project Sindicate: “l’estremismo sta aumentando da entrambe le parti”. La parola proporzionalità appare nelle due risoluzioni, una bestemmia quando si combatte su un terreno in cui ogni struttura civile è una casamatta, e soprattutto quando il nemico è un tagliagole di bambini e uno stupratore seriale che usa la sua gente su un’area nazificata; gli altri punti, aiuti umanitari, salvaguardia dal fuoco, è quello che Israele ha fatto sin dall’inizio della guerra più di qualsiasi altro esercito, sapendo che gli aiuti umanitari li sequestra Hamas, e che la gente viene usata in difesa da Sinwar, mentre si sparano cifre fantasiose sui morti. Realismo, questo devono offrire le istituzioni, e non opportunismo politico. Gaza non può essere salvata se non si elimina Hamas, Israele non può sopravvivere se non lo cancella, i Palestinesi non avranno mai una leadership se non viene affrontata la fissazione omicida in cui vengono cresciuti i loro bambini.
Su Rafah ha risposto già ovunque il governo di Israele, non è possibile lasciar sopravvivere i quattro battaglioni di Hamas che con Sinwar la occupano. Let my people go to Rafah, o il mare dell’odio prima o dopo sommergerà anche voi.