Fiamma Nirenstein Blog

La guerra antisemita contro l'Occidente

7 ottobre 2023 Israele brucia

Jewish Lives Matter

Informazione Corretta, il nuovo video di Fiamma Nirenstein

Museo del popolo ebraico

Il massacro del 7 ottobre come la Shoah. Quando il negazionismo stravolge la Storia

domenica 5 novembre 2023 Il Giornale 2 commenti

Il Giornale, 05 novembre 2023

Non ci sono eventi storici più comprovati della Shoah e della mostruosa strage del 7 di ottobre. Ambedue pur con dimensioni diverse, certamente sono stati programmati con passione distruttiva verso gli ebrei: uno ad uno, bambini, genitori, nonni, sono stati cercati, scovati, uccisi con una preparazione specifica documentata, anche se in luoghi e tempi diversi. Sempre di antisemitismo genocida si tratta, e di sete di sangue. Tutte e due le cacce all’ebreo sono state compiute secondo una decisione ideologica specifica: se per il nazismo gli ebrei erano topi e scarafaggi, per Hamas sono figli di maiali e scimmie. Però i nazisti, a differenza degli uomini di Hamas hanno nascosto i loro crimini finché con una valanga di documenti e di testimonianze delle vittime e dei nazisti stessi, sono venuti alla luce. E allora, è cominciato il negazionismo: non è vero, hanno detto e scritto i vari Faurisson, Garaudy, Dieudonnè, Irving, David Duke, supportati da disegni politici antisemiti, soprattutto quello Iraniano. Anche Abu Maze ha scritto la sua dissertazione negazionista all’università di Mosca sostenendo che anzi, gli ebrei erano d’accordo con i nazisti.

Per i negatori della Shoah l’invenzione è servita agli americani per giustificare la loro prepotenza imperialista, e agli ebrei per vendere il loro sionismo. Il substrato, la criminalizzazione degli ebrei stessi e la assoluzione dei nazisti. Sta accadendo di nuovo, stavolta col negazionismo del Sabato Nero. “La strage inaudita è tutta una balla per giustificare l’aggressione ai poveri palestinesi, e, anzi, qui si certifica l’indegnità congenita degli ebrei”, è il tema. Più complicato tuttavia sostenerlo, perché qui non ci sono volute ricerche per trovare le prove della barbarie: è tutto filmato e registrato. Lo scopo antisemita è scritto nelle urla “Yehud Yehud” mentre i terroristi scannano, e nella telefonata entusiasta “mamma, ho ucciso dieci ebrei, ho il loro sangue sulle mie mani”.

Le sevizie dei neonati e delle donne incinte, gli stupri e le mutilazioni, tutto è stato filmato con orgoglio dagli assassini stessi. Chi scrive, ha visto i 53 minuti di footage delle loro stesse macchine da presa, e mai film dell’orrore fu più insopportabile. Quando dalle loro stesse telecamere sei dentro la marcia dell’orrore verso una casa del kibbutz, quando apri la porta non arrivano i nostri, ma coi mostri entra la strage, il bagno di sangue di una famiglia, un rogo, una mutilazione impensabile. Il negazionismo però insiste: magari è una fake news degli israeliani per giustificare l’attacco ai palestinesi? Solo chi non sa niente della storia della democrazia israeliana, dei suoi mille tentativi di pace, solo l’ignoranza sullo scrutinio ossessivo dell’opinione pubblica può concepire una simile idea. Ma Nasrallah, che vuole alla fine avere il diritto morale di uccidere gli ebrei, nega tutto: gli israeliani stessi, dice, hanno compiuto la strage di donne e bambini. Poi c’è chi suggerisce con tono saccente di verificare, meglio temere le fake news: lo fanno i politicanti invogliati dal consenso dei cortei che urlano “Morte agli ebrei”. Il fratello di Corbyn si sbraccia: i feriti e i morti sono tutti attori! o lo suggerisce educata Carmen La Sorella, o i docenti di qualche università liberal americana; intanto si mette in prima linea per stabilire la verità delle immagini il solito nemico di Israele “Human Rights Watch”, che certo sa bene bene che il footage non mente. Ma il coro dei social media canta coi negazionisti, ed è un facile ritornello internazionale. Solo la vittoria di Israele su Hamas impedirà che la memoria venga seppellita.  

 

Le portaerei americane bloccano gli ayatollah. E Israele non si ferma

sabato 4 novembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 04 novembre 2023

Tanto rumore per quasi nulla, almeno per ora. Il grande discorso di Hassan Nasrallah, il capo degli Hezbollah, è stato certamente una grande delusione per Hamas e per quanti si aspettavano, mentre le piazze di Beirut guardavano Nasrallah sul grande schermo, che le facesse sventolare in un tripudio bellico contro gli ebrei, annunciando la sua entrata in una guerra totale a fianco di Hamas. Non è andata così: in una giornata in cui in Israele si sono ascoltati in un puzzle di segnali essenziali le voci di Nasrallah (che parlava con una grancassa mediatica da cantante rock), del Segretario di Stato Anthony Blinken e di Netanyahu, abbiamo visto il capo del migliore proxy sciita dell’Iran comunicare soprattutto il suo nervosismo, in una pioggia di giustificazioni e di bugie.

Ha chiamato la barbarica impresa di Hamas “azione eroica” e poi ha spiegato però che nell’operazione del 7 ottobre si doveva leggere una scelta rigorosamente autonoma, che non vi erano coinvolti né l’Iran né la sua organizzazione. Hamas è forte, fa da solo: una giustificazione della propria assenza. In secondo luogo con tono profetico Nasrallah ha detto “a chi gli chiede quando entra in guerra” che non solo lo è stato subito, già dal 7 di ottobre, ma che la sua è una guerra vittoriosa: merito suo se i cittadini del nord si sono spostati, merito suo se l’esercito israeliano è là con un terzo delle sue forze, che così non possono essere utilizzate contro Hamas. In realtà le sue armi hanno sparato sporadicamente e in modo che gli è costato la perdita di 60 delle sue forze Radwan, mentre i missili importanti restavano inutilizzati salvo un paio di volte. E sì che Nasrallah ne ha fino a 200mila, forniti dall’Iran.

Due menzogne clamorose hanno infiorettato il discorso, quella per cui Hamas starebbe vincendo, mentre l’esercito israeliano in realtà avanza con dolorose ma non numerose perdite, mentre gli uomini di Hamas vengono decimati mentre i grossi leader restano nascosti. L’altra bugia è una rivoltante affermazione negazionista, per cui sarebbe stato l’esercito israeliano stesso a uccidere le donne e i bambini dei kibbutz, e Hamas sarebbe mondo dei crimini di guerra. La sentiremo ripetere dalle folle che ormai gridano “morte agli ebrei” nelle piazze di tutto il mondo, chiaramente Nasrallah l’ha detta per eccitarle. Insomma, per ora sulla scena non compare un grande fronte nord. E l’Iran aspetta. In Medio Oriente come in Medio Oriente, fa paura sia la determinazione di Israele, che le portaerei americane che hanno già fermato i missili balistici dei Houti. Blinken, per la quarta volta a Gerusalemme, ha ribadito i punti fondamentali dell’alleanza “indistruttibile”, il sostegno diplomatico, di armi e di denaro a Israele: ma il suo discorso ha avuto toni che segnano il passare del tempo. Adesso gli USA chiedono a Israele di impegnarsi di più sul terreno umanitario, e legano la questione a quella della liberazione degli ostaggi. Blinken ha nominato non a caso oltre al cibo, le medicine, l’acqua e anche la benzina, che è un punto chiave perché serve a un uso bellico molto diretto e Israele rifiuta di fornirla. Blinken ha parlato anche di “pausa umanitaria” che, anche se non è “tregua” può aiutare Hamas a riassestare le sue fila. Quel che ha fatto più effetto Blinken ha accostato la sorte dei bambini israeliani a quelle dei bambini palestinesi, stabilendo un’equivalenza che dimentica che i bambini palestinesi soffrono nelle mani di chi ne ha fatto scudi umani e certo non vi è nessuna intenzione di far loro del male. Le soluzioni sono difficili, e la richiesta deve tenerne conto. Anche Netanyahu ha preso ieri la parola per confortare e rafforzare i soldati, per ricordare i caduti, per lodarne l’eroismo. È stato un tipico antico discorso di guerra, come Ettore ai Troiani o Achille agli Achei: andare fino in fondo senza esitazioni nonostante il dolore e la difficoltà. Di “pausa” e tantomeno di “tregua” non si parla. Su questo gli americani devono aspettare. Al momento, tutta Israele sa che nessuno potrà tornare a abitare nel sud se i vicini promettono la prossima strage. E al nord la situazione è simile. Nessuno dorme a casa. Il fronte resta ancora aperto dopo il discorso del loro capo.

 

Hezbollah infiamma il fronte. Attese le parole di Nasrallah: il Medio Oriente può esplodere

venerdì 3 novembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 03 novembre 2023

Oggi giornata di possibile allargamento della guerra che Israele deve combattere contro chi ha giurato di distruggerla. Il grande fuoco, ieri, nella sera buia di Kiriat Shmone, sul confine del Libano, causato da un missile di Nasrallah, è la degna quinta del teatro preparato dagli Hezbollah. IL capo degli Hezbollah, che dall’inizio della guerra Hamas aspetta all’angolo del comune giuramento di distruggere Israele, oggi parla. Avvolto nel mistero del suo turbante che ne fa l’Ayatollah incaricato dalla gerarchia sciita iraniana che lo mantiene, lo arma, lo rende tanto importante, dirà se intende aprire il suo fronte contro Israele. Fa paura? Ci prova con decisione, ieri gli obiettivi dei suoi missili sono stati una ventina su posizioni di Israele lungo il confine; l’IDF ha risposto fino a tarda notte. I suoi più di 50 “martiri” fatti in questi giorni dall’esercito israeliano nel rispondere agli attacchi, Nasrallah in una lettera scritta a mano li ha già denominati “martiri sulla via di Gerusalemme”. Hamas, mentre l’esercito d’Israele avanza ed è ormai coi soldati dentro la città maggiore, guarda a Nord. Gli hezbollah fino non hanno usato i migliori i circa 200mila, che negli anni tramite la strada siriana l’Iran gli ha fornito. Si sono tenuti bassi utilizzando soprattutto missili Kornet contro i soldati allineati lungo il confine. Poi, da domenica, è cominciato lo sfoggio, un drone israeliano è stato abbattuto con un missile terra aria, gli attacchi si sono moltiplicati, e questi e altri tipi di armi hanno distrutto mura; i cittadini sono stati evacuati dalle città del nord ormai da giorni. L’esercito ha risposto purtroppo nello scambio a fuoco sono stati colpiti per caso anche due pastori libanesi, oltre a una cellula che stava lanciando un missile.

Che cosa dirà Nasrallah? Non solo il pubblico, ma anche i coprotagonisti sono molto numerosi e importanti. Il capo di Stato maggiore israeliano Herzi Halevi ha ripetuto il suo consiglio a tenersi fuori dallo scontro, pena gravi conseguenze. Netanyahu aveva già spiegato che una scelta sbagliata porterebbe all’intero Libano un disastro, l’uso simile a quello di Hamas di scudi umani già disegnò nel 2006 la sconfitta degli hezbollah in un territorio disastrato. Due notizie conducono il conflitto in uno scenario internazionale che può investire il mondo. La prima è quella di un accordo fra la Compagnia militare privata Wagner e Hezbollah: secondo il Wall Street Journal, il gruppo paramilitare starebbe fornendo un sistema di difesa aerea agli Hezbollah. La Wagner ha già i suoi uomini in Siria, già a fianco di un altro abominevole tiranno, Assad. La Russia naturalmente è dietro a tutto ciò. L’altra importante notizia rispetto alla possibilità della dimensione che potrebbe prendere la questione libanese l’ha data l’IDF: una milizia iraniana ha raggiunto il sud del Libano. È il gruppo “Imam Hussein”, anch’ essa fino ad ora impegnato in Siria. Russia e Iran così trovano qui un altro interesse comune oltre a quello per cui gli Ayatollah forniscono droni a Putin contro l’Ucraina. Nasrallah cerca insieme a Hamas la distruzione dello Stato d’’Israele, e cerca la primogenitura in questo compito.

Deve tuttavia valutare alcune possibilità: a lui, che vanta un rapporto politico con lo scenario pluralistico del Libano sostenendo di farne gli interessi, sarebbe difficile sostenere una situazione in cui con una sua guerra di nuovo rovina il Libano intero, come nel 2006.  In secondo luogo, la sua sete di sangue, certo pari a quella di Hamas, non ha, dopo il prudente sgombero dei civili israeliani di tutto il nord, dove avventarsi per una strategia di terrore civile. Comunque l’ordine finale e dell’Iran. E ciò a cui anche l’Iran sta certo pensando bene, è il “don’t” di Biden che oggi si concretizza plasticamente con l’arrivo in Israele del Segretario di Stato Antony Blinken, giusto in tempo per ascoltare il suo discorso. Sullo sfondo le due portaerei e le armi americane dedicate alla difesa d’Israele. E anche la battaglia leonina che i soldati metro per metro stanno dando dentro Gaza: siamo in Medioriente. La regola è: chi è forte, secondo la cultura islamista, deve essere rispettato, il debole mangiato.

 

 

      

 

Israele piange i caduti della Givati: Pedaya, Lavi e gli altri giovani eroi

giovedì 2 novembre 2023 Il Giornale 1 commento

Il Giornale, 02 novembre 2023

“Forza bambino, ringraziamo il Cielo, sei forte ce la farai”. Invece lui tutto pesto, con un occhio gonfio, piange senza rumore, è ancora piccolo nel luglio 2016, si appoggia al fratello che arriva di corsa sulla strada su cui di traverso si vede la macchina del padre. Il piccolo si chiama Pedaya Mark, figlio di un rabbino, Miky, che è appena stato ucciso sulla strada vicino a Hebron. La madre giace gravemente ferita, e anche la sorella Teillah appena più grande di lui, sanguina. Lui le ha parlato per tenerla in vita finché sono arrivati i soccorsi; sempre lui, ha trovato il telefono e chiamato l’ambulanza. Un bambino dolce e diretto, e appena ieri bel ragazzo di ventidue anni, con i riccioli laterali e una continua propensione al sorriso, è stato ucciso a Gaza con altri 15 ragazzi, per la maggior parte del suo gruppo, i mitologici GIvati. Era il secondo luogotenente del battaglione. Pedaya che nella notte prima di mercoledì è stato ucciso in battaglia ha vissuto sempre nel vento di tempesta dello scontro con i terroristi. Suo zio Elhanan è stato ucciso correndo a battersi contro i terroristi il 7 di ottobre. Una famiglia di eroi d’Israele, caduto perché il suo mezzo corrazzato, un Namer (tigre), avventuratosi fra gli edifici nelle vicinanze di Gaza città, nel nord della Striscia e stato colpito da un proiettile anti-tank. I soldati uccisi ieri sono stati 16, un numero che testimonio la grande difficoltà del lento avanzare delle truppe israeliane nella trappola di Gaza, un meandro urbano costruito solo per fare la guerra, in cui ogni casa, ospedale, scuola, ospita le armi e gli uomini di Hamas, ogni cittadino al piano inferiore o superiore è uno scudo umano. I genitori dei ragazzi in guerra, in questo Paese postmoderno, in cui per legge si attraversa per la mano fino all’età di nove anni e i bambini sono principi, dal momento che i figli partono non vivono più, ogni macchina che arriva di fronte alla loro porta, ogni campanello che suona, la tensione raggiunge il diapason.

E tuttavia prevale la sicurezza, più di sempre, che questa guerra è necessaria, che le belve non devono restare sulle porte del Paese perché possa vivere, che i cittadini sfollati devono tornare a casa. La concordia è forte, non c’è posto per il pacifismo. Nella battaglia sul campo, i terroristi, i missili, sono in agguato, i terroristi preparano lo scontro dal 2005.  I Givati sono incredibili combattenti, fanteria di prima classe, che conosce il terreno di Gaza metro per metro. Pedaya nel 2022 aveva detto che da quando suo padre era stato ucciso aveva capito quanto fosse importante essere un combattente. E così è stato fino all’ultimo: era su un mezzo corazzato colpito da un missile anti-tank coi suoi, e sono stati uccisi in 7; si deve immaginare un territorio semicostruito, in ogni costruzione può nascondersi un lanciamissili, sotto ogni edificio può sboccare la rete che i terroristi stessi hanno descritto, un meandro di 500 chilometri, un groviglio di trappole, armi, esplosivi, celle per gli ostaggi. Due altri soldati sono stati uccisi raggiunti da un missile mentre perquisivano un edificio, altri col tank su una bomba anticarro. Ognuno dei 16 ha una storia di ragazzo, di sogni, musica, scienza, tecnologia. L’inizio della vita. Sul primo, forse, a morire, Lavi Lipshitz, 20 anni, anche lui un Givati, bello come un attore, circola un video per una ragazza incontrata per caso: riassume l’incontro casuale rimasto nel cuore, alla fine si butta: “Are you free thursday night?”, “Sei libera giovedì sera?” scrive. Tutta Israele sa che Lavi non ha potuto andare all’appuntamento.

Ma questa guerra segue l’inferno nazista del 7 ottobre, la gente d’Israele cerca di consolarsi: i soldati hanno verificato le abitazioni di una grande zona, hanno ripulito Jabalia da 500 terroristi, hanno identificato le posizioni militari da cui i terroristi sparano, hanno compiuto “incontrando significativa resistenza” operazioni in cui gli scambi a fuoco gli hanno dato un netto vantaggio. Hanno catturato o eliminato molti responsabili del 7 ottobre. Di Sinwar, l’inventore del sabato nero, si dice che si aggiri come Hitler nel bunker, disegnando morte prima di tutto per il suo popolo.        

 

 

Stella gialla sull'ONU

mercoledì 1 novembre 2023 Il Giornale 1 commento

Il Giornale, 01 novembre 2023

Il 6 settembre del 1941 i nazisti imposero agli ebrei dai sei anni in su nei Paesi che avevano occupato, di cucirsi sul petto una stella gialla. Doveva subito isolarli, indicarli al pubblico ludibrio, doveva creare la strada diretta verso lo sterminio, aprire la porta alla strage di uomini donne e bambini. Ma i Paesi in cui la stella divenne il tragico distintivo degli ebrei furono a loro volta straziati, distrutti, riempiti di morti, crollando sulle ceneri dei suoi ebrei. Quando è apparsa la stella gialla, nessuno è stato solo spettatore della vertigine, del baratro che la sua imposizione ha segnato per il mondo. Ieri la sua immagine ha invaso non come ricordo storico ma come monito sul presente la hall dell’ONU; non c’è scritto però Yude, come imponevano i nazisti, ma “Never Again” mai più. Israele ne ripropone il monito.

Il nonno di Gilad Erdan, l’ambasciatore d’Israele all’ONU che ieri davanti al Consiglio di Sicurezza si è appuntato sul petto una stella gialla insieme al gruppo israeliano seduto dietro di lui, non fece nemmeno in tempo a subire quell’ umiliazione. Umile agricoltore ebreo in Transilvania fu caricato su un camion dai tedeschi coi suoi 8 bambini e sua moglie Bracha e portato al macello. Tutti quanti, fuorché il padre di Gilad, sono stati uccisi perché ebrei, giudei, juden... jehud, come si dice in arabo e come urlavano agli agricoltori di Be’eri e di tante altre località il 7 di ottobre i terroristi di Hamas. È in onore delle le vittime della mattanza mai vista dalla Shoah in avanti e quindi per protestare contro la cecità folle dell’ONU e di un’opinione pubblica mondiale che rifiuta di condannare l’incredibile attacco del 7 di ottobre, che il rappresentante di Israele ha deciso di compire questo passo drammatico. Finché l’ONU non si deciderà a condannare Hamas, ha detto, vedrà gli israeliani indossare il distintivo che al tempo della Shoah faceva di loro bersagli di morte, e il mondo colpevole vittima della propria indifferenza. È stato un gesto molto estremo, gli ebrei d’oggi amano la loro stella chiara sulla bandiera d’Israele, quella della riscossa, che segna sullo sfondo luminoso, fra due strisce di cielo, la forza di un popolo che ha afferrato finalmente nelle proprie mani la sua stella.

La Shoah è un argomento sacro, la sua unicità, l’incomparabilità sono i fondamenti del pensiero ebraico e sionista. Non è un caso che il direttore di Yad Vashem, il museo della Shoah, Dani Dayan, ha rimproverato Erdan, si è detto dispiaciuto che abbia sfoderato la stella gialla che simbolizza la vulnerabilità del popolo ebraico; avrebbe voluto piuttosto vedere i rappresentanti d’Israele con la loro bandiera. Il gesto, certo, è stato una solenne presa di posizione, baldanzosa e fiera, di fronte a una situazione impossibile: è sembrato un altro incubo a Israele vedere Gutierrez, segretario dell’ONU, evitare di condannare Hamas e attribuire responsabilità allo Stato Ebraico, mentre ancora si sgomberavano i corpi dei bambini uccisi, di figli e padri decapitati, delle donne violentate e torturate, dei vecchi fatti a pezzi, mentre Hamas trascinava via 390 ostaggi. Il prezzo morale che il mondo è apparso disposto a pagare alla cosiddetta “causa palestinese” è apparso, e ancora appare nelle ore in cui a tutte le latitudini si susseguono manifestazioni che urlano morte agli ebrei sventolando la bandiera palestinese, pari a quello pagato col silenzio del mondo sulla Shoah. In questo, funziona la comparazione. Israele ieri ha dichiarato di nuovo che l’intenzione è quella di combattere fino in fondo Hamas fino a che non sarà sconfitto. È qui che sventola, in una guerra molto lunga e difficile, la stella azzurra, mentre il dolore è oltre l’immaginazione. Ha ragione il presidente Isaac Herzog quando avverte il mondo che le manifestazioni che urlano “dal fiume al mare” intendono la cancellazione del popolo ebraico, e che dietro l’attacco “più brutale visto dall’umanità nelle ultime generazioni” ce n’è uno immenso, che non riguarda solo gli ebrei. La stella gialla dello sterminio se non si combatte, è pronta per tutti.

 

Il nuovo antisemitismo genocida

martedì 31 ottobre 2023 Il Giornale 1 commento

Il Giornale, 31 ottobre 2023

Due sono le sorprese che ha portato con sé il 7 di ottobre: la vulnerabilità degli Ebrei nello Stato d’Israele a fronte dell’odio islamista, che a sua volta ha mostrato un volto sanguinario; e l’eco abnorme risuonata nelle ore successive alla carneficina, proveniente da tutto il mondo. L’eco dell’odio antisemita, che subito gridava “morte agli ebrei”, che li nazificava come responsabili. Veniva innanzitutto dalle Moschee di tutto il mondo, dalle case dei due miliardi di musulmani che popolano gli stati islamici o sono nostri ospiti nei Paesi occidentali, ma anche dalle raffinate università americane, dalle piazze europee di Londra, Parigi, Milano… il branco che ha inseguito gli ebrei per l’aeroporto di Makatchkala nel Dagestan, una masnada di bruti nelle sale d’attesa, dietro l’autobus in fuga, urlavano “siamo qui per gli ebrei, per ucciderli, Allahu akbar” come gli assassini nei kibbutz della immensa strage. Dopo il 7 ottobre è stata un’epidemia. Difficile scegliere gli esempi, ce ne sono centinaia. In tutti i Paesi islamici, in Austria, Francia, Germania, Inghilterra, Grecia, da noi, negli USA il numero degli incidenti antisemiti è aumentato del 200, il 400, il 600 per cento. A Milano con le bandiere palestinesi, i manifestanti gridavano “Aprite i confini, uccidiamo gli ebrei”; a Bologna su un cartello “Hitler vi incontrerà di nuovo all’inferno”. “Gas the Jews” è di moda. La paura delle comunità ebraiche ne cambia la vita, chi ha la Mezusà, la benedizione sulla porta, può temere che la si distrugga, come a Parigi. Città per città, Paese per Paese, con minacce personali, vili prese di posizioni di università come la Columbia, Yale, Berkeley, il raccapriccio per ciò che Hamas ha fatto si è trasformato in un antisemitismo mimetico, genocida. Non è vergogna per le folle invocare Hitler e il genocidio, inneggiare ai tagliagole.

È una novità infettiva. L’antisemitismo israelofobico dell’Occidente, oggi mischiato a quello del sempre crescente numero dei musulmani, si era già negli anni trasformato in odio militante. Il rovesciamento era già evidente, lo scopo da tempo non era “due Stati per due popoli” ma l’eliminazione di Israele e degli ebrei. Ma durante la seconda Intifada, quando i terroristi suicidi uccidevano 1500 civili, ci fu un’altra ondata mondiale di odio antiebraico e antisraeliano. Durante tutte le guerre in cui Israele è stato aggredito, anche dopo il rifiuto di qualsiasi accordo, è sempre cresciuto l’odio per gli ebrei. La novità è che sulla scia di Hamas, dell’ISIS, di al-Qaeda, il messianismo musulmano si è esplicitato con tracotanza in tutto il mondo, secondo il dettato che per vincere si deve terrorizzare, piegare, sfigurare.

L’attacco del 7 di ottobre ha avuto una forza propagandistica che si è allargata minacciando per esempio Biden o chiunque si associ alla difesa di Israele. È una svolta politica dell’antisemitismo ideologico: è la forte, potente divisione in due mondi che si vuole disegnare nelle menti e nei cuori. Puoi stare con lo schieramento vincente dei palestinesi, con gli Hezbollah, con la Siria di Assad, l’Iraq e lo Yemen sciiti, l’Iran, la Russia e la Turchia e agire nel nome del tuo antisemitismo, non solo a proclamarlo. Potrai finalmente distruggere Israele e gli ebrei. Ma perché gli studenti di Berkley e parte dei giovani italiani si associano? Perché il “palestinismo” è riuscito a essere la religione occidentale progressista, ignorante dell’origine di Israele, una macchina di odio che ne ha fatto uno stato “coloniale, razzista, imperialista” che pratica un “odio umanitario” (come lo chiama Shmuel Triganò) in nome dei diritti umani. Non ha nessun peso che Hamas e l’Iran ammazzino gli Lgtbq, ma lo ha per esempio l’idea, negativa, che gli ebrei abbiano voluto costruire una nazione. “Nazione”! Come “autodifesa”, o “identità”, è un concetto contrario al multiculturalismo, alle teorie di genere, alla cancel culture… Gli ebrei spinti fuori dalla modernità, anche se è vero tutto il contrario, sono rappresentati come “nazisti che vogliono sterminare i palestinesi”, una “piaga mortale” come sostengono gli Ayatollah e purtroppo anche le piazze di Londra. Il razzo della Jihad Islamica che ha colpito il 17 l’ospedale a Gaza, ancora viene definito israeliano da certi media internazionali e dalle manifestazioni. L’incontro dell’antisemitismo dei diritti umani con quello musulmano esplode e insegue gli ebrei per ucciderli. 

 

Leonardo, sul fronte più minaccioso

lunedì 30 ottobre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 30 ottobre 2023

Dal 7 di ottobre Leonardo Aseni, un giovane di Milano anche israeliano di 35 anni, ha lasciato la sua casa di Tel Aviv e il suo lavoro nell’high-tech per andare a combattere con i miluim, le riserve, della sua mitologica unità, i Golani. L’hanno destinato al confine del Libano, che da ieri dopo giorni di silenzio spara di nuovo, e preoccupa il mondo. A Kiriat Shmone una casa è stata colpita da un missile ieri sera. Biden disse agli Hezbollah e all’Iran: ”Don’t” non entrare in questa guerra, ma dall’inizio della guerra del sabato più nero tutta Israele si interroga sulla possibilità che anche gli Hezbollah decidano di attaccare mentre si combatte dentro Gaza con enorme dispiego di forza. Significherebbe fronteggiare un altro rischio, forse maggiore, per le vite dei soldati e soprattutto della popolazione civile d’Israele, dato che gli Hezbollah sono la milizia sciita d’elezione degli Ayatollah: l’Iran li ha forniti da decenni di missili e droni che adesso come avvertimento vengono sparati sui paesi di confine, ma possono arrivare ovunque e a miriadi; gli Hezbollah, più di Hamas, possiedono attrezzature belliche e training di prima scelta fornite dall’Iran, Nasrallah ha costruito un gruppo fanatico e abile nel terrorismo e nel traffico internazionale di droga e armi. Il sommo progetto è quello degli Ayatollah, distruggere Israele. Da quando Hamas, il suo collega sunnita, è in prima linea, Hezbollah ha sparato sul bordo dove Aseni presta servizio colpi di artiglieria, bombe, proiettili anche letali.

Si è fatto vivo anche Ieri, e durante uno degli scontri è stato colpito anche una postazione dei Caschi Blu dell’ONU. Ormai dal 7 ottobre Hezbollah conta una trentina di morti e ne ha fatto 6 fra gli israeliani, di cui due nell’unità di Leonardo. Ieri le sirene per la prima volta hanno mandato anche i cittadini di Roshpina nei rifugi. Dalla città maggiore, Kiriat Shmone e dai kibbutz della zona si è compiuta l’evacuazione di tutti i cittadini. “Quella mattina del 7 -racconta Aseni- ho intuito dalle prime sirene che qualcosa di enorme stava accadendo, l’impossibile, l’irreale, e sono partito di corsa per il punto d’incontro. Adesso, qui siamo compatti, dispiegati in gran numero; siamo di nuovo noi Golani, l’unità mitologica di cui fin da ragazzino sognavo di far parte, ci rivediamo ma con un affetto che non ci si può immaginare”. Leonardo, mi parla sul video del telefonino appena distante dal suo gruppo sotto un grande albero, vedo solo foglie e la sua divisa, ha addosso il suo fucile Tavor X95 del peso di tre chili: “Sono un tiratore scelto d’assalto. Io apro la strada su questo terreno: appena ti mostri ai loro occhi, sei un bersaglio. Io vado avanti a tutti, individuo da dove si deve passare durante le nostre operazioni per rischiare meno possibile, precedo il comandante”. È lui che prende rischio e responsabilità. “Sì, certo, fa paura, ma hai da fare, devi cercare boschi, cespugli, valli, che ti nascondano. Appena sei in vista gli Hezbollah ti individuano e ti sparano un missile Kornet di cui odi il sibilo. Ti insegue e ti becca di sicuro se non riesci a trovare un nascondiglio, e non sempre lo si trova”. Leonardo è straziato dall’uccisione di un soldato solitario, stavolta di 22 anni, Omer Balva, venuto a combattere dagli USA. “Siamo andati a recuperarne il corpo straziato, io gli volevo quel bene che ci si vuole qui, oltre ogni immaginazione. Se uno di noi ha fame tutti si levano il mangiare di bocca”. E ha fame Leonardo? “Beh, parecchia, l’altra notte non so come una signora è riuscita a arrivare con la pizza ed è stata una festa anche se era fredda. Fame, sonno: non abbiamo un edificio, dal 7 dormiamo per terra su un terreno molto sassoso e accidentato, ci riempiamo di spine, siamo in allarme continuo, tanto che non mi sono cambiato da allora”. Leonardo vede oltre il reticolato, gli Hezbollah vanno avanti e indietro… “Se mai dovessero preparare un’invasione come Hamas, sarebbe dieci volte più terribile.

Pensa cosa sarebbe se si rovesciassero a frotte su Metulla, Shtula... sono fanatici, feroci terroristi. Noi però non lo permetteremo”. Leonardo ha occhi pensosi, ma non sembra stanco anche se oggi ha mangiato un sacchettino di bamba, delle palline di nocciolina, 3 o 4 Mentos. Vorrebbe fare la doccia, l’ha punto una tarantola. È questo essere un eroe? Leonardo ride, ha da fare, cambiare l’acqua della borraccia, ricaricare le batterie delle torce a luce rossa, controllare una specie di coperta contro la pioggia. Ma ogni minuto possono chiamarlo per una missione, non c’è tempo nemmeno per fare la doccia. Ai genitori mando dei cuori e dei pollici in alto, sanno tutto senza parlare.

 

Gli eroi di Be'eri: "Noi vivi tra i cadaveri"

domenica 29 ottobre 2023 Il Giornale 6 commenti

Il Giornale, 29 ottobre 2023

Di fronte all’entrata di marmi e palme di plastica dell’hotel David in fondo al Mar Morto, fra le dune gialle e le rocce saline, si accantonano i sopravvissuti del kibbutz Be’eri. Come in un film di Fellini arriva una fila di Porsche, di lucide Alfa Romeo, macchine di lusso: vengono a prendere i bambini orfani, dispersi, scioccati, privi di casa e di bussola psicologica per farli sorridere un minuto: è una fila di volontari che ha rastrellato le auto rombanti. Stasera viene la famosa cantante Yardena Rasi. I doni invadono l’hotel, pollo arrosto, humus e pita, torte fatte in casa. Vestiti nuovi per tutti, dottori, psicologi. Si aggirano offrendo aiuto alla folla di profughi che affolla la hall. A gruppi si abbracciano, si riconoscono, ringraziano. Non c’è libro che possa contenere tutte le storie di questi cittadini dignitosi e quieti, eroi, parenti di gente fatta a pezzi, di figli di rapiti, scampati per caso alla mattanza di Be’eri. Quei bambini che corrono in molti hanno visto uccidere un fratello, i genitori. Il kibbutz contava 1200 persone, agricoltori, una tipografia orgoglio del kibbutz pacifista. 350 morti sono stati trovati fra le sue rovine fra cui molti terroristi. Be’eri sa combattere. Le case sono bruciate, le finestre sfondate, le porte a pezzi, la mobilia e gli oggetti i terroristi li hanno polverizzati mentre la loro corte saccheggiava. Ma la storia dell’assalto comincia con un eroe, Ari Kraunik, capo della sicurezza, che corse verso i terroristi appena gli fu segnalato che entravano al kibbutz, riuscì a fermarne sette, e poi fu ucciso a spari. Le storie da non dimenticare mai adesso, all’hotel, sono qui con noi.
Doron Tzemach è un piccolo uomo calmo e dignitoso, ha perduto Shahar, suo figlio. La sua resistenza durata ore ha salvato la vita a tanti altri membri del Kibbutz. Shahar, parte della sicurezza, ha capito fra i primi cosa stava succedendo. “Alle 6,30, fra gli scoppi dei missili troppo veloci, insoliti, ricevette il messaggio di allarme. Subito ha preso l’arma, ha mandato Ella di 4 anni e mezzo e Annetta di 2 e mezzo con Ofri, la moglie, nel rifugio”. E lui è uscito a salvare la gente, uno contro cento. Shahar aveva 37 anni, fiore d’Israele, attivista della pace, nella tradizione del kibbutz e della famiglia. I terroristi cercano le prede. Shahar è corso alla clinica dentistica, da dove veniva una richiesta di aiuto. Nella stanza c’è il medico, l’infermiera Nirit e la stagista Amit. Da là mentre cominciano a arrivare in forza i terroristi fra le case, sparano e appiccano il fuoco, Shahar raccoglie un ferito grave, fino in fondo conduce una battaglia a fuoco mentre le persone intorno a lui vengono ferite. Resiste a lungo. Scorge i terroristi al giardino degli scivoli e vede un elicottero militare: “Sparate” chiede. Gli rispondono che non hanno il permesso. I gruppi delle belve compiono le loro mostruosità, alla fine assediano Shahar. “Fino alle 2 del pomeriggio è riuscito a ucciderne almeno 5, credo” dice il padre. A Efri scrive di continuo mentre finisce le pallottole: “Non vi preoccupate, arriva l’esercito, metti il frigo davanti alla porta”. Il kibbutz non riesce a serrare i rifugi, i terroristi arrostiscono gli assediati. Uno dei feriti nella clinica muore, al secondo morente Shahar mentre spara ripete “sei forte, resta con me, parlami, va tutto bene”. Gli uomini di Hamas gettano contro la porta bombe a mano e sfondano. Nirit, l’infermiera, resterà immobile due ore dentro l’armadio. Shahar e il suo compagno Eitan si battono fino alla fine, un altro salvato seguiterà ore a fingersi morto. IL meraviglioso figlio di Doron, Shahar lascia per sempre le sue due bambine piccole e il padre, che solo per un attimo piange fra le mie braccia.
 
Avida Bachar su una sedia a rotelle mi guarda fisso coi suoi occhi neri, preciso sfida la realtà. La gamba destra è saltata via. Il braccio sinistro ferito. Alle 7,30 Avida si rifugia con la famiglia, sicuro che fra poco arriverà l’esercito. Lui, la moglie Dana, Hadar, di 13 anni, e Carmel di 15. I terroristi invadono la casa, cercano di entrare spaccando tutto nel rifugio Al mattino del 7, Dana e figli fanno pipì nelle pentole, e con questo unico liquido, bagneranno gli stracci per coprirsi il viso quando i terroristi col fuoco dalla porta e dalla finestra del rifugio li soffocano. L’arabo dice “Yftach el bab” apri la porta, lui risponde “Ruch” vattene”. Ci sparano, a Carmel portano via un braccio, a me poco dopo una gamba. È un lago di sangue. Ho resistito cosciente fino a non averne più un goccio. Ci tirano tre bombe a mano. Hadar scrive senza mai smettere su whatsapp. Sangue ovunque. Dico a Dana che la gamba è chiusa nei jeans, cerchiamo di legare il braccio di Carmel con una federa. Cado all’indietro, soffochiamo, i terroristi sparano due colpi, tac tac.. Dana dice “ahi, respiro male…” e io dico ai ragazzi, “la mamma sta bene adesso, state tranquilli, nessuno può farle più male”. 
 
Allora Carmel mi ha detto: “Babbo seppelliscimi col mio skateboard…” ha tirato gli ultimi due respiri e se n’è andato. Siamo rimasti noi due, ho detto a Hadar. Non ti preoccupare per me ha detto, sto bene. Quando sono arrivati a prenderci mi ha fatto caricare sul tank e poi sull’ambulanza, e mi ha salvato. I genitori e i figli dei rapiti hanno il volto contratto, la loro voce ti interroga. Così Ella di 23 anni, che dormiva col suo compagno, e ha rivisto, bruciata la casa dei suoi genitori, Ras e Ohad Ben Ami, rapiti. “I messaggi di mio padre raccontano tutta la storia: sono entrati, rompono tutto, entrano nel rifugio… poi 5 giorni fa ho visto mio padre, in un film, buttato sotto una tenda. La mamma è molto malata, ha bisogno delle medicine… Aspettiamo disperati”. Nir Shani ha quattro bambini, Micha di 18, Amit di !6, Emma di !2, Rani di 9. Ma Amit è stato rapito, non se ne sa più nulla. Nir sorride, Amit è un grande tifoso della Juventus: “L’anno prossimo lo porto in Italia”. Nir ha resistito chiuso nel rifugio mentre quelli erano per ogni dove nella sua casa, spaccavano, urlavano Allahu Akbar, davano fuoco. “Mi sono fatto una maschera con una federa, e mi dicevo, mentre telefonavo a mia figlia: così si muore? Che strana cosa. La porta era bollente, ero al buio, poi mi hanno portato semisoffocato all’ospedale, e allora mia moglie mi ha detto che hanno preso Amit alle 12 circa”. Cerava una conferma nel mio sguardo: Amit è saggio, saprà come cavarsela”. Golan Abitbul sa un po' di italiano, 44 anni. Ha chiuso la sua famiglia con quattro bambini dentro il rifugio e poi ha deciso di rischiare la vita armato solo di una Smith & Wesson, andando di casa in casa a cercare di tirare fuori dai piani alti la gente che bruciava viva. “Prima tre, poi sei di Hamas armati di RPG, io però dovevo andare a prendere tutta la famiglia di mio fratello con i due piccoli, e portare anche loro da noi. Dopo ho chiamato via via varie famiglie la cui casa era in fiamme: vi prendo io, correte fuori o morirete bruciati. Aiutavo a scappare e mettersi in salvo. Quando sono arrivati i soldati coi tank, ci hanno detto: ‘Andiamo, tappate gli occhi ai bambini che non vedano lo strazio’. E così coi bambini siamo andati, andati… fra i cadaveri, i pezzi di corpo, le case bruciate”. Ricostruiremo, mi promette. Ci credo, sono un gruppo di eroi.  
 
   
 

Tutti gli amici di Hamas all'assalto

venerdì 27 ottobre 2023 Il Giornale 2 commenti

Il Giornale, 27 ottobre 2023

Il discorso di Gutierrez all’ONU è stato il “liberitutti” per dare fuoco alle polveri antisraeliane e antisemite insieme alla ripetuta imposizione russa nel Consiglio di Sicurezza di non condannare Hamas. Ieri per chiarire bene le alleanze, una delegazione di Hamas è atterrata a Mosca con una delegazione dall’ Iran e una dalla Siria: ormai la definizione dell’asse antidemocratico prende una decisa forma internazionale belligerante. Pochi giorni prima, Hamas e la Jihad Islamica hanno incontrato Nasrallah a Beirut, scopo esplicito come continuare la guerra di Hamas. La copertura internazionale ha fornito uno scenario all’esplosione antisemita del premier turco Tayyip Erdogan che in Parlamento, fra applausi entusiasti, ha accusato Israele di sistematica eliminazione dei bambini palestinesi, l’ha accusato di attaccare “ospedali, scuole, moschee, e chiese… con operazioni che confinano col genocidio”.

Erdogan fa parte di una compagnia in cui il Qatar splende, più cauto ma più abile e l’accompagnano schierati, gli Egiziani e i Giordani, in cui un’azione di continuo “petting” con l’Occidente lascia uno spazio improvviso all’odio di cui sono intrisi i popoli di questi Paesi. Appare così chiaro il senso politico della dichiarazione della regina Rania di Giordania, di origine palestinese, che, certo col permesso del marito re Abdullah, ha attaccato durante un’intervista alla CNN il presidente Biden per aver detto che Hamas ha decapitato dei bambini, sostenendo che non ce ne sono prove. Cauto invece Mohammed Bin Salman dall’Arabia Saudita mentre sorprende il vecchio alleato di Israele Abdel Fattah al Sisi. Erdogan, invece, ha sempre odiato Israele, con intervalli strategici: ma ora che ha rifiutato di proseguire nelle sanzioni a Putin, che ha incontrato, stavolta ha deciso di collocarsi nella posizione che ritiene forte: quella di leader della Fratellanza Mussulmana, cui anche Hamas appartiene, anche per contrastare l’abilità e il doppio registro dell’altro importante leader sunnita, di Mohammed bin Abdulrahaman Al Thani visitato sei giorni fa anche dal segretario di Stato Antony Blinken.

È di ieri la notizia che adesso, nel bel mezzo della trattativa per gli ostaggi, evidentemente per elevare la credibilità del mediatore che dovrebbe riuscire nella difficile trattativa sugli ostaggi, Blinken, secondo il Washington Post, ha ottenuto dal Qatar di rivedere i rapporti con Hamas, anche se non si parla esplicitamente di chiudere l’ufficio di Hamas a Doha, suo centro fisso di elaborazione e centro comunicazioni, e di cacciare via Ismail Haniyeh.  Il Qatar, che insieme riesce a finanziare al-Jazeera, think tank mondiali, squadre sportive, la Formula Uno, e il più sanguinario gruppo terrorista del mondo Hamas, sembra adesso essere il plenipotenziario vero, non smentito da Israele, della liberazione di “buona parte”, si dice degli ostaggi. Sono 220 persone fra cui molti 30-40 infanti e bambini, donne, vecchi, e molti con passaporto straniero (tailandesi, americani nel numero maggiore, e altri). Si parla del rilascio di donne e bambini, le famiglie disperate premono perché si risponda alle richieste di cibo, medicine, acqua e altri beni essenziali. La trattativa però verte, sembra, sulla benzina. Gli ospedali se ne servono per la loro attività, dice il Qatar, ma è chiaro che si tratta di un bene indispensabile alla guerra. E comunque ogni aiuto finisce nelle mani di Hamas, specie se se ne occupa il Qatar. La discussione implica capziose distinzioni su chi deve essere considerato bambino (fino a 16? A 17 anni?). I soldati aspettano sul confine, ma agiscono con operazioni mirate in cui si raccolgono soprattutto molte informazioni per lo scopo basilare: distruggere Hamas. Né la Turchia né il Qatar persino con l’aiuto di Gutierrez hanno per ora spostato la decisione. Intanto all’ONU al ministro degli esteri iraniano che di nuovo minacciava dal podio e esaltava gli shahid islamici, Dani Danon, rappresentante di Israele, ha risposto mostrando all’assemblea di un bambino decapitato da Hamas.

 

Un massacro mai visto

giovedì 26 ottobre 2023 Il Giornale 3 commenti

Il Giornale, 26 ottobre 2023

Si sta rimuovendo il 7 ottobre: è troppo difficile interrompere il bel sogno pacifista del dopoguerra per capire che abbiamo assistito all’apertura inguardabile, inaspettata, di una guerra mai vista prima a tutto il mondo civile. Un massacro di bambini ha bisogno di strumenti particolari per essere compreso. Bisogna prima di tutto guardarlo, sapere resistere alle immagini delle creature piccole che dicono «voglio la mamma» mentre li si tortura e uccide. Poi, bisogna sapersi chiedere come è accaduto; guardare proprio in faccia i massacratori, ascoltare cosa dicono. Infine, scacciare la paura per domandarsi come evitare che arrivi fino a te.

Nessuna di queste operazioni è stata fatta da Guterres, il segretario dell’Onu, né dalle piazze che inneggiano alla distruzione dello Stato d’Israele che blaterano del conflitto israelo-palestinese. Vorrei costringerli a sedersi al buio come ha fatto la cronista ieri e a guardare per 45 minuti le riprese fatte con le loro telecamere dagli uomini di Hamas mentre massacravano le loro 1.500 vittime innocenti, le famiglie stupefatte dell’aggressione e poi immerse nel loro sangue, gli stralci di video dei telefonini delle vittime ritrovati fra le rovine dei kibbutz.

Come sono davvero i terroristi? Sono allegri e disciplinati, affollati sui pickup per compiere il massacro e cominciano a ammazzare tutti i guidatori delle auto: così è previsto. Una volta entrati nei kibbutz avevano una missione precisa. Svelata da un biglietto scritto a mano, trovato sul corpo di uno dei miliziani uccisi e diffuso dall’esercito israeliano: «Sappi che questo tuo nemico è una malattia che non ha cura, se non la decapitazione e l’estrazione di cuore e fegato!». Li vediamo agire secondo un copione collettivo, con grandi roncole fanno a pezzi tutti quanti... «Allah akbar», ripetono senza smettere un attimo, ogni colpo per staccare una testa, ogni gruppo che si butta in massa addosso a una ragazza ormai tutta sanguinante e semi spogliata ripete e ripete che Allah è grande, si incitano felici l’un l’altro. Una pletora di corpi bruciati vivi rende evidente che la soddisfazione va di pari passo con l’organizzazione, il programma procede.

Hanno una gerarchia precisa, rispondono a capi, eseguono ordini: lo fanno quando si scatenano dietro a un gruppo di bambine ammucchiate sotto un tendone per la mutilazione, la morte, lo stupro da vive e da morte, come si vede nei video. Agiscono in gruppi organizzati, sono del tutto atoni al pianto infantile, alla parola «innocenti» o «madre», la parola «bambino» non ha più ruolo semantico: hanno istruzioni come quelle delle SS quando buttano addosso a un padre con due bambini piccoli in fuga una bomba a mano, uccidono il padre, buttano i bambini in una stanza. Il più grande zitto accarezza il secondo che grida «babbo, babbo, è morto davvero, non è un film, voglio la mia mamma», e l’altro gli chiede «ci vedi da quell’occhio», il piccolo dice di no, e finisce là; sono solo due dei bambini la cui sorte è ignota.

Questa vicenda non finisce qui, è diversa da tutte, mai si è sperimentato l’ordine di spopolare con mezzi estremi, famiglia per famiglia, tutto il territorio, con una strategia che suggerisca la fine del mondo. Cos’è tutto quest’odio? Chiedo al generale Micky Edelstein che presenta il film: «Non è odio - dice - è un programma». Come rivela la Cnn sono durati due anni i preparativi di Hamas, i terroristi sono riusciti a eludere la sorveglianza delle più potenti agenzie di intelligence del pianeta con uno stratagemma, un «controspionaggio vecchio stile». Privilegiati incontri di persona e telefoni fissi nei tunnel di Gaza. E solo una piccola cellula di Hamas era al corrente dei piani per l’assalto simulato - come rivela il Wall Street Journal - a settembre in Iran, poi è stato allertato un gruppo più ampio di combattenti, pronti ad agire, solo quando ormai era tutto deciso.

Harold Rhode, già consigliere speciale del Pentagono per la cultura islamica, spiega così la filosofia: «È la cultura nomadica araba, dettata da leggi di sopravvivenza selvagge: una terra un tempo musulmana deve tornare all’Islam a qualsiasi costo. Non c’è limite ai mezzi per farlo, di generazione in generazione».

Spiega ancora Rhode che mentre conquisti, devi terrorizzare, donne e bambini sono solo la carne da macello che deve sanguinare per disegnare il tuo dominio. Chi non lo fa, è una pecora: i nemici vanno divorati vivi. Il piano del sabato nero era questo, e l’Iran è il suo profeta.

 

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