Un carosello di equivoci internazionali, e Israele farà ciò che vuole
Il Giornale, 25 ottobre 2023
Il Capo di Stato Maggiore Herzi Halevi, mentre si discute sempre più intensamente del destino degli ostaggi e degli aiuti umanitari, ha dato la sua risposta alla domanda che tutto il mondo si fa: l’esercito di Israele sta per entrare “stivali sul terreno” a Gaza? È pronto a combattere strada a strada, vicolo a vicolo, porta a porta, alla ricerca dei capi di Hamas, fino alla distruzione dell’organizzazione terrorista? Quali sono le intenzioni dell’esercito a fronte della pressione internazionale, al suo caleidoscopio di opinioni di cautela, di pacifismo, a volte di distacco rispetto alla tragedia del 7 ottobre? Su uno sfondo di ragazzi in divisa sul confine, “Siamo pronti”, ha detto Herzi Halevi con la sua faccia grave e composta. Un annuncio significativo: vuol dire che l’esercito in 17 giorni ha portato a termine una quantità di preparativi logicistici e tecnici; il terreno su cui si dovrà marciare è stato esaminato; la speranza di minimizzare le perdite è forte; si ritiene soddisfacente al momento il numero di comandanti di Hamas colpiti con gli aerei; quanto ai rapiti, si pensa di poter agire per la loro liberazione. Una dozzina sono state le eliminazioni, molti edifici, nidi di missili, depositi di armi nascoste sono state colpiti. Si potrebbe continuare dall’aria, ma Halevi senza discutere questa possibilità ha detto “ora possiamo entrare”.
Ieri pomeriggio persino Tel Aviv è stata di nuovo pesantemente bombardata, e a Sikim, al sud, è stato fermato un gruppo di terroristi. Halevi aspetta. L’ordine però è sospeso, si sa solo che il triunvirato Netanyahu-Gallant-Halevi ripete di essere sulla stessa linea, ma mentre c’è la concordia sulla decisione di distruggere Hamas occorre anche la solidarietà internazionale. Ieri però il ministro degli esteri Eli Cohen, ha dovuto ascoltare una stupefacente relazione del segretario generale dell’ONU, Antonio Gutierrez, che dopo una frettolosa dichiarazione di solidarietà incurante dell’entità e della qualità delle barbarie di Hamas, ha perfino giustificato le mostruosità del 7 di ottobre dicendo che “non è accaduta nel vuoto”, con una sua versione della storia in cui anche Gaza soffrirebbe di un’occupazione, finita invece nel 2006. Il ministro Eli Cohen ha cancellato un incontro con Gutierrez e Benny Gantz ha definito “buio” il tempo in cui si sostiene così il terrorismo. Il segretario di Stato Blinken è intervenuto però per sostenere la guerra di Israele, anche se Biden insiste per l’ingresso di medicinali, cibo, acqua, e aiuti in denaro. La confusione fra intervento umanitario e cessate il fuoco è dell’ONU e dell’Unione Europea. Gli Usa, semmai, come ha raccontato il New York Times frenano l’attacco di terra, il Segretario alla Difesa Lloyd Austin, suggerisce di stare cauti, pena una nuova Falluja: deve esservi chiaro, ha argomentato, l’esito finale, dice il NYT.
Tuttavia gli americani ripetono che spetta a Israele ogni scelta. Tortuosa e ambigua è invece la proposta europea di una “tregua umanitaria” che somiglia a un cessate il fuoco: è quella di Joseph Borrell, che a Lussemburgo ha detto che occorre una pausa perché “ora la cosa più importante è che l’aiuto umanitario entri a Gaza”. Francia, Spagna, Olanda, Irlanda, Slovenia l’hanno sostenuto, mentre la ministra degli esteri tedesca Annalena Baerbock ha risposto che occorre aiutare, ma “il terrorismo va fermato”. Borrell vuole ora un documento al summit UE questa settimana, ma la consapevolezza degli orrori sta crescendo: le visite da Sunnak, a Macron, a Sholtz, a Mitzotakis, a Giorgia Meloni... tutti portano solidarietà, fanno obiezioni umanitarie, danno consigli. Alla fine, le decisioni di Israele saranno solo sue, come ha detto oggi Halevi.
Oltre l'orrore la shoah di Hamas
Il Giornale, 24 ottobre 2023
Ieri, la cronista che credeva di aver capito la storia del terrorismo e dell’antisemitismo ha dovuto girare pagina: niente è come era, il male ha una sua nuova incarnazione, che si è rivelata sabato 7 ottobre. Siamo fino al collo dentro una guerra nuova, inusitata, e se non ci difendiamo ne saremo travolti come da uno tsunami. Sull’onda infuocata dell’antisemitismo Hitler distrusse quasi tutto il mondo. Ma durante la Shoah i nazisti nascondevano lo sterminio degli ebrei, ci sono voluti anni per individuarne la dimensione e la crudeltà. I pervertiti terroristi di Hamas si sono messi sulla fronte le telecamere, hanno filmato il loro genocidio gestito con fantasia ad personam, yehud yehud, bambino per bambino, ragazza per ragazza, per poi postarlo su Tik Tok, Instagram, Facebook. Hanno documentato come davano fuoco ai bambini davanti agli occhi della madre e viceversa, come violentavano le ragazze e poi le ammazzavano, come stupravano le bambine e le vecchie in pigiama e sventravano le donne incinte, come hanno tagliato la testa a centinaia di persone e non contenti poi hanno usato le armi più taglienti per farle a pezzi e strappargli gli occhi.
Ieri, la nostra visita di vari gironi dell’inferno ha avuto la sua voragine più profonda prima di scendere al sud, nella base militare di Shura, una struttura rudimentale, all’aria aperta, in cui quello che si scorge arrivando sono file di container bianchi numerati, e alcune tende semichiuse in cui si lavora in silenzio. Entrano ed escono militari indaffarati e uno di loro, sotto il container ALLU 17024, denominato anche mecolà 10, ci spiega: “In tutti questi frigoriferi sono accumulati centinaia e centinaia di corpi ancora non identificati a causa dei roghi, delle torture, delle mutilazioni cui sono state sottoposte. Parlate piano, non fate tanto rumore”, chiede il colonnello Chaim Wisberg anche al gruppo di parlamentari europei guidati da Elmet, l’organizzazione che guida la loro missione di solidarietà e che mi ha aiutato nella visita: “Abbiamo tre modi di identificare per portare le persone a degna sepoltura riconsegnando i corpi alle famiglie disperate. Ancora tanti cercano, senza trovarli, i loro cari. Il primo modo è quello diretto, il secondo con l’esame della dentatura, il terzo col DNA. Purtroppo, il primo sistema, dato quello che i terroristi hanno fatto, non si può quasi mai praticare. I resti sono stati trovati nei posti più disparati, è stata una semina infinita di corpi ovunque, e poi amorosamente suddivisi in sacchi con numeri. Si cerca di rimettere insieme parti che Hamas ha tagliato: oltre alle teste, anche genitali, braccia, piedi, mani. I cadaveri delle donne violentate arrivano pieni di fratture ovunque. Prima di capire che un troncone era di una donna e del suo bambino insieme bruciati e seviziati, c’è voluto molto studio”. Vediamo nei container, da cui aprendoli esce il gelo a nuvole e l’odore della morte perché ormai i giorni sono passati e non si riesce a identificare tante creature, sacchi a centinaia, di tutte le dimensioni, tutti sistemati per grandezza. I volontari sono quieti e gentili, tutti in divisa. Sheryl spiega: “Cerchiamo la dignità, la memoria umana di quei poveri resti, in un orecchino da restituire alla famiglia, nelle bellissime unghie curate di qualche ragazza di cui non rimane quasi nient’altro… sistemiamo piano piano piano quel che c’è, con amore. Con ordine. I parenti che vogliono almeno seppellire i loro cari, qui entrano solo coi risultati certi del DNA”.
Per la strada, verso sud, ogni cespuglio parla, racconta la mostruosa sorpresa del sabato 7, L’esercito è ormai schierato lungo il confine sud, ci avvertono mentre siamo diretti a Kfar Aza che l’esercito ha proibito quell’obiettivo perché c’è una sospetta incursione terrorista; facciamo un giro largo per arrivare a Be’eri, la maggiore vittima della mattanza, che confina con Re’im, il kibbutz a fianco del quale si è svolta la festa dell’eccidio, quella in cui sono stati ammazzati almeno 260 ragazzi che ballavano, e da cui ne sono stati rapiti una buona parte dei 222 rapiti, e alla cui folla appartengono un gruppo degli scomparsi, fra i 100 e i 200. Numeri enormi. A Re’im, la grande tenda bianca stracciata, le masserizie, gli stracci, il nero dell’erba bruciata dagli spari e dalle battaglie è una belva in agguato: i fossi erano, ci dicono i militari, pieni di ragazzi uccisi. L’erba su cui sono fuggiti invano ha il colore del tradimento, e il giallo è più giallo, il nero del bruciato definitivo. A Be’eri il comandante Golan, un campione di umanità che in Turchia ha salvato 19 persone dopo l’ultimo terremoto, un esempio tipico dell’umanità di quei kibbutz tutti umanitari, liberali, amici degli arabi, ci mostra con parole ancora stupefatte, interrogative, le case bruciate con le famiglie intere chiuse dentro, esplose fino a mandare in briciole i tetti stessi, racconta che ha trovato il corpo carbonizzato di un suo poliziotto d ha raccolto il telefono anche contro la prassi perché la scritta sullo schermo diceva “amore mio”, e ha detto alla moglie dell’ucciso che il suo caro non c’era più. “Non volevo che aspettasse settimane l’identificazione”.
L'amore della sinistra per la causa palestinese? Da quelle lezioni di Arafat coi Vietcong e Ceausescu
Il Giornale, 23 ottobre2023
Comincia più di cinquant’anni fa la storia del coinvolgimento attivo della sinistra in difesa della “causa palestinese”, la sua decisione del tutto arbitraria che essa sia parte della “lotta degli oppressi, dello scontro antimperialista, anticolonialista, per la pace, per l’autodeterminazione, per l’eguaglianza dei diritti”, e persino un grande protagonista, il cemento di molte le battaglie “intersezionali”, come si dice oggi, che portano folle di giovani, donne, neri, lgbtq, e vecchi delle associazioni partigiane e di sinistra in piazza a sostenere, dopo le barbarie di Hamas, la suddetta “causa” accusando Israele e prendendosela con tutti gli ebrei. Bisogna, perché si presenti nei termini attuali, tornare agli anni sessanta, con le visite di Yasser Arafat a Hanoi, una meta per lui familiare in quegli anni, e con la frequentazione della Romania di Ceausescu. Dal generale Vo Nguyen Giap, capo militare della resistenza “antimperialista” vietnamita, Arafat di abbevera: il leader dei vietcong gli spiega che per vincere deve fare uscire la sua battaglia dallo scontro regionale, e renderlo una battaglia morale antimperialista, come quella dei vietcong, capace di incantare, mobilitare, unificare le masse antiamericane in tutto il mondo.
Ceausescu gli insegna in un famoso dialogo, cosa sia il marxismo, gli fa lezione di egemonia, gli spiega come la guerra terrorista, peraltro indispensabile, deve accompagnarsi con la pretesa ripetuta fino allo sfinimento di volere una soluzione pacifica. Negli anni ‘80 e ‘90, con la disintegrazione dell’URSS suo maggiore partner e finanziatore, e anche con la fine di Ceausescu, il suo istruttore politico, quando l’esilio di Tunisi lo umilia e lo tiene lontano dalla politica, l’offerta di Israele di tornare a Ramallah con gli accordi di Oslo, gli fornisce una magnifica occasione per usare un nuovo cavallo di troia molto popolare: la pace, cuore della propaganda a sinistra! Arafat non ha nessuna intenzione di riconoscere Israele o di rinunciare al terrorismo, ma la sinistra mondiale lo segue: i palestinesi compiono l’innesto fra la “causa palestinese” col suo messaggio terzomondista e l’antisemitismo che fiorisce nel campo comunista sin dal tempo di Stalin. Accantoniamo il solido odio per gli ebrei di Proudhon e Marx. Dopo un breve periodo di sostegno alla nascita di Israele data la sua ispirazione socialista, l’ideologia sovietica torna all’antisemitismo originario. [...]
Egitto, un summit cinico e fallito
Il Giornale, 22 ottobre 2023
Il “summit per la pace” de Il Cairo ieri, 31 pomposi inviti in tutto il mondo, ha di fatto celebrato l’apertura da parte dell’Egitto del passaggio di Rafah per introdurre alcuni camion di aiuti per i palestinesi, ma ha anche lavorato in maniera autolesionista per tutto il mondo a rafforzare i nemici di Israele, dedicandogli i monologhi soprattutto arabi di esecrazione e di intimidazione politica a fronte di una guerra che lo Stato Ebraico deve sostenere per seguitare a vivere. L’intento politico immediato è quello di ritardare la battaglia di terra che Israele sta per affrontare perché Hamas non resti il dittatore terrorista di Gaza. Un obiettivo bizzarro da parte di al Sisi, interessato com’è a porre fine al regno di quella forte sezione della Fratellanza Musulmana, la sua principale nemica, che è Hamas. Il tono è stato ambiguo e antisraeliano, nonostante lo sforzo politico di alcuni partecipanti di fra cui dobbiamo lodare Giorgia Meloni per denunciare la crudeltà di Hamas e stabilire il diritto di Israele a vivere. [...]
I palestinesi devono cambiare strada
Il Giornale, 21 ottobre 2023
	Khaled Abu Toameh è un giornalista e analista palestinese unico, da anni fronteggia i pericoli che il suo mondo diviso fra il regime religioso-fascista di Hamas e quello autoritario della Autorità nazionale palestinese di Mahmoud Abbas riservano a chi dice la verità. Gli articoli di Khaled sul Jerusalem Post sono una fonte di conoscenza spietata, senza rivali delle dinamiche politiche e ideologiche palestinesi.
	Khaled lei oggi scrive sul Jerusalem Post che, anche in base a accordi presi nei mesi scorsi, Hamas aspetta con ansia che Hezbollah entri in guerra a suo fianco.
Accadrà?
Con la supervisione dell’Iran…
Biden ha ripetuto che la bestialità dell’attacco è tipico solo di Hamas, che i palestinesi sono un’altra cosa. Lei ha parlato con la sua gente, è stupefatta? Disgustata? O invece soddisfatta, approva?
Anche perché Abu Mazen non ha mai condannato
Eppure anche Abu Mazen conta cercando il consenso sull’antisemitismo, sull’odio per Israele, sulla copertura del terrorismo
E le masse dei civili sofferenti di Gaza vedono la situazione in cui Hamas li ha messi?
Sta parlando di occupazione?
“La chiami come vuole. Sto parlando di restare disponibili per molto tempo a non lasciare un territorio inquinato dalla guerra e dall’odio. La presenza dell’Autorità palestinese di Abu Mazen, dovrà nel caso contribuire con un lavoro di mesi e di anni”.
	
	Lo può fare la leadership che lei descriveva poco fa?
Biden ha parlato di “due Stati per due popoli”
I burattinai della guerra
Il Giornale, 20 ottobre 2023
Biden abbraccia Netanyahu. "È come l'11 settembre, ma non rifate i nostri errori. Strage a Gaza? Non è vostra"
Il Giornale, 19 ottobre 2023
Non siete soli, ha ripetuto tutto il giorno il Presidente, ma a sera ha lasciato di nuovo Israele in preda della sua guerra, i soldati sul bordo di Gaza che aspettano l’ordine di entrare mentre le famiglie tremano, le decine di migliaia di persone private dei loro cari, dei vecchi e dei bambini, i kibbutz del sud bruciati, quelli del nord in fase di sgombero mentre gli hezbollah sparano. Con eloquio lento, un vecchio saggio che compie il suo dovere, ha fatto sentire compreso questo Paese disperato. Erano le 6,30, molto più tardi dell’ora stabilita dal protocollo, quando, illuminato, l’Air Force One si è levato nel cielo di Tel Aviv. La gente d’Israele l’ha salutato già in preda alla nostalgia. La visita di ieri ha avuto un grande merito, quello di ristabilire il significato reale del 7 di ottobre, e con esso l’importanza della patria degli Ebrei per tutto il mondo libero: a chi ha classificato la vicenda mostruosa come un episodio dello scontro israelo-palestinese, chi ne ha fatto addirittura una conseguenza della sofferenza della Striscia di Gaza, immaginata erroneamente come occupata, ha potuto sentire nelle parole di Biden l’ammirazione per il popolo ebraico, per la sua fatica di vivere, l’indispensabilità per il mondo libero a fronte di quello dell’oscurità terrorista. Biden ha recuperato il senso strategico e morale della vicenda: difendere Israele da una minaccia mostruosa, che, ha detto, minaccia anche gli USA. Con la strage è stata riproposto l’incredibile mostro della Shoah: l’attacco genocida, e Biden non ha risparmiato le parole, nei numeri e nella ferita alle famiglie d’Israele, è sovrapponibile alle peggiori persecuzioni, alla Shoah, e nella storia degli USA è simile all’attacco dell’11 di settembre. [...]
Gaza non basta
Il Giornale, 17 ottobre 2023
David Wurmser aveva un biglietto per tornare a casa a Washington, tre giorni fa. Era in visita d’affari, subito cancellata con l’avvento della guerra. Ma l’ex consigliere strategico del vicepresidente Cheney e poi di John Bolton, che era allora consigliere del presidente per la sicurezza, ha deciso di perdere il volo. Adesso, essendo un grande esperto di strategia, risponde al telefono da Gerusalemme e da Tel Aviv ai molti giornalisti americani.
Come mai è ancora qui?
“Credo in Israele, ho sentito subito il bisogno di trovare una mia forma di solidarietà, resterò finché ci saranno di nuovo i voli per gli Stati Uniti”
Andiamo diritti al cuore del problema. Come deve svolgersi questa guerra, dove deve portare?
“Le confesso che ieri, quando lo scontro col Libano è sembrato vicino, ho pensato che prima di tutto si dovesse affrontare il problema degli Hezbollah e dopo, in maniera definitiva, Hamas”
Perché quest’idea? Sia il governo israeliano che il governo americano si sono pronunciati per tenere gli Hezbollah fuori. Questo significa anche allontanare la presenza dell’Iran.
“Il colpo che Israele ha subito lo scorso sabato fa nascere questioni molto serie fra tutti quelli che vogliono la pace sia fra gli arabi, che negli alleati come gli USA e l’Europa che ancorano il rapporto nella sicurezza e negli interessi. Un colpo all’idea che Israele sia forte e organizzata. La sconfitta è stata così terribile che ora lo sforzo deve essere posto nella riconferma della forza e della solidità”.
Perché suggerire lo scontro con gli Hezbollah?”
“Perché la vittoria di Israele adesso deve essere grande, geopolitica, straordinaria persino traumatica, tale da cancellare tutti I dubbi. Ora, se Israele sconfigge Hamas e rioccupa Gaza, questo non copre la profonda sconfitta”.
Che vuol dire la “profonda” sconfitta?
“Questa guerra e solo in parte con Hamas. L’Iran ha stretto Israele all’angolo, ora Israele deve stringere all’angolo l’Iran. Questa guerra deve avere un effetto geostrategico. Si deve andare oltre Gaza”.
Perché prima Hezbollah?
“Israele deve fronteggiare gli Hezbollah, essi sono Hamas all’ennesima potenza, anche nella crudeltà terrorista: meglio armati, più numerosi, i pupilli sciiti dell’Iran. La guerra esclusiva contro Hamas, li spingerà a saltare sul campo, indisturbati. Invece, se Hezbollah fosse affrontato e sconfitto, anche Damasco che dipende dal suo sostegno verrebbe scardinato, un colpo sulla scacchiera dell’Iran”.
Ma adesso la mobilitazione è tutta per Gaza.
“A Gaza, si tratta di sgonfiare l’eccitazione palestinese e di tutti gli estremisti: per farlo si deve scardinare Hamas, la sua sfrenatezza”.
E quindi lei vede necessaria un’occupazione?
“È necessario tutto quello che serve a porre fine al potere di Hamas. L’esercito dovrà restare sul campo finché Hamas sia cancellata. Israele deve controllare ogni area dove Hamas può ristabilirsi”.
Come vede i corridoi umanitari, per salvare i civili e per consentire una trattativa sugli ostaggi?
“Temo che Hamas li userebbe per consegnarli magari all’Iran, come è già successo, e allora non li vedremo mai più. E per ristabilire un potere che usa i suoi come scudi umani, i palestinesi, appunto”.
Dunque...
“Questa guerra che è cominciata come nel 1973, e continua come nel 1948, deve finire come quella del 1967. Una grande vittoria. O Israele è nei guai”.
Se Israele cede la gente qui sarà molto arrabbiata. La società israeliana non vuole rivivere di nuovo quello che è accaduto, ed Hezbollah è preparato anche peggio, e Hamas lo rifarà. Non lasciare al tuo nemico la forza di attaccarti.
“Rovesciare l’umiliazione è una vittoria tattica ma non una vittoria definitiva su un nemico che resta minaccioso. Il paradigma dell’Iran non è cambiato, lo vedono ancora come qualcuno con cui si può venire a termini per calmare la situazione in Medio Oriente. Pensano che dobbiamo andarci d’accordo per calmare Hamas e gli Hezbollah, ma è vero il contrario. Questa guerra deve finire con l’Iran spaventato e in ritiro.
Ma non pensi che Israele combatterebbe meglio questa guerra con l’aiuto che gli USA sembrano davvero voler fornire? Hanno persino portato qui le loro portaerei!
“Sarebbe terribile se gli USA combattessero quando tutti pensano che Israele sia debole: se accettasse l’aiuto straniero confermerebbe il sospetto che non sa difendersi. Non ha chiesto aiuto nel ‘48, nel ‘56, nel ‘73, quando la situazione era molto peggio. Accettare un aiuto militare devasterebbe il morale la sua immagine negli Stati Uniti e farebbe a pezzi i progetti di chi ci vuol fare la pace in Medio Oriente, come i Paesi dei Patti di Abramo. L’imperativo è che l’umiliazione sia spazzato via. Sarebbe un danno all’idea dello Stato ebraico stessa: gli ebrei non devono cercare l’aiuto di nessuno per difendersi”.
Guerra su due fronti? Può diventare un rischio mondiale
Il Giornale, 16 ottobre 2023
Chi tiene per pace e civiltà oggi deve imparare
Il Giornale, 14 ottobre 2023
Chi tiene per la pace e per la civiltà, oggi deve imparare: ci sarà solo guerra e morte per la popolazione innocente, in Israele e altrove, se non si ristabilisce una fortissima deterrenza, in tutto il mondo, nei confronti del terrorismo e delle sue carneficine. Se l’Occidente sarà debole, Hamas, la Jihad, gli Hezbollah, l’Iran, i loro sostenitori ripeteranno, estenderanno la guerra, punteranno alla vittoria. Il Medio Oriente riprenderà la via della pace solo se Hamas sarà spazzata via e i suoi alleati messi al bando. Il ministro degli esteri iraniano giovedì è andato a Beirut, a trovare gli Hezbollah, incerti se attaccare. Forse funziona la minaccia di Biden che gliel’ha esplicitamente sconsigliato. Le piazze Giordane e Egiziane sono inquiete, Erdogan di nuovo si esibisce da capo della Fratellanza Musulmana, Putin tace. Ma la sua tv intervista un leader di Hamas che sembra Göring, fiero delle repellenti azioni di pulizia etnica degli ebrei, senza replica. Questo fronte deve vedere Hamas in ginocchio, o l’attacco genocida che Israele ha fronteggiato da sola per prima, diventerà un ripetuto 11 di settembre per tutto il mondo giudaico cristiano. Di fronte al coro umanitario che cresce via via che i riservisti israeliani e i soldati di leva prendono posizione sul confine pronti a rischiare la vita entrando, è bene sia chiaro che il mondo chiede a Israele di vincere. Non ci sono trattative possibili. Non c’è futuro, non c’è vita altrimenti, e questo lo capisce anche un bambino. Se ci fosse bisogno di una conferma, le sirene hanno seguitato a urlare a Tel Aviv, a Rehovot e a Sderot facendo anche ieri distruzioni e feriti. [...]





