La guerra antisemita contro l'Occidente
7 ottobre 2023 Israele brucia
Informazione Corretta, il nuovo video di Fiamma Nirenstein

Il Giornale, 18 maggio 2025
Due equivoci stravolgono oggi la discussione intorno al Medio Oriente, Israele e la guerra di Gaza. Il primo riguarda l’atteggiamento di Trump verso Israele e in particolare verso Netanyahu, descritto ormai spesso come un innamorato abbandonato. Invece c’è solo uno scenario nuovo: Israele conferma una funzione basilare nella stravagante politica MAGA in Medio Oriente, ma capirla bisogna scavalcare la traversata scenografica e ondivaga del presidente da Riad a Doha a Abu Dhabi, lasciare da parte l’impressione nel sentire chiamare l’ex terrorista al Shaara “un affascinante giovane”, ed esclamare che Bin Salman “gli piace troppo” mentre firma un accordo di miliardi (142 per la vendita di armi, fra gli altri). Sì, i suoi uomini hanno parlato direttamente con Hamas per liberare il rapito americano Eidan Alexander, gli USA hanno fatto un accordo a parte con Houty purché non bombardino le navi sul Mar Rosso…ma il suo richiamo alla necessità dell’Arabia Saudita e di tutto il suo Nuovo Medio Oriente di entrare nei Patti di Abramo tiene Israele al centro del tavolo, senza Israele non esistono patti di Abramo. E questa Israele, secondo il disegno strategico di Netanyahu, dona sicurezza a tutto questo Medio Oriente con la sconfitta di Hamas e della Fratellanza Musulmana e (solo ieri è stata seppellita Tzeela Getz, uccisa sulla strada verso l’ospedale per partorire in uno dei 2200 attacchi da gennaio a marzo, riusciti o scoperti).
La costruzione che implica emirati, sauditi, altri paesi come l’Egitto e la Giordania, altrimenti rischia il terremoto continuo. Solo ieri a Fox News Trump ha ribadito la sua ammirazione per Netanyahu che “arrabbiato” per i crimini del 7 di ottobre” fra “i più violenti della storia dell’umanità” “combatte duramente e con coraggio”. E’ la realtà: le riserve tornano al fronte nell’ansia terribile delle famiglie che restano di nuove sole in attesa, siamo ancora alla solitudine in cui Israele occupò Rafiah, mentre la proibizione internazionale si avventa su Israele sull’onda delle mille menzogne sulla crudeltà di un esercito che unico al mondo ha cercato di ridurre al massimo le perdite civili. Se Hamas consegnasse i rapiti e le armi non ci sarebbe più bisogno di combattere, lo sa anche chi usa per attizzare l’antisemitismo la menzogna del “genocidio” con quel classico rovesciamento delle responsabilità di cui parlava già Robert Wistrich disegnando l’antisemitismo contemporaneo (“nazisti diventano gli ebrei...”). Il tentativo odierno della guerra è costringere Hamas in un angolo perché consegni le armi e i rapiti. Arduo capire cosa c’è di così esoterico in questo, come si possa pensare che questo disegni un piacere nel combattere. Queste è una guerra di sopravvivenza. E nella condanna quasi unanime, ormai, contro la decisione di Netanyahu, come al tempo di Rafiah, di non mollare, c’è un’accettazione implicita dei crimini del 7 di ottobre e l’assorbimento sociale delle menzogne su Israele e i suoi supposti crimini di guerra. Per esempio la situazione umanitaria che in queste ore si cerca di migliorare con forze internazionali, è stata resa drammatica proprio da Hamas che ha sequestrato il cibo armi alla mano. Tutto filmato, mentre si accusa Israele.
La morte dei civili, pure molto contenuta rispetto ai numeri di qualsiasi altra guerra (uno a uno nella proporzione coi combattenti) è stata legata alla onnivora utilizzazione di hamas delle case, degli ospedali,delle scuole, delle camere dei bambini e dalla proibizione alla gente a rifugiarsi nelle gallerie. La nazificazione del territorio ha provocato l’adesione popolare dall’infanzia in avanti al terrorismo, e quindi l’esposizione maggiore di persone usate come complici, basta pensare al funerale della famiglia Bibas. Israele non può pena la vita, lasciare in vita questa struttura. Trump qui torna in scena:il presidente che si è mosso in Medio Oriente alla ricerca soprattutto di una rivoluzione economica che lo renda l’innovativo salvatore di un’America in crisi, offre a Israele ancora una vasta opportunità di inserirsi in una grande gioco. Ma Israele non può accettare, pena la sua decadenza come forza militare ed innovativa, che la sicurezza sia un’ombra sul suo futuro, deve combattere per la vita e anche farsi sentire sull’Iran. Le trattative con gli ayatollah hanno un andamento molto incerto, ma Trump ha più volte affermato che comunque l’Iran non avrà la bomba atomica e ieri Khamenei gli ha dato del bugiardo.Trump ha anche evitato, pur disegnando un futuro rivoluzionario di Gaza, di parlare di “Stato palestinese” come invece fanno gli Europei; ha lasciato perdere la questione degli insediamenti cui Biden era affezionato.. Il tavolo dei rapporti è pulito. Resta un punto interrogativo non da poco: una grande coalizione islamica, oltre al grande business, può accettare la pace con l’Occidente?
Il Giornale, 14 maggio 2025
E’ una forzatura politica disegnare una rottura fra Trump e Netanyahu, anche se ormai dalla BBC alla CNN e anche i giornali italiani cercano di farlo. Ma è un momento difficile, visto da Israele, rispetto a quando Trump prometteva che in Medio Oriente si sarebbe “aperto l’inferno” se Hamas non avesse restituito gli ostaggi. Oggi, invece, Steve Witkoff, il suo inviato quasi plenipotenziario, dopo aver incontrato Edan Alexander finalmente libero, dice ai giornalisti: “Per noi è ovvio, ora si deve andare a un accordo per la restituzione degli ostaggi e la tregua”. Invece, l’esercito di Israele si organizza per assediare Hamas dentro Gaza: ieri Netanyahu ha ripetuto che non si ferma la guerra, e così si riporteranno i rapiti a casa. Però, la sua delegazione parte per Doha verso una trattativa che non è certo più la stessa di qualche giorno fa, quando Trump non era nel palazzo di Bin Salman, in Arabia Saudita. E’ chiaro che il disegno di Trump è una specie di pacificazione universale, una “Trump Tower” in ogni capitale.
Trump calca i saloni di marmo mano nella mano con Bin Salman, l’Arabia Saudita sembra essere diventata il centro del suo interesse mediorentale. La restituzione di Edan Alexander è certo un gesto di affetto verso Israele e di orgoglio per il passaporto americano del combattente rapito, ma è avvenuta con una trattativa diretta fra Adam Boehler e Hamas, gli assassini della nakba. Senza consultare Israele. Hamas non ha chiesto prigionieri palestinesi condannati al carcere in Israele per terrorismo in cambio, ma la legittimazione che gli disegna, immagina, la possibilità di restare a Gaza, mentre spinge perché i sauditi disegnino il riconoscimento nella Striscia di un potere arabo, se non addirittura di uno stato palestinese. Su questo, Trump non otterrà consenso da Israele, ma il rapporto si può costruire su una forza per la distribuzione di aiuti umanitari, un programma di educazione antiterrorista... una trattativa intanto non permette un attacco a tutta forza, e quindi la strada di cui parlano sia Witkoff e Boehler non è sbarrata. Trump sa comunque, che non potrà chiedere a Israele di firmare la propria condanna accettando Hamas come vicino di casa, così come sa che una leva importante del futuro mediorentale è la severità con cui gli USA sono disposti a trattare il nemico degli ebrei e dei sunniti, l’Iran, e a bloccare la bomba atomica.
Trump sa che Israele vuole tornare, come promesso dagli USA prima della guerra, che Hamas volle anche per questo, a essere nel patto coi sauditi. Certo, converrebbe a un piano di pace tecnologica, commerciale, di sicurezza. Ma oggi Trump punta diretto sull’ investimento che lo ha aspettato a Riad sotto forma di high tech, petrolio, intelligenza artificiale, real estate. Non ha pazienza per il conflitto con Hamas. Però, i sauditi possono essere più ricchi, ma non c’è nessuno come gli israeliani per la genialità delle invenzioni. Trump lo sa, e anche conosce le reazioni decise quando devono difendere la loro piccola nazione in pericolo. Chi ha sfilato Edan Alexander dalle mani di Hamas non è solo Trump ma anche il rumore di ferraglie che fanno i carri armati pronti all’attacco dentro Gaza. Hamas ha cercato un modo di scampare la sua prossima fine, liberando nelle mani di Trump Edan Alexander. Trump, inoltre, calca un Medio Oriente bonificato dal terribile sforzo bellico di Israele (Gaza, Libano, Siria, Houty, in parte Iran. E la forza militare recuperò i rapiti veramente: così fu all’inizio della guerra quando più di 80 ostaggi furono riportati a casa. Trump, ora, dopo il Pakistan e l’India, vuole l’Ucraina, l’Iran, e il mondo arabo... tutto. E pur nel rispetto, Netanyahu ha dichiarato che la guerra per cancellare Hamas continua. Non gli sarà facile mantenere fede alla scelta, ma sulla bilancia ci sono molti tipi di ipotesi, specie il nucleare Iraniano.
Netanyahu però vuole sapere dov’è Israele nei disegni americani? Lo hanno ricacciato indietro gli isolazionisti? Forse un po', ma Witkoff era nell’ufficio di Netanyahu con il Primo Ministro e Ron Dermer mentre si riconsegnava Alexander. Dunque: Bibi pensa che per salvare Israele si debba battere Hamas, ma bisogna vedere cosa promette Trump a Bin Salman. I giochi sono aperti: la maggioranza del Senato, l parte evangelista del suo elettorato e Kushner, o Rubio, o l’ambasciatore americano in Israele Mike Huckabee, o Waltz ora all’ONU e tanti altri amici di Israele, non si faranno da parte facilmente. E Israele, è uno Stato autonomo.
Il Giornale,11 maggio 2025
La verità è molto semplice: non si sa niente di che cosa combinerà Trump con il viaggio negli Emirati, sull’onda dei colloqui con l’Iran che seguitano oggi… qualcosa succederà, l’ha promesso. Molti commentatori adorano l’opportunità di affermare che Trump non ne può più di Netanyahu e che vuole annunciare uno Stato palestinese. Cioè, la politica mediorientale degli USA avrebbe dichiarato uno scisma a Israele, condanna Bibi all’isolamento e alla sua fine politica. Le ragioni sarebbero che non ha saputo chiudere la guerra con Hamas e persino che Trump sospetta che Bibi avrebbe tentato di manipolarlo. La seconda accusa è bizzarra; la prima è assurda, in genere si accusa Bibi di essere un guerrafondaio. La verità: la guerra è cauta a causa dei rapiti, soggetto cui anche Trump ci tiene. Bibi ha agito con lentezza, Trump voleva piazza pulita.
I sintomi della rottura: la pax americana con gli Houty; la cancellazione della visita di Pete Hegseth, Ministro della Difesa, il sospetto di un accordo con l’Iran; l’idea che con i sauditi si preveda un accordo senza Israele. Ma di fatto: la notizia sullo Stato palestinese era stata ricavata da un sito citato a sua volta dal Jerusalem Post, Media Line, per cui “anonime fonti del Golfo” “stavano dibattendo” se “fonti diplomatiche” avessero affermato che Trump ci pensa. Intanto la TV I24 ha ritirato il pezzo: esso accompagnava un’intervista dell’Ambasciatore americano in Israele Mike Huckabee: dichiara sciocchezze quelle sullo “stato palestinese”; l’Iran non avrà un’arma nucleare; dell’Iran non ci si può comunque fidare; invece Israele può contare su Trump.
Intanto Trump ha detto che le centrifughe verranno distrutte “per amore, o per forza”; e Steve Witkoff, ripete che solo di centrali ad uso civile si parla. Trump,certo, viene in Medio Oriente per disegnarsi come portatore di una pace mai vista. Gaza è un ostacolo, i rapiti il maggiore problema. Può darsi che gli USA abbiano organizzato una svolta che include l’Arabia Saudita e che Bin Salman voglia una concessione ai palestinesi... è da vedere, ma è escluso che Israele esca dal radar americano. Se sulle scelte iraniane e palestinesi non ci sta, non è disarmato né inerte e ha ammiratori anche nel Senato americano. Si tratta della sua vita, e di quella della democrazia nel mondo. Il ministro Ron Dermer è stato ricevuto personalmente da Trump, un trattamento speciale. Non parla di un Paese che si vuole lasciare da parte. Israele combatte per la sua vita, se Trump se lo dimentica, ci pensa la storia a risvegliarne l’attenzione.
Il Giornale, 10 maggio 2025
Il pericolo ormai è presente e chiaro. Invece di ostentare la sua cultura antisraeliana sventolando un volumetto sulla storia di Israele di un suo classico squalificato odiatore, Ilan Pappe, sarebbe bello che la signora pizzaiola che ha buttato fuori i turisti israeliani, si informasse su un altro argomento, cioè le conseguenze dell’odio di massa per gli ebrei nella storia. Il tratto terrificante della vicenda, è che la pizzeria della signora, invece di essere chiusa, è diventata un attraente centro di odio antisraeliano, e numerose istituzioni e autorità non solo non condannano, ma sono graditi ospiti. Adesso, una domanda pesante: come accade che nella storia si scateni la caccia all’ebreo, fino alla Shoah? Ci se lo chiede spesso guardando indietro nel passato tedesco. Oggi però, si dice, in Italia, in America, nel mondo… no, impossibile, non diciamo sciocchezze. Ma mentiamo a noi stessi. Le masse odiatrici ormai sono scatenate. L’odio mortale non è un fenomeno d’elite; quando si marcia urlando morte a Israele, genocida, razzista, e le autorità poi concordano, il pericolo è consistente. Daniel Goldhagen nel suo famoso I volenterosi carnefici di Hitler fa i conti: l’odio antisemita omicida fu appannaggio di decine di milioni di persone, l’eccidio nazista non è solo delle SS, ma di un popolo che sembrava normale. La Polizia, la gendarmeria, uomini e donne nelle amministrazioni e istituzioni civili, nelle aziende, nelle scuole, università, ospedali… il numero di collaborazionisti oggi includerebbe parte di chi lavorava nell’informazione, nelle istituzioni umanitarie... la gente, i proPal di oggi. Siamo sull’orlo di un attacco di massa al popolo ebraico sulla base di un mucchio di bugie travestite da diritti umani. “Il numero di quelli che si resero complici o che erano al corrente, è sbalorditivo”, dice Goldhagen. E qui un pubblico enorme è stato imbrogliato sul fatto che gli ebrei siano coloni e non, senza possibilità di dubbio, gli unici indigeni di Israele; non sa che dozzine di accordi internazionali fino all’ONU nel 1948 ne stabiliscano la legittimità e i “territori” sono frutto non desiderato di guerre di aggressione arabe; che Gaza è sgombera dal 2005; che gli arabi cercano di eliminare gli ebrei in base a convinzioni religiose.
La folla non si interroga su parole gettate a sproposito nella mischia, come genocidio e apartheid. Un numero spropositato è oggi pronto a dare la caccia agli ebrei chiamandoli sionisti, o con la scusa di Netanyahu, di cui non sanno niente. La vicenda della pizzaiola ha avuto tre fasi: butta fuori la coppia ebraica e israeliana; c’è un sussulto di vergogna istituzionale, è un gesto di odio antiebraico anche se lo chiami antisionista, e poi c’è la terza parte, quella in cui la Boldrini e una lista di personaggi istituzionali solidarizzano con la pizzaiola, coi ripensano e ritengono evidentemente che qui c’è del consenso da spigolare. E’ un classico: per i nazifascisti gli ebrei erano comunisti, per i comunisti fascisti, per i capitalisti accattoni di shtetl, per Marx, capitalisti... adesso sono sionisti, vogliono la loro casa, ma che vogliono questi ebrei, brutti nazionalisti... e pretendono persino di non essere fatti a pezzi tutti i giorni da missili e attacchi terroristi, ma tu al 7 ottobre ci credi? I protetti di questi difensori dei diritti umani uccidono gli omosessuali e mutilano le donne mentre la pizzeria, nel consenso istituzionale, diventa un hub di odio. Mentre Israele combatte per la propria sopravvivenza, l’Albanese l’ha trasformato in tana ideologica come “Presa Diretta” su Rai 3: tre coraggiosi, Giovanardi, Prado e Volli, hanno attaccato le balle e la diffamazione proposte come reportage, ma l’USIGRAI e FNSI li condanna invocando il diritto all’informazione. Gli ebrei sono sotto un assedio di massa in tutto il mondo: il premio Pulitzer va a un palestinese Mosab Abu Toha che denigra le vittime e i rapiti del 7 ottobre; si insiste ovunque per l’ “aiuto umanitario” a un’organizzazione che tiene gli ostaggi a morire sotto terra; si chiede “pace” intendendo la resa di Israele; a Milano si discute se illuminare Palazzo Marino per Gaza, sostenendo, solo coi numeri di Hamas, che ci sono 52mila morti di cui 13mila bambini; a Ragusa e Catania si beve Gazacola. Nuova bevanda per i volenterosi carnefici del nuovo odio per gli ebrei.
mercoledì 7 maggio 2025
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Video di Fiamma Nirenstein in esclusiva per IC a cura di Giorgio Pavoncello
L'antisemitismo ribalta la realtà, sempre. Quindi trasforma sempre le vittime in aggressori e i colpevoli in innocenti, per dar sempre la colpa agli ebrei e a Israele. Anche nel caso degli aiuti umanitari a Gaza: si accusa Israele di voler affamare i palestinesi, quando invece il governo Netanyahu sta cercando un modo di dare cibo alla popolazione di Gaza evitando che Hamas lo rubi.
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Il Giornale, 06 maggio 2025
Territori, territorio... E' la parola magica dell’odio antisraeliano, quella che si coniuga con “occupazione” e anche con “colonialismo”. L’opinione pubblica internazionale al solito attacca invece di cercare di capire cosa sta succedendo a Gaza: ieri il Gabinetto di sicurezza ha approvato il piano che espande l’operazione dell’Idf a Gaza e prevede che dove l’Esercito arriva là resterà, secondo il vecchio dettato strategico per cui la conquista deve essere tenuta per vincere qualsiasi guerra invece di proseguire negli avanti e indietro che hanno caratterizzato 19 lunghissimi mesi di guerra. Il motivo per cui Israele terrà in mano spazi territoriali a Gaza è semplice, anche se enormemente estraneo a chi non è abituato a affrontare giorno dopo giorno il rischio di attacchi terroristici e missili.
La svolta definita dal Governo e dall’Esercito minaccia Hamas di perdere territorio, ciò che non ha mai fatto prima, e vuole tre risultati fondamentali: ottenere una resa di Hamas stretto in spazi ristretti, diviso dalla sua popolazione-scudo umano, che ha sempre sfruttato col più bieco cinismo per nascondere i suoi uomini e le sue armi. Israele infatti sposterà a sud in zone umanitarie, rifornite di cibo e generi primari, una parte consistente della gente di Gaza, e l’assedio intanto dovrebbe portare Hamas alla restituzione dei rapiti. La convinzione del Governo è che lo spazio per ottenere la restituzioni almeno di alcuni rapiti in cambio di una tregua dopo la quale si torna a combattere (era l’ipotesi Witkoff, l’inviato di Trump), si creerà solo con una forte pressione bellica, proprio come quella che portò all’inizio alla liberazione di decine di ostaggi. Dopo Hamas, non più costretto, ha seguitato a cercare di imporre una lunga, forse definitiva sosta per restare al potere. Israele non può accettare, vuole indietro gli ostaggi e la neutralizzazione di Hamas, quindi prova una nuova carta e cerca anche di risolvere il problema degli aiuti umanitari, cambiandoli completamente.
Lo Stato Ebraico ha fornito fino a marzo 600 camion di cibo al giorno (quantità molto maggiori al fabbisogno, conservate fino ad oggi) e poi ha fermato le derrate che finivano tutte in mano a Hamas o a bande violente. Adesso, mentre avvia la nuova campagna, Israele sta portando a termine con gli americani una strategia affidata a organizzazioni private o internazionali che consegni quantitativi minori, non per essere accumulate ma utilizzate. Non è facile tornare a Gaza mentre soldati ventenni seguitano a cadere. Ma l’indispensabile operazione è molto calibrata, non parte a tutta velocità, il suo sguardo attento è puntato sul viaggio di Trump in Medio Oriente: su Gaza il Presidente americano ha espresso mille opinioni. “Se non restituiscono i rapiti l’inferno si aprirà su Hamas”, poi il piano di ricostruzione, l’idea di gestire in proprio la Striscia, e poi anche “non si sta bene a Gaza, bisogna aiutare”. Dunque, dopo l’incontro coi sauditi, dove sarà per Trump Gaza nel disegno mediorentale? Come vede, in questo quadro, la promessa a Israele che l’Iran non possa mai completare la bomba atomica, mentre vanno avanti le trattative USA-Iran? Alla fine della visita, Israele capirà quanto i piani si intrecciano, e quanto invece deve contare solo su sé stesso. Intanto ieri inaspettatamente Trump ha invitato Erdogan, arcinemico di Israele e capo dei Fratelli Musulmani di cui Hamas fa parte, alla Casa Bianca. Il puzzle non è completo. Anche se Trump seguita a bombardare i Houty e in Iran si sentono molte esplosioni, di fatto Israele si mette in posizione per affrontare ogni evenienza. Hamas è comunque il nemico da battere adesso per la sua guerra di sopravvivenza, vicino e lontano.

Il Giornale, 05 maggio 2025
Quattro missili nel weekend avevano spedito tre milioni di persone (compreso chi scrive e famiglia) nei bunker, 27 missili piovuti in due mesi. Poi finalmente ieri agli Houthi è riuscito il colpo grosso: il residuo dei proxy iraniani, lontano 2mila chilometri, ha colpito il grande aeroporto internazionale, unica via di uscita aerea di Israele, snodo strategico fondamentale. Chi aspettava di imbarcarsi, accalcatosi nei rifugi, ha sentito il botto clamoroso. Il missile ha scavato un cratere inusitato vicino alle piste di atterraggio. Il traffico ha subito ore e ore di ritardo e cancellazioni che chiudono. È stato un miracolo che sia finita con otto feriti, colpiti da schegge volanti; altri in stato di choc sono stati curati. Parecchie compagnie aeree di nuovo hanno annunciato sospensioni più o meno lunghe dei voli. Israele ne vive: è un piccolo Paese occidentale nel mare magno di una grande area islamica, in parte ostile.
Gli occhi puntati su prossimi sviluppi sottendono sempre la stessa domanda mediorientale: sei ancora forte o finalmente indebolito dagli eventi? L’immediata riunione di gabinetto ha dato la risposta aspettata, gli Houthi hanno esagerato, Israele ha intenzione di non lasciare il contenimento del loro fanatismo che lo condanna a morte a fianco dell’Iran nelle mani di Trump: «Israele risponderà in un momento e luogo a nostra scelta, anche ai loro padroni del terrore iraniani» ha detto il Premier Netanyahu. Non è semplice, la richiesta americana di lasciar stare è nota, come quella di non anticipare mosse che possano infastidire una trattativa con l’Iran in stallo ma non conclusa. Israele non può muoversi secondo i suoi immediati interessi: deve tenerli tutti presenti, compreso il fatto che ci sono nel Governo americano anche voci contrarie a considerare un problema fondamentale l’intenzione distruttrice dell’Iran: sia Jd Vance sia Steve Witkoff che, si dice, Donald jr, il figlio di Trump, considerano eccessivo il legame con Israele a fronte dei programmi da Premio Nobel per la Pace del Presidente americano, e con loro si schiera un gruppetto di iperconservatori che non amano gli ebrei, come Tucker Carlson, commentatore tv che ce l’ha fitta con Israele ma frequenta Mar-a-Lago. Lo spostamento di Michael Waltz da Consigliere per la Sicurezza nazionale ad ambasciatore all’Onu rispecchierebbe una vittoria momentanea di questo gruppo, e deriverebbe soprattutto da una conversazione privata di Waltz con Netanyahu sull’Iran, che Bibi ha però negato.
Ma il sentimento pro Israele è prevalente, anche quando la linea del governo di Gerusalemme è quello di evitare qualsiasi cappio che lasci immaginare un nuovo 7 ottobre palestinese e internazionale: l’esercito, di fronte ai rifiuti di Hamas a trattare sugli ostaggi se non a condizioni impossibili come la permanenza al potere per anni, ha deciso per una nuova operazione importante. Le riserve sono da ieri in viaggio verso il posto di combattimento per la quarta volta, con sacrificio personale immenso. Il governo, fra le critiche delle famiglie dei rapiti che vorrebbero un cessate il fuoco totale, sostiene la determinazione a spingere Hamas in un angolo fino a costringerlo a ragionare sui rapiti.
Gli aiuti alimentari sono una parte di questa vicenda: dal 19 gennaio fino a marzo avanzato Gaza ha ricevuto 650 camion di aiuti al giorno, molto più dei 2/300 del fabbisogno. Da qui un surplus di cibo per gli ultimi due mesi che avrebbero evitato ogni pericolo di penuria nella Striscia se il cibo non fosse stato rubato da Hamas e usato per ricattare e sottomettere e per fare del cibo un nuovo elemento di biasimo internazionale affamando la gente. Il fine di Israele è un accordo internazionale che possa garantire che riaprire all’aiuto sia un mezzo per spingere a cedere gli ostaggi e non il contrario. Ma Hamas vuole una cosa sola: uccidere gli israeliani e quindi tenersi Gaza come sfondo geografico e logistico. Israele si accinge ad affrontare questo nuovo capitolo, la variante Trump è decisiva, anche se Israele sa che comunque non ha scelta: deve combattere da sola. E ieri ha di nuovo seppellito due ragazzi di 20 anni caduti a Gaza, il capitano Noam Ravid e il sergente Yaly Seror.

Il Giornale, 03 maggio 2025
C’è qualcosa di patetico nell’antisemitismo contemporaneo, quello che porta folle in piazza per la festa dei lavoratori a travestire Hava Nagila da inno pro palestinese; quello che i militanti della sacrosanta guerra per salvare dallo scempio la natura, a ignorare la devastazione doppia, fisica e morale, che porta su questa terra la distruzione delle foreste di Gerusalemme. E anche in quello che indica come libertà di opinione, di stampa, di ricerca, un programma come quello di Rai3 “Presa diretta”, la cui star è stata, senza contradditorio, un personaggio come Francesca Albanese. Il suo odio per Israele è un’etichetta del fallimento dell’ONU nella sua missione di pace.
Il rapimento della canzone “Hava Nagila” è un paradigma del senso di inferiorità dello schieramento proPal. Violenta una canzone che è storicamente l’inno sionista al ritorno in Israele, il cui testo invita gli ebrei alla gioia dopo tanto soffrire, che è stata usata milioni di volte per festeggiare la vittoria del ritorno a casa nella guerra, nella fame, nell’eroismo, e la fa diventare palestinese: “Free Palestine”, fa urlare su quelle note a una folla che così arruola nelle file dell’ignoranza, delle cifre inventate da Hamas, nel messaggio di odio contro Israele: i palestinesi diventano così gli ebrei, gli oppressi, mentre gli ebrei sono gli oppressori. Il rovesciamento arriva fino alla più paradossale fra le accuse, quella a Israele di essere nazista, ovvero genocida, e fa dei palestinesi, che dal 1948 perseguitano Israele col terrorismo, i perseguitati. La musica va, la folla si eccita, odia Israele e gli ebrei, e l’antisemitismo viene distribuito a pioggia sulle piazze che furono dominate dalle leggi razziali al tempo del fascismo.
E’ diverso da allora, per fortuna, l’esistenza dello Stato del popolo ebraico, lo Stato d’Israele, che insieme alla democrazia e all’esercito ha cresciuto anche le più belle foreste che mai il Medio Oriente abbia visto, le più folte e verdeggianti, un regalo al clima mondiale cui oggi le masse si appassionano, per cui protestano e esclamano: sempre, fuorché quando gli alberi sono quelli dello Stato Ebraico. Sorpresa: potremmo dire che gli “alberi ebrei” non contano per gli ecologisti, proprio come gli ebrei quando subiscono attacchi terroristi e missili sulle loro città ogni giorno. Israele ha cresciuto sul suo suolo dal 1900 250 milioni di alberi: è l’unico Paese al mondo ad aver concluso il ventesimo secolo con più alberi rispetto all’inizio del secolo. Nel 1948 circa il due per cento del territorio era coperto di alberi, oggi questa percentuale è giunta all’8,5. Nelle case di tutti gli ebrei del mondo si vedono le scatole di ferro che raccolgono fondi da consegnare al Fondo Nazionale Ebraico, al Kerem Kaiemet. Piantare un albero è una buona azione che anche le Scritture insegnano. Adesso, in due giorni di fiamme sulla cui origine si affollano sospetti, sono stati spazzati via quasi 2000 ettari di terreno, carbonizzati con i suoi ulivi centenari, i pini, le vigne. Zone storiche come Latrun, lungo la strada fra Tel Aviv e Gerusalemme, in cui gli ulivi hanno visto battaglie decisive quando gli ebrei appena scampati dalla Shoah hanno dovuto difendersi degli eserciti arabi che assaltarono lo Stato Ebraico appena nato, hanno subito il rogo devastante degli alberi. Erano stati curati proprio per battere i rischi della siccità e della desertificazione sempre dietro l’angolo. Nel 2000 uno spaventoso rogo ridusse il Carmelo in cenere e uccise 44 persone, durante la seconda guerra del Libano i missili degli Hezbollah hanno bruciato circa quattromila ettari nella disperazione dei coltivatori diretti. La tradizione di amore per la terra nasce col sionismo stesso. Ma che ne sanno le folle cui si insegna a odiare Israele. Il programma TV cui accennavo, oblitera che Israele combatta una guerra di difesa contro un nemico di crudeltà mai vista, la sua determinazione a fare a pezzi gli ebrei uno a uno, compreso i neonati, ignora i 58 rapiti di cui forse 24 sono ancora vivi in chissà in quali condizioni. Questo si diffonde alla tv: dati sui morti distribuiti dal “ministero della Sanità” di Hamas, ormai confutati da varie ricerche; si affonda nel tempo inventando un avvento colonialista di un popolo tornato senza armi, solo per lavorare e convivere, e che ha trovato sin dal 1948, solo rifiuti che ci si ostina a non vedere.
I palestinesi, non solo Hamas, vogliono distruggere Israele, non è diritto all’informazione quello che ignora la verità, è un gorgoglio antisemita che cancella l’ambizione ad essere parte della storia dei diritti umani: per questa storia, Hava Nagila non dovrebbe essere violentata, l’amore per la natura dovrebbe ricordare l’amore di Israele per gli alberi e correre in aiuto, il diritto alla verità dovrebbe bandire la menzogna senza contraddittorio… siamo lontano da tutto ciò, vicino invece all’odio più antico, quello per gli ebrei.

Il Giornale, 01 maggio 2025
Oggi Israele compie 77 anni, mentre la guerra lo tormenta e da ieri infuria un incendio vicino a Gerusalemme. È un rogo apocalittico, tutta la maggiore arteria che conduce da Tel Aviv a Gerusalemme è bloccata, i soccorritori nell’inferno del fumo e delle fiamme corrono da un’auto all’altra cercando se ci sono donne e bambini rinchiusi dietro gli sportelli bruciati. Israele combatte a mani nude senza aerei in volo, dai paesi amici, compresa l’Italia, arrivano i canadair pieni d’acqua dal cielo. Hamas (si capisce!) ha subito rivendicato la meravigliosa operazione di disturbo della festa dell’indipendenza nazionale. Forse non è vero che è riuscita in una tale impresa di orrore e morte come sua abitudine, ma tuttavia comunque sia avvenuto e chiunque sia responsabile, dai gitanti irresponsabili fino agli arabi criminali, tutte le grandi manifestazioni destinate a festeggiare dopo questi due terribili anni il riaffacciarsi alla vita sono state cancellate per estremo senso civico verso la popolazione che avrebbe dovuto gioire qualche ora dopo tanto dolore e tanta guerra.
Nel tornado che alza le fiamme, per la festa della vittoria sul destino di vittima predestinata, sulla fatica enorme nella ricostruzione della casa ancestrale in cui 30mila fra ebrei, arabi, circassi, drusi, beduini hanno dato la vita, Israele combatte adesso un’ennesima battaglia contro il fuoco e per ritrovare l’ottimismo. I martiri di cui si è revocata la memoria ieri erano soldati in servizio e civili aggrediti dai terroristi. Quasi bambini oggi combattono e muoiono come leoni per il Paese. Hanno lasciato alla fidanzata, alla mamma, al Paese, messaggi affettuosi, pieni di pace. Ogni biografia è un mondo di aspirazioni, una risposta all’assalto terrorista che crea un popolo orbato. Eppure i dati di questi giorni ci rivelano una verità speciale: il 91% degli israeliani, oggi in guerra di sopravvivenza e per gli ostaggi, si dichiara felice. Superando la rete di pregiudizi e di bugie sullo Stato ebraico (di cui un esempio è stato il preteso programma tv <CF201>Presa diretta</CF>, che ha destato una giusta protesta e poi una difesa populista che nega la chiara criminalizzazione nella presente ondata di antisemitismo) non sarà dunque arrivato il tempo di ascoltare Israele, nel giorno del suo compleanno? A Gaza, mi ha detto un soldato sul campo, se vuoi trovare le armi, vai diritto alla camera dei bambini, negli ospedali, nelle scuole dell’Unrwa, dove Hamas stipa i civili a scudo dei lanciamissili e dei suoi armati, là è la risposta al numero alto dei morti. Che, ormai è appurato, sono fasulli: l’unica fonte è Hamas.
Israele con avvisi, spostamenti, cibo e medicine, ha cercato di minimizzare ciò che Hamas ha pianificato, la morte dei suoi. Ma «noi amiamo la morte più di quanto voi la vita» è la sua politica, come la violazione di tutti i diritti: perseguita donne e gay, tortura i dissidenti. Come si può ignorarlo? Israele è il contrario. Per questo la gente è felice: il suo significato è a 77 anni, vita e democrazia. La proposta di condivisione è vecchia come i suoi anni. Criminalizzarlo non è informazione. Nadav Cohen 21 anni, volontario della Croce Rossa Israeliana ha scritto a Zeitoun dentro Gaza prima di morire sul campo: «Penso agli altri ragazzi, all’università, alle feste, mentre postano video Tik Tok, io sto a Gaza con un elmetto in testa e difendo il mio Paese. Non sapranno mai cos’è vedersi morire accanto un amico. Li invidio? Sì. Vorrei scambiare? Mai. Non gli succederà di riabbracciare la madre e sentirsi il ragazzo più fortunato del mondo, non sapranno cosa sono i compagni-fratelli, il cibo di casa, il tuo letto, la ragazza che ami, un momento di quiete». Nadav è l’esempio di cui tutti i giovani hanno bisogno, è il significato di Israele a 77 anni. Menzogna è il suo opposto. Israele ce la farà anche contro il fuoco. Ma quanta fatica se le bugie accompagnano ogni giorno il suo cammino.

Il Giornale, 24 aprile 2025
Quando nel 1958 morì Pio XII, Papa Pacelli, il cui silenzio sulla Shoah era stato discusso in lungo e in largo, già lo Stato d’Israele, l’Anti Defamation League e il World Jewish Congress oltre a molti altre istituzioni ebraiche, approdavano a posizioni dubbiose, meno dure, meno convinte della responsabilità della Chiesa nella tragedia di cui, per altro, oggi in Israele si celebra la memoria in ogni angolo dello Stato degli Ebrei, con Israele, gli ultimi sopravvissuti, 200mila in tutto il mondo, 120mila in Israele. La condanna del Papa si fece meno dura, ma restarono con la memoria il dubbio e la discussione. Così, su quello che un famoso titolo definì “Il Papa di Hitler” si sono elaborate formule graduate di responsabilità. Però la responsabilità si connette, poco da fare, alla responsabilità storica della Chiesa nelle molteplici persecuzioni antisemite culminate nella Shoah. Tutte hanno intessuto miti di criminalizzazione del popolo ebraico, secondo la teoria antisemita della sostituzione. Gli ebrei per i crociati, per la Spagna cattolica, per i Papi che rotolavano nella pece e nelle piume gli ebrei del ghetto, e anche i roghi, i pogrom dell’est Europa... la matrice cristiana è sempre stata chiarissima e patente. Per questo Papi grandi e convinti che l’amore per la libertà a fronte dell’autoritarismo fascista, comunista, islamista venga dalla forza della tradizione ebraico cristiana fecondata dalla storia dell’occidente greco, hanno avuto molta cura del rapporto con gli ebrei, quelli dispaorici, quelli dello Stato d’Israele.
Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, hanno pensato e agito per questo. Papa Bergoglio, con la sua provenienza latinoamericana, la sua passione per il tema dell’immigrazione mista a quella degli oppressi ha privilegiato il rapporto molto contemporaneo e politico, immediato, col movimento di massa che ha preferito i palestinesi allo Stato Ebraico nella schematizzazione corrente. Ha visto i palestinesi come oppressi, Israele come oppressore. Ma era un errore fatale anche se si capisce il perché: è da tanto tempo che questo avviene, dal 1945. L’ideologia che poi si è riversata nell’ONU, nelle ONG, nel movimento woke oggi, su suggerimento comunista all’inizio, e poi sessantottino ha creato una potente mitologia demonizzatrice. Ci sono grandi masse che scambiano i diritti umani con l’idea che l’Occidente sia colpevole, che vada vituperato e affossato, in nome di principi superiori. In nome dei poveri. Ma i poveri non sono là: i violenti lo sono. La Chiesa sa che il mondo ebraico, compreso quello israeliano, è oggetto di un attacco violento. E la sua responsabilità storica verso questa minoranza perseguitata è una stella polare anche teologica. Gli ebrei sono comunque “fratelli maggiori”, e non hanno “tendenze dominatrici” come ha detto una volta Francesco, né sono sospettabili di “genocidi”.
Francesco, suggerendolo ha pensato di servire gli oppressi, ma l’oppresso è Israele, su sette fronti diversi, dal 1948. E’ bene che il presidente Herzog abbia mandato le sue condoglianze, Israele è una nazione fra le altre, non importa se Hamas ha espresso il suo intenso dolore per la morte di Francesco, Israele sa che la Chiesa non appartiene a quello schieramento, né mai gli apparterrà. Sta con la libertà e la democrazia, come Israele e il mondo ebraico. I cattolici sono fratelli degli ebrei, il Vaticano fratello dello Stato ebraico in quanto occidentale. E’ giusto anche che il rabbino capo di Roma camminando le vie della città secondo le regole del Sabato, ritenga doveroso seguire il funerale. E’ gentile, è fair, è diplomaticamente consigliabile e sensato. La comunità ebraica che vive a Roma, è profondamente romana. In nessuna parte del mondo, un ebreo avvolgerà Gesù bambino nella mangiatoia in una bandiera con la Stella di David anche se Gesù era ebreo: nessuna appropriazione è legittima. Dovrebbe altrettanto dispiacere la menzogna evidente di un bambin Gesù avvolto nella kefiah, niente può essere, ieri ed oggi, più falso.
La fratellanza giudaico cristiana si basa sul valore della libertà. La prima libertà è quella di difendere la vita:bastava guardare le immagini terribili del 7 di ottobre, l’attacco degli zombie che urlavano “Allah hu Akbar”, mentre uccidevano gli ebrei per capire dove stava il bene e dove il male. Il funerale è un saluto, non costa molto dedicarne uno a quel Papa, ormai malato e stanco, sperando nella ripresa, presto, di un dialogo indispensabile. Sul bene, e sul male. Il rapporto fra Ebrei e Cristiani prescinde da qualsiasi Papa.