La strategia spalle al muro e le prime aperture di Hamas. Vince la linea dura di Bibi
Il Giornale, 07 maggio 2024
È venuta sul tramonto mediorientale del giorno della Shoah israeliano, mentre dalla zona orientale di Rafah (non proprio dalla città dunque) si alzava una nuvola causata da un paio di proiettili israeliani, i carri armati sul bordo si preparavano a eventuali prossime azioni, gli abitanti delle zone più fitte si avviavano verso le strutture di soccorso preparate da israeliani e americani verso Khan Yunes: dopo mesi di tentennamenti con la decisione di entrare nella roccaforte di Sinwar, il capo di Hamas Ismail Haniyeh evidentemente non indifferente all’ingresso israeliano, telefona al presidente del Qatar e gli dice che accetta la tregua proposta dai mediatori egiziani. E’ un accordo sulla restituzione di parte degli ostaggi, su cui aveva detto di no alle quattro di pomeriggio? Quanti? Quando? Chi? Contro quanti prigionieri palestinesi? Non si sa ancora niente. Per ora il governo israeliano annuncia che cercherà di capirne si più. La sorpresa non è piccola: è la prima volta, in questa fase, che Hamas accetta l’accordo per un cessate il fuoco non definitivo, e lo fa proprio nel modo in cui aveva previsto Israele, da Netanyahu a Gantz: con la pressione militare. IL quasi-ingresso di Israele a Rafah invece di chiudere porte, come da troppo sempre bloccando Israele sostiene il consesso internazionale, ne sta aprendo di inusitate.
Se i grandi capi si parlano sinceramente nei momenti difficili, anche quando i loro interessi sono diversi, la telefonata di ieri pomeriggio fra Joe Biden e Benjamin Netanyahu deve aver avuto momenti drammatici ma significativi. Bibi potrebbe aver detto a Biden che chiedeva notizie su Rafah: “Ho cercato di temporeggiare il più possibile, anche perché odio le stupidaggini che dicono su di me, specie sul New York Times, quando sostengono che a me dei rapiti non importa nulla e che butto per aria le trattative apposta, tenendo in piedi la guerra per restare al mio posto. Avrei voluto aspettare, anche se sapevo che Hamas ci prende in giro con una sadica attesa senza speranza. Ma mi capisci: dopo che ieri i terroristi di Hamas hanno sparato i loro missili da Rafah, con precisione e con conoscenza comprovata della posizione dei nostri presidi militare, e mi hanno ucciso quattro soldati mentre altri undici sono feriti fra cui due in condizioni gravi, mi è difficile evitare l’azione. Di fatto, era indispensabile dall’inizio. Sarò cauto, cercherò di tenere ancora la porta aperta all’accordo sui rapiti, osserverò più che posso la strada umanitaria, cominciando con lo spostamento della gente in zone sicure, Khan Yunes e nei Muwassi di tutta la gente possibile. Ma devo eliminare la forza militare di Hamas e quindi entrare a Rafah, cercare i miei poveri rapiti: Sinwar non li rende con le buone, e devo anche mettercela tutta per prenderlo”. E Biden potrebbe aver risposto: “TI capisco. Ma sai benissimo che se entri a Rafah io non potrò altro che disapprovarti, e del resto tutto il mondo lo farà. Il rischio per a gente non può essere accettato né da me, né dai miei elettori. Anche io voglio eliminare Hamas e te l’ho detto fin dall’inizio, ma non posso pagare questo prezzo perché ne va del futuro stesso degli USA e mio personale per averti sostenuto”. Probabilmente, nel frattempo, sull’Egitto e sul Qatar, Biden, capendo la serietà definitiva di Netanyahu, premeva con tutta la sua forza perché spingessero Sinwar ad accettare. Forza militare da una parte e pressione americana dall’altra, qualcosa si è mosso. Netanyahu deve aver a sua volta spiegato che spera anche lui che appaiano i rapiti e si possa smettere di combattere, che si terrà sul margine di Rafah, che punta soprattutto a controllare lo Tzir Filadelphi, cioè lo strategico confine con l’Egitto. Se non va a Rafah, come si è visto dal bombardamento su Kerem Shalom, mai gli israeliani potranno tornare a vivere a Sderot e nei kibbutz.
Tutto questo resta in piedi anche di fronte alle ultime notizie: Israele anzi, adesso è certo che entrare a Rafah era la strada giusta per costringere Sinwar a passi inusitati. Biden può aver detto a Bibi che la guerra può incattivirsi nella lunghezza e nell’asprezza, e forse persino avrà minacciato di bloccare a lungo tutti quei proiettili che per ora, per ordine della Casa Bianca, non lasciano le mani americane. E Israele ne ha molto bisogno. Netanyahu ha tuttavia deciso, dopo che Rafah ha sparato e adesso devono riapparire all’orizzonte i rapiti perché Israele cambi idea.
Ma la giornata in cui Israele ieri ha ricordato molto drammaticamente la Shoah con la sua intersezione con la strage genocida di Hamas, è stata marcata da discorsi del primo ministro in cui ha ripetuto più volte quanto l’oggi sia diverso dal tempo dello sterminio perché Israele difende il popolo ebraico, anche se la decisione a battersi, e l’ha detto varie volte, a volte si prende in una solitudine da cui la storia ebraica è marcata. A questo non siamo arrivati però: Israele era pronto da tempo a entrare, l’ha discusso a lungo con delegazioni di altissimo livello con gli americani, ieri Gallant con Austin hanno ancora riparlato di possibile accordo sui rapiti… Israele entra ma aspetta, l’America condanna ma poco. L’ingresso è per ora cauto, solo nella zona orientale, lo spostamento di 100mila persone al contrario di quello che si narra è sufficiente (o poco più) a evitare un coinvolgimento della gente nella battaglia. Hamas da una parte ha detto agli israeliani “attenti, non sarà un picnic” ma poi è corso a telefonare accettando qualcosa che non aveva mai accettato. Intanto i suoi 4 battaglioni stanno là in agguato, hanno avuto molto tempo per prepararsi. Il tempo dell’attesa di un si di Sinwar. Finora Sinwar ha impedito la tregua che salvava vite e favoriva Biden. Ora può darsi che stia cercando di salvarsi la vita, o forse di prendere di nuovo in giro tutti quanti. Ma Israele ha le truppe già dentro, e per ora non ha nessuna intenzione di spostarle.
Quei ricordi del 7 ottobre nella giornata della Shoah. Ora «mai più»
Il Giornale, 06 maggio 2024
Una fosca precognizione ha suggerito molto tempo al Museo di Yad Va Shem di intitolare questo Giorno della Memoria in Israele alle comunità scomparse. Ma il Paese, il mondo intero, posso chiedersi: quali comunità? Quali ebrei? Quelli di Baranov, il paese polacco di mio padre, dove tutti furono deportati in massa; o quelli di Be’eri, sul confine di Gaza, i cui tizzoni spenti ancora bucano il cielo, i cento uccisi sono stati fatti a pezzi e stuprati in un pogrom senza precedenti, i suoi cittadini deportati? Ci si affanna a stabilire differenze e paralleli, si discute si dissente, la marcia tradizionale organizzata in Israele stavolta in Ungheria, conta anche i sopravvissuti dei kibbutz: il presidente di Yad Va Shem Dani Dayan sostiene che comparare il 7 ottobre alla Shoah è un regalo a Hamas e alla folle, feroce massa che negli atenei del mondo tiene per Sinwar. La spina nel costato è profonda: il giorno della Shoah in Israele deve riaffermare “never again”.
Ma quale Shoah? Quella conclusasi nel 1945, tre anni e mezzo di strage sistematica di ebrei, o quella del 7 di ottobre, una giornata di impensabili orrori? E’ una domanda dura, viva, sensata: rispondono accendendo 6 fiaccole per i 6 milioni i sopravvissuti: Pnina Hefer, un’insegnate decisa e forte, ungherese, deportata ad Auschwitz con tutta la famiglia; Allegra Gutta, deportata dalla Libia dagli italiani; Arie Eitani, nato a Milano, un eroe della sopravvivenza, da Auschwitz alla prigione di Cipro, fondatore del Kibbutz Ha’on; Raisa Brodsky, ucraina, dalla sofferenza totale alla memoria come educatrice; Michael Bar On, polacco, combattente di prima linea appena giunto in Israele; Izi Kabilio, di Sarajevo, anche lui un esempio di resistenza e di amore per la vita; Ytzhak Pelmutter oggi nonno e bisnonno di una tribù con le sue pazzesche avventure di sofferenza e eroismo; Haim Noy fuggito scalzo dalla Cecoslovacchia, sopravvissuto ad Auschwitz. Lo raccontano fieri, non c’è dubbio: Israele è la loro fortezza, il loro punto di arrivo. E hanno ragione: se Israele fosse già esistito, come il sionismo chiedeva da cento anni, e gli ebrei avessero riavuto la loro patria, mai ci sarebbe stata una shoah. E il 7 di ottobre è diverso da Baranov: qui dopo che l’assalto, lo stupro, l’eccidio, sia pure tardi, dopo che troppo era accaduto, è arrivato l’esercito, gli invasori sono stati respinti, uccisi, e poi gli è stata portata una dura guerra. Ma resta, oltre le armi, terribile e inaspettata, invece la costruzione perversa del consenso ideologico e di piazza che ha ricostruito.
Il paragone qui è lecito e carico di minaccia fra antisemitismo ideologico nazista, puntato alla cancellazione degli ebrei, e quello orribile e in piena proliferazione, cui si assiste nel mondo, puntato alla distruzione di Israele. È una costruzione sofisticata, ricca, che sull’antisemitismo tradizionale, proietta la salita sul proscenio di una folla ignorante e presuntuosa di rappresentare il futuro progressivo del mondo mentre ne rappresenta lo sprofondare nella mancanza di conoscenza e di morale. Tutto è rovesciato. La dittatura, l’odio per le minoranze, per le donne, per gli omosessuali, che gli antisemiti in piazza dicono di rappresentare sono presenti nel loro amico Hamas, e nei loro sponsor, l’Iran e la Russia. La loro shoah è dal fiume al mare, l’eliminazione di una Nazione e di un popolo indigeno e non coloniale, ma essi rovesciano su questo popolo l’accusa di essere ciò che essi pretendono di odiare: coloniale, di apartheid, genocida... è il famoso rovesciamento della Shoah che dal 1975, quando l’ONU dichiarò Israele “razzista” si è compiuto passo passo. Ieri e oggi Israele affronta da solo il rischio per cui come dice la Bibbia “ad ogni generazione qualcuno si alza per ucciderci”. L’ha dichiarato Netanyahu, stavolta nel più drammatico fra i giorni della Memoria, quello in cui la memoria è rovesciata.
Nel giorno della Shoah oggi alle dieci dal 1953, un momento mistico avvolge Israele: durante una sirena di due minuti, tutto si immobilizza e tace, nelle scuole, negli uffici, nei negozi, nelle strade le auto si fermano, volano nell’aria i propri cari uccisi a Birkenau come di Sobibor. Ma quest’anno, il presupposto stesso celebrazione della Shoah, la formula del “never again” è interrogativa e contorta. La domanda che la sovrasta viene dai sopravvissuti che hanno di nuovo dovuto sopravvivere all’impossibile persecuzione di un odio ceco e definitivo come quello del 7 di ottobre. Il dolce Shlomo Mansur, appassionato allevatore, salvatosi in Iraq dalla strage del Farhud organizzata dai nazisti di Haj Amin al Husseini nel 1941 è ostaggio; altri stupefatti sopravvissuti hanno visto di nuovo il pogrom, sono rimasti come da piccoli dodici ore nascosti in un armadio in silenzio, fra loro. Dov Golebowicz, Gidon Lev, Zvi Solow, Haim Raanan. Sara Jackson polacca, sopravvissuta, ha aperto la porta della sua casa nel kibbutz a un gruppo di ragazzi terrorizzati fuggiti dal festival Nova. Lala, fra i rifugiati dall’attacco terrorista, ha ascoltato nel nascondiglio dai terroristi le storie di Sara. Adesso parlano insieme della ondata di antisemitismo bestiale e cieco di cui non si è mai più visto eguale da quando Sara si era salvata dal campo di concentramento.
Sara non ha esitato un attimo a aprire le porte salvando così i ragazzi. La sua lotta per la vita ha contribuito alla in credibile sopravvivenza del popolo ebraico dalla Shoah, e adesso, di nuovo ancora, il popolo ebraico affronta un’altra grande sfida. Il giorno dopo la strage del 7 ottobre da tutta Israele uomini, donne, professionisti, operai, a migliaia sono corsi a prendere le armi, si sono precipitati a offrire la loro vita, scacciando l’ala della morte. Un giovane sul fronte mi ha detto “never again sono io, mio nonno è sopravvissuto a Auschwitz, mio padre alla guerra del 73”. Lui è il migliore erede della Memoria.
Riavere i rapiti, eliminare i capi di Hamas. Flessibile, ma fermo: la ricetta di Israele
Tregua tra bluff e ricatti. Bibi punta Rafah
Il Giornale, 01 maggio 2024
La fotografia del Medioriente nebbiosa e fosca in queste ore la si può osservare attraverso il vetro opaco della trattativa sui 133 ostaggi ebrei di Hamas. Che diventano meno ad ogni istante: è il Medioriente peggiore, strappato col 7 ottobre da Hamas alla sua storia del mondo di riconoscimento reciproco fra mondo arabo e Israele coi Patti di Abramo, ricacciato nel Medio Evo. Chi decide, in queste ore, se la guerra avrà seguito a Rafah è adesso, in tempi immediati, la più perversa organizzazione terrorista del mondo, che smembra i vecchi, stupra le donne, brucia i bambini e poi compie una trattativa sugli ostaggi cui ha strappato la vita e tortura, presentandosi alle conferenze stampa in hotel a cinque stelle mentre il suo antagonista democratico, il governo israeliano, viene trattenuto a forza, criticato passo dopo passo, torturato dall’opinione pubblica mentre lo combatte.
Tutto il mondo, mentre per altro gli Hezbollah bombardano il nord d’Israele e in Città Vecchia a Gerusalemme un terrorista turco pugnala i passanti, assiste allo spettacolo, aspetta che Sinwar decida del futuro, fermi la guerra, consegnando un numero ormai dimagrito oltre misura (si parla di 20 o 30 su 133) di ostaggi, i più bisognosi, mentre si tiene il boccone prelibato dai giovani soldati e ragazze per la prossima tappa. In cambio Israele accetta di consegnare migliaia di prigionieri-terroristi; accetta anche il ritorno al nord della gente di Gaza che si era spostata al sud e lo smantellamento del blocco militare che controlla che i terroristi non rioccupino tutta la Striscia nascosti fra la folla. Hamas vuole cessate il fuoco indeterminato, Israele accetta di concederlo per molto tempo: varie settimane…e più avanti chissà, il rinnovo della tregua e soprattutto, formula magica, si capisce che se ci si accorda non si entra a Rafah. L’Egitto è il più interessato fra i mediatori, pone a Hamas e a Israele le sue proprie condizioni (controllo del confine con Gaza, lo Tzir Philadelphi); gli Stati Uniti, intanto, da mesi discutono e preparano con Israele il passaggio degli sfollati da Rafah in altre zone e l’ingresso con azioni mirate che evitino spargimento di sangue. Biden punta su questo punto la sua carta elettorale pacifista, ma intanto sa da un’indagine molto recente che l’80 per cento dell’opinione pubblica americana sta con Israele e il 72 è favorevole a un ingresso a Rafah che ponga fine al potere di Hamas.
Netanyahu tiene le carte vicine al petto: chi crede di leggere un’intenzione politica immediata nelle parole che ieri, di fronte alle famiglie dei soldati uccisi in guerra (col Forum Ha Gvurà e il fronte Hatikva) dove ha promesso di entrare a Rafah e di “annientare i battaglioni di Hamas”. E una promessa dovuta, che afferma l’irrinunciabile, cioè che Israele non si arrenderà e che Hamas sarà sconfitto, e non dice nulla su come il Primo Ministro si comporterà se adesso Sinwar accetterà l’accordo “straordinariamente generoso” come ha detto Antony Blinken. Né ha molta importanza, se non perché è un comportamento davvero smodato verso un primo ministro che siede nel medesimo governo, quello di Itamar Ben Gvir, che ha “avvertito” come ha detto lasciando una riunione con Netanyahu, che il governo si infrangerebbe sulla decisione di non entrare a Rafah; o di Smotrich, che alla precedente trattativa si accorse in un secondo tempo che doveva accettare dopo aver minacciato. Importante che Biden ribadisca la forza dell’alleanza con gli USA: questo vuol dire si sta lavorando dopo il grande successo di Israele nella risposta all’Iran insieme a vari Paesi anche dei Patti d’Abramo su una prospettiva che certo Bibi valuta.
Intanto, se per caso Sinwar dovesse accettare, Rafah potrebbe essere sospesa senza rinunciarvi, anche agli occhi dell’Arabia Saudita. E altrimenti, se Sinwar dice di no? Si avrebbe una Rafah mirata specie su obiettivi specifici, i soldati d’Israele sono già schierato sul confine. Si prenderebbe tempo mentre si mettono in moto le misure di sgombero ad aiuto umanitario alla popolazione concordate con gli USA. La guerra comunque, e Biden lo sa non può certo finire sulla restituzione del potere a Hamas a Rafah, si estenderebbe ovunque, sarebbe la fine della sovranità di Israele sul proprio territorio, la inabilità di vaste zone di confine, e soprattutto una terribile sconfitta della democrazia, del buon senso, della morale democratica di tutto il mondo. Biden sa che non conviene a nessuno che non si vada per niente a Rafah, anche se prima di tutto vengono gli ostaggi, e dirà a Bibi “adelante Pedro, con juicio…” come Manzoni.
Bibi come Golda, la solitudine nella scelta. Pressioni e ricatti. Con il macigno dei rapiti
Il Giornale, 30 aprile 2024
Non c’è modo per ora di capire più di quello che suggerisce Blinken, in genere poco simpatetico con l’intrigante alleato, Israele, con una frase diretta e semplice: la proposta di Israele per un accordo che consenta di riavere fra le braccia i rapiti è “straordinariamente generosa”, e la responsabilità di un rifiuto sarà tutta di Hamas. Che cosa significa questo slancio verbale? Vuole dire per quello che si capisce, Israele ha rinunciato ai quaranta ostaggi almeno richiesti; che è pronta a consegnare un numero enorme, migliaia, di prigionieri palestinesi anche “col sangue sulle mani”; che, dato che è soprattutto il dominio di Gaza quello che Sinwar fa di tutto per conservare chiedendo il cessate il fuoco definitivo, Israele accetterà altre richieste difficili, come il passaggio a nord della grande folla sgombera, un ritorno alla normalità, e una lunga tregua che poi avrà, sembra, articolazioni successive; se proprio non contraddiranno del tutto la decisione di Netanyahu di non abbandonare la guerra fino alla sconfitta dei quattro battaglioni stanziati a Rafiah, pure consentirà tappe, sconti, modalità svariate… di cui in queste ore si discute.
Ancora, gli aiuti umanitari saranno allargati e distribuiti con tecniche più efficienti. Se si cercano altre tracce importanti della sperabile novità del momento, le si possono trovare nella forte delegazione israeliana con cui proprio tutti i rappresentanti delle organizzazioni incaricate, Mossad, Shabbach, Aman, sono al Cairo per nuovi colloqui; e i mallevadori centrali stavolta sono gli Egiziani con forte spinta e sostegno americano, che hanno invitato anche una delegazione di Hamas, mentre il Qatar non è in vista. L’Egitto ha carte in mano e molto interesse all’accordo: Rafiah è sul suo confine. Da Gaza l’Egitto potrebbe fare uscire e quindi accogliere profughi, sui quali fino a ora c’era un forte rifiuto, e di questo si aggiunge il fatto che quel confine può però anche essere usati per impedire l’ingresso di cibo o di quant’altro utile a Hamas, e l’Egitto si impunta.
Intanto, Blinken ieri è andato a trovare i sauditi, che tornano nella narrazione della guerra: un nodo dell’attacco del 7 di ottobre si è visto nell’accordo Israele-Arabia Saudita allora pericolosamente vicino; così lo vedeva, si disse, l’Iran suo finanziatore e fornitore d’armi e ottime idee. Gli Stati Uniti, spinti ormai dall’urgenza elettorale, adesso cercano di tessere una situazione in cui Hamas si senta costretta a un accordo, e Israele a sua volta veda anche una prospettiva per cui possa accettare di non entrare a Rafiah, o entrarci con qualche regola, perché si tesse una situazione in cui Hamas, venga controllato da una situazione internazionale occidentale-arabo moderata, compresi, come Biden sogna, i palestinesi di Abu Mazen. Tutto questo sarebbe interessante se Sinwar fosse un interlocutore razionale e se la discussione non fosse straziata da un’ondata di antisemitismo che spinge all’ottusità politica: Israele vuole lo scambio, e Sinwar invece è uno psicopatico nazista che riceve vantaggi proprio dalla continua menzogna che Israele non sia pronto a sacrifici.
È Hamas che, mentre pratica la tortura sugli ostaggi, ritiene la sofferenza degli ebrei e di Israele una vittoria esaltante e una promessa di vittoria. In più Hamas è stato aiutato purtroppo dalla ripetuta continua pressione su Netanyahu, che né ha attaccato Rafiah, né si è scansato dalle più difficili trattative tenendo però fermo il timone della necessità di distruggere un nemico che minaccia di distruggere Israele, né ha limitato in piazza, sui giornali, nelle istituzioni, nei rapporti internazionali la molteplice, fantasiosa, diffusione dell’idea che le sue intenzioni cancellino democrazia e diritti umani. Le famiglie disperate che in parte lo bistrattano come fosse responsabile del fatto che Sinwar non è un interlocutore, comunque meritano senza dubbio tutto l’amore e la comprensione del Paese, ma fatto ne delegittimano l’azione e spingono SInwar a pensare che comunque otterrà così tutto quello che vuole. Intanto, l’ICC lo vuole perseguire come un criminale di guerra, mentre la stampa internazionale gli dà la caccia. Biden, benché sullo schema di un passo avanti e due indietro, ha lasciato che si diffondesse l’idea di una rottura fra il guerrafondaio Netanyahu e un gruppo capitanato da Gantz. Non è così: Gantz rivuole, giustamente, a casa i rapiti; vuole, giustamente, anche sconfiggere Hamas. Così tutto il governo e quasi tutto il parlamento. Solo che alla fine sarà Netanyahu, nella solitudine del Primo Ministro a dover decidere, proprio come fece Golda dopo la guerra del 73. Anche lei subì una terribile sorpresa personale, e alla fine vinse. Bibi, deve anche fare due difficili cose: vincere Hamas mentre i rapiti muoiono, gridano, devono tornare a casa. E l’una cosa confligge con l’altra.
Il messaggio di Israele per riprendersi lo scettro. "Iran vulnerabile al cuore e decidiamo soltanto noi"
Il Giornale, 20 aprile 2024
L’impegno comune nelle ore precedenti l’attacco, almeno da parte del mondo occidentale, tutto preso nell’esclamazione dell’ansia, della paura, della presa di distanza da qualsiasi “escalation”, è stato quello di chiamare Israele all’inazione. Ma Israele, come tutto il Medioriente, sa molto bene cosa si dice quando si parla di Iran, e come può davvero generarsi una pericolosa guerra di distruzione dalla sua natura aggressiva e terrorista: ciò avviene se l’Iran è convinto di poter piegare, dominare, terrorizzare. “È il Medioriente, stupid”. Hamas ha attaccato a morte perché pensava che Israele fosse in ginocchio; Teheran con i suoi missili perché l’ha ritenuta indebolita e divisa. Adesso tutti sanno che le cose non stanno così. Israele alle quattro di mattina ha attaccato. Ha fatto l’unica scelta possibile dopo che Khamenei lo ha bersagliato con 60 tonnellate di esplosivo che avrebbero potuto colpire un grattacielo di Tel Aviv, le strutture atomiche di Dimona… missili balistici enormi, fuori e dentro l’atmosfera hanno invece trovato una risposta di incredibile potenza: i piloti israeliani e di altri Paesi li hanno fermati restando in aria in un’operazione acrobatica per 8 ore. La stima, l’ammirazione, la solidarietà, sono tornate a riscaldare i rapporti globali con Israele. E adesso, per il compleanno di Khamenei, la sorpresa di Isfahan. Israele non poteva fare di meglio, ambedue le volte.
Se non avesse risposto, sarebbe stata la fine della deterrenza, dell’idea che l’IDF valga; i suoi servizi di informazione e di sicurezza si sarebbero confermati fuori giuoco come il 7 di ottobre. Uno scherzo distruggere Israele ormai. Invece, ieri il nome del Mossad è tornato a far parte del mito, l’aviazione è arrivata e tornata indietro intatta dal terreno iraniano, gli obiettivi sono stati colpiti. Era essenziale rispondere subito. Gli F15 sono volati fin dove si può infliggere un danno catastrofico al nemico, dimostrando anche che non dispone di strutture antiaeree anche se possiede i missili e i droni. Israele può arrivare sul cuore delle strutture nucleari: l’hanno visto bene gli amici dei patti di Abramo e oltre; sanno di nuovo quanto Israele può essere utile nella difesa dal nemico messianico shiita, che prepara la venuta del Mahdi con la conflagrazione universale. Proprio il giorno prima dell’attacco Nasrallah aveva detto che Israele aveva perso la guerra, e che non poteva muovere un passo senza il permesso degli Stati Uniti. Invece ecco che Israele si è mosso in totale libertà nonostante i lacci e lacciuoli da ogni parte, ogni giorno.
Sembra che Biden sia stato avvertito, ma la decisione non è dipesa altro che da una concentrata, intensa riflessione strategica del gabinetto di guerra: la scelta di realizzarla senza colpire duro consente agli USA e agli altri di non contrastare la scelta compiuta e limitarsi a auspici irenici. Israele ha volato fine alla bocca della belva: vicino a Isfahan, c’è il cuore dell’arricchimento dell’uranio. Così ha affrontato il tema atomico, e indicato la strada. Là tutti devono guardare, e prepararsi a gesti indispensabili alla salvaguardia dell’umanità. Si dice che nel giro di sei mesi l’Iran potrebbe avere 8 bombe pronte.
A Isfahan viene custodito lo yellow cake, Israele ha voluto ribadire che è ben conscio del pericolo, e può affrontarlo: è anche una freccia rossa che mostra l’obiettivo perché si vada oltre le piccole sanzioni in atto oggi. Durante le ore dell’attacco, Israele ha anche colpito varie postazioni dei proxy iraniani in Siria, Libano, Iraq, Yemen... e intanto non ha abbandonato Gaza e la determinazione a entrare a Rafiah e a mettere al primo posto i rapiti. Israele segnala la sua capacità di affrontare in attacco la guerra su più fronti che deve combattere per sopravvivere. È chiaro che pensa anche che il coraggio dimostrato di fronte alla piovra khomeinista sospinga l’opposizione coraggiosa che non ne può più del regime. In ebraico si dice “hutzpà” quella sfrontatezza un po' maleducata con cui si dice pane al pane e poi si fa quello che è giusto: prende corpo l’Israele del post 7 ottobre, quella che ha capito la lezione, alza il capo, non lascerà che gli ebrei vengano di nuovo sterminati.
L'errore di pensare una de-escalation regionale: così Teheran potrà pianificare il suo assalto finale
Il Giornale, 17 aprile 2024
Chi oggi si immagina uno scenario di pace in cui l’Iran rinunci alla sua strategia di distruzione di Israele e dell’Occidente solo che lo stato ebraico accetti “una de-escalation regionale” come ripetono molti protagonisti della politica internazionale, primo di tutti Biden, dopo l’attacco di due giorni fa, si sbaglia. Non potrebbe esserci errore peggiore oggi di quello di dimenticare ciò che l’Iran è, ciò che ha in programma secondo la sua strategia e il suo credo, e lasciarlo organizzare il suo 7 di ottobre, un assalto definitivo ben più feroce delle atrocità del suo pupillo e mantenuto, Hamas. Qualcuno si ricorda certamente come, dopo 8 anni il presidente Ahmadinejad il 26 settembre del 2012 di fronte all’assemblea dell’ONU minacciò di morte “il presente insopportabile sistema oppressivo che domina il mondo” e vi portò la sua fede nella venuta del Mahdi, il profeta shiita, che avrebbe portato la redenzione con una conflagrazione universale di cui America e Israele per primi, il Grande e il Piccolo Satana, avrebbero fatto le spese? Molti ricorderanno come la rivoluzione del 1979, che subito prese in ostaggio gli americani dell’ambasciata a Teheran, abbia stabilito per volontà di Khamenei che gli Imam non erano più saggi custodi del Corano, ma capi politici e strategici della riscossa iraniana?
Ecco, la situazione è giusto questa: Khamenei con le guardie della Rivoluzione stabilisce la rotta messianica e distruttiva, la teocrazia ordina direttamente l’attacco della notte fra il 13 e il 14 come il rinnovato sforzo della polizia a picchiare e arrestare le donne “malvelate”. L’attacco è stato un vero attacco, non ha affatto avuto un significato dimostrativo: si illudeva di nuovo, come quello di Hamas del 7 ottobre, sempre concordato con gli Ayatollah, di distribuire strage e panico in Israele, forse in modo definitivo: un attacco enorme, superdispendioso, così ben armato, con 300 lanci fra missili e droni, che ha addirittura sparato sopra la Spianata delle Moschee con le sue luci mortuarie invece di onorare il santuario islamico, non serve a impressionare, ma per piegare, umiliare, e quindi vincere, guidare, conquistare Israele. Il generale Zahedi non è il protagonista: Suleimani, ben più importante, non ha destato questa reazione, l’Iran sa come nessun altro che la Siria è il centro di distribuzione delle armi a Hezbollah e Hamas, Zahedi era un capo terrorista in attacco, non è una vittima, e Khamenei lo sa bene. Adesso, Israele ha rovesciato l’offesa, i suoi sistemi Oron nelle mani di piloti coraggiosi che hanno sfidato la morte per eliminare i missili hanno distrutto e ridicolizzato l’attacco. Tuttavia, è un gigantesco attacco sui suoi piccoli confini. Cosa deve fare Israele, il mondo lo suggerisce senza sosta: stare tranquilla, consolidare la coalizione occidentale-sunnita che l’ha difesa, l’ha aiutata, ne ha fatto di nuovo uno scudo contro la barbarie. Perché reagire, dunque?
La risposta è semplice. Per l’Iran una pace sarebbe un’ennesima forma di taqiyya, la stessa dissimulazione usata nella costruzione del reattore nucleare, sempre negato, sempre perseguita con mille sotterfugi. Inoltre l’Iran in pace, preparerebbe una guerra ancora più irrazionale, crudele, orrida come le atrrocità da lei promosse sponsorizzando Hamas. In secondo luogo, Israele rinunciando a rispondere non rafforza i suoi rapporti internazionali, ma, di fatto, li indebolirebbe. I Patti di Abramo sono nati nel 2015 dal discorso che Netanyahu tenne al Congresso Americano suggerendo di cancellare il patto con l’Iran sul nucleare e di intraprendere una dura lotta contro il regime tirannico, terrorista. Fu allora che i Paesi Sunniti capirono che potevano fidarsi di Israele per la difesa comune, lo sviluppo dell’area e il rapporto con l’Occidente, con gli USA e con l’Europa piuttosto che con la Russia e la Cina, cui si appoggia l’Iran. Gli Stati Uniti che temono una conflagrazione potranno certo avere voce in capitolo sui modi e i tempi, e anche sulla guerra di Gaza.
Ma la delusione che porterebbe una mancata risposta di Israele sarebbero fatali per la fiducia dell’Arabia Saudita e degli altri Paesi: l’Iran non è un pericolo solo per Israele. E qui viene spontanea una domanda. Vedendo i missili fioccare su una democrazia liberale provenendo da migliaia di chilometri di distanza, da un Paese che odia le donne, i dissidenti, gli omosessuali, che ha fatto esplodere centri sociali e basi militari in tutto il mondo, i romani, i milanesi, la gente di Parigi e di Londra non ha alzato gli occhi verso i propri cieli? Mala tempora currunt per chi non sa vedere la realtà e mantenere la sincerità con sé stesso.
Israele e il dilemma sulle mosse dopo il successo
Il Giornale, 15 aprile 2024
Evento storico ieri, mai un Paese è stato preso di mira da più circa 300 missili in poche ore salvo l’Ucraina il 22 marzo del 2022 da un attacco di Putin. E mai un Paese attaccato ha reagito distruggendo il pericolo per il 99 per cento, combattendo in aria una battaglia straordinaria, spengendo come stelle morenti missile per missile e raccogliendo il consenso e l’aiuto di tutto il mondo civile. Certo: l’Iran ha comunque festeggiato nel suo parlamento l’attacco al Piccolo Satana gridando “morte a Israele”, come avesse vinto la guerra occupando il cielo degli Ebrei per qualche ora: è un segnale dell’estasi messianica che il regime degli Ayatollah annette alla questione israeliana, la sua bandiera d’odio per l’Occidente. E deve suonare come una sirena d’allarme che quel Paese agisca e parli secondo una logica aliena alla mente occidentale, come Hamas che ha compiuto le sue atrocità scambiandole per una vittoria e preparando così il disastro del suo popolo. Cioè, praticare l’odio per l’Iran è sufficiente, lo è perseguire la morte anche senza risultati, senza rispetto neppure per il concetto di vittoria.
Adesso Israele si trova di nuovo a scelte fondamentali. La notte scorsa ha visto un gran bel successo militare perché ha distrutto le armi iraniane, e strategico perché ha riformato una grande alleanza occidentale dopo mesi di continuo acuto dibattito con tutti. Per la prima volta, oltre che utilizzando i suoi “proxy” per lanciare attacchi a Israele, l’Iran, che della distruzione di Israele ha fatto il suo scopo, ha avuto invece un disastro strategico. Il 99 per cento dei missili sono stati distrutti dagli scudi di difesa Hetz e Kipat Barzel, la grande invenzione israeliana, ma anche dall’aviazione in volo tutta la notte con gli aerei americani e francesi mentre il mondo degli accordi di Abramo e della pace, specie la Giordania, ricostruiva un fronte di difesa comune. L’Egitto teneva i suoi cieli aperti. Mentre dall’altra parte i soliti terroristi legati all’Iran intervenivano in supporto dal Libano, l’Iraq, la Siria, lo Yemen... dalla Giordania all’Arabia Saudita all’Egitto agli Emirati, tutto l’arco sunnita (escluso Erdogan che ha proibito di usare il suo spazio aereo) ha dato segni vari di sostegno a Israele.
Una sorta di Nato del Medio Oriente non ha permesso all’Iran di andare oltre il disastro che ha portato al 7 di ottobre Hamas col suo sostegno. Fidando sull’assedio a Israele sulle tracce della strategia di Suleimani di conquista del Medio Oriente, l’Iran ha compiuto il grande passo. Un esperimento in vivo. La mattina, dopo una giornata di tensione, di preoccupazione, di chiusura degli aeroporti per parte della serata, dopo una nottata di sirene in cui i missili volavano senza riguardo a dozzine sulla Moschea di Al Aqsa solo una povera bambina beduina di sette anni è stata colpita ed è in gravi condizioni. L’ aeroporto ora è aperto, l’allarme è finito. Netanyahu dopo i giorni di difficoltà con Biden, ha parlato con lui al telefono per 25 minuti recuperando il senso di quello che è un rapporto “ironclad”, di acciaio, di fronte alle minacce selvagge del fronte islamista estremo soprattutto sciita, ma in cui brilla oggi la presenza palestinese. Israele ora si dibatte nei dilemmi posti dal fortissimo rapporto con Biden, che spera di recuperare una situazione di pace nell’area. Solo Israele probabilmente capisce che se non si taglia la testa alla piovra essa seguiterà a nutrire tutti i peggiori incendiari per strangolare il mondo occidentale. Israele dunque che cosa deve fare dopo l’attacco? Contentarsi della fortuna in battaglia, o finalmente cercare di porre fine alla grande minaccia degli Ayatollah, che certo si rinnoverà sempre più aggressiva, e dei loro proxy? Ieri su questo è iniziata al Gabinetto una discussione che non finirà in un giorno.
Seguire il desiderio di Biden, quello classico degli USA, di non dare seguito all’attacco iraniano con una risposta sul territorio degli ayatollah o rispondere con un attacco diretto al Paese che da mille strategie indirette passa adesso a un’aggressione che può ripetersi, se incoraggiata dal silenzio, in termini peggiori fino alla minaccia atomica? Israele ha di nuovo interessi diversi da Biden, ma una maggiore condivisione di scopi col mondo sunnita. Che dice il G7? Che avrebbe detto la Giordania se un missile iraniano fosse caduto su al-Aqsa? Che cosa l’Arabia Saudita o l’Egitto?
Ma il Paese è unito: la vittoria è necessaria per la sopravvivenza
Il Giornale, 13 aprile 2024
L’allarme per un possibile attacco iraniano non è ufficiale ma nei rifugi si accumulano bottiglie d’acqua; la guerra con Hamas è in corso; a una settimana dalla Pasqua le famiglie preparano un triste tavolo per i rapiti; i ragazzi nell’esercito restano tutti consegnati. Israele non è solo in guerra: è una democrazia appassionata in guerra, e questa passione crea scontro. Ma la storia dello scontro per condannare Israele alla sconfitta a causa di Netanyahu crea confusione. E quindi: nonostante la ormai proverbiale rottura fra gli USA e Israele che avrebbe allontanato Biden dall’America, a fronte delle minacce iraniane gli USA, dice il presidente, sono alleati “ironclad”, di Israele. Ripete anche che concorda sull’eliminazione di Hamas, e che Bibi deve mantenere la promessa di aiuti umanitari per la gente, e non deve entrare a Rafah. Israele risponde: i camion si affollano a centinaia, si aprono i passaggi, dentro Gaza si combatte meno e si apre alla gente la strada per Khan Yunes. Come richiesto. E se Hamas si avventa sugli aiuti umanitari, è colpa sua, come del resto l’ennesimo “no” sugli ostaggi. Ma come si dice sempre che Bibi che non è disposto a dare abbastanza e le famiglie sono contro di lui.
Ma la verità è che le famiglie sono divise: le manifestazioni che chiedono di concedere tutto e subito, hanno come contrappeso quelle che protestano perché il numero dei soldati dentro la striscia è stato diminuito, chiedono di combattere duramente e di non fornire aiuti umanitari. Pensano che solo la pressione militare consentirà un accordo. Ma Sinwar vede che il mondo intero insiste sul suo scopo: un cessate il fuoco definitivo per ricostruire Hamas (Netanyahu ha proposto lunghi cessate il fuoco in cambio dei rapiti, tutti rifiutati) contando sull’ONU e l’UE, Sinwar aspetta che l’ingresso a Rafah sia cancellato: là ha ancora 4 battaglioni. Israele da settimane lavora con gli USA per entrare senza un disastro umanitario. Il PM non è il colpevole protagonista della scelta di Rafah: non c’è un solo membro del Gabinetto e della maggioranza alla Knesset che sia contro. Benny Gantz lo ha ribadito: “Distruggeremo Hamas, andremo a Rafah… se smetti gli antibiotici a metà, di sicuro ti ammali di nuovo”. Si può essere di destra o di sinistra e volere le elezioni per un nuovo PM: niente di male. Ma che la vittoria sia necessaria per la sopravvivenza, in Israele è senso comune. Senza eliminare Hamas, nessuno accetterà, neppure l’Autorità palestinese, di gestire il futuro di Gaza.
Quando Israele distrusse il nucleare iracheno gli USA li condannarono. Nel ‘67 Lyndon Johnson minacciò: se andate soli, resterete soli. Gli USA hanno le elezioni, Biden fa il proprio gioco. E Bibi non è di sinistra, ha vinto troppe volte, e un conservatore liberal che gestisce le leggi più avanzate per le famiglie LGTBQ ma piace ai religiosi; ha reso Israele un’avanguardia .. e ha anche portato a casa il peggior disastro possibile, il 7 ottobre. Combatte una guerra lunga, ma avanza, i missili sono cessati, le perdite a Gaza sono contenute dato che 13mila terroristi sono stati eliminati, le tragedie tipo quella della World Central Kitchen capitano… Il Paese ha una gran voglia di recuperare, di vivere, di pace. Lo sforzo è eroico. L’attacco continuo a Netanyahu confonde e distoglie l’Occidente da tappe fatali.
Israele sei mesi dopo. La lotta della democrazia per sopravvivere alla strategia del terrore
Il Giornale, 07 aprile 2024
Nessuno sarà più lo stesso dopo i sei mesi dal 7 di ottobre. Questa guerra ha reso chiunque vi abbia partecipato, da protagonista o da testimone, molto più stupito del prezzo della vita, molto più deciso a non farsela strappare via, molto più triste che si possa tanto odiare e compiere atrocità, molto più determinato a combatterle. Guardo, qui sul mio tavolo, un cuore di plastilina raccolto a Be’eri letteralmente in un lago di sangue in un asilo nido: l’odore era terribile, e torna ad ogni momento nella mia memoria, insieme agli scenari che ogni giorno si rivelano, stupri, torture, schiavitù dei 134 rapiti ancora nelle mani di Hamas. E insieme, nuove storie, di coraggio inaudito, di sfida e fede. Israele ha combatte la guerra più lunga e difficile: generata dal peggiore attacco subito dagli Ebrei dopo la Shoah ha costretto a capire che l’odio può essere molto più forte della storia di tentativi di condivisione, di scontri e incontri, di sgomberi dolorosi come quello del 2005. Le forze in gioco sono poderose: Israele con l’Ucraina, di una rivoluzione mondiale in cui l’asse del male ha molti amici, e pensa di vincere. Così la Russia, così l’Iran che ha messo l’assedio a Israele tramite Hamas al centro della sua aggressione messianica. Ha tessuto la sua tela velenosa per l’attacco del 7 ottobre, per poi assediarla dal punto di vista morale, con l’antisemitismo, che con la violenza. Con Hamas ha associato al negazionismo della Shoah, fieramente praticato, la delegittimazione di Israele. È il gioco assurdo per cui mentre neghi la Shoah e il nazismo, accusi Israele di essere nazista: con complici come Nasrallah, Erdogan Assad, i gruppi iracheni e yemeniti, ha criminalizzato Israele mentre doveva combattere per salvarsi; l’antisemitismo occidentale, perbenista, politically correct terzomondista, vile, è cresciuto con la guerra: un fenomeno già sperimentato, in tono minore, al tempo della Seconda Intifada. E l’esaltazione che crea in Hamas e i suoi alleati il consenso degli antisemiti a Londra, a Parigi, a Roma, promette che la guerra non avrà un termine prossimo, e che potrebbe anche allargarsi. Eppure, oltre la cortina di bugie e di delegittimazione, c’è un modo di capire questi mesi di guerra molto realistico e interessante per chiunque voglia immaginare come potrebbe essere l’intero mondo occidentale se costretto a combattere. E’ un esperimento drammatico, tragico e incoraggiante al contempo.: guardare con intensità con attenzione, i soldati senza paura che dal 7 di ottobre, perdendo gli amici più cari, 500, e feriti a migliaia, hanno combattuto uniti pur essendo figli di una cultura in cui la pace è cantata, predicata, esaltata da tutti: mentre si odono da ogni tv e da ogni mezzo di comunicazione le voci di chi accusa Israele invece di concentrarsi su ciò che è accaduto e che accade. Israele si trova addosso il peso di combattere una guerra giusta in un momento storico in cui la parola “guerra” è per il mondo democratico una bestemmia. La tragedia ha aggredita sei mesi fa una società iperdemocratica, postmoderna, che dal 1948 ha immaginato che con le concessioni e il liberalismo avrebbe guadagnato il paradiso della pace. Si è risvegliata a mala pena da un sogno che le è costato caro, rischiando la vita, il presente, il futuro.
Dall’inizio, a mani nude, una volta confusamente resosi conto che il mondo del bene andava a fuoco con i suoi bambini nei kibbutz, ecco che guidatori d’autobus, maestri di scuola, operai, camerieri e cuochi, medici, scienziati, startupper, ingegneri, giovani padri di famiglie numerose, impiegate di banca, arabi pieni di buon senso, sono corsi a mettere in gioco la loro vita e quindi quella delle loro famiglie, e poi, come soldati delle riserve sono rimasti sul campo. Si sono addentrati nei vicoli minati, nelle gallerie piene di armi e terroristi, dormendo con le scarpe addosso mentre sui reticolati si affollavano volontari con i sandwich, gli schnitzel, la pita con humus, la cocacola. Il tormento è stato triplo: combattere una guerra di sopravvivenza con la responsabilità consapevole di centinaia di migliaia di sfollati e della tuta famiglia. Hanno sopportato contro la loro stessa educazione morale la sofferenza del nemico; e hanno cercato di salvare le masse di Gaza dagli attacchi con le vie di fuga e grandi derrate di cibo, acqua, benzina. Ogni giorno hanno vissuto l’impossibilità di parlare con casa, coi bambini, con una moglie che stava partorendo; di coprirsi le spalle da chi spunta e ti spara all’improvviso dalle gallerie mentre vai avanti e il tuo migliore amico viene colpito e sanguina; hanno sognare un materasso dove dormire almeno una notte; hanno visto i camion a migliaia portare i rifornimenti umanitari e all’improvviso Hamas li saccheggiava senza che potessero fare niente; hanno raccolto i corpi dei compagni dopo che un’esplosione li ha fatti a pezzi; si sono riuniti e con uno psicologo che cerca almeno di iniziare a prendersi cura del postrauma, un soldato racconta che un uomo con un pacco in mano, grazie a Dio all’ultimo minuto ha mostrato che non era una bomba, ma un bambino; un altro che una bambina di cinque anni aveva un panierino pieno di bombe a mano; un terzo che si era trovato nel sangue dei tre ostaggi che per sbaglio l’esercito ha ucciso-.
Sono gli stessi ragazzi che a Be’eri e a Kfar Aza hanno raccolto i pezzi di corpo cui altri santi hanno cercato di dare sepoltura studiando ogni indizio di identità in quei resti bruciati di creature piccole e grandi; il giovane che mi dice “mio nonno era ad Auschwitz, mio padre ha combattuto la guerra del Kippur nel ‘73, adesso “never again” sono io” deve ricominciare una vita, ma ancora sta combattendo, dopo sei mesi. Un affetto che gli illumina gli occhi lo lega ai suoi compagni, chi religioso, chi laico, chi di sinistra, chi di destra…. Prima di sei mesi fa non si parlavano, la società era spaccata. Perché Israele è una democrazia estremista, illusa che il progressismo sia la sostituzione dell’ebraismo, che ha riportato Arafat da Tunisi scommettendo su “due stati per due popoli” per poi ritrovarsi in piena Intifada. Sei mesi di concordia sono stati il regalo della guerra. Ma adesso la democrazia chiede il suo tributo, la pressione internazionale, divorata a sua volta da interessi locali come le elezioni americane, non capisce una guerra giusta, non conta su sei mesi di valore e di disperazione, ignora colpevolmente ciò che nessuno può sopportare: la minaccia di un mondo che urla all’Occidente impaurito la sua minaccia di morte, e la difficoltà nel difendersi. Nessuno vuole sentire quell’urlo, Israele, solo, vi è costretto da sei mesi a questa parte.