"Il suicidio della ragione" tra Foa e la piazza

Il Giornale, 22 giugno 2025
Il suicidio è in corso. In libreria, in piazza, nei salotti buoni. Non “il suicidio di Israele”, come vuole il titolo del libro di Anna Foa premiato nella prima edizione del Premio Strega per la saggistica. Ma il suicidio invece, della conoscenza dei fatti, del buon senso che ne deve conseguire, della dignità da parte di un’istituzione della cultura italiana ammantata del titolo di un premio storico; e, d’altra parte, di quella piazza progressista che ieri, in coincidenza casuale col Premio, sostenendo di marciare per la pace, non ha potuto fare a meno di buttar là oscenità negli slogan: “Siamo tutti antisionisti”, “Free Palestine”, ”Israele sionista Stato terrorista”,e naturalmente nella parola magica, “genocidio” e di bruciare le bandiere israeliane con quelle europee e della Nato. L’intenzione sottesa nel libro, nella piazza, nei mille dibattiti televisivi di questi giorni persino mentre Israele combatte l’odioso regime iraniano per tutti, e di cancellare Israele, lo Stato sionista, Netanyahu, l’identità stessa del popolo ebraico. In un’intervista a Radio Vaticana la Foa, fra le mille sostiene che certo Netanyahu non può, non sa, vincere le guerre e tantomento può battere l’Iran, e butta là che con il regime iraniano Netanyahu invece abbia molti punti in comune.
Cioè, nella sua mente la Foa immagina Israele imporre il velo, impiccare gli omosessuali, seviziare e condannare a morte i dissidenti. La sua fantasia segue i luoghi comuni correnti senza freni, se c’è qualche mediorientalista fra chi consegna il premio, poteva accorgersene. Per lei il 7 ottobre ha potuto aver luogo perché Netanyahu aveva spostato l’esercito a difesa degli insediamenti togliendolo ai kibbutz lungo il bordo di Gaza: il fatto che Netanyahu abbia nel suo governo una componente di destra viene vista come una maledizione cosmica che allora si dovrebbe allargare a tre quarti del mondo (nel governo di Bibi ci sono due ministri, Ben Gvir e Smotrich, a destra del Likud, partito laico e liberale che domina di gran lunga il governo, il presidente della Camera è un gay sposato con due bambini, le scuole laiche proliferano, Tel Aviv ha un livello di modernità internazionale sconosciuta a gran parte dell’Europa).
La democrazia è esplosiva, i cortei nelle strade non sono mai e poi mai stati impediti, nel 2018 il difficile compito di disegnare una costituzione che certo definisce Israele come lo Stato del Popolo Ebraico è stato intrapreso: proprio come l’Italia è lo Stato dell’orgoglioso popolo italiano. Le minoranze hanno diritti paritari rigidamente osservati. Ma la Foa ostenta nel libro un atteggiamento disgustato, devastato dal dolore nel non vedere la sinistra al potere, convinta che le soluzioni stiano con Barghuthi, cinque ergastoli, come desiderabile partner; stiano con i tragici accordi di Oslo da cui nacque la Seconda Intifada: considera razziste le misure di sicurezza che dopo il largheggiare nei progetti di pace hanno poi dovuto fare posto a misure che salvassero la vita alla popolazione come i check point. Le capacità mentali si perdono in una bibita fatta di menzogne, in piazza, alla tv, sui libri, e la Foa ne fa uso larghissimo: la legittimità del sionismo, quando viene fatta dipendere dall’autorizzazione araba, non può esserci.
L’autorizzazione proviene invece dalle decisioni internazionali e soprattutto dall’innegabile origine e perseveranza degli ebrei in Israele: dalla dichiarazione Balfour alla conferenza di Sanremo fino all’Onu, e anche la indispensabile costruzione di una casa dopo la Shoah, il ritorno del popolo ebraico a casa, non è una condizione che mai avrebbe potuto realizzarsi del compiacimento islamico, ma un diritto. E’ pateticamente evidente come sia legato all’ideologia della Foa che è impossibile consegnare Israele a un governo di destra. Un governo di destra lo si può solo dichiarare fascista, razzista, di apartheid, anche se non è vero. Non c’è una sola prova nelle scuole, nell’università, nella Knesset, nelle fabbriche, negli uffici, che viga qualsiasi discriminazione politica o idelogica, e tantomeno razziale. E come la fantasia sul genocidio e sull’ethnic cleansing: un pregiudizio ideologico legato al rovesciamento del sionismo in nazismo. La crudeltà del terrorismo che ha fatto migliaia di vittime è negata, allontanata, l’autodifesa non è un diritto. Il mio maestro è stato Bernard Lewis, mi vergognerei di fargli leggere quel libro. Mi vergogno di quella piazza. Anche il giudizio per esempio sugli insediamenti, ripetuto come un mantra, dimentica del tutto di disegnarne l’origine (un pezzo di terra dominata dalla Giordania che aggredì Israele) e i mille tentativi di condividerli salvaguardando il minimo per la propria sicurezza. La vicenda di Gaza liberata, la racconta tutta a chi vuole ascoltare. Adesso l’Iran è davanti ai nostri occhi: ne conosciamo la crudeltà e i disegni sterminatori. Chi sceglie ancora di prendersela con Israele, o è cieco o è in malafede.
Obiettivo Khamenei. L' avviso di Bibi e il salto di qualità che sfida il regime

Il tempo delle scelte definitive: quei piani pronti da dicembre poi Bibi da Trump a febbraio. Venerdì la svolta con l’attacco
La guerra per la libertà di Israele. L’"ora migliore" di Netanyahu

L’obiettivo Iran era nel titolo di testa della sua elezione al 37esimo governo di Israele, giovedì 29 dicembre 2022; era nei suoi pensieri da sempre, nel Dna stesso dell’educazione ricevuta dal padre, lo storico Ben Tzion Netanyahu, intrecciata col concetto di libertà dalla minaccia esistenziale sempre in agguato per il popolo ebraico. “Netanyahu torna, mette l’Iran al primo posto” diceva il titolo del Jerusalem Post. E adesso, è il momento del dovere, la “finest hour” la chiamava Churchill. La verità che essa contiene, qualcuno la capisce e altri la rifiutano, c’è chi vede come un travestimento politico la sua dottrina politica, la sua determinazione personale. Ma in questi giorni Israele la capisce bene, invece, perché non è più solo di Netanyahu: è di tutti, o quasi. Cioè, si combatte per completare la fondazione stessa dello Stato libero di Israele, si combatte la minaccia permanente scegliendo da soli quando farlo, e il nemico principale è evidente: la battaglia l’ha dichiarata dal 1979 il regime iraniano contro lo Stato Ebraico e contro l’intero Occidente.
Per quattro volte Netanyahu, quindi più di ogni altro leader mondiale, ha parlato al Congresso americano, l’ultima volta il 24 luglio del 2024, dopo il 7 di ottobre. Non ha portato lamentele e richieste, ma promesse di rivincita. Con lui c’erano soldati mutilati in guerra che volevano tornare al fronte e parenti dei rapiti. Bibi ha ripetuto la denuncia per la quale era diventato impossibile il suo rapporto con Obama che voleva un accordo con gli ayatollah, e difficile quello con Biden, che cercava di recuperare l’accordo sacrificando il destino di Israele. Bibi, nelle carte sottratte all’Iran, ha trovato le prove che gli ayatollah mentivano al mondo sulle loro reali intenzioni: la bomba atomica destinata alla distruzione di Israele era per strada e con essa una gigantesca batteria di missili balistici. Senza mai rompere con gli alleati americani, alla fine è andato.
Dal 7 di ottobre si è preparato: qualche giorno di shock totale, di timore e tremore, il viso bianco e gonfio, la richiesta di andarsene e la contestazione abituale della sua persona moltiplicata per mille, niente sonno, due volte all’ospedale, e poi Netanyahu ha fatto quello che doveva fare. Ha saputo che eravamo a un passo dalla bomba iraniana, e ha giurato che Israele non aveva perduto la deterrenza Entebbe. Suo fratello Yoni era morto a proprio lì, e lui, da Gaza in avanti, in suo nome avrebbe combattuto, come disse a Blinken “con le unghie, se smetterete di darci le munizioni”, quando il segretario di Stato americano gli disse: basta, smettete, fuori da Rafah, fuori da Gaza, o non vi diamo più niente. Netanyahu adesso è davvero sé stesso: la sua battaglia col male è frontale, in questi giorni l’immagine in tv, sul campo coi soldati, alle conferenze stampa, fra le rovine delle case colpite dagli iraniani, testimonia umore quieto ed energia. Le accuse invidiose che sono state mosse contro di lui in questi anni sono tutte tecnicamente legittime, e insieme del tutto prive di ogni consistenza fattuale: l’alleanza nel governo conservatore che ne consente la sopravvivenza non ha mai dato segni di “messianismo” né di annessionismo… se Ben Gvir chiacchera, Bibi non lo fa mai e aspetta che taccia senza dargli niente; il suo processo sta andando in pezzi, champagne e sigari si sfaldano o scorrono inconsistenti; le accuse di genocidio e di pulizia etnica, e quindi di massima crudeltà, sono un costruzione miliardaria che già si sfalda sulla verità di una guerra condotta, invece, al minimo del danno per i civili, sudditi di Hamas, dei mostri che li hanno sacrificati legandoli alle loro basi terroristiche e ai lanciamissili, senza mai decidere di dare indietro i rapiti, cosa che avrebbe subito fermato la guerra.
Netanyahu ha preso la strada maestra sin dall’inizio: ha individuato l’anello di acciaio creato dall’Iran puntando su Hamas e Hezbollah, e ha puntato tutto sulla funambolica determinazione a vivere di Israele, con l’attacco dei beeper del 17 settembre 2024 e poi quello ancora più incredibile dell’eliminazione di Nasrallah il 27 settembre dello scorso anno. Intanto, fra mille divieti, i soldati israeliani, pagando con la vita, con valore inenarrabile e contro ogni previsione, bloccavano Hamas e distruggevano gli Hezbollah. Poi, Netanyahu ha scelto la strada di rifiutare l’appeasement che avrebbe riportato Gaza in mano ai macellai del 7 ottobre, anche in avvertimento ai siriani appena liberati da Assad. Anche il fronte degli Houti è stato affrontato. Non c’è nessuna hybris in tutto questo: c’è una quieta, decisa determinazione a completare la fondazione dello Stato d’Israele come stato sovrano del popolo ebraico. Bibi ha spiegato più volte come quando i Paesi arabi, specie coi patti di Abramo da lui perseguiti in un disegno di pace che solo gli stolti negano, hanno cessato di assemblare eserciti per cacciare gli ebrei dalla loro terra, l’Iran ne ha sostituito il disegno assassino puntando sul valore egemonico islamista di quella posizione.
Aveva ragione fino a che Netanyahu e il popolo di Israele non hanno deciso di dargli battaglia fino in fondo. Adesso non solo due terzi degli israeliani considerano eccellente la conduzione della guerra da parte di Bibi, ma si comincia anche a capire molto meglio, molto più a fondo, come la tela nera iraniana fosse stata tessuta da insopportabili decenni della macelleria degli attacchi di Hamas, di migliaia di morti fatti dagli Hezbollah in tutto il mondo, dal terrorismo eccitato che ne è sempre risultato. Il messaggio è semplice: la costruzione di Israele deve essere completata, e quel completamento si chiama: “Israele vuole vivere senza la minaccia continua dei macellai che ne programmano la sparizione”. Difficile? Sembra di sì. Ci voleva un leader come Netanyahu per affrontare, da solo, il tema vero, dopo tanti infingimenti che hanno disegnato accordi fasulli, piani irrealizzabili.
Gli stand israeliani oscurati. Riflesso antisemita di Parigi

Il Giornale, 17 giugno 2025
Le Bourget, mostra internazionale di armi: e quando mai Parigi può perdere un’occasione per segnalare quanto Israele gli sta sull’anima, quanto cerca tutte le occasioni internazionali che fanno dello Stato Ebraico oggi un criminale ricercato per crimini di guerra e magari per genocidio. E così, poiché la fantasia va dove la conduce il subconscio, nonostante il permesso delle autorità, alla mostra si è preparato un catafalco nero per circondare lo stand israeliano, e sono rimaste come sospese nell’aria le scritte delle grandi imprese israeliane, senza gambe, senza braccia, pudicamente occultati in quanto appartenenti allo Stato ebraico. È un ghetto, una muraglia dedicata agli ebrei fra centinaia di espositori (tutti santi certo! venditori e acquirenti di armi): si vedono solo le scritte, Elbit, Rafael, Curtiss, IAI, segnalano dall’alto la loro scandalosa esistenza. Sui teli neri qualcuno ha scritto in fretta a mano, prima di una rapida cancellazione, un pensiero di buon senso: “Dietro questo muro uno dei migliori sistemi di difesa, usato da molti Paesi; (poiché) questo sistema protegge lo Stato d’Israele, il governo francese con scelta discriminatoria cerca di occultarlo”.
È vero: da due anni i missili che si levano a inseguire e eliminano in aria quelli lanciati del terrorismo internazionale, Hamas, Hezbollah, ora a centinaia al giorno quelli terribili dell’Iran, sono la meraviglia della difesa mondiale. Milioni devono a “Iron Dome” la vita. Israele sarebbe un campo di morte se non avesse investito tanta intelligenza e tanto denaro nella sua difesa, che include “Muro d’acciaio”, “Fionda di David” e altre armi di risposta all’attacco continuo. E ne è stato così ricompensato che anche nel momento più difficile tutto il mondo, anche i Paesi Arabi (Marocco, UAE, Bahrain) li comprano a picce. La Francia però non sembra tanto contenta, e con lei altri amici suoi, del fatto che il budget della vendita ammonti a 148 miliardi di dollari, 13 per cento in più rispetto al 2023, il doppio negli ultimi cinque anni. Israele ne ha inventata un’altra che serve a tutto il mondo: sa proteggere se stessa, vende solo al mondo delle democrazie e dei volenterosi, la sua esclusione mentre combatte contro il potere che ha riempito il mondo delle dittature di armi per aggredire l’Occidente è più che ridicolo. È colpevole.
Ieri notte, uscendo fuori nei dieci minuti prima della sirena definitiva (abbiamo tre fasi di avvertimento qui) guardavamo nel cielo nero i volteggianti proiettili che letteralmente inseguivano i missili iraniani. Il più grande, raggiunto, ha esploso nell’area una impressionante aura bianca di morte. Tonnellate di esplosivo. Meglio certo vedere questa scena in diretta della mostra di Le Bourget. Ma peccato che quando si parla di Israele tanta parte di mondo sia destinato, come in questo caso, a sbattere in un muro nero di pregiudizio. A non vedere.
L’appello ai giovani: è l’ora della rivolta. Una spallata al regime

Dai bunker ai cieli di Teheran. L’antica lotta per sopravvivere

Il Giornale, 15 giugno 2025
I bambini sono i più bravi: quando sei ancora semisvestito e scendi nel rifugio alle tre di notte, fanno due a due gli scalini polverosi e ripidi, scendono in una stanza buia dove al massimo c’è un materasso per terra, stanno tranquilli con gli occhi spalancati, non piagnucolano ne chiedono; se gli offri dell’acqua o un biscotto ti degnano di un cenno della testa, in genere negativo. Aspettano il bum: ecco, arriva, ne arrivano tre o quattro, i bambini chiedono senza mostrare ansia dove sono, se abbiamo colpito il missile, se è arrivato fin sul nostro terreno. La radio non dice tutto, per non indirizzare il nemico. Se dopo si comincia a fare qualche preparativo per uscire, i bambini ti ricordano di aspettare i dieci minuti secondo la regola e di guardare sul telefonino se il “pikud ha oref”, il fronte interno, ha confermato l’ordine.
Alla tv schiere di giornalisti in genere impegnati nella politica interna uno contro l’altro, quasi tutti contro il Primo Ministro, adesso sono per un numero di ore impensabile impegnati a raccontare appassionatamente l’incredibile avventura di un piccolo Paese che ha dovuto affrontare la pletora dei dittatori più aggressivi del mondo per sopravvivere. Senza nessuna retorica, sono fieri dei piloti; sul teleschermo intanto appaiono anche i mozziconi degli edifici di Ramat Gan, e si ricordano i nomi di tre morti e venti feriti. A canale 12 il giornalista super di opposizione seduto accanto a un generale in divisa, spiega come in poche ore è stata ripulita la strada dai missili più fatali e pericolosi con un’acrobazia aerea da leggenda di duemila chilometri; ricorda la distruzione dell’impianto atomico da parte di Begin in Iraq e da parte di Olmert in Siria. Il coro di proteste internazionali che si levò contro queste operazioni indispensabili era guidato dagli USA, la parola d’ordine era la stessa: sopravviviamo.
La gente di Israele sa una cosa che il mondo ormai ignora nei suoi più imi precordi: che sopravvivere viene per primo, e che bisogna farlo con maestria, mirando giusto. Si deve ricordare che cosa è l’Iran e che cosa ha deciso, e qui ogni massaia lo sa benissimo: il 7 di ottobre fu preparato con la sua intensa collaborazione strategica, e poi i suoi Hezbollah erano pronti a completare l’invasione dei macellai, e di fianco la Siria e l’Iraq stringevano, pronti a completare l’operazione storica della distruzione di Israele. E di lato, sempre la stessa mano, il vecchio ayatollah iraniano circondato dalle Guardie della rivoluzione accanite e fanatiche nella distribuzione accurata di compiti nella distruzione di Israele, nel genocidio pianificato del popolo ebraico. Soldi a palate, fabbriche di armi letali, geniali costruzioni cibernetiche, scienziati, arricchimento palese e nascosto di uranio, assassini allenati dal Sud America a Gaza solo nell’uccisione di ebrei. Alleanza con la Russia di Putin, strusciamento con la Cina. Adesso per Israele, alla vigilia della bomba atomica, ci voleva un miracolo di bravura, ma bisognava chiudere: così non si poteva andare avanti. Una volta Golda Meyer spiegò a Kissinger che l’arma segreta degli ebrei è che non hanno nessun altro posto dove andare. Di più: non hanno nessun altro posto che sia il loro. Ieri una signora anziana la cui casa è stata distrutta commentava “Mia nipote di tre anni e mezzo mi ha chiesto il perché fuori della porta del botto spaventoso, e io le ho detto che forse da qualche parte era caduto qualcosa. Siamo rimasti a dormire nel rifugio fino alla mattina, tranquilli, chiusi, e ora ecco, la casa è distrutta, e noi si vive”. La capacità di resistenza nell’affrontare anche questa guerra così funambolica e distruttiva contro gli ayatollah dopo due anni di Gaza, in cui i ragazzi e anche i padri di famiglia entrano e escono su un terreno in cui si rischia la morte, in cui Israele ha perso mille soldati, il lavoro, i figli, l’economia; la forza delle donne di reggere da sole famiglie con tanti bambini… è la componente che i nemici di Israele non sono capaci di prendere in considerazione. E’ il fantastico allenamento del popolo ebraico alla sopravvivenza persino nelle condizioni più estreme, la sua capacità di lavorare la terra mentre legge la Torah e fa la guerra anche dopo la Shoah.
C’è addirittura qualche povero illuso che disegna nei suoi interventi l’idea di una politica suicida di Israele, di Netanyahu. Niente è più sbagliato: così ha errato l’Iran con Sinwar quando ha interpretato il conflitto politico interno israeliano come un segnale di via al 7 ottobre; mai avrebbe immaginato, Khamenei, che i cercapersone avrebbero suonato la fine del suo maggior proxy, Nasrallah. Immaginava invece che la mostruosa determinazione di Hamas a sacrificare tutta la sua gente costruendo sulla cialtroneria antisemita la leggenda “genocida” avrebbe creato un inghippo internazionale molto difficile per Israele: era vero. Pensava che i rapiti fossero una trappola sanguinante, geniale, Era vero anche questo. Ma se pensava con questo che il popolo ebraico avrebbe scelto di morire nelle sue tenaglie senza affrontare la radice del male, ha commesso lo sbaglio della sua vita. Ogni bambino prima dell’età scolastica sa già dire “am Israel hai”, il popolo d’Israele vive. E’ nella linfa genetica di un popolo che per sopravvivere ha dovuto imparare la strada dei miracoli. Non è la più facile, ma è quella che è stata già inaugurata e sperimentata nei secoli così tante volte, e che lo Stato d’Israele ha reso pane quotidiano superando senza tregua l’assedio di un odio ideologico e religioso senza remissione. Adesso, se si vede come Giordania, Siria, Arabia Saudita, Egitto, fermano nel cielo i missili iraniani, sembra aver trovato un suo punto di rottura strategico che disegna una svolta.
Rivincita di Israele dopo il 7 ottobre ecco il 13 giugno. È guerra di libertà

In quella terra nel 2006 il presidente Ahmadinejad, che univa all’oppressione bestiale del suo popolo il progetto mistico sciita di distruggere il popolo ebraico e dominare il mondo, come annunciò ispirato anche all’ONU, organizzò la mostra internazionale dei fumetti comici sulla Shoah e poi con conferenza internazionale per certificarne l’inesistenza. Era la benedizione culturale dei miliardi, alla faccia del popolo iraniano affamato, andati nella costruzione dell’arma definitiva per distruggere gli ebrei; intanto si costruiva l’anello di acciaio per stringere Israele sui confini e nelle sue strade col terrore. Le folle schiavizzate dal regime hanno gridato ogni giorno “morte a Israele”, Hamas ha ricevuto i piani e le armi per il 7 ottobre, Hezbollah i missili e la vita stessa, nel mondo si è esportato da Teheran l’odio gli ebrei nelle strade, nelle università.
Se ancora qualcuno in un mondo inquinato dalla menzogna contro Israele è capace di capire la verità, dopo l’attacco su Teheran e su Natanz si apre una fase nuova, un respiro di buon senso, il male ha trovato chi gli dà battaglia. Gli amici iraniani che, come molti da loro, hanno un buon rapporto con gli ebrei ringraziano e sperano che si tratti finalmente della fine del più crudeli e liberticida fra i regimi odiatori di donne e dissidenti, e assassini di omosessuali. Fino al 1979 non c’era stata questione sul rapporto di quel Paese multietnico e il popolo ebraico: fu Khomeini già da Parigi, fondando la teocrazia decise di trovare un alleato nella parte comunista antisemita e antiamericana definendo Israele “uno Stato coloniale imperialista”; sia Ali Khamenei che Akbar Rafsanjani hanno ripetuto la decisione di distruggere Israele come partner della “arroganza globale dell’America”. Netanyahu ha spiegato che da Novembre è stato evidente che a lato dei colloqui con Trump, su una linea parallela che ignorava ogni trattativa, come con Obama, il regime arricchiva l’uranio nel sogno di dominare non solo Israele ma il mondo con un’arma nucleare in mani fanatiche portando finalmente il Mahdi a dominare il mondo.
Anche in Toscana la resa all'idiozia

Greta e la kefiah antisemita

Il Giornale, 09 giugno 2025