Il Giornale
Ecco perché la Casa Bianca sta sbagliando tutto
È abbastanza difficile immaginarsi una serie di mosse più sbagliate di quelle intraprese dall’amministrazione Obama per rimettere in moto il processo di pace: non perché ha spinto con tutte le sue forze Israele a fare concessioni. Questo è legittimo e potrebbe anche essere utile, se fatto in maniera intelligente, cercando una contropartita rassicurante. Ma prima di tutto ci vorrebbe un piano, e il piano, che tutti richiedono, non è mai saltato fuori. Non si conosce nessuna strategia di Obama per raggiungere lo scopo desiderato di due Stati per due popoli. Si sa solo che lo vuole fortemente.
Oltre a questo, si è visto che Obama ha avuto solo un’idea e che è sbagliata. Per la verità l’idea rovinosa l’ha avuta il suo delegato speciale per il Medio Oriente George Mitchell: è stata quella di inventarsi la «precondizione» cioè il «congelamento» di tutti gli insediamenti, considerando per tali anche alcuni quartieri di Gerusalemme che nessuno, né la destra né la sinistra, in Israele bloccherebbe senza trattare. Cioè, non si sa perché il congelamento è preventivo rispetto a ogni altro passo. In realtà la risoluzione Onu 242, che stabilisce il fine di due Stati per due popoli, dice anche che vi si deve arrivare con una trattativa e secondo criteri di sicurezza per Israele. Persino Yossi Beilin, ex ministro degli Esteri del governo laburista e leader di «Pace Adesso», ha dichiarato che Mitchell dovrebbe dimettersi, perché le trattative fra Netanyahu e Abu Mazen devono avvenire su un tavolo sgombro, animati solo dalla volontà di arrivare a un accordo. [...]
Le mogli dei dittatori ci fanno lezione
Il Giornale, 17 novembre 2009
L’Unità esalta la conferenza contro la fame delle first lady del Terzo mondo. Dove a spiegare come sconfiggere il sottosviluppo erano la signora Ahmadinejad e la rappresentante del governo cubano.
È davvero corruttiva rispetto al ruolo della donna nella società, alla sua dignità, all’uso del corpo la prima pagina dell’Unità di ieri: una schiera colorata di foto di donne avrebbe dovuto testimoniare l’eccellenza della femminilità nel combattere la battaglia contro la fame nel mondo in occasione di un vertice di first ladies nell’ambito della Conferenza della Fao. Ma queste donne, che hanno come caratteristica predominante quella di essere mogli, se poi si va a guardare mogli di chi, si vede che il giornale fondato da Antonio Gramsci cade in una deprimente trappola propagandista. La patente di combattenti contro l’ingiustizia sociale che viene loro attribuita da un titolo «Donne contro la fame» infatti, certo non è quello più meritato da chi condivide e sostiene le politiche di paesi totalitari, discriminatori verso le donne, che perseguitano ogni opinione diversa e che sono poveri non per destino divino, ma perché la dittatura impoverisce la gente. [...]
Barack liquida la guerra globale al terrorismo
Il Giornale, 15 novembre 2009
SVOLTA Da Guantanamo all’Iran un filo conduttore nelle sue scelte: la fine del compito morale degli Usa
Più di tutte le critiche di carattere giuridico alla decisione di processare a New York i terroristi islamici responsabili dell’attacco alle Twin Towers, un’autentica sirena d’allarme suona, per chi ricorda le immagini dell’eroismo coperto di cenere e sangue dei vigili del fuoco che persero 343 uomini, nella presa di posizione di Steve Cassidy, presidente dell’associazione dei pompieri di New York: «È un terribile errore», dice e spiega che New York è sempre stata il numero uno degli obiettivi dei terroristi, e adesso sarà segnata da un ulteriore marchio. Cassidy dice che la discussione sarà infinita, con corsi, ricorsi, deduzioni e controdeduzioni, che per anni risulterà in misure di sicurezza insopportabili per i newyorkesi, e che susciterà altri terribili attacchi dopo quello che fece 2973 morti.
Di fatto la decisione garantista e all’apparenza legislativamente neutrale sostituirà il leit motiv newyorkese del pianto delle famiglie delle vittime con la discussione sulla legalità dei trattamenti a Guantanamo. E contiene un messaggio tipico dell’amministrazione Obama. È la desublimazione dell’eccellenza americana, il declino di un compito morale, per altro messo in discussione da Obama stesso ormai almeno una decina di volte quando ha accusato gli Usa di aver usurpato beni altrui e maltrattato popolazioni di culture diverse, di essere stati arroganti con l’Islam: l’idea di un processo civile contro gli autori di una strage di civili (che però in una guerra asimmetrica è a tutti gli effetti militare anche secondo gli assassini) è formalmente corretto, ma è una rinuncia a una delle più importanti primogeniture americane, quello della guerra mondiale al terrorismo. La scelta di rinunciare a un ruolo speciale degli Usa trasformando la guerra al terrorismo in un processo civile come succederà a New York, o politico come succede con l’Iran, ma anche con gli Hezbollah, o Hamas, o la Siria è un errore continuo della presidenza Obama. [...]
Su D'Alema Mr Pesc non siamo tutti d'accordo
Cari amici,
alcuni di voi hanno espresso il proprio disappunto per una frase dell'articolo di Maurizio Caprara sul Corriere di ieri, che ho fatto circolare per sollecitare un dibattito sulla candidatura di Massimo D'Alema ad Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune dell'Unione Europea: ovvero, nell'articolo vengo qualificata come "deputata del «Popolo della libertà» di religione ebraica".
Ora, io sono ebrea. Trovo che il menzionarlo sia non solo una descrizione della realtà, ma anche un motivo di orgoglio.
Certo, dipende da chi scrive, non siamo ingenui. Ma nelle parole di Maurizio Caprara, che è un amico, non c'è nessun elemento discriminatorio.
Penso semmai che ci si debba concentrare di più sul contenuto dell'articolo di Caprara. Stanno giungendo parecchi commenti, seguitate a dirmi cosa ne pensate.
Segnalo l'articolo uscito sul Foglio di oggi.
Massimo impegno
La lobby dalemiana in Europa alle prese con la contro spinta
Il Foglio, 13 novembre, p. 1
Roma. I giochi sono sempre meno fatti, a Bruxelles, nel grande gioco che porterà al nome del ministro degli Esteri europeo (“più nomi che posti”, dice il presidente svedese dell’Ue Fredrick Reinfeldt). I giochi non sono fatti per il candidato Massimo D’Alema – che pochi giorni fa appariva favorito anche per l’Economist, specie dopo l’ufficializzazione dell’endorsement berlusconiano. Certo D’Alema può ancora contare sul sostegno europeo ufficiale di Martin Schulz e di Paul Nyrup Rasmussen (con cui l’ex premier ha contatti diretti), sull’opera di indefessa sponsorship di Piero Fassino e sul sostegno ufficioso di chi, negli ambienti politico-economici internazionali, perora la sua causa tra Roma e l’Europa (un nome per tutti: Andrea Peruzy, segretario generale della dalemiana Fondazione Italianieuropei e membro del cda Acea). [...]
Berlino 20 dopo - Al KeDeWe, amai la caduta del muro

Quando “Epoca” diretto da Roberto Briglia mi spedì a coprire la caduta del muro di Berlino non bastò subito il passaggio delle Trabant, piccoli dinosauri a due pistoni ansimanti verso la libertà, per creare in me una sensazione di tenerezza, di giubilo politico e umano. Erano tedeschi. Cadeva il comunismo, e io avevo nei geni la passione per la libertà, quindi ero felice fino negli imi precordi; nel corso degli anni avevo incontrato tanti refusenik, ero stata una fan attiva di Natan Sharansky, avevo fatto un film su Ida Nudel nei ghiacci del Gulag insieme a Giovanni Minoli; ma avevo coltivato verso l’est della Germania una antipatia personale: da ragazza comunista avevo fatto un viaggio in delegazione nella Germania comunista e avevo capito, avevo respirato l’orrido clima di repressione e di ovattato spionaggio che faceva suonare il telefono in camera per assicurarsi che tu non fossi andata a fare una passeggiata da sola, che non parlassi con qualcuno che non era stato programmato, che ti accontentassi delle balle sulla felicità del cittadino comunista universale e dei regalini che si trovavano sul comodino. Mi accorsi, facendo qualche domanda, che la Shoah per loro non era mai esistita, era rimossa, cancellata, era tutta colpa della Germania Ovest, capitalista, imperialista, insomma nazista. [...]
Lezioni di suicidio politico: il caso Abu Mazen
Il presidente dell’Anp, rinunciando a candidarsi alle prossime elezioni, si è messo da solo in una via senza uscita
Fine settimana piuttosto luttuosa per le politiche di conciliazione internazionale, di cui il patrono è Barack Obama. Da una parte, il rifiuto ormai chiaro dell’Iran a seguire il piano occidentale che doveva portare a un rallentamento della costruzione del suo nucleare, con immediata e ossequiosa sostituzione del piano da parte di El Baradei e entrata in scena della Turchia; dall’altra parte lo sconcerto occidentale di fronte al ritiro di Abu Mazen dalla competizione elettorale da lui stesso fissata per il 24 gennaio. Bernard Kouchner, ministro degli Esteri francesi è il più disperato e chiede a Abbas di ripensarci: il suo abbandono è una minaccia non solo per la pace, dice, ma «per tutti noi». Anche Hillary Clinton spera di continuare con Mahmoud Abbas «qualsiasi sarà la sua posizione».
Tutti, anche gli israeliani, fra cui Ehud Barak, sperano di recuperare le vecchie abitudini, e quindi che Abu Mazen scenda dall’albero sui cui si è arrampicato. Ma la verità è che la decisione di Abu Mazen riguarda l’onda nera che si eleva e si arrotola all’orizzonte, e il modo in cui egli stesso e il resto del mondo stanno cercando di affrontarla, ovvero, debolmente, amatorialmente. L’unica maniera che forse avrebbe Abu Mazen di tornare sulla scena sarebbe di rimandare quelle elezioni che ha appena convocato e mettersi a nuotare contro corrente, e non è detto che alla fine non lo faccia. [...]
Quell’amicizia con Hezbollah pesa come un macigno
Il Giornale, 1 novembre 2009
Massimo D’Alema commentando ieri l’ipotesi che egli, ex ministro degli esteri italiano diventi ministro degli esteri europeo, secondo Repubblica ha detto una delle sue frasi classiche, quelle in cui da del cretino a un po’ di gente: «Una nomina italiana a ministro degli Esteri d’Europa è una questione di grande interesse nazionale, non un pastrocchio da piccolo interesse di bottega. Se qualche imbecille non lo capisce, peggio per lui». Ha ragione. E io sono, mi sembra, fra questi imbecilli. Una scelta per D’Alema implica una quantità di piani politico-ideologici: parla di scelte che riguardano la politica italiana; di Weltanschauung, la sua visione del mondo; delle attuali scelte degli italiani per l’Europa. Non c’è dunque solo la questione che è stata maggiormente messa in rilievo, il segnale di buona volontà fra le parti politiche, la buona novella che quando si tratta dell’interesse nazionale si deve e si può sotterrare un’ascia di guerra ormai insanguinata. Da questo punto di vista sarebbe una buona cosa che tutti concordassero su una candidatura italiana quale che ne sia la parte politica. Ma c’è di mezzo l’Europa e il messaggio che l’Italia le vuole lanciare in un momento che non è delicato solo per noi, ma per il Vecchio Continente alla ricerca di ruolo, di spazi, di significato. [...]
Iran, ennesimo rinvio. E l’Occidente si stanca
Il Giornale, 28 ottobre 2009
Chi ancora aveva voglia di credere che la politica della mano tesa verso l’Iran avrebbe dato qualche risultato e che la proposta di El Baradei, così vantaggiosa per l’Iran, sarebbe stata accettata, ieri, in Europa, ha sofferto particolarmente sulle ore del pranzo. Invece Obama si è svegliato con la notizia che al Alam, il satellite in lingua araba dell’Iran, ha annunciato che gli Ayatollah daranno la risposta sulla proposta occidentale fra 48 ore; nel frattempo fa sapere che, mentre intende accettare il principio del trasferimento all’estero dell’uranio da arricchire, intende richiedere “cambiamenti”, senza specificare quali. Lo schema di accordo chiede all’Iran di trasferire entro l’anno alla Russia l’80 per cento della quantità di uranio che si pensa l’Iran possieda, una tonnellata e mezzo, e dopo l’arricchimento di passarlo alla Francia per l’ulteriore lavorazione che poi dovrebbe portare alla restituzione a Teheran dell’uranio trasformato in carburante per un reattore che produce radio isotopi. Una favola bella che sembra ormai praticabile solo a El Baradei. Comunque, adesso Alaeddin Borujerdi, capo della commissione parlamentare per la sicurezza e la politica estera, dice che l’accordo non prevede di trasferire all’estero tutta insieme la quantità proposta, ma di spedirla in piccole quantità e di sostituirla una volta arricchita al 20 per cento. La spiegazione è logica. L’80 per cento tutto insieme, proprio per la sua consistenza, può causare un rallentamento delle operazioni che portano alla bomba atomica. E, poi, sembra dire l’Iran, meglio non fidarsi e tenersi a casa il tesoro. [...]
Abu Mazen si gioca tutto con le elezioni
Se sullo sfondo non si udisse risuonare a Ramallah lo squillo del telefono proveniente direttamente da Obama, il gesto di Abu Mazen, al secolo Mahmud Abbas, il presidente palestinese, di indire le elezioni presidenziali e parlamentari per il 24 di gennaio potrebbe avere un che di seriamente masochista. Ma due giorni fa il presidente americano ha telefonato per rassicurare Abbas sul suo sostegno per un futuro Stato palestinese, e, in sostanza, per dargli il suo appoggio. Gli americani sono stati messi a parte per tempo, e forse lo hanno anche ispirato, del giuoco durissimo in cui Abbas aveva intenzione di mettersi con la mossa annunciata venerdì: il presidente palestinese deve aver detto al suo amico «se non tento di riportare Hamas a un atteggiamento meno strafottente la spaccatura crescerà a dismisura insieme alla sua forza. Tanto vale tentare di piegarlo prima che gonfi fino a sommergermi, richiamandolo al fatto che esistono le elezioni e che io sono il presidente».
Abbas ha dunque detto al pubblico che le elezioni sono un obbligo costituzionale, che la legge lo mette in condizioni di non potersi esimere dal rimettere di nuovo il futuro della sua gente alle urne. Un punto molto dignitoso per ribadire la sua legittimazione democratica. Ha anche aggiunto che il fatto che Hamas sia contraria ad andare alle elezioni adesso dopo il fallimento dei colloqui di riconciliazione sponsorizzati da Mubarak (conclusisi pochi giorni fa con un sì di Abu Mazen, addirittura inviato al Cairo per fax, ma con un altro successivo no di Hamas) non esclude che l’Egitto da qui a poco riesca a stilare una carta di accordo buona per tutti. Abu Mazen lascia capire che in quel caso sarà malleabile. [...]
L’Iran non ferma la bomba: l’accordo di Vienna è già diventato una farsa
Il Giornale, 23 ottobre 2009
Chissà se Mohammed El Baradei ha ancora stampato sul viso quel sorriso di soddisfazione che mercoledì esibiva descrivendo la bozza di accordo fra l’Iran e il mondo che dovrebbe rappresentare la luce in fondo al tunnel dell’arricchimento dell’uranio per la produzione della bomba atomica degli ayatollah. Ma a poche ore dal preteso accordo (ancora non ratificato) della riunione di Vienna dell’Aiea, l’Agenzia per l’Energia Atomica, che per altro a uno sguardo meno entusiasta appare buono solo per l’Iran, arrivano già le prime smentite. Mohammed Reza Bahonar, vicepresidente del Parlamento iraniano, ha dichiarato beffardamente: «Quelli (le potenze riunite a Vienna, ndr) ci dicono: voi ci date il vostro uranio arricchito al 3,5% e noi vi diamo il carburante per il reattore. Per noi è inaccettabile». Né più né meno. È certamente una premessa poco incoraggiante rispetto al parere ufficiale atteso dall’Iran entro oggi: esso può dunque preludere a un tipico ritorno alla casella zero del gioco secondo uno schema ormai sperimentato, più tempo guadagnato, più uranio arricchito; oppure, Bahonar prepara il tavolo ai negoziatori per ottenere di più. L’Iran non sceglierà comunque questo momento di intensa pressione americana per chiudere la porta; seguiterà a fare ciò che vuole, cioè la bomba, traccheggiando variamente per non causare l’ira funesta di Obama. [...]