Simmetria disgustosa tra carnefici e vittime: la decisione è politica. La guerra? Una scusa
Il Giornale, 21 maggio 2024
Che cosa c’è di strano nel mettere Netanyahu sullo stesso piano di Sinwar? Nulla. È antisemitismo, stupido. Va di moda. Vi ricordate? Il sette di ottobre migliaia di unni si sono rovesciati sulla popolazione innocente, ignara, inconsapevole, e ha maciullato con sistemi inimmaginabili i civili di un Paese che non aveva nessuna intenzione di fare guerra. Le donne, i vecchi, i bambini, sono state violentati, uccisi, fatte a pezzi, le madri uccise di fronte ai figli e i bambini davanti ai genitori, insieme a vecchi bambini ragazzi, e ad oggi i poverini sono ancora prigionieri degli stessi mostri. Ma, miracolo, subito dopo questo episodio, gli stessi che lo avevano preparato e realizzato nei minimi particolari urlando Yehud Yehud, sono diventati le vittime degli ebrei, e gli ebrei sono stati nazificati. Netanyahu, è Sinwar, Israele è nazista, colonialista, imperialista, affama i palestinesi, ha un progetto genocida. Niente fu mai più idiota e disgustoso. Gli aggrediti, Israele, in realtà hanno dovuto affrontare una guerra di difesa che ponesse fine al progetto di sterminio, al pericolo continuo, allo sradicamento dei civili da case lavoro scuole.
Una guerra non è una passeggiata, ma il minotauro si è affacciato dal labirinto della storia a dare il suo contributo agli assassini. Si chiama antisemitismo, il suo fascino muove istituzioni grandi e potenti come l’ONU e l’Unione Europea, cambia il discorso pubblico, ipnotizza le università, lo sport, l’arte, la giustizia, una quantità di persone che sembravano altre, diverse, cui ci eravamo perché immaginavamo che condividessero i nostri ideali sui diritti umani. Non era così. Non è così per Karim Khan, che accusa Netanyahu di qualcosa di molto più grave dei crimini di guerra, cioè di essere uguale a Yahia Sinwar, lo mette alla stregua di un terrorista islamico per cui l’Occidente è un nemico da distruggere, le donne sono creature inferiori da dominare, gli omosessuali, vanno messi a morte, la democrazia una parolaccia. Per favore, non si dica che la decisione dell’ICC riguarda la guerra a Gaza: non è vero.
È una decisione politica che implica soltanto Netanyahu e Gallant, e non Benny Gantz o Eisenkot, che arriva nel momento saliente della guerra, quando la battaglia di Rafah mette a rischio la sopravvivenza di Hamas e anche quella di Israele. Israele si è comportata come non avrebbe fatto nessun altro Paese a rischio di vita così evidente (qualcuno si ricorda che si combatte contemporaneamente anche a Nord con gli Hezbollah e che tre settimane fa centinaia di missili del migliore amico di Hamas, l’Iran sono caduti su Gerusalemme e Tel Aviv?), è l’unico Paese del mondo che ha fornito acqua, cibo, medicine, aiuti umanitari in quantità gigantesca, benzina, non croste di pane ma diete misurate sulle necessità degli assistiti, che ha sempre avvertito prima delle operazioni di guerra e infatti ha spostato centinaia di migliaia di persone, e seguita a farlo.
Ma Hamas sequestra i camion di cibo, è noto. E Hamas seguita a bombardare la popolazione israeliana così che è impossibile cessare dai combattimenti. Hamas nega uno scambio che consenta ai rapiti di tornare a casa e li seguita a torturare. Hamas ha un unico ideale: uccidere, distruggere Israele stabilire lo Stato Islamico. È un nemico cinico e deciso a tutto: qualcuno ignora che negli ospedali, nelle scuole, negli appartamenti, nell’incredibile meandro di gallerie sotterranee c’erano degli uomini per i quali la morte è preferibile alla vita, che hanno messo in prima linea la loro gente, e la loro gente, per altro, ipnotizzata da un’educazione assassina, li segue in massa come fecero i tedeschi col nazismo? Ma questo non lo sa il signor Khan? Perché vuole insegnare al mondo il suo disprezzo per la democrazia e i diritti umani paragonando Netanyahu a Sinwar?
Dolore e orgoglio, Israele celebra l’unicità
Il Giornale, 14 maggio 2024
Sì, il popolo d’Israele è diverso. E sembra audace dirlo adesso, ma il miglior augurio nel giorno del suo settantaseiesimo compleanno che si possa fare, è che i giovani di ogni Paese siano così intensi, dedicati, pratici e patriottici e follemente innamorati della vita come i giovani d’Israele. È difficile, qui, scegliere il buon umore, l’amore, il divertimento, a volte lo scoraggiamento, la mancanza di sostegno, l’aggressività di troppi antagonisti ti spingono nell’angolo. Ma guardate le foto dei giovani israeliani, anche di quelli che combattendo hanno perduto la vita. Sorridono con la maggiore determinazione nota i tempi nostri. E il sorriso di chi sa perché vive. Nei secoli il popolo ebraico ha dovuto imparare per forza una lezione basilare e difficilissima, quella di vivere nonostante e contro; di scegliere ogni volta di non mollare, di coltivare sia l’albero della tradizione ebraica che della civiltà occidentale cui ha dato la vita, e così ha fatto anche questa volta dopo la tragedia che ha attraversato in questi mesi a partire dal 7 di ottobre.
Appare incomprensibile a molti, ogni anno, come il popolo ebraico sia capace di passare dal pianto alla gioia, di seguito: da 24 ore dedicate con disperazione alla memoria dei propri cari, di ogni soldato (quest’anno 764 uccisi in guerra dopo il 7 di ottobre che hanno lasciato 1300 genitori e 250 vedove con più di 525 orfani e e 2180 fratelli e sorelle…) e poi passare, al suono della sirena a unirsi nella commozione festosa per il compleanno del proprio Paese. E sembra ancora più difficile quest’anno, perché i due anniversari si svolgono sotto l’ombra dell’eccidio mostruoso di 1400 uomini donne e bambini, mentre 133 rapiti sono ancora nelle mani degli assassini e tutta Israele, in ogni istante, prega e si batte in battaglia, per il loro ritorno. Tutte le celebrazioni hanno avuto un tono, uno stile, diversi; a qualcuno è piaciuto rilevare la polemica oltre al dolore che è il leitmotiv della storia d’Israele dal 7 di ottobre. Ma non ci si può sbagliare sia nelle storie degli uccisi raccontate una a una, che in quelle dei protagonisti del domani: una grande luce sul mondo, e non solo su Israele, caratterizza questo 76esimo compleanno. È fatta di coraggio, dedizione fino al sacrificio definitivo nate in storie non solo di vita militare, ma di musica, di scienza, di letteratura, di medicina, di studi religiosi, che si guardi a una ventenne che è stata uccisa mentre con le unghie con i denti difendeva il confine; o ancora un’altra soldatessa sopraggiunta spontaneamente col tank, che ha sgominato decine di terroristi, mentre i suoi bambini l’aspettavano a casa; o il paramedico druso che è ritornato decine di volte dentro il campo di Nova, portando in salvo un numero incredibile di ragazzi terrorizzati; o guardando la reazione quieta e decisa di una ragazzina che ha visto uccidere sua padre e sua madre dai terroristi e che ha da pochi giorni ricevuto la notizia che anche il fratello è stato ucciso in guerra. Ora è sola, è forte e decisa a vivere.
La storia di Israele è quella per cui, ora, durante la guerra una start up “Salignostics” ha inventato il test di gravidanza con la saliva. Per cui la biblioteca nazionale a Gerusalemme organizza attività meravigliose, e i soldati vi si aggirano col mitra a ciondoloni, studiando. Un ristorante vicino alla Striscia non fa mai pagare i soldati. La comandante dell’Unità Karakal ha salvato la soldatessa Amit, ferita grave, e all’ospedale il medico che l’accoglie è per caso sua sorella; Israele è la radio che avverte che quando stasera ci sarà la sirena se cambia tono allora si deve correre nei rifugi. Ma ci sono tutti a cantare vecchie canzoni coi ragazzini in camicia bianca alla cerimonia nella scuola qui vicino, e festeggiano la grande vittoria degli Ebrei, l’Indipendenza di Israele. I soldati feriti chiedono: “Posso tornare alla mia unità”? Israele è diversa, ancora nel suo settantaseiesimo anno di vita dovrà scegliere fra il diritto alla vita e il piacere di restare simpatica, dovrà affrontare il problema dell’antisemitismo nel mondo, ma alcune scelte le ha già fatte: quelle della democrazia e dei diritti umani e quella della vita, attraverso tutte le difficoltà.
I bassi istinti dell'Onu
Il Giornale, 11 maggio 2024
Uno Stato palestinese è il sogno di tutti, specialmente di Israele, che ha cominciato a sperare di vederlo nascere in pace sin da quando nel 1948, data della sua fondazione, accettò la partizione: due stati per due popoli. Ma i palestinesi, per i quali l’ONU ieri ha votato di riaprire la porta a una decisione del Consiglio di Sicurezza che gli regali uno Stato, hanno sempre detto di no. Perché? Perché esso avrebbe comportato secondo le regole internazionale, quelle delle risoluzioni ONU, quelle degli accordi di Oslo, di riconoscere Israele e di condividere, suddividere, accettare… invece di rifiutare, distruggere, cancellare, sostituire. Non hanno mai cambiato idea: l’ottanta per cento dei palestinesi di Fatah tiene per Hamas, e Abu Mazen per convinzione o per paura di questa maggioranza molto attiva, che pratica il suo terrorismo quotidiano contro Israele, non ha mai condannato il 7 di ottobre, non ha mai rinunciato a pagare ai terroristi in carcere o alle loro famiglie uno stipendio che cresce col crimine commesso.
Le sue scuole insegnano odio nei testi, le lezioni, le colonie in cui si esaltano gli shahid che uccidono gli ebrei colonialisti e razzisti, si propaganda una cultura di morte; la sua economia non esiste; come la libertà dei dissidenti, delle donne, dei LGTBQ+. La sua leadership è debole e corrotta. E questo è uno stato? Ad aprile gli USA hanno impedito col veto che il Consiglio di Sicurezza approvasse uno Stato palestinese privo della clausola indispensabile del riconoscimento di Israele e della condanna del terrore e senza le discussioni bilaterali sui confini che garantiscano la sicurezza delle due parti, anche di Israele. L’intenzione di votare “Palestina” può sembrare utile a spingere i palestinesi di Fatah verso un processo storico che li responsabilizzi in una Gaza libera da Hamas. Ma questo Fatah se andasse alle elezioni voterebbe per il 78 per cento per Haniyeh e solo per il 16 per Abbas. Inoltre, uno Stato deve avere un territorio, un’unità, un’economia.
E qui cosa c’è invece nonostante gli enormi aiuti internazionale? Armi ovunque, e la ripetuta linea di cancellare Israele. Se adesso gli USA non bloccheranno di nuovo questa follia, si romperanno anche gli accordi di Oslo, salterebbe la strada del negoziato su Gerusalemme, i confini, gli insediamenti, la sicurezza… resterebbe la soddisfazione di Hamas, gli Hezbollah, l’Iran, la Russia...
Nella decisione di ieri c’è solo un invito, dopo che il 7 di ottobre ha mostra di quale odio senza frontiere sono capaci i palestinesi, a infischiarsene della trattativa per fornire una risposta accattivante e ammiccante alle folle che nelle strade urlano “from the river to the sea” e picchiano gli ebrei. È un premio alla violenza, è la creazione di un evidente debito di gratitudine di Fatah verso Hamas. È la paradossale caricatura che fa di Sinwar il Ben Gurion dei palestinesi.
Ma Netanyahu non si scompone: "Andiamo avanti anche da soli"
Il Giornale, 10 maggio 2024
Il primo risultato dell’uscita di Biden è stato che, mentre il capo della Cia William Burns tornava a Washington, Hamas dichiarava che non c’è più nessuna trattativa per i rapiti e tutte le delegazioni lasciavano il Cairo. Hamas festeggia, si disarma Israele, ha pensato, l’antisemitismo impazza, magari oggi l’ONU dichiara unilateralmente lo Stato di Palestina e fa di Sinwar il Ben Gurion dei Palestinesi… L’annuncio, fatto con tono accorato, dice che il Presidente non darà a Israele bombe di precisione per usarle a Rafah. Perché? Per difendere i civili, naturalmente. È una decisione contradditoria e priva di chiarezza morale in una guerra di difesa contro terroristi che hanno giurato la distruzione di Israele, ed è anche poco chiara, una forma di ingiunzione inaccettabile ad uno Stato sovrano in guerra dopo gli orrori del 7 ottobre che poche ore prima Biden aveva ricordato scagliandosi contro l’antisemitismo, come si è visto nelle risposte alla requisitoria del capo della commissione difesa Lindsay Graham, persino il ministro della difesa Lloyd Austin ha risposto imbarazzato e incerto. Le ingiunzioni riguardano un ingresso profondo, che per ora non c’è.
Fino a poche ore prima Israele si è spinto poco oltre il confine, sul Corridoio di Filadelfia, indispensabile per evitare i commerci terroristi di Hamas, e ha colpito alcuni obiettivi specifici, una ventina di gallerie e di covi, gruppi di terroristi. Nonostante lo shock causato dal suo annuncio alla CNN, se Joe Biden pensava che il masso nello stagno che ha gettato annunciando che si terrà 3600 proiettili di precisione destinati a Israele fermasse Israele, qualcosa non è andato secondo i piani. Netanyahu regge il timone, le eco provenienti dal Consiglio di Guerra riunito per l’occasione, non portano traccia di rottura o di un passo indietro. Nessuno, lascerà il campo a causa della minaccia americana, il Presidente ha ignorato la più elementare logica israeliana di questi tempi di guerra, ha sopravvalutato la divisione politica a fronte del patriottismo, ha ignorato che sul tema dei rapiti pesa, con la disperazione delle famiglie che chiedono qualsiasi accordo, anche l’ultima speranza di ritrovarli a Rafah perché si capisce che Hamas dice e forse dirà sempre no a tutto.
Proibire Rafah è una giravolta americana contro la logica e la fedeltà, è chiaro che è indispensabile per battere Hamas battere i quattro battaglioni ancora di stanza nella città… Sinwar ha aggredito Israele con proiettili e bombe da Rafah che hanno ucciso 4 soldati ferendone 11 e poi preso di mira Sderot e i kibbutz del 7 di ottobre. Poi ha rifiutato l’offerta “incredibilmente generosa”, secondo Blinken, per gli ostaggi, e ne ha avanzato una ridicola. Israele intanto ha riaperto, come richiesto da Biden, il valico di Shalom per gli aiuti umanitari, ha accettato nuovi colloqui, tenuto l’esercito fuori dell’abitato di Rafah, sgomberato 150mila persone. Biden ha parlato dei civili colpiti, sacrificati dalla guerra. Ma i numeri noti si sono rivelati gonfiati secondo verifiche internazionali, gli USA stessi durante le loro guerre hanno fatto molti più morti civili; e, soprattutto, è Hamas che sta nelle gallerie mentre usa scudi umani. Netanyahu già da lunedì aveva dichiarato nel Giorno della Shoah che “se Israele deve fare da solo, così farà”, e ha ripostato questa frase in attesa del Gabinetto: “Nessuna pressione internazionale impedirà a Israele di difendersi”. Il ministro della difesa Yoav Gallant dichiara: “Dico ai nostri nemici e ai nostri migliori amici, Israele non può essere sottomesso”.
Anche Benny Gantz e Gadi Eizenkot non hanno certo intenzione di spaccare l’unità mentre si combatte. Israele farà probabilmente del suo meglio per non oltrepassare linee rosse, ma la bussola punta sull’annientamento di Hamas, specie ora che, sicuro di sé, Sinwar si tiene stretti i rapiti.
La decisione di Biden non ha la possibilità di fermare la guerra, Israele produce, meno perfezionate, gran parte delle armi necessarie. Negli USA si disegna un’opposizione alla decisione di Biden che include i conservatori, e anche una parte dei suoi. Il suo partito ha una simpatia morale e una dedizione storica per Israele. Inoltre, l’80 per cento degli americani tiene per Israele, nonostante le università invase dagli woke-proPal in un misto di sinistra e di islam radicali. La decisione di Biden incoraggia i nemici dell’Occidente, consente a Hamas di sopravvivere e di ricostruirsi come crudele padrone di Gaza. Israele combatte una guerra di sopravvivenza che Biden ha sempre dichiarato necessaria. La sua presa di posizione ora è un segnale per Iran e Russia oltre che Hezbollah e Hamas. ll segnale raggiungerà tutta l’alleanza Nato: quando si abbandona il vecchio amico cui ti accomuna una scelta di democrazia e diritti umani, ogni alleanza di sicurezza diventa uno scherzo.
L’errore Usa. Lo stop alle armi
Il Giornale, 09 maggio 2024
Due giorni or sono Israele fece a Hamas una proposta “di incredibile generosità” parole firmate da Blinken. Poi ha aspettato, ha aspettato, ed è venuto un bel “no”. Proprio nelle stesse ore, da Rafah, dove Hamas nel profondo delle gallerie nasconde la sua leadership e forse anche decine di rapiti che la proteggono, e dove ancora sono in forza quattro battaglioni, sono partiti dei colpi di artiglieria molto accurati contro le postazioni israeliane e hanno ucciso quattro soldati e feriti altri undici. di cui due gravi.
Anche la capitale del sud Sderot è stata bombardata, e ancora ieri a testimoniare che Hamas è viva e vegeta dentro Rafah, una ventina fra missili e grossi proiettili sono piombati proprio sui kibbutz su cui il 7 ottobre Hamas ha compiuto le sue atrocità. Poteva Israele esimersi dal rispondere? Israele finalmente dopo mesi di preparazione e lo spostamento verso Khan Yunis di centomila persone di Rafah, mentre si cerca di riaprire quanto più velocemente il valico di Shalom per fare entrare aiuti umanitari, come Biden richiede, agisce. Miracolo, contro tutte le previsioni dei buoni che credono nel cessate il fuoco come in una potentissima aspirina mediorientale, Hamas annuncia che accetta “il cessate il fuoco”. Davvero? Israele benché scettica, pur avendo capito ormai che Hamas non è interessata altro che a tenersi i poveri rapiti stretti a difesa di Sinwar, riapre, manda la sua delegazione al Cairo, e scopre in quelle ore di che cosa è fatta la proposta di Sinwar: di frasi tragicomiche. È pronto a dare 33 ostaggi, dice lui, di cui, si dice, solo 18 vivi. Il resto, corpi, e anche, si dice, “parti di corpo”. Il primo ostaggio di rivedrà solo dopo 3 giorni e poi 3 a settimana, solo prigionieri “umanitari”, ciascuno in cambio di 20 prigionieri anche supersanguinari, e nel secondo stadio 40 contro ciascuna donna-soldatessa. Sulla seconda fase, comunque sia andata la prima, Israele deve giurare subito che la accetta, mentre scorrono le settimane e Hamas si rimpannuccia di armi e soldi iraniani e qatarini.
La terza fase, in cui solo corpi di povere creature straziate vengono restituiti, deve di fatto portare a un cessate il fuoco definitivo. È mai possibile? Oltretutto, Hamas ha già rifiutato ieri ogni cambiamento alle sue idee geniali. E adesso, come si può seguitare a pretendere una tregua che ha la caratteristica principale di garantire la sopravvivenza del mostro senza garanzie? Come può Biden seguitare col bastone e la carota? Come può avviare un restringimento della fornitura di indispensabili proiettili a Israele, mentre lo minaccia e lo isola, e insieme, però dice a tutto il mondo durante la cerimonia contro l’antisemitismo, che lui ricorda molto bene cos’è successo il 7 di ottobre, nei particolari? D’accordo, ha le elezioni, vuole la pace, ma non capisce che non dipende dal ritegno di Israele, quanto dall’aggressività di Hamas. SE non lo si fermerà, essa aumenterà, e spareranno con Sinwar anche gli Hezbollah, e i Houty, e gli Iracheni mentre l’Iran con l’aiuto di Putin sosterrà tutta la compagnia? Israele agisce per ora con molta cautela verso la popolazione di Rafah, Biden lo vede; e quindi se ricorda il 7 ottobre, lasci che Hamas non possa agire di nuovo.
La strategia spalle al muro e le prime aperture di Hamas. Vince la linea dura di Bibi
Il Giornale, 07 maggio 2024
È venuta sul tramonto mediorientale del giorno della Shoah israeliano, mentre dalla zona orientale di Rafah (non proprio dalla città dunque) si alzava una nuvola causata da un paio di proiettili israeliani, i carri armati sul bordo si preparavano a eventuali prossime azioni, gli abitanti delle zone più fitte si avviavano verso le strutture di soccorso preparate da israeliani e americani verso Khan Yunes: dopo mesi di tentennamenti con la decisione di entrare nella roccaforte di Sinwar, il capo di Hamas Ismail Haniyeh evidentemente non indifferente all’ingresso israeliano, telefona al presidente del Qatar e gli dice che accetta la tregua proposta dai mediatori egiziani. E’ un accordo sulla restituzione di parte degli ostaggi, su cui aveva detto di no alle quattro di pomeriggio? Quanti? Quando? Chi? Contro quanti prigionieri palestinesi? Non si sa ancora niente. Per ora il governo israeliano annuncia che cercherà di capirne si più. La sorpresa non è piccola: è la prima volta, in questa fase, che Hamas accetta l’accordo per un cessate il fuoco non definitivo, e lo fa proprio nel modo in cui aveva previsto Israele, da Netanyahu a Gantz: con la pressione militare. IL quasi-ingresso di Israele a Rafah invece di chiudere porte, come da troppo sempre bloccando Israele sostiene il consesso internazionale, ne sta aprendo di inusitate.
Se i grandi capi si parlano sinceramente nei momenti difficili, anche quando i loro interessi sono diversi, la telefonata di ieri pomeriggio fra Joe Biden e Benjamin Netanyahu deve aver avuto momenti drammatici ma significativi. Bibi potrebbe aver detto a Biden che chiedeva notizie su Rafah: “Ho cercato di temporeggiare il più possibile, anche perché odio le stupidaggini che dicono su di me, specie sul New York Times, quando sostengono che a me dei rapiti non importa nulla e che butto per aria le trattative apposta, tenendo in piedi la guerra per restare al mio posto. Avrei voluto aspettare, anche se sapevo che Hamas ci prende in giro con una sadica attesa senza speranza. Ma mi capisci: dopo che ieri i terroristi di Hamas hanno sparato i loro missili da Rafah, con precisione e con conoscenza comprovata della posizione dei nostri presidi militare, e mi hanno ucciso quattro soldati mentre altri undici sono feriti fra cui due in condizioni gravi, mi è difficile evitare l’azione. Di fatto, era indispensabile dall’inizio. Sarò cauto, cercherò di tenere ancora la porta aperta all’accordo sui rapiti, osserverò più che posso la strada umanitaria, cominciando con lo spostamento della gente in zone sicure, Khan Yunes e nei Muwassi di tutta la gente possibile. Ma devo eliminare la forza militare di Hamas e quindi entrare a Rafah, cercare i miei poveri rapiti: Sinwar non li rende con le buone, e devo anche mettercela tutta per prenderlo”. E Biden potrebbe aver risposto: “TI capisco. Ma sai benissimo che se entri a Rafah io non potrò altro che disapprovarti, e del resto tutto il mondo lo farà. Il rischio per a gente non può essere accettato né da me, né dai miei elettori. Anche io voglio eliminare Hamas e te l’ho detto fin dall’inizio, ma non posso pagare questo prezzo perché ne va del futuro stesso degli USA e mio personale per averti sostenuto”. Probabilmente, nel frattempo, sull’Egitto e sul Qatar, Biden, capendo la serietà definitiva di Netanyahu, premeva con tutta la sua forza perché spingessero Sinwar ad accettare. Forza militare da una parte e pressione americana dall’altra, qualcosa si è mosso. Netanyahu deve aver a sua volta spiegato che spera anche lui che appaiano i rapiti e si possa smettere di combattere, che si terrà sul margine di Rafah, che punta soprattutto a controllare lo Tzir Filadelphi, cioè lo strategico confine con l’Egitto. Se non va a Rafah, come si è visto dal bombardamento su Kerem Shalom, mai gli israeliani potranno tornare a vivere a Sderot e nei kibbutz.
Tutto questo resta in piedi anche di fronte alle ultime notizie: Israele anzi, adesso è certo che entrare a Rafah era la strada giusta per costringere Sinwar a passi inusitati. Biden può aver detto a Bibi che la guerra può incattivirsi nella lunghezza e nell’asprezza, e forse persino avrà minacciato di bloccare a lungo tutti quei proiettili che per ora, per ordine della Casa Bianca, non lasciano le mani americane. E Israele ne ha molto bisogno. Netanyahu ha tuttavia deciso, dopo che Rafah ha sparato e adesso devono riapparire all’orizzonte i rapiti perché Israele cambi idea.
Ma la giornata in cui Israele ieri ha ricordato molto drammaticamente la Shoah con la sua intersezione con la strage genocida di Hamas, è stata marcata da discorsi del primo ministro in cui ha ripetuto più volte quanto l’oggi sia diverso dal tempo dello sterminio perché Israele difende il popolo ebraico, anche se la decisione a battersi, e l’ha detto varie volte, a volte si prende in una solitudine da cui la storia ebraica è marcata. A questo non siamo arrivati però: Israele era pronto da tempo a entrare, l’ha discusso a lungo con delegazioni di altissimo livello con gli americani, ieri Gallant con Austin hanno ancora riparlato di possibile accordo sui rapiti… Israele entra ma aspetta, l’America condanna ma poco. L’ingresso è per ora cauto, solo nella zona orientale, lo spostamento di 100mila persone al contrario di quello che si narra è sufficiente (o poco più) a evitare un coinvolgimento della gente nella battaglia. Hamas da una parte ha detto agli israeliani “attenti, non sarà un picnic” ma poi è corso a telefonare accettando qualcosa che non aveva mai accettato. Intanto i suoi 4 battaglioni stanno là in agguato, hanno avuto molto tempo per prepararsi. Il tempo dell’attesa di un si di Sinwar. Finora Sinwar ha impedito la tregua che salvava vite e favoriva Biden. Ora può darsi che stia cercando di salvarsi la vita, o forse di prendere di nuovo in giro tutti quanti. Ma Israele ha le truppe già dentro, e per ora non ha nessuna intenzione di spostarle.
Quei ricordi del 7 ottobre nella giornata della Shoah. Ora «mai più»
Il Giornale, 06 maggio 2024
Una fosca precognizione ha suggerito molto tempo al Museo di Yad Va Shem di intitolare questo Giorno della Memoria in Israele alle comunità scomparse. Ma il Paese, il mondo intero, posso chiedersi: quali comunità? Quali ebrei? Quelli di Baranov, il paese polacco di mio padre, dove tutti furono deportati in massa; o quelli di Be’eri, sul confine di Gaza, i cui tizzoni spenti ancora bucano il cielo, i cento uccisi sono stati fatti a pezzi e stuprati in un pogrom senza precedenti, i suoi cittadini deportati? Ci si affanna a stabilire differenze e paralleli, si discute si dissente, la marcia tradizionale organizzata in Israele stavolta in Ungheria, conta anche i sopravvissuti dei kibbutz: il presidente di Yad Va Shem Dani Dayan sostiene che comparare il 7 ottobre alla Shoah è un regalo a Hamas e alla folle, feroce massa che negli atenei del mondo tiene per Sinwar. La spina nel costato è profonda: il giorno della Shoah in Israele deve riaffermare “never again”.
Ma quale Shoah? Quella conclusasi nel 1945, tre anni e mezzo di strage sistematica di ebrei, o quella del 7 di ottobre, una giornata di impensabili orrori? E’ una domanda dura, viva, sensata: rispondono accendendo 6 fiaccole per i 6 milioni i sopravvissuti: Pnina Hefer, un’insegnate decisa e forte, ungherese, deportata ad Auschwitz con tutta la famiglia; Allegra Gutta, deportata dalla Libia dagli italiani; Arie Eitani, nato a Milano, un eroe della sopravvivenza, da Auschwitz alla prigione di Cipro, fondatore del Kibbutz Ha’on; Raisa Brodsky, ucraina, dalla sofferenza totale alla memoria come educatrice; Michael Bar On, polacco, combattente di prima linea appena giunto in Israele; Izi Kabilio, di Sarajevo, anche lui un esempio di resistenza e di amore per la vita; Ytzhak Pelmutter oggi nonno e bisnonno di una tribù con le sue pazzesche avventure di sofferenza e eroismo; Haim Noy fuggito scalzo dalla Cecoslovacchia, sopravvissuto ad Auschwitz. Lo raccontano fieri, non c’è dubbio: Israele è la loro fortezza, il loro punto di arrivo. E hanno ragione: se Israele fosse già esistito, come il sionismo chiedeva da cento anni, e gli ebrei avessero riavuto la loro patria, mai ci sarebbe stata una shoah. E il 7 di ottobre è diverso da Baranov: qui dopo che l’assalto, lo stupro, l’eccidio, sia pure tardi, dopo che troppo era accaduto, è arrivato l’esercito, gli invasori sono stati respinti, uccisi, e poi gli è stata portata una dura guerra. Ma resta, oltre le armi, terribile e inaspettata, invece la costruzione perversa del consenso ideologico e di piazza che ha ricostruito.
Il paragone qui è lecito e carico di minaccia fra antisemitismo ideologico nazista, puntato alla cancellazione degli ebrei, e quello orribile e in piena proliferazione, cui si assiste nel mondo, puntato alla distruzione di Israele. È una costruzione sofisticata, ricca, che sull’antisemitismo tradizionale, proietta la salita sul proscenio di una folla ignorante e presuntuosa di rappresentare il futuro progressivo del mondo mentre ne rappresenta lo sprofondare nella mancanza di conoscenza e di morale. Tutto è rovesciato. La dittatura, l’odio per le minoranze, per le donne, per gli omosessuali, che gli antisemiti in piazza dicono di rappresentare sono presenti nel loro amico Hamas, e nei loro sponsor, l’Iran e la Russia. La loro shoah è dal fiume al mare, l’eliminazione di una Nazione e di un popolo indigeno e non coloniale, ma essi rovesciano su questo popolo l’accusa di essere ciò che essi pretendono di odiare: coloniale, di apartheid, genocida... è il famoso rovesciamento della Shoah che dal 1975, quando l’ONU dichiarò Israele “razzista” si è compiuto passo passo. Ieri e oggi Israele affronta da solo il rischio per cui come dice la Bibbia “ad ogni generazione qualcuno si alza per ucciderci”. L’ha dichiarato Netanyahu, stavolta nel più drammatico fra i giorni della Memoria, quello in cui la memoria è rovesciata.
Nel giorno della Shoah oggi alle dieci dal 1953, un momento mistico avvolge Israele: durante una sirena di due minuti, tutto si immobilizza e tace, nelle scuole, negli uffici, nei negozi, nelle strade le auto si fermano, volano nell’aria i propri cari uccisi a Birkenau come di Sobibor. Ma quest’anno, il presupposto stesso celebrazione della Shoah, la formula del “never again” è interrogativa e contorta. La domanda che la sovrasta viene dai sopravvissuti che hanno di nuovo dovuto sopravvivere all’impossibile persecuzione di un odio ceco e definitivo come quello del 7 di ottobre. Il dolce Shlomo Mansur, appassionato allevatore, salvatosi in Iraq dalla strage del Farhud organizzata dai nazisti di Haj Amin al Husseini nel 1941 è ostaggio; altri stupefatti sopravvissuti hanno visto di nuovo il pogrom, sono rimasti come da piccoli dodici ore nascosti in un armadio in silenzio, fra loro. Dov Golebowicz, Gidon Lev, Zvi Solow, Haim Raanan. Sara Jackson polacca, sopravvissuta, ha aperto la porta della sua casa nel kibbutz a un gruppo di ragazzi terrorizzati fuggiti dal festival Nova. Lala, fra i rifugiati dall’attacco terrorista, ha ascoltato nel nascondiglio dai terroristi le storie di Sara. Adesso parlano insieme della ondata di antisemitismo bestiale e cieco di cui non si è mai più visto eguale da quando Sara si era salvata dal campo di concentramento.
Sara non ha esitato un attimo a aprire le porte salvando così i ragazzi. La sua lotta per la vita ha contribuito alla in credibile sopravvivenza del popolo ebraico dalla Shoah, e adesso, di nuovo ancora, il popolo ebraico affronta un’altra grande sfida. Il giorno dopo la strage del 7 ottobre da tutta Israele uomini, donne, professionisti, operai, a migliaia sono corsi a prendere le armi, si sono precipitati a offrire la loro vita, scacciando l’ala della morte. Un giovane sul fronte mi ha detto “never again sono io, mio nonno è sopravvissuto a Auschwitz, mio padre alla guerra del 73”. Lui è il migliore erede della Memoria.
Riavere i rapiti, eliminare i capi di Hamas. Flessibile, ma fermo: la ricetta di Israele
Tregua tra bluff e ricatti. Bibi punta Rafah
Il Giornale, 01 maggio 2024
La fotografia del Medioriente nebbiosa e fosca in queste ore la si può osservare attraverso il vetro opaco della trattativa sui 133 ostaggi ebrei di Hamas. Che diventano meno ad ogni istante: è il Medioriente peggiore, strappato col 7 ottobre da Hamas alla sua storia del mondo di riconoscimento reciproco fra mondo arabo e Israele coi Patti di Abramo, ricacciato nel Medio Evo. Chi decide, in queste ore, se la guerra avrà seguito a Rafah è adesso, in tempi immediati, la più perversa organizzazione terrorista del mondo, che smembra i vecchi, stupra le donne, brucia i bambini e poi compie una trattativa sugli ostaggi cui ha strappato la vita e tortura, presentandosi alle conferenze stampa in hotel a cinque stelle mentre il suo antagonista democratico, il governo israeliano, viene trattenuto a forza, criticato passo dopo passo, torturato dall’opinione pubblica mentre lo combatte.
Tutto il mondo, mentre per altro gli Hezbollah bombardano il nord d’Israele e in Città Vecchia a Gerusalemme un terrorista turco pugnala i passanti, assiste allo spettacolo, aspetta che Sinwar decida del futuro, fermi la guerra, consegnando un numero ormai dimagrito oltre misura (si parla di 20 o 30 su 133) di ostaggi, i più bisognosi, mentre si tiene il boccone prelibato dai giovani soldati e ragazze per la prossima tappa. In cambio Israele accetta di consegnare migliaia di prigionieri-terroristi; accetta anche il ritorno al nord della gente di Gaza che si era spostata al sud e lo smantellamento del blocco militare che controlla che i terroristi non rioccupino tutta la Striscia nascosti fra la folla. Hamas vuole cessate il fuoco indeterminato, Israele accetta di concederlo per molto tempo: varie settimane…e più avanti chissà, il rinnovo della tregua e soprattutto, formula magica, si capisce che se ci si accorda non si entra a Rafah. L’Egitto è il più interessato fra i mediatori, pone a Hamas e a Israele le sue proprie condizioni (controllo del confine con Gaza, lo Tzir Philadelphi); gli Stati Uniti, intanto, da mesi discutono e preparano con Israele il passaggio degli sfollati da Rafah in altre zone e l’ingresso con azioni mirate che evitino spargimento di sangue. Biden punta su questo punto la sua carta elettorale pacifista, ma intanto sa da un’indagine molto recente che l’80 per cento dell’opinione pubblica americana sta con Israele e il 72 è favorevole a un ingresso a Rafah che ponga fine al potere di Hamas.
Netanyahu tiene le carte vicine al petto: chi crede di leggere un’intenzione politica immediata nelle parole che ieri, di fronte alle famiglie dei soldati uccisi in guerra (col Forum Ha Gvurà e il fronte Hatikva) dove ha promesso di entrare a Rafah e di “annientare i battaglioni di Hamas”. E una promessa dovuta, che afferma l’irrinunciabile, cioè che Israele non si arrenderà e che Hamas sarà sconfitto, e non dice nulla su come il Primo Ministro si comporterà se adesso Sinwar accetterà l’accordo “straordinariamente generoso” come ha detto Antony Blinken. Né ha molta importanza, se non perché è un comportamento davvero smodato verso un primo ministro che siede nel medesimo governo, quello di Itamar Ben Gvir, che ha “avvertito” come ha detto lasciando una riunione con Netanyahu, che il governo si infrangerebbe sulla decisione di non entrare a Rafah; o di Smotrich, che alla precedente trattativa si accorse in un secondo tempo che doveva accettare dopo aver minacciato. Importante che Biden ribadisca la forza dell’alleanza con gli USA: questo vuol dire si sta lavorando dopo il grande successo di Israele nella risposta all’Iran insieme a vari Paesi anche dei Patti d’Abramo su una prospettiva che certo Bibi valuta.
Intanto, se per caso Sinwar dovesse accettare, Rafah potrebbe essere sospesa senza rinunciarvi, anche agli occhi dell’Arabia Saudita. E altrimenti, se Sinwar dice di no? Si avrebbe una Rafah mirata specie su obiettivi specifici, i soldati d’Israele sono già schierato sul confine. Si prenderebbe tempo mentre si mettono in moto le misure di sgombero ad aiuto umanitario alla popolazione concordate con gli USA. La guerra comunque, e Biden lo sa non può certo finire sulla restituzione del potere a Hamas a Rafah, si estenderebbe ovunque, sarebbe la fine della sovranità di Israele sul proprio territorio, la inabilità di vaste zone di confine, e soprattutto una terribile sconfitta della democrazia, del buon senso, della morale democratica di tutto il mondo. Biden sa che non conviene a nessuno che non si vada per niente a Rafah, anche se prima di tutto vengono gli ostaggi, e dirà a Bibi “adelante Pedro, con juicio…” come Manzoni.
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Il Giornale, 30 aprile 2024
Non c’è modo per ora di capire più di quello che suggerisce Blinken, in genere poco simpatetico con l’intrigante alleato, Israele, con una frase diretta e semplice: la proposta di Israele per un accordo che consenta di riavere fra le braccia i rapiti è “straordinariamente generosa”, e la responsabilità di un rifiuto sarà tutta di Hamas. Che cosa significa questo slancio verbale? Vuole dire per quello che si capisce, Israele ha rinunciato ai quaranta ostaggi almeno richiesti; che è pronta a consegnare un numero enorme, migliaia, di prigionieri palestinesi anche “col sangue sulle mani”; che, dato che è soprattutto il dominio di Gaza quello che Sinwar fa di tutto per conservare chiedendo il cessate il fuoco definitivo, Israele accetterà altre richieste difficili, come il passaggio a nord della grande folla sgombera, un ritorno alla normalità, e una lunga tregua che poi avrà, sembra, articolazioni successive; se proprio non contraddiranno del tutto la decisione di Netanyahu di non abbandonare la guerra fino alla sconfitta dei quattro battaglioni stanziati a Rafiah, pure consentirà tappe, sconti, modalità svariate… di cui in queste ore si discute.
Ancora, gli aiuti umanitari saranno allargati e distribuiti con tecniche più efficienti. Se si cercano altre tracce importanti della sperabile novità del momento, le si possono trovare nella forte delegazione israeliana con cui proprio tutti i rappresentanti delle organizzazioni incaricate, Mossad, Shabbach, Aman, sono al Cairo per nuovi colloqui; e i mallevadori centrali stavolta sono gli Egiziani con forte spinta e sostegno americano, che hanno invitato anche una delegazione di Hamas, mentre il Qatar non è in vista. L’Egitto ha carte in mano e molto interesse all’accordo: Rafiah è sul suo confine. Da Gaza l’Egitto potrebbe fare uscire e quindi accogliere profughi, sui quali fino a ora c’era un forte rifiuto, e di questo si aggiunge il fatto che quel confine può però anche essere usati per impedire l’ingresso di cibo o di quant’altro utile a Hamas, e l’Egitto si impunta.
Intanto, Blinken ieri è andato a trovare i sauditi, che tornano nella narrazione della guerra: un nodo dell’attacco del 7 di ottobre si è visto nell’accordo Israele-Arabia Saudita allora pericolosamente vicino; così lo vedeva, si disse, l’Iran suo finanziatore e fornitore d’armi e ottime idee. Gli Stati Uniti, spinti ormai dall’urgenza elettorale, adesso cercano di tessere una situazione in cui Hamas si senta costretta a un accordo, e Israele a sua volta veda anche una prospettiva per cui possa accettare di non entrare a Rafiah, o entrarci con qualche regola, perché si tesse una situazione in cui Hamas, venga controllato da una situazione internazionale occidentale-arabo moderata, compresi, come Biden sogna, i palestinesi di Abu Mazen. Tutto questo sarebbe interessante se Sinwar fosse un interlocutore razionale e se la discussione non fosse straziata da un’ondata di antisemitismo che spinge all’ottusità politica: Israele vuole lo scambio, e Sinwar invece è uno psicopatico nazista che riceve vantaggi proprio dalla continua menzogna che Israele non sia pronto a sacrifici.
È Hamas che, mentre pratica la tortura sugli ostaggi, ritiene la sofferenza degli ebrei e di Israele una vittoria esaltante e una promessa di vittoria. In più Hamas è stato aiutato purtroppo dalla ripetuta continua pressione su Netanyahu, che né ha attaccato Rafiah, né si è scansato dalle più difficili trattative tenendo però fermo il timone della necessità di distruggere un nemico che minaccia di distruggere Israele, né ha limitato in piazza, sui giornali, nelle istituzioni, nei rapporti internazionali la molteplice, fantasiosa, diffusione dell’idea che le sue intenzioni cancellino democrazia e diritti umani. Le famiglie disperate che in parte lo bistrattano come fosse responsabile del fatto che Sinwar non è un interlocutore, comunque meritano senza dubbio tutto l’amore e la comprensione del Paese, ma fatto ne delegittimano l’azione e spingono SInwar a pensare che comunque otterrà così tutto quello che vuole. Intanto, l’ICC lo vuole perseguire come un criminale di guerra, mentre la stampa internazionale gli dà la caccia. Biden, benché sullo schema di un passo avanti e due indietro, ha lasciato che si diffondesse l’idea di una rottura fra il guerrafondaio Netanyahu e un gruppo capitanato da Gantz. Non è così: Gantz rivuole, giustamente, a casa i rapiti; vuole, giustamente, anche sconfiggere Hamas. Così tutto il governo e quasi tutto il parlamento. Solo che alla fine sarà Netanyahu, nella solitudine del Primo Ministro a dover decidere, proprio come fece Golda dopo la guerra del 73. Anche lei subì una terribile sorpresa personale, e alla fine vinse. Bibi, deve anche fare due difficili cose: vincere Hamas mentre i rapiti muoiono, gridano, devono tornare a casa. E l’una cosa confligge con l’altra.