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Per Blinken e la diplomazia il nodo sono i 136 ostaggi. Hamas resiste, Israele spera

domenica 4 febbraio 2024 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 04 febbraio 2024

È interessante che chi fa più morti, massacri, stupri, uccisione di bambini, riesca tuttora ad afferrare una chiave di potere senza confronto. Nelle ore in cui scriviamo, è Yehie Sinwar, dal fondo della sua tana a Khan Yunes, soppesa il futuro del mondo usando una semplice leva: i 136 rapiti nelle sue mani. Mentre Ismail Haniyya annuncia che la delegazione di Hamas desidera alcuni giorni in più per decidere, il capo militare (diciamo così) di Hamas sarebbe pronto per la soluzione di cui si parla, mentre Hanyeh, il capo “diplomatico” vuole un cessate il fuoco definitivo, non una tregua, che lasci Hamas padrone di restare il dittatore di Gaza. Per quel che si sa su 136 ostaggi di cui sembra una trentina non più in vita 35 sarebbero liberati in cambio di un giorno di tregua per ciascuno, o di più; 100-150 prigionieri palestinesi sarebbero scambiati con ognuno di loro (secondo il giornale libanese Al Akhbar); le fasi previste sarebbero 3 o 4, prima i civili, poi le soldatesse, i soldati, e infine i deceduti.

Israele è stretta alla gola dal ricatto impossibile fra la vita dei suoi cari e combattere contro la minaccia che riguarda i suoi 10 milioni di abitanti. L’incertezza sul da farsi non ha a che fare con la destra cattiva che non vuole cedere e la sinistra buona pronta a tutto, come si scrive scriteriatamente. L’80 per cento del pubblico israeliano è contro l’idea di sospendere la più necessaria delle guerre, quella di sopravvivenza: ma le minacce di Ben Gvir di spaccare il governo in caso di cedimenti, sono da tutti, anche dal Likud, reputati stonati. Si cerca un equilibrio impossibile, perché dipende da Sinwar. Su questo proscenio, ogni giorno di più, fa pernio la grande avventura internazionale di un mondo in bilico sulla crisi mediorientale, che gli Stati Uniti vorrebbero contenere cercando una conclusione o almeno un rallentamento alla guerra di Israele. Arriva oggi in zona il Segretario di Stato Blinken, verrà a Gerusalemme dopo essere stato in Arabia Saudita, Egitto, Qatar in questo ordine. Ciò avviene dopo che gli aerei da combattimento, i bombers B1 hanno colpito a dozzine (85 obiettivi) siti militari Iracheni e siriani usati dall’IRGC (le Guardie rivoluzionarie iraniane) e dai loro “proxy” locali. È la risposta all’attacco a “Tower 22” di una settimana fa che ha fatto 3 morti americani e 40 feriti. Risposta tardiva, ma forte e molto meditata. Biden ha detto: “la nostra risposta è iniziata e avrà i tempi e i luoghi necessari”, gli americani reagiscono con un intervento contenuto. Cioè Biden, consapevole che i ben 160 attacchi subiti dalle sue truppe in Medio Oriente, hanno a che fare con un conflitto largo, che ha il suo epicentro in Israele, ma dietro il quale si intravede l’odio dell’Iran contro il Grande Satana e quello verso il piccolo Satana, cerca una strada per trasformare il caos in una prospettiva positiva agli occhi della sua “costituency” democratica.

Dunque, evita di rispondere colpendo l’Iran, e invece cerca in questi giorni di portare Israele verso una tregua, senza forzare troppo. Blinken cerca di afferrare il toro per le corna della questione degli ostaggi, disegna coi Saditi un patto conveniente per tutti, spinge l’Egitto e il Qatar per l’accordo sui rapiti; e cerca di indurre Israele a disegnare una soluzione in cui si veda la stella polare di “due stati per due popoli”. Qui la strada si fa impervia, perché è difficile sognare uno stato palestinese oggi: sarebbe autocratico, corrotto, dominato dall’adesione all’ideologia di Hamas, incapace di fornire garanzie di educazione pacifica e di distacco dal terrorismo. Comunque, questo dibattito verrà al momento giusto. Ora persino per gli USA l’impossibile nodo degli ostaggi è il metro di misura. 

 

Hamas gioca le ultime carte per fermare i tank. Biden punta sullo Stato palestinese per la pace

venerdì 2 febbraio 2024 Il Giornale 1 commento

Il Giornale, 02 febbraio 2024

Sorpresa: tutti si aspettavano di vedere Ismail Haniyeh rappresentare in giacca e cravatta al Cairo i terroristi di Hamas insieme ai negoziatori del Qatar, egiziani, americani, israeliani per la trattativa sui 136 ostaggi. Tutto il mondo in una farsa diplomatica alle prese con un’organizzazione terrorista. Questo, è uguale: ma diverso è come Sinwar aveva preparato anche questo incontro. Come un astuto imbroglione. Era infatti pronto al Cairo, sembra da due mesi, per riferire direttamente a lui forse con un complicato sistema di telefoni satellitari, un inviato personale: né Abu Marzuk né Osama Hamdan, i soliti, ma un personaggio misterioso che deve riferire e decidere con lui. Decidere che cosa? Sulle trattative si sanno solo due cose certe miste a parole: Israele vuole trattare per tutti gli ostaggi, e Hamas vuole trattare per tutto il tempo. Il governo israeliano è stretto in una morsa di aspettativa ansiosa e dolorante, con le famiglie dei rapiti che ormai hanno preso la strada del blocco dei camion degli aiuti umanitari. Ma solo il 35 per cento della popolazione in Israele vuole vedere una trattativa che preveda il blocco della guerra per smantellare Hamas.

Hamas è sul confine della sua distruzione, ma Sinwar gioca le ultime carte che gli fanno sperare di non dover lasciare come retaggio la shahada, di martirio per l’Islam, ma anche di afferrare un lembo del gioco del potere. Dunque: per Israele si parla di alcune settimane di intervallo, in cui Sinwar compirebbe vari tipi di rilascio (cittadini, soldatesse, soldati, cadaveri) in cambio di un numero esorbitante di terroristi incarcerati. Fin qui Israele forse ci starebbe, anche se ha pessima esperienza con le migliaia di terroristi liberati in altre occasioni, ma Sinwar vorrebbe anche, sembra, i terroristi della Nukba, quelli che interrogati della polizia spiegano che hanno bruciato bambini, stuprato e ucciso perché così gli hanno ordinato, o perché gli davano 10mila shekel e un appartamento. Questo per Netanyahu non è facile, ma forse è superabile. Tuttavia, Sinwar adesso chiede di rendere l’interruzione pari, sempre “sembra”, a una “Hudna” tregua, di dieci anni che renderebbe impossibile la ripresa della guerra; e chiede che Israele si impegni per quello che chiama uno “Stato palestinese” con Hamas alla testa. Cioè di restare al potere. Sono condizioni impossibili per un Paese che non può conservare il terribile nemico deciso a seguitare a uccidere e a conquistare definitivamente anche l’West Bank.

È una guerra di sopravvivenza. Le immense contraddizioni che attraversano queste giornate dimostrano quanto poco si capisca e si preveda di questa crisi che ormai è un gomitolo che sta avvolgendo il mondo intero. Probabilmente la richiesta di uno Stato palestinese alla fine di tutta la vicenda è una specie di funambolica “captatio benevolentiae” rivolta a Biden: Blinken ha chiesto al Dipartimento di Stato una proposta per “uno stato palestinese demilitarizzato”, Biden mostrerebbe così di guardare a un futuro pacifista. Gli USA potrebbero non vietare una proposta che un volenteroso può fare all’ONU al Consiglio di Sicurezza: questo non faciliterebbe tuttavia linconsistenza di una speranza basata sulla Autorità nazionale palestinese corrotta e ideologizzata sui canoni dell’antisemitismo identico a quello di Hamas. È per questo che fa pensare il viaggio del Ministro per gli affari strategici Ron Dermer, da Israele alla Casa Bianca in questi giorni: indica che insieme ai rapiti si discute il futuro della Striscia, e con la proposta americana sui palestinesi anche la chiamata in causa dei vecchi alleati dei patti di Abramo, e l’Arabia Saudita che ha promesso di impegnarsi. In questi termini il tema sarebbe più plausibile per Israele, senza evitare il tema del controllo di sicurezza israeliano completo per un certo periodo. Dallo svolgersi della guerra, si sa per certo che Sinwar se la passa male, che sottoterra a Khan Yunes sente il rombo dei carri armati e delle esplosioni, mentre i suoi a Gaza urlano per le strade che lui è un vigliacco che “mangia carne mentre loro digiunano”. Israele va lenta nella guerra perché teme per gli ostaggi sottoterra, ma quanto più cresce la presenza militare, tanto più Sinwar ha una ragione per fermare i tank almeno qualche settimana. Troppa guerra, però può spingerlo a uccidere ancora. La nebbia è fitta.

 

 

Unrwa, nelle chat il tifo per i tagliagole di Hamas

lunedì 29 gennaio 2024 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 29 gennaio 2024

La richiesta di Antonio Guterres, il segretario delle Nazioni Unite  di riprendere a finanziare l’UNRWA mentre si allarga anche alla Francia il numero dei Paesi che hanno bloccato i finanziamenti dopo la (ancora) sospetta partecipazione al massacro del 7 ottobre di 12 dei suoi membri, secondo l’ambasciatore all’ONU di Israele Gilad Erdan rivelano di nuovo che per il capo dell’organizzazione internazionale “la vita e la sicurezza dei cittadini israeliani per lui non contano” perché prima di chiedere si continuare a finanziare l’UNRWA  dovrebbe occuparsi di “una indagine complessiva per localizzare i terroristi e gli assassini di Hamas dentro l’UNRWA”.

Ma ormai la questione della natura dell’UNRWA è aperta: oltre alla questione dei dodici terroristi, quella che viene alla ribalta è la domanda più vasta su una potentissima organizzazione che si occupa di più di cinque milioni di persone in molti Paesi, definiti “profughi” secondo una definizione che differisce da quella di chiunque altro nella stessa condizione. Era un dibattito sottotraccia da decenni, sull’uso del largo sostegno dell’organizzazione per aiutare terrorismo palestinese e in particolare Hamas, e sulla sua generale impostazione nel sostegno e nell’educazione dei bambini Palestinesi. La più recente e semplice delle prove è il larghissimo, esplicito, entusiasta supporto del 7 ottobre dimostrato nel gruppo Telegram di 3000 membri dell’UNRWA, impiegati e insegnanti, che celebrano la “nukba” fra immagini del massacro da loro postate, mentre peraltro chiedono anche quando verranno pagati gli stipendi. Lo staff dell’UNRWA condivide foto e video e prega per il successo dei terroristi e per la distruzione di Israele (Isra Abu Karim Mezher: “Dio è grande, è finito il tempo di Israele”; Yaser fotografato davanti alla lavagna della classe; “Oh quanto odio gli ebrei”; Shatha Husam al Nawajha: “Che Dio li protegga e diriga il loro braccio” etc.), e si entusiasma per le uccisioni e le torture. Questo accade certo in violazione delle norme di neutralità dell’ONU; ma la norma è sempre istituzionalmente violata dal tipo di educazione data nell’ organizzazione della scuola se si guardano i libri di testo, o l’addobbo dei muri: è tutta un’esaltazione dei terroristi di ieri e di oggi, dello Shaid, del martire, dell’eliminazione degli ebrei e di Israele. Così nelle interviste presso strutture dell’UNRWA per esempio nel campo profughi di Askar presso Nablus, West Bank, i bambini anche piccolissimi, parlano delle loro speranze, cioè vogliono essere shahid, uccidere gli ebrei, snocciolano tutti i nomi dei terroristi loro eroi. Durante la guerra sono state scoperte sotto le strutture dell’UNRWA cumuli di missili e armi. Più alla radice del problema, l’UNRWA è un’organizzazione unica rispetto a chi si occupa all’ONU dei circa 26 milioni di rifugiati: l’UNHCR.

L’UNRWA è finanziata a parte per più di un miliardo e mezzo di dollari, secondo David Bedein, un esperto del campo, e ha 30mila impiegati. I profughi sono diversi da quelli affidati all’UNHCR: per i palestinesi non c’è politica di assorbimento, o ricollocamento; generazione dopo generazione si resta “profugo” e si perpetua lo scontro, perché: “il profugo è una persona che viveva in Palestina fra il giugno del 1946 al 15 maggio del 1948 e che vi ha perso i mezzi di sussistenza in seguito al conflitto del 1948” e i suoi discendenti. Il lettore sa che, mentre Israele accettò la partizione dell’ONU, gli stati arabi attaccarono, e invitarono gli arabi residenti ad allontanarsi con la promessa di riportarli a casa. Quel che è certo è che si crearono 700mila profughi contro i 7-800mila circa profughi ebrei dai Paesi arabi, e che mai chiesero di perpetuare il loro status. Invece qui l’UNRWA ha il mandato politico di perpetuare lo stato di rifugiato: nel 1965 fu inclusa la terza generazione e di nuovo nel’82 fu allargato. Perpetuare l’idea del “ritorno” per tre quattro generazioni è ciò che rende impossibile la pace, e spinge l’idea che la vera casa sia oltre il confine. Dunque, per chiudere il capitolo UNRWA-Hamas, occorre che l’ONU accetti la questione.  

 

"Mai più" un Giorno della Memoria come questo

sabato 27 gennaio 2024 Il Giornale 1 commento

Il Giornale, 27 gennaio 2024

Mai Giorno della Memoria è stato più triste e più difficile da celebrare. La memoria della Shoah non può essere una formula di circostanza, se lo diventa l’antisemitismo che ha portato a sei milioni di morti resta oltre un invalicabile vetro opaco: solo con la conoscenza, la sincerità, la chiarezza morale per non ripetere agli errori del passato essa ha un significato. Ma il 7 di ottobre ha messo le carte in tavola, ha rivelato una verità che si verifica stupiti: per esempio, nella vicina Francia l’antisemitismo si è moltiplicato del 2000 per cento da quando ha visto i bambini dei kibbutz sul confine di Gaza bruciati in braccio alle madri, la madri uccise davanti ai loro figli, ragazze e ragazzi violentati e smembrati, vecchi deportati a Gaza su motociclette, mucchi di ragazze spogliate e insanguinate: non solo il popolo ebraico ha dovuto subire un’aggressione a famiglie innocenti che è costata il numero più alto di uccisi in un giorno dal tempo della Shoah, compiuta con intenti genocidi come testimonia il grido “Yehud Yehud”,ebreo ebreo, degli zombie di Hamas in caccia; ma subito dopo si è sollevata un’ondata di menzogne costruite sull’ignoranza e la diffamazione, una raffica di antisemitismo da restare allibiti, anche quando, come nel mio caso, si scrive da anni sul nuovo antisemitismo che ha al centro lo Stato d’Israele. L’apice, ironico se non fosse tragico, è rappresentato dall’accusa di genocidio presentata all’ICJ, l’Alta Corte di Giustizia dell’Aja, dal Sud Africa: non contro Hamas, che ne ha perpetrato uno palese, filmato con orgoglio dalle sue stesse telecamere (mamma ho ucciso i miei ebrei! grida il terrorista al telefono molto contento) ma contro Israele, in un’azione concertata coi terroristi stessi e con i loro sostenitori internazionali.  

Il secolo scorso ha conosciuto immense stragi dovute alla vittoria di ideologie politiche assassine: sull’altare dei messianismi come il nazismo, lo stalinismo, l’islamismo estremo, abbiamo visto milioni di persone perseguitate, deportate, uccise barbaramente. Col disegno genocida di uccidere il popolo ebraico, sempre, ogni volta, si è progettato di distruggere la democrazia e i valori giudaico cristiani della liberal democrazia. Quindi non solo gli ebrei devono temere l’antisemitismo ma tutto il mondo. Ma la forza dell’antisemitismo è formidabile, ci vuole un’azione educativa, politica, istituzionale… invece questo non è successo, mentre l’incitamento populista contro Israele si è avvalso di una costruzione molto complessa, un background storico di diffamazione basilare costruita fin dai primi anni dello Stato Ebraico che ha fatto perno sulla pigrizia culturale e l’esaltazione politica delle folle nei campus e nelle periferie, sulla faciloneria woke dell’intellettualità che vuole essere up to date, alle NGO dei diritti umani che scelgono sempre e comunque la strada antiamericana e pro terzo mondo, alle grandi istituzioni come l’ONU, ma anche purtroppo l’Unione Europea, accecate dalla soggezione culturale e economica verso il mondo arabo, e verso la minaccia islamista nelle città europee… dopo le atrocità del 7 di Ottobre, si è potuto osservare l’inimmaginabile, ovvero come un grande pogrom di ebrei, disegnato nei particolari orribili, dagli stupri alle decapitazioni e l’omicidio dei vecchi, bene organizzato, immaginato dai suoi capi in tutti i particolari sia non solo tollerato ma esaltato dall’opinione pubblica internazionale; non preoccupa nessuno che chi ha ordinato una deportazione di massa di bambini e vecchi e donne in sotterranei in cui soffrono ogni violenza adesso partecipi a trattative “diplomatiche” al Cairo, a Doha, e persino in Europa. Anzi: la loro richiesta di tempo, che è una palese domanda di restare al potere per riorganizzare altri eccidi viene sostenuta da folle che aggrediscono invece Israele e chiedono un cessate il fuoco per i nazisti. Come ha scritto prima del 7 di ottobre un grande storico dell’antisemitismo Robert Wistrich, nel secolo scorso, come ultimo stadio in ordine di tempo dopo l’antisemitismo religioso e quello razziale, si è generata un’ossessione omicida niente affatto esaurita con la sconfitta del nazismo: essa si è invece infiltrata prima nell’Unione Sovietica e nel mondo islamico in un movimento di cui il mufti Haj Amin Al Husseini è il fondatore e che ha il suo degno rappresentante in Hamas come in tutta la Fratellanza Musulmana, sostenuta dall’Iran dopo la sconfitta del nazismo, dal comunismo dell’URSS e più avanti diventato parte della cultura woke che vede un mondo di oppressi, i poveri, i colonizzati, i neri... e una di oppressori, i bianchi, i coloni, i ricchi, i razzisti. Israele non è niente di tutto questo, ma Hamas ha inaugura una guerra per fare della Palestina il primo nocciolo di un Medio Oriente “judenfrei” libero dal sionismo e dagli ebrei, La distruzione di Israele è diventata quel nuovo antisemitismo che ha messo via via tante pietre miliari sulla sua strada: nel 1975 la risoluzione dell’ONU “sionismo uguale razzismo”, nel 2002 la Conferenza razzista dell’ONU a Durban contro Israele, le infinite, ridicole condanne delle commissioni dell’ONU costruite apposta per perseguitare Israele come nessun altro, né la Russia, né l’Iran nè la Cina, nel 2016 la risoluzione del Consiglio di Sicurezza in cui Obama decide che gli USA avallano una condanna per territori occupati; ciò si accompagna  all’oblio degli accordi di Oslo con cui Israel ha sgomberato quasi tutti i Territori e aspetta solo un accordo per due stati per due popoli mentre i palestinesi rispondono “no” tutte le volte, un’Intifada con quasi 2000 morti sugli autobus che esplodono. Israele insiste con la proposta di pace, sgombera Gaza nel 2005. Le proposte di pace si moltiplicano mentre gli ebrei seguitano ad essere l’obiettivo da eliminare. “From the river to the sea”. Dal fiume al mare, e chi lo urla per la strada non ha la più pallida idea di che fiume e di mare si tratta: la parola d’ordine, che oggi fa sì che anche a Harvard si sia convinti che uccidere gli ebrei è un reato solo di quando in quando.

La memoria che promette di abbandonare il male compiuto altro non è che una chiara analisi del presente, il coraggio della verità costi quel che costi. Never again è andato a sbattere contro la proposta di fare diventare Israele la nuova “questione ebraica” base dell’antisemitismo, violentemente osteggiata dal mondo arabo e quindi pericolosa, ostracizzata dal blocco comunista che ha creato per Israele l’involucro della menzogna dell’odiosità imperialista, colonialista, capitalista e oggi odiata da chi pretende di praticare la religione del nostro tempo, quella dei diritti umani, e sta invece, accecato dall’ignoranza di tutto per affossarli. Gina Semetrich aveva 91 anni, era in origine Cecoslovacca, da sopravvissuta dell’Olocausto aveva ricostruito una vita e una famiglia a Kissufim, un kibbutz sul bordo di Gaza. Trascinata, picchiata, uccisa dai terroristi di Hamas, ha rivisto la Shoah e ne è morta. Sara Jackson 88 anni, sopravvissuta della Shoah, si è barricata in casa al kibbutz Sa’ad dopo aver accolto tre ragazzi che erano riusciti a scappare dalla festa di Nova, dove 360 sono stati massacrati: come durante un pogrom in Polonia, hanno appoggiato alla porta un grosso armadio, come facevano i genitori di Sara quando era piccola. Avigdor Neuman, 93 anni, ai tre ragazzi rapiti e adesso vicini a lui, disperati perché sentono che anche sulla strage che hanno visto coi loro occhi si è sollevata una cortina di menzogna mostra il numero azzurro sul braccio: “ci sono cose che non si possono cancellare”.

Questo è accaduto, la caccia agli ebrei ha compiuto orrori noti solo ai nazisti.  Adesso per conquistarsi il diritto a dire “Never Again” prima di tutto bisogna che con coraggio churchilliano, con amore per la riscossa contro l’orrore della strage si cerchi prima di tutto di capire cosa sta succedendo, perché Israele è obbligata a concludere questa guerra sgomberando dal suo confine la strage della prossima volta, e dal mondo intero la minaccia di questa nuova Isis che vede, proprio come l’Iran, la distruzione di Israele come una prima tappa di sovranità e conquista. Questo è il “never again” adesso: vincere una guerra sul terreno più difficile del mondo, dove ogni metro di terra nasconde una galleria da cui può spuntare un gruppo di terroristi, ogni struttura civile, case, ospedali, scuole, nasconde un lanciamissili, una santabarbara preparata per la guerra, e ogni cittadino è o il custode o lo scudo umano che protegge la guerra di Hamas. Guerra atroce, triste, in cui piangiamo anche i palestinesi vittime della ferocia di Hamas, unico responsabile della loro fine, muoiono tanti soldati di Israele; in cui la responsabilità per ogni cittadino di Gaza e su chi ne ha fatto non un luogo per vivere ma una trappola di morte. “Never Again” è prima di tutto avere il coraggio di capire che in Israele è la nuova trincea della libertà e della vita. Per tutti. 

 

La strage dei soldati israeliani. Hamas: no alla tregua di 2 mesi

mercoledì 24 gennaio 2024 Il Giornale 0 commenti

 Il Giornale, 24 gennaio 2024

Israele ha subito l’incidente più mortale dall’inizio della guerra, con 24 uccisi di cui 21 in un’esplosione causata da due missili da spalla che hanno colpito le grandi cariche di tritolo che hanno in parte ferito direttamente, in parte causato il crollo di due edifici che hanno travolto i soldati dell’unità 261. Due sono invece stati uccisi nel loro tank. È stato travolto dallo scoppio un grande gruppo, formato da giovani e meno giovani delle riserve, figli, padri, mariti. Il più giovane era Nicolas Berger di 22 anni, di Gerusalemme, il più vecchio Shay Biton Hayun di 40 anni, di Zicron Yaakov, vicino a Haifa. L’elenco degli uccisi è una tragica carta geografica di tutta Israele, da Tel Aviv (Cedrick Garin 23 anni,) a Elkana Yehuda Sfez,25 anni, nei territori, a Kyriat Arba.

Piange tutta Israele da Pardes Hanna-Karkur un’elegante cittadina residenziale al centro, a Rosh Haayn all’estremo nord ad Alon Shvut in Cisgiordania. Guardando una mappa di tutti i caduti, si vede che la vita del Paese piccolo e comunitario è crivellata ovunque dalla strage dei 219 soldati uccisi in una delle più difficili guerre mai combattute, dalle migliaia di feriti e mutilati causati dal lunghissimo combattimento sopra e sotto la terra, in un terreno organizzato da Hamas non per la vita della gente ma per essere la fortezza di una delle organizzazioni terroriste più forti e organizzate del mondo.

L’ origine degli uccisi, disegna una mappa esatta: laici e religiosi, con radici nei Paese arabi e negli USA, molti in servizio dal primo giorno di guerra, quasi tutti con bambini piccoli a casa, un lavoro nell’high tec, nella scienza, comandanti e soldati semplici, determinati a combattere fino in fondo una guerra di necessità. Ieri i soldati sul campo pregavano la folla israeliana di non scoraggiarsi e di restare uniti dietro lo sforzo attuale, a Khan Yunis, di scovare e sconfiggere Sinwar. Questo è lo spirito del momento. Alla strage di ieri Israele cerca di rispondere con l’arma della fantastica resilienza che l’ha sempre salvata durante guerre impossibili come quella del 73 o la seconda Intifada, e che l’ha guidata in imprese come quella di Entebbe. Netanyahu, Gantz e Gallant si sono presentati tutti insieme solo per testimoniare sofferenza e impegno a combattere fino in fondo.

Il capo di Stato maggiore Herzi Halevi ha fatto lo stesso. I concetti sono identici: combattiamo una guerra indispensabile, Gaza deve essere sgomberata da Hamas perché Israele possa vivere, indaghiamo l’accaduto perché non si ripeta. Meno che mai, nonostante bruci l’impegno verso i rapiti, si sente parlare di cessare dalla guerra. Nessuno, nè a destra ne a sinistra avanza questa prospettiva. Il disegno di Netanyahu per uno scambio con due mesi di intervallo e lo scambio di prigionieri palestinesi (ora si parla anche di quelli della Nukba) con tutti gli ostaggi, pare sia stato rifiutato da Hamas. Ma tutto può cambiare: Hamas festeggia il colpo inferto, ma sottovaluta il contraccolpo. L’esercito, all’attacco nel sud, ha quasi interamente circondato Khan Yunes, combatte più deciso, lo scopo è una sconfitta sia simbolica che pratica della patria e della centrale operativa di Sinwar.

Non si dice, ma il sottinteso è sempre qualche speranza di raggiungerlo, e di salvare i rapiti. Se si guarda dove è accaduto il disastro, la cartina mostra un luogo di confine a millimetri dai kibbutz della strage, Be’eri, Kfar Aza, Kissufim, accanto dall’area di Re’im dove furono sterminati i giovani di “Nova”. I soldati creavano sul terreno di confine una zona vuota, visibile da ogni parte, così che da dentro Gaza non sia di nuovo possibile entrare e uccidere. Mentre Israele promette di continuare la battaglia, si insiste da parte americana di nuovo per una “pausa umanitaria” e cinque paesi arabi si stanno occupando, si dice, di cercare un impegno Saudita che spinga avanti la soluzione palestinese. Possibile: ma prima di tutto, da Gerusalemme si vede un Paese innanzitutto deciso a non abbandonare la necessità primaria della guerra: distruggere Hamas.

Il pressing mondiale e la resistenza di Bibi

martedì 23 gennaio 2024 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 23 gennaio 2024

Dopo essersi trincerato dietro un “no” all’interruzione della guerra risuonato nel mondo intero insieme alla decisa contrapposizione a un futuro stato palestinese a Gaza, adesso le cose sembrano muoversi. La pressione è forte, la battaglia Gaza infuria. Benjamin Netanyahu dopo una telefonata con Joe Biden e dopo una complicata proposta in tre fasi e 90 giorni, riportata dal Wall Street Journal, parlando delle pressioni internazionali verso un’interruzione della guerra e la previsione del futuro di Gaza in mano dell’Autorità Palestinese, aveva dichiarato seccamente: “Continuiamo la guerra su tutti i fronti e i settori, non daremo immunità ai terroristi, chi ci mette in pericolo sarà in pericolo… e mentre lavoro 24 ore al giorno al ritorno dei rapiti, ribadisco la mia decisione per la capitolazione di Hamas. Non c’è sostituto per la vittoria… e ho ripetuto al presidente Biden che quando avremo ottenuto la vittoria… non ci sarà al posto di Hamas al governo un’entità che finanza il terrorismo, educa al terrorismo e ci manda terroristi…”.

Insomma, un’allusione alla politica dell’AP di stipendiare i terroristi, di aver mancato la condanna del 7 ottobre, di usare le scuole per incitare contro Israele, di avere oggi un’opinione pubblica sostiene Hamas all’80 per cento. Ma per Biden, con cui comunque Bibi ha concordato un aumento degli aiuti umanitari,  e anche per l’Unione Europea, che si è risentita ieri in toni ultimativi e stranamente intrusivi (Borrel ha detto “Se non c’è accordo la comunità internazionale dovrà imporlo”; e i ministri degli esteri dell’UE riuniti hanno dichiarato che uno Stato Palestinese è una necessità cui Israele deve piegarsi),le questioni legate a Israele sono due: una è la guerra, con i tunnel, il gran numero di feriti e uccisi, il terrorismo genocida di Sinwar dietro lo scudo umano della sua popolazione, e l’altra è Netanyahu, che è sempre di per sé un oggetto di particolare attenzione, di biasimo e impazienza internazionale. La sua lunga permanenza al potere, la responsabilità istituzionale enorme dal giorno stesso della tragedia, il fatto che al suo governo sia associato un partitino di estrema destra religiosa, è diventato il comma di una critica a una guerra lenta. Il movimento che gli chiede di accettare qualsiasi accordo pur di riavere i 132 a casa è spesso anche politico.

A questo, va sommato il fatto che di Israele ogni istituzione internazionale, l’ONU, l’UE, fa un suo specifico obiettivo, e spesso applica criteri sbrigativi anche in situazioni difficili come questa. Ieri Netanyahu, dopo giornate di assedio e anche di disperazione furiosa delle famiglie che hanno assediato la sua casa e anche interrotto urlando una riunione della commissione finanze della Knesset, ha parlato in maniera misteriosa ma significativa di un’iniziativa per i rapiti di Israele stessa che cancellerebbe quelle che lui ritiene le proposte bugiarde e irrilevanti di Hamas. In che cosa consiste? Non possiamo saperlo, ma da quello che accade in queste ore si capisce che si tratta della strategia rischiosa ma possibile che nella zona di Khan Yunes ha rafforzato l’esercito con tre divisioni in movimento, una cinquantina di armati di Hamas uccisi in battaglia, la continua scoperta con relative analisi dei reperti di chilometri di gallerie nel cuore dell’area dove Sinwar regna. L’ipotesi che circola è che Hamas è più debole, spara meno missili, Ismail Haniyeh da Doha non ha più contatto con Sinwar il suo generale. Questo, si può pensare, deve condurre a sorprese sia militari e forse a eventuali accordi. Se così fosse, Netanyahu, che ha messo tutta la sua forza nel dimostrare che la guerra si può vincere ritrovando gli ostaggi, si vedrebbe rafforzato strategicamente. Oggi le rotture politiche sono contenute a stento: per esempio Gabi Eisenkot, che ha perso un figlio in guerra, ex capo di stato maggiore, è come Benny Gantz un antagonista politico. D’altra parte, però come tutta Israele, senza destra né sinistra, non accetterebbe di fermare la guerra se non con garanti e intervalli molto circostanziati. La guerra è di sopravvivenza per tutti; la questione dell’Autorità Nazionale Palestinese, è lontana da venire. 

 

Ultimo orrore sulle teste, Hamas come l'Isis

venerdì 19 gennaio 2024 Il Giornale 1 commento

Il Giornale, 19 gennaio 2023

Ancora orrori inenarrabili, stavolta le immagini trasmesse dalla CNN in cui uno dei terroristi di Hamas taglia la testa degli abitanti del kibbutz Nir Oz. Notizie rivoltanti circondano queste immagini. Ma prima di tutto: la guerra non è finita dopo 104 giorni, e non può esserlo, qualsiasi cosa desiderino e vogliano pianificare gli amanti della pace: non lo è perché i missili seguitano a piovere su Israele (50 su Netivot solo due giorni fa tutti insieme, e ogni poche ore una pioggia minore che deve dimostrare che Sinwar è vivo, che Hamas spara da Jabalia e da Khan Yunes; al nord lo scontro con Hezbollah non accenna a diminuire); e soprattutto perché ogni giorno si conferma l’impossibilità di convivere con la perversione che ha segnato il 7 di ottobre e di cui non finiscono mai a uscire alla luce gli incredibili, inenarrabili particolari e le conseguenze.

Ha ragione il presidente Isaac Herzog che parlando al Forum di Davos vicino alla foto del piccolo Kfir Bibas rapito con la famiglia intera e il fratello di 4 anni che ha compiuto ieri un anno nelle grinfie di Hamas, che ha detto “Se chiedi a un israeliano medio sano di mente di pensare a quale soluzione vede per un accordo di pace, ti risponderà che al momento vuole sapere solo una cosa: “Potrò vivere in sicurezza nel futuro?”. La risposta può venire solo dalla realizzazione dello scopo che si è dato il governo di Israele, quello di obliterare i nemici e consentire così il ritorno di duecentomila persone a casa a sud e a nord e di scoraggiare senza equivoci il terrorismo ovunque. Come potrebbe fermarsi adesso, con tutto quello che ancora, giorno dopo giorno si impara sulla natura di Hamas? La pace non è un’icona in cui primeggia una Autorità nazionale palestinese che non ha mai condannato gli orrori del 7 ottobre, e la cui popolazione tiene per Hamas. Occorre una soluzione possibile, non utopistica. Sui tagliatori di teste di Hamas adesso si sa che sono anche peggiori di quelli dell’Isis: come loro tagliano le teste, ma non si è mai saputo che l’Isis ne commerciasse. Invece qui testimonia una nuova parte della vicenda David Tahar il cui figlio Adir di 19 anni fu ucciso in una base sul confine di Gaza durante il devastante attacco. Il suo corpo distrutto dalle granate è stato anche sfregiato col taglio della testa, e identificato solo col DNA, come centinaia di persone sfregiate e fatte a pezzi. David dopo aver seppellito con amore i resti del figlio, ha ricevuto a dicembre una notizia pervenuta dall’interrogatorio di un prigioniero di Hamas: ha cercato di vendere la testa prevedendo di ricavarne 10mila dollari, e ha detto dove si trovava.

Recuperata dai soldati d’Israele con dedizione incredibile, la testa a sua volta mutilata e massacrata è stata infine riunita al corpo di Adir. David ha fondato a Gerusalemme un centro in sua memoria in cui si cura la gioventù a rischio. Ogni giorno si vive qui il “day after”: gli ospedali contano almeno 8000 feriti solo militari, è incredibile il numero dei ragazzi senza uno o più arti ormai parte di un mondo da curare e da riavviare alla vita sociale. Ventimila sono i curati per post trauma. Le famiglie dei rapiti devono ogni giorno affrontare, via via che le persone liberate prendono coraggio, i racconti delle torture che si soffrono nelle gallerie di Hamas: Aviva Siegel ha raccontato come ha visto personalmente torturare una ragazza e come vengono violentate le ragazze in cattività; la polizia ha raccolto più di 1000 testimonianze e più di 60mila videoclips sulle violenze sessuali accompagnate da delitto, decapitazione, esecuzioni con spari in testa, smembramenti che un numero assurdo di donne bambine bambini ragazzi hanno subito.

Le famiglie raccontano ogni giorno, come ogni famiglia di rapito racconta come i rapimenti siano avvenuti mentre sotto gli occhi dei disperati nelle mani di Hamas, venivano giustiziati i loro cari, figli, genitori. Ovvero, ogni giorno si viene a sapere di nuove incredibili crudeltà, e questo devono sapere gli esseri umani degni di questo nome, capendo che garantisce la pace e la civile convivenza di tutti solo la sconfitta di chi ha saputo concepire e portare a compimento tutto questo male. Il resto, è commento.        

 

Il compleanno di Kfir nelle mani di Hamas

mercoledì 17 gennaio 2024 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 17 gennaio 2024

La creaturina “gingi” come si definisce in ebraico una persona coi capelli rossi, è ormai Israel stessa, tutti sognano Kfir Bibas e suo fratello Ariel ogni soldato sogna di salvarli in fondo a una galleria oscura, ogni manifestazione ne inalbera i bei ritratti. Il 18 gennaio Kfir, il fagottino che non vede la luce del sole da 103 giorni, avrà un anno. Tre mesi fa le sue foto e i film che abbiamo visto tutti ormai, in tutte le parti del mondo, sembravano disegnare l’infanzia più felice del mondo: Kfir ha un sorriso più largo della sua faccia rosea, più largo della vita, qui gioca insieme al suo fratello di quattro anni Ariel, là lo baciano la mamma Shiri e il papà Yarden, due giovani di 32 e 34 anni. Il 7 di ottobre i due bambini, due cuccioli di leone, mentre piovono senza sosta i missili, secondo il testo che la mamma manda sul telefonino alla sorella, capiscono cosa sta accadendo, sono agitati, incontenibili; i terroristi sono entrati nel loro kibbutz, Nir Oz.

Dopo aver scritto alle 9,45 “Sono entrati” e “Vi amo” alla famiglia, la prossima notizia e anche l’ultima di Shiri sarà il volto disperato, lo sguardo incredulo e terrorizzato della giovane donna mentre i terroristi la trascinano via e lei tiene ambedue i bambini stretti, invano. Tutta la famiglia è stata rapita. Yarden si rivedrà in fotografia e in un filmino, sanguinate dalla testa. Israele è in agonia per i Bibas ma soprattutto per quel bambino meraviglioso e per suo fratello, i piccoli che hanno dovuto incontrare l’inferno, l’odio di cui non avevano idea, lo sfregio fisico che ora li tieni chiusi al buio da 103 giorni che li affama, li asseta, li perseguita: senza saperlo essi sono il fiore all’occhiello di Hamas, l’Oscar all’antisemitismo mondiale, il Nobel della crudeltà e dell’orrore. Questo Hamas vuole: usare il meglio per ottenere il peggio, distruggere la vita per ottenere la guerra e la morte del nemico e la propria. L’incertezza per cui Israele si ostina a ritenere vivi i bambini anche se Hamas li ha dichiarati morti, aggiunge una tensione intollerabile alla guerra psicologica che Sinwar sa inventare usando la sofferenza degli ostaggi, come si è visto anche dai film di questi giorni, per ridurre il mondo intero in ginocchio a chiedere pietà per gli innocenti e piegarsi alla sua volontà. L’ambasciatore all’ONU di Israele Gilad Erdan si è presentato davanti all’Assemblea Generale con una torta su cui era rappresentato il viso di Kfir e gli ha dedicato il suo augurio: “Spero che l’anno prossimo celebrerai il tuo compleanno circondato dall’amore della tua famiglia. Questa torta è per te, tu sei la ragione per cui Israele combatte notte e giorno”. La voce che tre membri della famiglia fosse stata uccisa ha cominciato a circolare a notte in cui su un’auto della Croce Rossa partirono gli scambi che hanno riportato cento ostaggi lasciandone 136 nelle mani di Hamas: i fratellini con la madre non erano fra le persone finalmente libere anche se stravolte. I bambini più sorridenti, più piccoli, non sono mai tornati.

Intanto Yarden è stato sottoposto alla tortura, filmata e mostrata al pubblico, di un annuncio sulla morte di tutta la sua famiglia. Ma l’unica cosa che si riesca a immaginare al momento e in cui si spera è che i Bibas, siano finiti nelle mani della Jihad Islamica o di qualche altro gruppo dentro Gaza, come per altro altri sette bambini e ragazzini esclusi dallo scambio, e che siano finiti nella confusione per la custodia dei prigionieri in qualche cunicolo. Israele non perde la speranza che nella impossibile discussione sugli scambi che coinvolge Qatar ed Egitto e in cui tanti Paesi cercano di dire la loro, si accenda una luce. Ma ha ragione Erdan: è mai possibile che in tutto ciò la voce dell’ONU non si sia ancora mai udita? “E’ mai possibile che invece di ricevere amore e calore Kfir sia oggi circondato da pura malvagità? Che la pena di un infante sia dimenticata dall’ONU come se non fosse mai accaduta? Per amor di Dio questa creatura celebra il suo compleanno in prigionia”. La torta di Kfir è rimasta in vista all’ONU, finché gli addetti alle pulizie non se la porteranno via. Questa è l’ONU; che non ha mai condannato Hamas se non chiedendo un cessate il fuoco che gli consentirebbe di sopravvivere.

 

Calciatore arrestato dai turchi perché manifesta per i rapiti

martedì 16 gennaio 2024 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 16 gennaio 2024

Ha alzato una mano dopo aver legato al polso, come un piccolo manifesto, una fascia bianca con scritto “7 ottobre, 100” e accanto una piccola Stella di David, il numero da giorni da quando gli ostaggi israeliani sono nelle mani di Hamas. Poi ha disegnato un cuore con le mani, nel cuore della Turchia che odia Israele. Domenica Sagiv Yehezkel era appena riuscito a condurre la sua squadra l’Antalyaspor al pareggio contro il Trabzonspor nel campionato turco quando ha fatto la sua manifestazione. Sapeva certo che nella Turchia di Erdogan questo è un delitto da punire: i 132 ostaggi sono per il regime turco solo una meritata punizione per il regime sionista nella guerra in cui Erdogan parteggia per Hamas sin da prima del 7 di ottobre. Mentre il club dell’Antalyaspor sospendeva il giocatore israeliano, cancellava dal sito tutte le foto del celebrato goal licenziando in tronco il giocatore perché “ha agito contro la sensibilità di Antalya, dell’Antalyaspor e del nostro paese” (un licenziamento che gli costerà, dicono gli esperti, più di un milione di dollari) la Federazione turca del calcio trovava il gesto del tutto “appropriato”. E qui, il Ministro della Giustizia ha aperto un caso giudiziario contro il giocatore “per aver incitato il popolo all’odio e all’ostilità” col suo “disgustoso gesto di supporto per il massacro israeliano di Gaza” e gli ha mandato la polizia. Sagiv è stato quindi portato in prigione nello stile di Erdogan le cui carceri sono piene di giornalisti, di donne che non seguono le regole dell’Islam e osano protestare, di curdi, di dissidenti di ogni tipo che hanno nei decenni osato ribellarsi alla prepotenza del neosultano.

Ma stavolta la protesta internazionale, probabilmente riscaldata dalla guerra in corso, e quell’elasticità opportunista che fa di Erdogan sia un membro della Nato che l’estremista della Fratellanza Musulmana amico di Hamas, che organizzò lo sbarco armato della Mavi Marmara, che chiama Netanyahu “Hitler”, ha suggerito di espellere subito Sagiv invece di lasciarlo marcire nelle carceri del regime. Così i fan della squadra Hapoel Be'er Sheva, la squadra originaria di Sagiv, hanno ieri sera già ricevuto con le bandiere all’aeroporto Ben Gurion l’eroe che non ha avuto paura di mostrarsi solo di fronte a un popolo aizzato e a un regime che lo odia. Sagiv Yehezkel portato in trionfo al grido di “gibor”, eroe, ha detto alla folla solo la frase che ripetono i soldati in questi giorni: “Nessuno è come il popolo d’Israele. Ora, però, vado a riposarmi un po' a casa”. Erdogan si è distinto dal sette di ottobre nel suo consueto odio per Israele e sostegno per il terrorismo: nei giorni scorsi durante il processo dell’Aya ha anche dichiarato che si stava dando da fare per fornire prove all’ICJ che Israele è un Paese genocida, cosa che peraltro aveva già sostenuto in vari modi. Da vero Sultano ottomano Erdogan si vede, e l’ha dichiarato più volte, come liberatore di Gerusalemme e della Moschea di Al Aqsa, riceve e ospita a casa sua alti rappresentanti di Hamas e degli Hezbollah, ha contatti strategici con l’Iran e la Russia. Il Ministero degli Esteri israeliano ha lavorato, ha detto, per rimuovere tutti gli ostacoli per il ritorno; i toni di preoccupazione e d’ira, anche di Netanyahu, si sono acquietati per consentirlo dopo dichiarazioni durissime, fra cui quella del ministro Ben Gvir che ha invitato gli israeliani a non andare mai più in Turchia, di Yoav Gallant, Ministro della Difesa, che ha ricordato la generosità con cui Israele ha aiutato la Turchia durante il terremoto e ne ha deplorato l’ ipocrisia e ingratitudine; mentre il ministro degli esteri Israel Katz ha detto che “chi arresta un giocatore di calcio per aver espresso solidarietà con 136 ostaggi detenuti da 100 giorni nelle mani di una delittuosa organizzazione terrorista, rappresenta una cultura di odio e violenza”.

Adesso, ancora si attendono le reazioni delle grandi organizzazioni sportive: sono loro che devono proteggere lo sport come la libertà di opinione quando non inciti alla violenza. Quando dopo l’uccisione di George Floyd i giocatori si inchinarono su tutti i campi di calcio, lo fecero nel rispetto generale. Per i sequestrati, bambini vecchi, donne, nemmeno una piccola fascia bianca su un braccio?

 

Il nuovo cittadino israeliano che nasce dopo il 7 ottobre

lunedì 15 gennaio 2024 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 15 gennaio 2024

C’è un fatto essenziale che segna la resistenza di Israele in tempi impossibili e spiega che il Paese ce la farà: i ragazzi israeliani d’oggi, quelli fra i 18 e i 35 anni, sono molto più simili ai vecchi pionieri alla Ben Gurion e alla Jabotinsky della generazione dei professionisti moderni, ecologici, ideologici, woke come noi. Oggi in battaglie impossibili, a Khan Yunes o a Shlomi, giorno e notte, volontari negli ospedali, nell’agricoltura, nelle scuole, nella distribuzione di generi primari, le maestre d’asilo, i cantanti che fra le cannonate vanno a Gaza a cantare, o le cuoche che impacchettano gavette di cuscus… trovi ragazzini molto pratici, diretti, che amano la casa, la famiglia, che vogliono molti bambini, che ripetono “non ho altro Paese che questo”, telefonano alla mamma e alla fidanzata, sanno usare le armi in battaglia. E resistere al dolore in nome del loro futuro. Strana gente. Questi giovani saranno quelli che oltre i politici odierni compiranno un terremoto ideologico, senza destra e sinistra, oltre i religiosi e laici, perché hanno verificato che il Paese altrimenti rischia la vita.

Abbandoneranno l’illusione che il Paese possa diventare la Svizzera, saranno quelli che porteranno una nuova e profonda comprensione della natura della guerra di Hamas, degli Hezbollah, dell’Iran con Israele, come descritta da Hossein Salami nel 1922 “Palestinesi e Hezbollah, passo passo, muoveranno insieme per liberare la Palestina in una guerra di terra, non coi missili”. Il West Bank si muove su questo modello, anch’esso per una profonda convinzione religiosa. Israele ha immaginato che condivisione e benessere portassero alla pace. Chi ha visto cos’è successo a Be’eri, chi ha ascoltato le testimonianze degli ostaggi ritornati, aggiungono molte tessere al mosaico della loro interpretazione della moralità ebraica: si deve anche sopravvivere, e mai più sopportare un’altra Shoah. Nel rispetto del valore della vita umana e delle regole internazionali, saranno quelli che sanno che si vince lo si fa da soli; e ci si batte per gli ostaggi non per motivi di pietà, ma per orgoglio. Questo è il Medio Oriente; i cento giorni lo hanno rivelato definitivamente. La centesima giornata dal 7 di ottobre ha portato su di sé tutto il fardello di quello che oggi Israele deve affrontare: l’attacco omicida ai civili dal Libano, Hezbollah e palestinesi, sulle case e sulla gente, gli attacchi terroristi dall’West Bank sul modello di quello di Gaza, recinti sfondati, mitra, asce, coltelli; l’Iran sullo sfondo di una guerra totale.

E la lunga operazione di Gaza, carica di eroismo, di caduti, incerta sui tempi e soprattutto su come liberare 136 rapiti. Nel centesimo giorno, al nord e sul sud si vede la devastazione dei kibbutz intrisi di sangue, la desolazione dei Paesi al confine col Libano; e il peso sugli amici, sui membri della famiglia, dell’elaborazione del lutto, del significato misterioso del male, dei caduti in battaglia e dei tunnel dove si torturano i rapiti. Ma non è un’angoscia simile a quella del passato, nemmeno per la ferita che brucia dell’ondata di antisemitismo nel mondo, “from the river to the sea”. Qui, basta guardarsi intorno, osservare i ragazzi, e si vede che sta nascendo un nuovo israeliano.    

 

 

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