Il Giornale
Reportage: Cisgiordania, viaggio negli insediamenti dove la vita è da tempo «congelata»
Nella fotot: Efrat, con il Sindaco Oded Revivi
Il Giornale, 13 luglio 2009
Quei diavoli negli insediamenti. Anzi: quei diavoli di “coloni”, con la parola che implica truci memorie di sfruttamento e imperialismo. Tutto il mondo ne parla in questi giorni, e lo ha fatto anche il G8, per chiedere il “congelamento” della loro presenza nell’West Bank. E l’idea viene dal presidente Obama in persona. I coloni nell’immaginazione popolare hanno il fucile sempre in mano, devastano gli ulivi palestinesi, sono fanatici religiosi, producono figli come conigli così da rendere la loro “crescita naturale”un’arma devastante. Congeliamoli, non può che far bene, dice oggi la lectio comune.
Ma cos’è in realtà un colono? Siamo andati parecchio in giro a dare un’occhiata, fra ulivi, carte, leggi, storia. Intanto, è una figura minuscola sullo sfondo dei conflitti mediorientali, il suo giganteggiare politico odierno ha ben poco a che fare con una jihad che dagli anni ’20 proibisce agli arabi di considerare Israele come uno Stato definitivamente atterrato nella Umma islamica, che sia vista in termini religiosi o panarabisti è poco importante. Israele è per di per sè, agli occhi di molti fedeli dell’Islam, un grande insediamento. In secondo luogo, anche se ora il delegato americano Mitchell e Netanyahu stanno forse per presentare una sospensione di sei mesi nella crescita interna degli insediamenti, molti villaggi e comunità sono già bloccati da anni. [...]
Journey through the West Bank, where life is "frozen"
Il Giornale, 13 July 2009
Those devils in the settlements. In reality, those “colonist” devils, using a word that evokes the cruel memories of exploitation and imperialism. These days, everyone is talking about them – even the G8 – demanding a “freeze” of their presence in the West Bank. And the idea comes from President Obama himself. In the popular imagination, the colonists keep their rifles by their side, devastate Palestinian olive trees, are religious fanatics, and breed like rabbits, turning their “natural growth” into a devastating weapon. Today, common wisdom says that a freeze is the only way to go. But what exactly is a colonist? We went around quite a bit to check things out, studying olive trees, maps, laws, and history. First, the colonist is a tiny figure in the Middle Eastern conflict. The fact that he is a political giant today has little to do with a jihad that – since the 1920s – has forbidden Arabs to see Israel as a state firmly anchored amidst the Islamic umma. And whether that umma is seen in religious or pan-Arabic terms is of little importance. In the eyes of many of the Islamic faithful, Israel itself is just one big settlement. Second, even though US representative Mitchell and Netanyahu might be on the verge of presenting a six-month suspension in the settlements’ internal growth, many villages and communities have been blocked for years. [...]
Ora è l’Europa il miglior alleato di Israele
Il Giornale, 25 giugno 2009
Uno spostamento di alleanze, forse è questo ciò che si è visto in questi giorni durante la visita europea di Benjamin Netanyahu, abbracciato con la sua nuova linea di pace da Berlusconi e Sarkozy, e invece costretto ad annullare l’appuntamento con l’inviato americano Mitchell a Parigi. C’è chi dice che Obama avrebbe mandato a dire a Bibi di «preparare bene i compiti di casa», ovvero di decidere di consegnare agli Usa la decisione di congelare gli insediamenti come Obama richiede e poi di dare il via a una discussione fattiva con la mediazione americana sulle prospettive.
Tant’è: il fatto nuovo è che l’Europa, incarnata da Berlusconi e Sarkozy e sullo sfondo dalla Merkel, pur chiedendo di fermare gli insediamenti e, come ha detto Sarkozy, di dare un chiaro segnale di buona volontà, pure valorizza la scelta di Bibi di ammettere uno Stato palestinese smilitarizzato; e comprende ciò che i palestinesi per ora rifiutano: che Israele chiede, per procedere con le trattative, che essi accettino l’esistenza dello Stato ebraico. «Noi riconosciamo lo Stato dei palestinesi, che loro riconoscano lo Stato degli ebrei» dice Netanyahu. E pare che stia trattando per un congelamento, come segnale di buona volontà, di tutti gli insediamenti per sei mesi. [...]
La sfida di Netanyahu: ora tocca ai palestinesi decidere
Il Giornale, 16 giugno 2009
Per pronunciare quelle tre parole, Stato palestinese smilitarizzato, Bibi Netanyahu ha sofferto i dolori del parto. La casa del padre, lo storico Benzion, il sacrificio del fratello Yoni capo dell’operazione di Entebbe, la sua stessa vicenda di membro della Saieret Mathal, l’unità speciale antiterrore, i libri che fanno di lui un antesignano nel disegnare i pericoli del terrorismo, tutto gli vietava di promettere lo Stato ai palestinesi. Eppure l’ha fatto, non ha detto né «autonomia» né «confederazione con i giordani», ha proprio parlato di Stato palestinese a fianco dello Stato ebraico. E qui sta l’altro punto di novità: Netanyahu ha spostato il tema alla questione reale, quella che nel corso di questi anni ha impedito la pace con i palestinesi. E non si tratta di territorio: si tratta del rifiuto arabo. Bibi l’ha gettato sul tappeto come questione politica, e adesso non ci sarà più chi potrà ignorarlo. Adesso, la palla è nel campo palestinese e arabo, ma anche nelle mani di Obama. Il presidente americano ha fatto sapere di ritenere il discorso un importante passo avanti, ma in realtà il passo deve farlo lui e chiedere ad Abu Mazen: ma voi lo Stato degli ebrei accanto al vostro, lo accettate davvero? Fino a che punto desiderate il vostro Stato? O desiderate di più la scomparsa di Israele? [...]
Il mondo diventa vittima impotente dell’odio di piccoli e grandi dittatori
Chavez, kim Jong-li, Ahmadinejad: il comune desiderio d'umiliare l'Occidente
Quale orribile risultato. Mettiamo pure che i brogli elettorali riducano la proporzione della vittoria di Ahmadinejad, mettiamo anche che gli scontri a Teheran possano modificare o condizionare la leadership iraniana. È molto difficile tuttavia evitare il pensiero che le preferenze per il futuro, ed anche ex, presidente iraniano, sono il doppio di quelle per Hossein Moussavi, la pallida stella di un cambiamento che tuttavia avrebbe avuto un carattere interno. È anche interessante, e denota il consueto ottimismo pacifista, che la stampa di tutto il mondo e i vari leader mondiali abbiano seguitato a immaginare che Moussavi potesse vincere, nonostante fosse facile prevedere la vittoria di Ahmadinejad: il supremo ayatollah Khamenei, tutta la classe dirigente della Repubblica islamica hanno rinnovato semplicemente la scelta fatta a suo tempo, nel 2005, per l’uomo che avrebbe raddrizzato l’Iran dopo otto anni di tentennamenti del riformista Khatami. Khamenei, che durante la campagna ha tenuto un atteggiamento da Sibilla Cumana, tuttavia alla fine l’ha detto chiaramente: «Noi siamo favorevoli al candidato più capace di contrapporsi all’Occidente». [...]
Hezbollah sconfitto non rinuncia alle armi
È difficile credere che il Libano adesso ce la farà. Eppure ci prova ancora, ed è commovente: ieri sera il capo di Hezbollah, lo sceicco Nasrallah, ha ammesso la sconfitta e si è addirittura complimentato con i vincitori. Buona parte dei libanesi, soprattutto per merito dei cristiani risvegliati dal vescovo maronita Nasrallah Boutros Sfeir, andando a votare hanno scelto un Libano ancora arabo, e non dominato da interessi iraniani; pluralista, e non musulmano sciita; in cui una ragazza possa camminare per mano con un ragazzo. L’unico, solitario Paese arabo multietnico, multiculturale e multireligioso tenta ancora di liberarsi del continuo tentativo di asservirlo a una logica totalitaria, come nel ’58 quando i sunniti cercarono di forzarlo nell’orbita ultranazionalista di Nasser, nel ’75 la guerra civile portò l’Olp in posizione dominante e mise in giuoco Israele e la Siria, che solo due mesi fa aprendo l’ambasciata a Damasco ha formalizzato l’idea di non essere il padrone. Nell’82 la rivoluzione iraniana allungò le mani sul Libano con la nascita della forza armata degli hezbollah, che da allora hanno cercato di disegnare il Paese dei Cedri come punta della guerra islamista sciita, asservendolo al gioco bellico che chiamano “resistenza”: ma mentre si disegnavano come la testa di ponte del rifiuto antisraeliano e antioccidentale, un esercito armato di 50mila missili, che ama la morte e scambia con uomini vivi feretri e pezzi di soldati israeliani, l’amico più intimo dell’Iran e il più fedele fratello della Siria, cercavano anche, pazientemente, legittimità interna e internazionale. [...]
Obama nel paese delle buone intenzioni
"Il vero ostacolo: il mondo musulmano non è quello che il presidente USA dipinge"
Il Giornale, 5 giugno 2009
Sarebbe bello vivere nel mondo disegnato ieri da Obama al Cairo, ma il senso di realtà suggerisce che non sarà possibile. Tralasciamo le ovvie parole di apprezzamento per la volontà di pace e per il coraggio politico del presidente americano: chi potrebbe negarli. Obama ha tentato al Cairo di creare con la forza della sua magia una svolta epocale, quella in cui non esiste il conflitto fra islam e Occidente. Ne è risultato il ritratto un po’ banale di un giovane presidente buono. Obama immagina il mondo a partire da Obama, dalla sua autobiografia: non a caso non ha nemmeno citato la parola terrorismo. Il presidente americano si è presentato come la prova vivente della negazione del conflitto di civiltà, un giovane uomo cresciuto senza conflitto fra islam e cristianesimo, il padre e il nonno musulmani, la madre cristiana e bianca, gli Stati Uniti il porto d’arrivo, dove anche l’islam è una componente indispensabile. Obama ha parlato un’ora intera, ma il mondo ha sentito bene solo alcune cose: la prima riguarda il tono apologetico, io ho fatto del male a te, tu ne hai fatto a me, tu hai dei pregi e dei difetti, io ne ho altrettanti, parliamone, capiamoci, in fondo abbiamo principi simili, quelli dei diritti umani. Ma non è andata così. [...]
"Obama in Good Intentions Land"
Il Giornale, 5 June 2009
It would be wonderful to live in the world that Obama paintedyesterday in Cairo, but a sense of reality suggests that it isimpossible. We can leave aside obvious words of appreciation for the USPresident’s desire for peace and his political courage: both areundeniable. In Cairo, Obama used all the force of his magic to try tocreate a turning point for our era, where the conflict between Islamand the West would cease to exist. What came out was a ratherpredictable portrait of this young, good president. Obama’s image ofthe world starts from his own autobiography: it is no accident that henever even mentioned the word terrorism. The American Presidentexhibited himself as living proof that the conflict of civilizations isinexistent, a young man who grew up without conflict between Islam andChristianity, with a Muslim father and grandfather, a white, Christianmother, and the United States as his destination, a US where Islam isalso an essential component. Obama spoke for an entire hour, but theworld only really heard a few points. The first was his apologetictone: in essence, we have similar principles, those of human rights.But that is not the way it is. [...]
Più piano, presidente Obama...
Il Giornale, 3 giugno 2009
Dovrebbe andarci più piano, dar segno di capire che la posta in gioco non è la sua popolarità. Invece Obama sembra incamminarsi sulla via del Cairo innamorato della sua stessa bontà, delle sue parole innovatrici, a tutto gas ancora prima di aver guardato negli occhi un mondo cui spesso la cortesia appare debolezza. Il presidente sembra in queste ore essere alla ricerca di consensi preventivi, plateali, le sue parole prima della partenza sembrano ripetere quello strano gesto di profonda riverenza nei confronti del re saudita che lasciò anche i suoi più grandi ammiratori stupefatti.
Obama si è espresso contro il pericolo di cercare di imporre la «nostra cultura» a chi ha «storia e cultura diversi». Pericoloso, difficile può esserlo. Certo però quando Obama specifica e dice che «la democrazia, lo stato di diritto, la libertà di espressione, la libertà di culto, non solo valori propri dell’Occidente ma sono valori universali» e quindi insiti anche nelle culture non occidentali, viene da ridere per la (speriamo voluta) ingenuità dell’affermazione, in cui si avverte o superficialità o cinismo; soprattutto essa fa compiangere i dissidenti, i condannati a morte, le donne oppresse, quelle torturate con mutilazioni genitali, gli omosessuali perseguitati. Si appanna l’America che ha sempre cercato di salvare gli oppressi, dall’Europa sotto il nazismo, all’Urss, all’Irak. Sembra ritirarsi dalla grande gara mondiale per istaurare la libertà. Obama ha dichiarato semplicemente che vorrà servire da esempio passivo, e ignora che invece l’Islam per esempio, si vede come esempio estremamente, aggressivamente attivo, in fase di espansione. Sembra che la visione da lui più volte espressa dell’Occidente come di un mondo sostanzialmente oppressivo, che deve fare ammenda e quindi essere trasceso, sia vincente nelle sue esternazioni. [...]
More slowly, President Obama...
Il Giornale, 3 June 2009
He should go more slowly, demonstrating that he understands that what is at stake is not his popularity. Instead, Obama seems to walk towards the road to Cairo in love with his own goodness, with his own innovative words, which go at full throttle before he has first looked in the eyes a world in which often courtesy appears as weakness. The president seems to be at this time in search of consensus estimates, blatant, his words before departure seem to repeat those of a bizarre gesture of deep reverence towards the King of Saudi Arabia, which have left even his greatest admirers perplexed.
Obama has spoken against the danger of trying to impose "our culture" on those who have a "different history and culture." Dangerous, difficult as it can be. Surely, but when Obama says that "democracy, rule of law, freedom of expression and freedom of worship are not just the values of the West but are universal values" and are therefore embedded also within non-Western cultures, one comes to laugh (we hope that is the desired outcome) in relation to the ingenuousness of the statement in which one notices superficiality or cynicism; especially this ingenuousness sympathizes with dissidents, those condemned to death, oppressed women, those tortured by genital mutilation and homosexuals persecuted. [...]
La pressione di Obama per gli insediamenti: un inutile siparietto
Il Giornale, 31 maggio 2009
Sembra semplice e diretta, là per là, l’idea di puntare tutte le carte sul blocco degli insediamenti e lo sgombero degli outpost: Obama ha insistito nei suoi incontri con Netanyahu e Abu Mazen rovesciando l’impostazione americana. Prima lo sgombero, poi le trattative, poi semmai si riparla dell’Iran, del suo assedio a Israele tramite Hamas e Hezbollah. «Gli Usa chiedono di smantellare gli insediamenti», e poi «Doccia fredda di Israele sulle richieste americane» e poi «Abu Mazen si appoggia a Obama e crea un nesso fra il piano arabo e la pace israelo-palestinese». Questo sarebbe lo stato dell’arte, nell’opinione pubblica. Ma è vero? Solo in parte. E che cosa significa? Con la guerra degli insediamenti Obama innanzitutto vuole, prima di andare al Cairo per il suo discorso al mondo islamico del 4 giugno, dare un forte segnale che il vento è cambiato, che gli Usa pressano gli israeliani senza tanti complimenti e non ritengono indispensabile un impegno prioritario palestinese per la democrazia e contro il terrorismo. Se si ricorda cos’è stato lo sgombero di Gaza sotto Ariel Sharon, l’uso dell’esercito nell’estrarre donne, bambini, vecchi, dalla Striscia; se, parlando di outpost, ovvero di ciò che deve essere subito smantellato, si pensa a Amona, nel West Bank, in cui la cronista ha visto 300 feriti fatti dai soldati a cavallo in un paio d’ore, si capisce cos’è uno sgombero. [...]
Viaggio del Papa: quei temi politici distorti dai media
Il Giornale, 16 maggio 2009
Il Papa si era posto l’obiettivo durante il suo viaggio in Terra Santa di volare alto sopra i conflitti regionali: Gerusalemme è sempre accompagnata nei Salmi da invocazioni di pace e il Papa sperava che il suo viaggio aiutasse la concordia; il vento del luogo, metà arso dal deserto, metà fresco di pini, ha, nei secoli, soffiato sul viso di Cristo e dei profeti; la sua dimensione terrestre sconfina in quella celeste; là è nato il monoteismo che le tre religioni si contendono e a Benedetto XVI interessava un messaggio per lo spirito di tutti: unità, pace, lotta contro la violenza e la sofferenza dei poveri. Ma proprio il cercare di evitare gli spigoli politici ha fatto sì che essi diventassero il coro quotidiano di tutti i media, tv, radio, giornali, compresi i nostri. Così il viaggio papale ne è uscito stropicciato. Molti dei suoi temi sono poi risultati sui media parte del più abusato schema di colpevolizzazione di Israele. Il tema Shoah non c’entra: ha avuto un impatto un po’ controverso, ma a noi sembra che là il Papa non abbia dato adito a veri equivoci sul negazionismo. L’obbrobrio è stato condannato. [...]
Il Papa in Israele - Consigli: il momento è pessimo ma è un'occasione da non perdere
Il Giornale, 9 maggio 2009
Il Papa in Israele e a casa dei palestinesi è una grande occasione, proprio perché il momento di questo viaggio è pessimo. Mai il nodo dei problemi è stato così gordiano, e dunque mai tanto opportuno cercare di dire davvero qualcosa che, come nei progetti della Santa Sede, promuova la pace nei cuori e fra le parti. Israele e i palestinesi hanno interessi contrapposti e ciascuno parlerà al Papa così da convincerlo alla sua causa. Ma, se ci possiamo permettere un consiglio, il Papa potrebbe utilmente attenersi ai temi della verità e della libertà religiosa.
La verità: il Papa andrà a Yad Vashem, il museo della Shoah, la cui eccezionale rappresentazione di certo gli solleverà emozioni e pensieri, specie a lui tedesco (un aspetto, questo, di cui Israele discute in tesa sospensione). Oggi, mentre è in atto un attacco senza precedenti alla memoria dell’Olocausto capeggiato dal presidente iraniano Ahmadinejad, la negazione della Shoah è diventata l’aggancio politico, ormai istituzionalizzato, per una narrativa antisemita diffusa che si conclude con la distruzione dello Stato d’Israele. Se il Papa chiarirà fino in fondo il senso malefico del negazionismo compirà giustizia anche rispetto all’episodio del vescovo Williamson, ma soprattutto se indicherà il negazionismo come un peccato dello spirito, più che come un errore storico, questo sarà un gesto da ricordare nella storia della pace. E allora un suo ritornare sulla storia di Pio XII non sarà visto come una prepotenza, ma come una proposta di discussione. [...]