Fiamma Nirenstein Blog

La guerra antisemita contro l'Occidente

7 ottobre 2023 Israele brucia

Jewish Lives Matter

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Museo del popolo ebraico

Israele si prepara alla reazione inevitabile. Sinwar è solo, nascosto nei tunnel

venerdì 2 agosto 2024 Il Giornale 3 commenti

Il Giornale, 02 agosto 2024

Non è piacevole stare fermi, in attesa di decisioni altrui che possono persino essere fatali. L’Iran convoca il Libano, l’Iraq, lo Yemen, tutti suoi proxy odiatori di Israele e dell’Occidente disegnando forse una guerra totale; o forse solo una vendetta digeribile. La Russia, che ha condannato con un particolare senso dell’umorismo le eliminazioni mirate, certo segue sullo sfondo. Nasrallah promette con un discorso su sfondo rosso sangue che la risposta all’eliminazione del suo vice Fuad Shukr, che aveva ordinato il missile sullo stadio di Madjel Shams, sarà tremenda, negando che Israele abbia risposto all’eccidio di dodici bambini drusi israeliani uccisi sul campo di calcio. A Teheran il funerale di Ismail Haniyeh ha dimensione e toni apocalittici. Le promesse di distruzione le fa il grande Ayatollah stesso Ali Khamenei: il capo terrorista palestinese appare in tutto e per tutto quello che è, un suo comandante nel fronte globale costruito dagli Ayatollah per dominare il Medio Oriente e il mondo, non un palestinese. A Gerusalemme l’attesa è discussa, rappresentata, persino oggetto di battute al supermarket dove si compra qualche bottiglia d’acqua d’emergenza, senza drammi, si sospendono i viaggi aerei, i campi estivi, si compra qualche scatoletta di tonno, verso il confine si sgomberano le fabbriche dai materiali pericolosi, la tv raccomanda ai cittadini di seguire gli ordini del “pikud ha oref”, il fronte interno, state vicino ai rifugi se siete al nord.

Chissà se la reazione verrà da tutto l’arco delle forze iraniane e degli hezbollah, se i loro missili piomberanno coordinati o separatamente… ma qualcosa l’onore mediorientale ferito impone di fare. Lo si ripete con calma.  Israele però ha al suo fianco gli Stati Uniti, si ripete ricordando bene l’attacco iraniano di aprile, che la sua difesa antiaerea è la migliore del mondo, le sue forze aeree sono in perfetta salute come ha dimostrato l’operazione in Yemen in cui per rispondere al bombardamento di Tel Aviv si è volato duemila chilometri senza problemi per colpire l’obiettivo, e colpirlo bene (Teheran dista 1600 chilometri). Lo stato d’animo, dopo Beirut e Teheran è comunque rinfrancante, Israele torna capace di difendersi sul serio, capace di operazioni impossibili: si rivela finalmente che davvero Mohammed Deif è stato ucciso dall’accuratissima esplosione di Gaza, Hamas è in pessime condizioni ormai, la guerra di Israele disegna una vittoria finalmente, Sinwar è là sotto, se la vede male: i particolari dell’ eliminazione di Haniyeh, per cui è una bomba (e non un missile) era stata da tempo preparata nella “guest house” delle Guardie della Rivoluzione stesse, parla di un’operazione professionale, di lunga realizzazione, con relazioni profonde e inaspettate nel cuore del regime iraniano. La notizia definitiva su Mohammed Deif segna un nodo simbolico conclusivo, come quello dell’onnipresente, e ora scomparso, Haniyeh. La leadership, i combattenti, le strutture tutta Hamas è a pezzi. Haniyeh era di fatto incaricato di renderla una forza internazionale, base della nuova alleanza fra sunniti (era un leader dei Fratelli Musulmani) e gli sciiti dell’Iran e oltre, fra tutto l’esercito dei terroristi antioccidentale dell’una e dell’altra parte, ambasciatore dell’odio antisemita, soddisfatto ospite di Putin.

Ora senza di lui e senza l’architetto della strage del 7 ottobre, il fanatico e abilissimo comandante militare Deif, la primula rossa scampato sette morte alla morte, Sinwar ha perso la mano sinistra e la mano destra, l’ormai miliardario Mohammed in giacca e cravatta che dall’hotel a 5 stelle di Doha viaggiava al Cairo e a Mosca fingendo di gestire una trattativa sui poveri ostaggi, di fatto bloccandone ogni possibile scambio. Israele ha di nuovo mostrato i suoi veri colori, questi 300 giorni di guerra di sopravvivenza hanno ancora una volta, per ora, mostrato un Paese che se il 7 ottobre era stato visto dai suoi nemici come una vittima predestinata del loro disegno di distruzione, adesso è pronto a affrontare lo scontro generale immediato cui è costretto per salvare la sua prospettiva e quella dell’Occidente nella lunga prospettiva. Israele ha colpito sia Fuad Shukr a Beirut che Ismail Haniyeh a Teheran senza ferire le due città come avrebbe potuto: ha segnalato l’intenzione di concluderla qui, ma sa anche che il concetto di deterrenza non funziona quando l’indirizzo è quello dell’odio islamista, dell’ideologia messianica  che ha come primo fine uno scontro ideologico a sfondo religioso. Iran, Libano, Siria, Yemen, per non parlare di Gaza e anche Ramallah, fanno tutti parte del primo cerchio di un immenso anello di fuoco che circonda lo Stato ebraico, e da 300 giorni compie da tutti i fronti prove di distruzione. La realtà odierna suggerisce che dopo la morte di Deif e di Haniyeh non si più visto nemmeno un missile da Gaza. E i suoi alleati, che di missili ne hanno a bizzeffe valutano in queste ore che cosa, come colpire: obiettivi militari? Obiettivi civili? Questi ultimi possono dare fuoco a tutte le polveri, e coinvolgere il mondo libero.

 

Doppio colpo mirato di Netanyahu destinato a Teheran. E Sinwar all’angolo

giovedì 1 agosto 2024 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 01 agosto 2024

La verità è sempre un momento di energia e di rigenerazione, anche se contiene per chi la pratica pericoli seri: ognuno di noi ne ha esperienza. Dunque nelle ultime 48 ore, Israele ha con due eliminazioni eccellenti in 7 ore, recuperato due verità dimenticate nel corso dei trecento giorni della guerra: la prima è che ancora esiste intera la mitica capacità del Mossad e delle unità di combattimento di sapere progettare colpire in condizioni impossibili. La seconda è la dimensione geografica e ideologica della guerra che Israele deve combattere, e che, se in questi mesi si è focalizzata su luoghi specifici, su Rafah, sul Golan, persino su Eilat colpita dai Houty… adesso recupera i suoi confini reali: come dice Netanyahu Israele combatte su sette fronti, ma tutti hanno lo stesso nome e cognome, si chiamano Iran, ayatollah Khamenei, Guardie della Rivoluzione. Il leader supremo ieri ha subito promesso una “dura punizione” per l’uccisione di Ismail Haniyeh a Teheran spiegando che “il regime sionista, criminale e terrorista, ha martirizzato il nostro caro ospite nella nostra casa e ci ha straziato”. È dovere dell’Iran ha detto prepararsi a vendicare l’assassinio di Haniyeh in visita (per l’ennesima volta) nella capitale iraniana per la cerimonia di insediamento di Masoud Pezeshkian, il nuovo primo ministro. Come lui anche altri ospiti d’onore quando il missile israeliano all’ora giusta è entrato nella finestra giusta si trovavano nell’ hotel superfortificato e protetto a cura direttamente delle Guardie della Rivoluzione, superprotetto dalla crema delle forze iraniane.

Un messaggio chiarissimo: Israele può arrivare ovunque, in qualsiasi momento. La brutta figura, imperdonabile in Medio Oriente, di aver fallito nella custodia del prezioso ospite ricade sul potere centrale dell’Iran, che già poche ore prima, stavolta a Beirut, aveva subito per interposti Hezbollah, l’eliminazione del vice stesso di Nasrallah, Fuad Shukr, il capo di Stato maggiore del suo proxy più utile, più vicino, meglio armato, più attivo contro Israele dal 7 ottobre al fianco dell’altro suo amico e mantenuto, Hamas. Gli eventi di certo richiedono una reazione armata secondo tutti i criteri mediorientali: l’edificio di Shukr era sito nel sud di Beirut dove abita, iperdifeso con ogni possibile sistema di prevenzione da attacchi da terra, dall’aria, da ogni dove, la leadership intera di Hezbollah. Un quartiere fatale, Dahya, da cui si disegna tutta l’attività che tiene il bellissimo Paese dei Cedri e delle tante identità sotto il tallone sciita dell’Iran: attività terroristiche e criminali, appena nascoste da una presenza parlamentare di copertura. Ma l’Iran è il burattinaio, dall’assassinio di Hariri, al cumulo di armi che ha causato l’esplosione gigantesca del porto, alla sospetta occupazione esplosiva dell’aeroporto fino alla decisione di fiancheggiare Hamas dal 7 ottobre costringendo Israele a sgomberare tutto il nord.

Shukr era stato il capo dell’eccidio di 241 soldati americani nel 1983; ieri la TV israeliana ha intervistato Efrat Abraham il cui fratello Benny fu rapito sul confine con altri due soldati dagli hezbollah e i cui corpi sono stati scambiati solo 4 anni dopo: è stato sempre Shukr, e sempre lui ha autorizzato il lancio del missile che ha fatto strage di bambini drusi uccidendone 12 due giorni fa a Madjel Shams. Dunque averlo eliminato è per Israele un atto legato alla necessaria difesa dei cittadini drusi, non un attacco a Beirut ma uno specifico impegno inevitabile in difesa dei suoi cittadini orbati dei piccoli. L’attacco, dunque, non è a Beirut, come l’eliminazione di Haniyeh non è contro Teheran: era lui il volto atroce della programmazione disinfettata della Nukba, divenuto miliardario con i soldi dei palestinesi vivendo in un albergo di Doha; ossessionato messianicamente dall’odio per Israele e gli ebrei si è spostato impunemente da Doha al Cairo a Teheran a Mosca tenendo i contatti col suo complice e capo Sinwar, sperando un giorno di riprendersi il ruolo di leader supremo.

Adesso pare che il suo successore sarà Khaled Mashal, anche lui lontano da Gaza. Haniey è stato la giacca e la cravatta dell’orrore della strage di bambini e dello stupro e genocidio di famiglie nel disegno di dominare il mondo con la sua versione assassina dell’Islam, insensibile persino alla morte di tre dei suoi figli annunciatagli in diretta tv.  L’Iran è al centro della vicenda, Haniyeh era il suo funzionario, la sua morte è uno shock inaspettato. Adesso vedremo: le strutture belliche iraniane sono tutte mobilitate, Israele dichiara che la guerra non le interessa e vuole riprendere la trattativa per i rapiti. Chissà che Sinwar stavolta non ci senta, dall’orecchio della paura, della deterrenza, cioè del Medioriente come veramente è e va trattato. Israele sembra tornato dall’incubo del 7 ottobre alla verità dei fatti, alla maestria di un Paese democratico e avanzato di fronte all’aggressione della parte di mondo che odia la libertà, e la combatte. Se sarà guerra totale, questi sono i due fronti opposti, e con le sue azioni di ieri Israele l’ha reso molto chiaro.

 

Dopo la strage dei bambini il dilemma di Israele: "Evitare Beirut e le città". Il rischio di guerra totale

lunedì 29 luglio 2024 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 29 luglio 2024

Fra 3 giorni saranno 100 i giorni di guerra; e questa infelice ricorrenza potrebbe essere segnata dall’immersione larga e dolente in una guerra molto più grande, pericolosa, funesta fino ai confini del mondo, nel segno dell’assassinio terrorista da parte del miglior proxy dell’Iran di dodici bambini innocenti che giocavano a calcio sul campetto di Madjel Sham, cittadina drusa del Golan. Niente è tragico come il funerale di un bambino, e altri ancora lottano per la vita all’ospedale, uno è svanito nello scoppio... e non lo si trova. I drusi del Golan in parte sono appassionati patrioti israeliani, eroi di guerra che servono con grande onore; altri, fra questi anche quelli del paese colpito, hanno conservato un rapporto con la parte siriana della loro identità. Ma adesso tutti, insieme agli israeliani che oggi pregavano con loro al funerale delle bare bianche, chiedevano tutti una cosa sola allo Stato: colpisci duro, adesso, senza perdere tempo, dai una lezione indimenticabile e che metta fine alle sofferenze quotidiane dei missili: fai presto, che gli hezbollah non abbiano tempo di preparare i loro 250mila missili iraniani, e di salvare i loro capi nelle gallerie. Nasrallah è già nel profondo di Dahye, nel sud di Beirut, e ha fatto smontare le centrali più importanti dell’azioni aggressiva che dal 7 ottobre fiancheggia giorno dopo giorno Hamas con la guerra dal Nord. I cittadini sgomberati dalle città e dai kibbutz hanno già chiesto mille volte di porre fine all’esilio con una guerra decisa e definitiva, che sposti Hezbollah secondo gli accordi firmati all’ONU; oltre il fiume Litani. Non si tratta di decidere se fare la guerra, la guerra è già qui, si tratta per Israele di capire se ce la può fare a tenerla su vari fronti con un impegno gigantesco al Nord, mentre gli USA disapprovano l’allargamento del conflitto.

Gli  Hezbollah  hanno lanciato un loro tipico missile iraniano Falaq 1 dalle Shaba Farms, luogo simbolico degli hezbollah sul confine con Israele. Gli Hezbollah stessi in un primo momento dopo la strage avevano annunciato di aver ucciso i “sionisti”, poi visto che comunque questi “sionisti” erano drusi e bambini, la rivendicazione è stata sostituita da una negazione e addirittura da un’accusa a Israele di aver creato il disastro con uno dei missili di difesa di Kipat Barzel. Chiedono una commissione internazionale e dispiace che Borrell, il solito, gli dia retta. In realtà chi ascolta Nasrallah è chi fa parte della famiglia di aggressori, mentre il mondo arabo sunnita non ci sta, le sue tv trasmettono la storia com’è. Israele decide cosa fare: il dovere della difesa della sua popolazione ferita a morte nel caso della difesa della comunità drusa per un Paese democratico e pluralistico, assume un significato ancora più alto, e  comunque i suoi profughi ebrei della zona sono disperati e chiedono azione Ma la sfida è colossale, si tratta di guerra totale: mentre ieri era in corso la riunione di Gabinetto che deve decidere, l’Iran minacciava di già di “conseguenze mai viste prima” le eventuali “azioni ignoranti del regime sionista” che porteranno a “instabilità, insicurezza e guerra nella regione”.

Hochsthtein, l’inviato di Biden in Libano in pratica ripete le posizioni per cui gli USA sono terribilmente contrari a dar fuoco alle polveri; Walid Jumblatt, il famoso druso libanese si è lanciato nel dire che è una manovra di Israele per staccare i drusi dalla Siria, ma dalla Siria invece i Drusi maledicono gli hezbollah e si staccano da Assad, autostrada per le armi iraniane a Nasrallah; La NBC libanese ha detto che sono in corso tentativi americani di spingere Israele a compiere la sua azione di guerra lasciando fare Beirut e altri centri importanti. Ma il punto è proprio questo: gli Hezbollah si servono delle strutture libanesi in tutto e per tutto e senza ostacoli da parte del governo o dell’esercito. Hezbollah è oggi purtroppo il Libano e per fermarla non c’è che da distruggere le infrastrutture di cui si serve: la prima, la capitale, l’aeroporto, le comunicazioni, le fonti di energia… Il Libano, oggi terrorizzato non ha mai fatto niente per impedirlo. Se adesso trovasse il coraggio di bloccare finalmente la maledizione integralista e messianica dell’Iran, potrebbe essere una svolta per evitare la terza guerra mondiale. Quella dell’Iran, non di Israele.

 

Quello che il mondo non riesce a capire

sabato 27 luglio 2024 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 27 luglio 2024

Non riuscite a capire. La grandezza di quello che Netanyahu ha cercato di comunicare al Congresso Americano, è troppo lontana dal gioco politico che si ridisegna e invade i giornali, il woke umanitario e terzomondista sprezzante dei diritti e della vita umana. La parola guerra non ha accettato di essere coniugata con l’aggettivo “giusta” in contrasto con la palese verità della Seconda guerra mondiale, che ha dimostrato che per voltare pagina verso la strada della libertà, devi combattere fino in fondo uomini e idee che incarnano il male. Di nuovo la cronaca dei media e della politica cancella coraggio e dedizione, sacrificio e necessità. Ci troviamo ancora di fronte alla polemica sulla “società civile” rimessa subito in piedi alla meglio nel dopo Biden per ovviare ai problemi del partito democratico e stavolta porta il viso di Kamala Harris, con una strumentalizzazione che Kamala stessa dovrebbe, di fronte alla grandezza dell’attuale orizzonte storico, rifiutare: è il viso di una donna di origini orientali, di colore diverso.

Proprio per onorare un’identità che evoca una storia di discriminazione tipiche della sofferenza ebraica, che Kamala non avrebbe dovuto, subito, così, imboccare la strada della propaganda elettorale sulla fallimentare strada di Chamberlain che può oggi, ancora, portare solo a stragi e sconfitte, non a Israele soltanto, ma agli USA, all’Europa. Al Congresso Netanyahu ha spiegato la realtà di un guerra per la sopravvivenza non a parole, ma con semplicità presentando l’eroe ebreo ed etiope che ha corso a piedi più di dieci chilometri per arrivare al confine di Gaza a combattere i terroristi che stupravano e bruciavano i bambini; i ragazzi che hanno perso gli arti e tornano a combattere; i rapiti che hanno ancora sul viso non solo la sofferenza, ma anche la verità per cui gli ostaggi,  schiavi, non sono solo nelle gallerie di Hamas ma anche in casa di dottori e insegnanti palestinesi dell’UNRWA...

A Gerusalemme la radio diffondeva la storia del valoroso ritrovamento dei corpi di altri quattro rapiti uccisi: un’azione coraggiosa, difficile per la delicatezza e il valore che richiede a dei ragazzi esposti alla morte in mezzo a Gaza riportare a una famiglia disperata il corpo di Maya Goren una 54enne maestra d’asilo uccisa sul lavoro e poi buttata da una parte per ricavarne benefici per Sinwar. Qui si celebrano funerali ogni giorno, di rapiti, di eroi, del soldatino Kiril Brodsky ritrovato anche lui ieri, e i genitori seguitano a resistere, si organizzano, si esprimono, criticano, tutti portano la stessa bandiera con la stella azzurra. Ieri la radio ha annunciato che “mutar le pirsum” è permesso citare la notizia di altri soldati caduti e delle loro disperate famiglie; e così mogli, madri, bambini, come ogni giorno restano dentro questa guerra; intanto, mentre la delegazione israeliana parte per Parigi per conquistare all’onore del Paese le medaglie dello sport, si sparge la notizia della minaccia di attacco iraniano a Parigi degli atleti israeliani, ovvero la promessa, mostruosa di reiterare l’attacco di Monaco del 1972. Alle tv si è mostrato il footage accompagnato dai sussurri di paura del telefonino di ragazzi che si preparano a morire e dicono al telefono mamma ti voglio bene addio, mentre in un’estasi di odio i terroristi gettano le bombe a mano dentro il rifugio.

Come per la Shoà, piano piano si racconta, a stento, l’incredibile: è vero, è accaduto, ecco una famiglia di padre, madre e due bambini coprendoli col suo corpo dice “stanno entrando guardate il pavimento”. Maayan, bellissima nel video, verrà uccisa a nove anni. Sono fatti di Israele? Di Netanyahu? Di Israele? Il mondo islamico e quello di sinistra adorano questa la loro nuova alleanza che promette potere: Kamala sarà interessata di certo al fatto che sette sindacati che rappresentano sei milioni di lavoratori americani hanno firmato una lettera che chiede di fermare l’aiuto a Israele. È un fenomeno pauroso, come la folla che ha bruciato Netanyahu in effige. È come bruciare la democrazia, la giustizia, il valore, e soprattutto il futuro del mondo democratico. Nel Congresso, però, la maggioranza era là ad applaudire, a stringere la mano a Israele, a sostenere l’aiuto richiesto. Sono quelli che capiscono, ma chissà se possono farcela.   

 

Da Bibi il manifesto della civiltà in guerra. Dopo il 7 ottobre, il futuro è nella sicurezza

giovedì 25 luglio 2024 Il Giornale 1 commento

Il Giornale, 25 luglio 2024

Lui lo sa bene, e ha preparato fino nelle virgole, insieme a Ron Dermer, come nel 2015, il suo discorso al Congresso che è riuscito a rovesciare fra applausi appassionati da destra e da sinistra la narrativa antisemita che demonizza Israele. Il discorso ha portato un messaggio essenziale dal palcoscenico più importante del mondo, dall’ombelico della democrazia mondiale a fronte dell’aggressione totalitaria e settaria, dell’attacco alla civilizzazione.

Per questo Netanyahu si è allontanato dal Paese in guerra dopo il peggiore attacco subito dal 1948, finalmente alla ricerca di una giusta lettura mondiale di ciò che è accaduto, scansando l’odio per la sua persona e le dimostrazioni con un gesto della mano: il premier ha cercato, nel suo perfetto inglese, la giusta narrazione della carneficina, dello stupro, dei rapimenti, dell’attacco iraniano di aprile, del fiancheggiamento di Hezbollah ad Hamas, dei sette fronti di combattimento, dell’odio antisemita che avvolge in un’inaspettata oscurità il mondo occidentale, e anche e forse soprattutto del valore del suo popolo e del suo esercito. Bibi ha portato a Washington la difficile determinazione ad andare a Rafah contro i battaglioni di Sinwar; a conquistare il confine con l’Egitto, a seguitare a trattare per i rapiti pur continuando la battaglia... mentre tutto il mondo tenta di fermarlo e quindi di destinare Israele alla prossima aggressione prossima.

Bibi ha indicato che c’è una lezione del 7 ottobre, che la strada giusta è diversa da quello che si credeva, che il domani si disegnerà nella sicurezza o la guerra non può fermarsi e che Israele ha saputo recuperare lo spirito di battaglia e di sopravvivenza, mentre pure ha fornito un’enorme attenzione per evitare di colpire i civili, aiuto umanitario, cura di una popolazione civile peraltro nazificata nella complicità con Hamas. Il leader che da decenni ha indicato nell’Iran la testa della piovra che minaccia il mondo col terrorismo, adesso ha potuto dimostrare come sia urgente affrontare il problema poiché l’atomica islamista è quasi pronta. Era indispensabile che Netanyahu andasse a dimostrare di persona che il popolo d’Israele vive, come dice la Bibbia nonostante il dissenso di una parte dei democratici, il solito odio «tutto fuorché Bibi» dell’Israele estremista: se fosse stato un primo ministro di sinistra tali dimostrazioni non avrebbero avuto luogo. Intanto, paradossalmente, la sua estrema destra gli creava volontariamente stupidi imbarazzi. Netanyahu è un leader che ha dovuto formare il governo anche con la piccola forza di Ben Gvir, con cui non si identifica affatto. Ma tutto in questa vicenda è più grande della politica: è stato un esame a lui, per lo Stato d’Israele, per gli ebrei di tutto il mondo, una rilettura collettiva indispensabile.

Bibi ha parlato sapendo che in gioco era una posta grande, puntando sull’Iran che si allea con Russia e Cina per distruggere gli Usa e l’Europa; sa che alla parte obamiana questo non piace, ma si è riproposto così all’amore americano bipartisan, quello della cultura del confine. Bibi porta le ferite di quando era nell’unità speciale, e la memoria del fratello Joni, il capitano di Entebbe che là fu ucciso: ma è anche la quinta essenza della modernità inventiva di Israele. Non va a scusarsi ma a vantarsi mentre deve vincere Hamas per sopravvivere; deve convincere non ad aiutare, ma a combattere per se stessi e i rapiti. È uno spirito laico, pratico, inventore dei patti di Abramo, che ha gestito ogni possibile apertura di credito palestinese: ma oggi siamo dopo il 7 di ottobre.

Prima «pace» era la parola magica, la strada obbligatoria dalla Seconda Guerra Mondiale in poi. Invece come Zelensky che disse a chi lo invitava a fuggire: «Ho bisogno di munizioni, non di un passaggio», così Bibi ha dovuto rispondere alle mille domande che in quindici anni di governo e nei tre precedenti interventi al Congresso si sono assommati, si sono aggrovigliati. Hanno il volto dei rapiti: Bibi ha invitato l’America a liberarli senza arrendersi. Ha proposto un manifesto della civiltà contemporanea in guerra: Israele. L’ha spiegato a fondo, con orgoglio e determinazione: questa è la grande differenza, gli ebrei possono combattere quando il loro mondo, tutto il mondo, è in pericolo. Allora, non poterono.

 

 

 

La Cina "unisce" Hamas e Abu Mazen

mercoledì 24 luglio 2024 Il Giornale 1 commento

Il Giornale, 24 luglio 2024

Wang Yi, ministro degli Esteri cinese, ha conferito ieri un tocco surreale al grande teatro della guerra mediorientale: col vestito rigato e il volto delle grandi circostanze ha fornito a Pechino il palcoscenico per un accordo di pace e collaborazione che non si realizzerà mai, quello fra l’organizzazione terrorista di Hamas, padrona di Gaza, e Fatah, padrona dell’West Bank, insieme a altri numerosi gruppi, almeno 12, fra cui la Jihad Islamica che ha subito dichiarato di essere contraria a qualsiasi dichiarazione che riconosca l’esistenza di Israele. Al momento Musa Abu Marzuk, uno dei capi di Hamas (già, come mai è in giro per il mondo come niente fosse dopo il 7 di ottobre?) e Mahmoud el Aloul, vicepresidente di Fatah, fra molte strette di mano hanno intenzione solo di mettere un cappello sulla sedia del potere a Gaza verso la fine della guerra e di dimostrare che hanno un potente sponsor, ricco e aggressivo come e più degli Stati Uniti.

I rapporti fra i due gruppi e anche gli altri, non sono buoni: chi era alla riunione riporta che le voci alterate provenienti dalla discussione bucavano le porte e le mura, i due gruppi hanno dal 2007 quando Hamas gettava dai grattacieli di Gaza gli uomini di Fatah che cercavano di prendersi la Striscia dopo lo sgombero e elezioni in cui peraltro Hamas era risultata vincente, ricordavano gli accordi falliti del 2011 e del 2022. La Cina stavolta, data l’estrema debolezza di Hamas, mentre Sinwar non ha più a suo fianco l’indispensabile Deif, il suo capo di Stato maggiore, però potrebbe richiedere un comportamento disciplinato da due valvassini che hanno interesse alla sua sponsorizzazione e in generale a una sua presenza significativa nell’area, che è ciò cui essa punta, nell’ordine post-bellico che altrimenti rischia di riflettere interessi diversi da quelli palestinesi. E dell’asse antioccidentale: la Cina si muove con determinazione nell’area, con la sua forza ha portato nei mesi scorsi a un inusitato accordo (vedremo in futuro quanto solido) fra l’Iran e l’Arabia Saudita, in sua compagnia e sotto la sua ala figurano, insieme a Hamas, l’Iran, gli hezbollah, le altre forze “proxy” iraniane come gli Houthi e gli iracheni, e la Russia è la sua compagna di strada, pronta a difendere Hamas all’ONU e a invitarla a casa sua insieme allo sponsor iraniano.

Questo, a fronte delle forze democratiche occidentali e incidentalmente ad alcuni Paesi sunniti che aspettano il segnale per rientrare in scena. L’accordo palestinese dovrebbe, secondo le dichiarazioni dei protagonisti, disegnare un futuro post-bellico in cui a fianco dei residui di Hamas, ormai pacificati, si erge a protagonista, pronto a entrare nella gestione prossima ventura della Striscia, quel Fatah “moderato” e anche, come disse Biden “riformato”, per cui la carneficina di Sinwar dovrebbe ricevere il premio della formazione di uno “stato palestinese” non contrattato con Israele né nei confini né nelle intenzioni. Questo, contro gli accordi di Oslo e ogni buon senso. Hamas e Fatah insieme a Gaza significherebbe la preparazione del prossimo 7 ottobre, e peggio.

Nell’Autorità palestinese almeno il 70 per cento della popolazione voterebbe oggi per Hamas, e non per Abu Mazen, che peraltro non ha mai condannato la carneficina del 7 ottobre. L’entità composta dai due gruppi non avrebbe la minima intenzione di abbracciare il concetto di democrazia, ma al contrario sarebbe un sostenitore di un regime teocratico e di nuovo, terrorista come quello attuale. La Cina ne è ben consapevole, ed è contenta di potere mandare il suo segnale, forte e chiaro, concreto e duro, quello di una inaccettabile proposta di caos, proprio mentre Netanyahu sbarca negli USA e si prepara a spiegare che Israele è solo il capofila di uno scontro mondiale, in cui la libertà e la pace sono un premio tutto da conquistare.   

 

Bibi va negli Usa. In mente l'Iran, il vero nemico

lunedì 22 luglio 2024 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 22 luglio 2024

Netanyahu vola stamattina verso Washington: se fossimo nella sua mente avremmo davanti tutte e cinque i fronti di guerra che potrebbero costringerlo a tornare di corsa a casa prima di incontrare Biden, prima di parlare al Congresso, prima di vedere, forse, anche Trump. Tutti e cinque portano, alla fine, un solo nome: Iran. Iran si chiamano i Houti che da decenni ormai, a 1800 chilometri di distanza da Israele, per ordine degli Ayatollah scrivono sulla loro bandiera, e non è un modo di dire, “morte all’America e morte agli Ebrei”; gli Houty dal 7 di ottobre hanno bombardato un Paese con cui non hanno niente a che fare con 200 fra missili e droni; dopo aver colpito e ucciso a Tel Aviv, venerdì adesso ardono nella indispensabile rappresaglia. Si chiamano Iran, in realtà, gli Hezbollah che uccidono e distruggono ogni giorno dal confine del Libano e che hanno costretto allo sgombero le città e i kibbutz israeliani; Iran si chiama Hamas, rimpinzato di armi e soldi da Teheran e dal Qatar, che ha portato a compimento la più grande e sanguinosa violenza individuale su donne bambini e vecchi ebrei dalla Shoah, e il cui capo Mohammed Deif finalmente ieri è stato dichiarato morto; Iran sono le milizie che agiscono e colpiscono dalla Siria e dall’Iraq;  Iran, ultimo ma non meno importante fronte, sono i fiumi di denaro che raggiungono i movimenti di studenti e attivisti woke antisemiti che inondano le piazze europee e americane.

Bibi va in America a spiegarlo e a dire che comunque Israele ha il dovere di difendere i suoi cittadini, anche nel caso debba farlo da solo: Blinken ha detto che in un paio di settimane la Repubblica Islamica avrà l’uranio arricchito per le bombe atomiche che persegue da tempo. Esse terranno prigioniero, proprio come oggi Hamas tiene prigionieri gli ostaggi israeliani, il resto del mondo. Bibi parlerà al Congresso anche di loro, della crudeltà con cui sono ancora trattenuti nell’inferno sotterraneo dell’integralismo islamico mentre l’ONU in quella che ormai appare come una forma di demenza seguita a non capire niente e a condannare Israele, e l’America tentenna, e l’Europa si occupa d’altro. Da Israele allo Yemen ci sono 1800 chilometri: e Israele li ha volati tutti da solo per colpire i Houti, come ha dichiarato Kirby, rappresentante del Consiglio Americano per la sicurezza nazionale. C’era ammirazione nelle sue parole. Israele ha scelto finora di non volare con gli F15 le poche centinaia di chilometri fino a Beirut o i 1600 chilometri fino a Teheran. Ciò che è accaduto sabato dimostra che a volte la misura si riempie, che comunque un Paese deve difendere i suoi cittadini, che prima della politica viene la vita, al primo posto.

L’Iran mette a rischio la sopravvivenza di ciascuno, da ogni lato. Quei milleseicento chilometri prima o poi devono essere compiuti, in un modo o nell’altro, con gli F15 o con una chiara presa di posizione deterrente di un fronte mondiale che dica basta alla prospettiva di una guerra messianica globale; meglio sarà se a Washington ci si renderà finalmente conto che anche a Gaza Israele combatte nel nome del buon senso comune come lo intende l’Occidente. Si chiama democrazia, libertà, e Israele è stata costretta a difenderle volando fino in Yemen.

 

L’odio cieco dei giudici. Deliri sull’occupazione

domenica 21 luglio 2024 Il Giornale 1 commento

Il Giornale, 21 luglio 2024

Che piacevole brivido, il consenso su un luogo comune acquisito, gli artigli legali sull’”Occupazione” “Occupation” “Kibbush”… il più saldo e condiviso pregiudizio: Israele è un occupante illegale ha detto  l’ICJ, Alta Corte onusiana che batte così sul bollente incudine dell’antisemitismo mondiale. Già un paio di mesi fa decise che Israele ha caratteristiche genocide, quale maggior piacere di presentare al mondo intero una sentenza che Hamas ha subito ritenuto un dono di cui ringraziare, e di cui i palestinesi dell’Autorità nazionale palestinese hanno dichiarato che si tratta di una storica svolta? “Occupation”: basta dirlo e sei un difensore degli oppressi e i diseredati. Sei per il diritto all’autodeterminazione, parola magica. Non importa se l’autodeterminazione è quella di Hamas, di uccidere e scavare gallerie dove incatenare ostaggi come è accaduto nel 2005 con lo sgombero. Non importa se non sai la storia: António Guterres dopo la giornata di sterminio del 7 ottobre, allungò l’occupazione e “la sofferenza palestinese” a 75 anni fa, cioè alla nascita sancita dall’ONU dello Stato Ebraico. E allora perché non al 1917, al 1920, Balfour, San Remo, ai tanti documenti in cui la legalità internazionale ha trasformato l’ovvia appartenenza di Israele alla terra che vede gli ebrei suoi pertinaci protagonisti dai tempi della Bibbia in Stato.

Ma questo è negato da tutti quelli che appiccicano su Israele etichette: colonialismo, suprematismo bianco, imperialismo, anche apartheid, in regalo. Tutto nella mente popolare è “occupazione” non importa se gli ebrei stanno là dai tempi del re David, e se il concetto di occupazione che esiste solo nel caso di due stati sovrani con confini riconosciuti qui non c’entra niente. Il solito giudice dell’ICJ Nawas Salam, con quattordici dei quindici giudici a maggioranza automatica, allenato a leggere con tediosa lentezza centinaia di pagine di bugie, l’ex ambasciatore libanese all’ONU che già aveva dichiarato Israele paese di apartheid, è così equidistante da non vergognarsi di giudicare un Paese con cui il suo è in guerra (ieri 45 missili sulla Galilea). Nel 1967 Israele fu costretto per motivi di autodifesa vitale, come sempre nelle sue guerre, a entrare nell’area amministrata dalla Giordania, mai stata territorio palestinese, né mai i confini giordani erano stato riconosciuti tali. Se si dovesse ricostruire i motivi di autodeterminazione, Israele avrebbe ottime carte, ma chi lo farà mai.

L’area ha legami storici molto solidi con la storia ebraica. Chi ha voglia, legga la Bibbia, non con intenti messianici ma storiografici, o impari che dall’Impero Romano in avanti, durante i Califfati, o l’Impero Ottomano. gli ebrei mai se ne sono andati dalla loro terra. Anche dopo la caduta di Masada gli ebrei rimasero maggioranza per 600 anni. Anche col ‘67 non appare una risoluzione che dichiari che i territori sono “occupati”, o appartengono ai palestinesi. Invece Israele subito si offrì di ritirarsi, ma i famosi “tre no” di Khartum del 29 agosto lo bloccarono. Le risoluzioni ONU in merito stabilivano che solo un accordo fra le parti avrebbe portato a una risoluzione sui “territori disputati”. Quanto a coltivare la terra e a costruire case, le limitazioni stabilite dagli accordi di Oslo, sempre un accordo ad interim che non assegnava le terre a nessuno e le divideva in tre zone, rispettano la legge internazionale: si può farlo in territori non privati. Israele dopo Oslo ha sgombrato le sue forze civili e militari: l’Autonomia Palestinese è una vera autonomia, e nel 2005 Gaza è stata sgombrata del tutto. Il risultato, mentre fallivano tutti i tentativi di Israele di cedere territorio, compresa Gerusalemme est, è stato missili da Gaza e attentati da ogni parte, compresa la Seconda Intifada. L’intenzione palestinese non è mai stata quella di costruire uno stato accanto a Israele come da accordi di Oslo, dimostratisi vuoti e illusori per la sicurezza, ma di eliminare Israele. Anche l’ICJ certo non mira alla pace, ma favorisce il vantaggio armato di Hamas e dell’Autorità nazionale palestinese.

 

VIDEO Presentazione del mio nuovo libro “7 ottobre 2023. Israele brucia”

giovedì 4 luglio 2024 Generico 0 commenti

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L’Iran minaccia: cancellare Israele. E l’Occidente tace

domenica 30 giugno 2024 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 30 giugno 2024

Denuncia anche il nervosismo iraniano la dichiarazione vulcanica di Amir Saed, ambasciatore dell’Iran all’ONU, per cui se Israele attaccherà con forza gli Hezbollah, il Paese degli Ayatollah perseguirà la “cancellazione” di Israele, e che per questo scopo “sono sulla tavola tutte le opzioni, incluso il pieno coinvolgimento di tutti i fronti della resistenza”. Lo scopo: uccidere tutti gli ebrei, una strategia pratica per un’idea iraniana classica. Ma che cosa vuol dire? Che l’attacco a tenaglia che dal 7 di ottobre ha aggredito Israele da ogni parte, per cui persino la vacanziera Eilat al sud estremo è sconvolta dai bombardamenti degli Houti dal remoto Yemen (lezione sul paradosso che rappresentano le accuse di colonialismo e di quanti missili e droni l’Iran è capace di distribuire in giro) si sostanzierà di centinaia di miglia di missili da ogni parte e di feroci infiltrazioni di terra, stile Sinwar: gli Hezbollah, gruppi dalla Siria e dall’Iraq oltre a Hamas e alla Jihad Islamica assaliranno insieme Israele, mentre l’Iran, come ha chiaramente minacciato, lancerà in prima persona un attacco missilistico  maggiore di quello del 14 aprile, e ogni angolo di Israele sarà preso di mira.

Dal 7 di ottobre quando sono scesi in campo, gli Hezbollah avrebbero potuto decidere l’attacco generale. Un gruppo pacifista israeliano che vorrebbe un accordo totale che cominci a Gaza e si saldi in Libano, prevede 15mila morti se la guerra scoppiasse. Per ora gli Hezbollah hanno terrorizzato, svuotandolo, il nord d’Israele con i suoi kibbutz e le sue città, e di fatto hanno messo Israele in una posizione cui non può sottrarsi: deve riportare 100mila cittadini a casa. Non a caso l’uscita iraniana risponde al viaggio di Gallant, ministro della difesa, che negli Stati Uniti ha cercato un’alleanza che cerchi di evitare la guerra obbligando Hezbollah a accettare di allontanarsi dal confine secondo la risoluzione dell’ONU, ma anche a stringere forti patti in caso di guerra. L’Iran è il vero nemico qui, è difficile che gli USA possano sottrarsi. La posta è grossa, la distruzione di Israele, il dominio del Medio Oriente, persino un conflitto mondiale. Il Ministro ha ripetuto che se Nasrallah attacca il Libano sarà ridotto all’età ella pietra, gli Hezbollah sanno che nel Paese tutte le etnie che compongono il mosaico libanese, sono furiosi all’idea della distruzione e della miseria che porterebbe di nuovo la milizia terrorista sciita.

Per questo Hezbollah va piano. Ma il sogno di distruzione è grande quanto sanno esserlo le ideologie messianiche, quanto può esserlo l’antisemitismo e l’eccitazione per la lentezza dell’operazione di Gaza contro Hamas e la paura degli hezbollah nel mondo. E certo non crea deterrenza il fatto che i due candidati americani Biden e Trump, uno di fronte all’altro giovedì sera, non abbiano trovato, nessuno dei due, l’ispirazione sufficiente per disegnare un mondo occidentale vittorioso a fronte del rischio di vita che corre l’unico Paese democratico del medio oriente; non una parola sui rapiti, se non di striscio, solo espressioni ; non una parola sulla nuova piaga dell’ideologia antisemita che inquina tutto il mondo e specialmente proprio gli USA, non sulla stupefacente crudeltà del 7 di ottobre. Mentre l’Iran arrota le spade, sembra riprodursi la situazione precedente al 7 di ottobre, quando si vide tutto e non si fece niente. Stavolta, però in dimensione mondiale.     

 

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