Hamas attacca, obiettivo Gerusalemme
Il Giornale, 17 novembre 2023
Doveva essere un altro attacco atroce, sullo stile del 7 di ottobre, questa era certo l’ispirazione; Hamas aveva programmato una grande giornata di terrore in tutta Gerusalemme. Sulla strada delle gallerie, che si innesta dal Gush Etzion in città tre terroristi armati di fucile hanno ucciso un soldato di vent’anni che ha difeso gli astanti col suo corpo, e ferito altre cinque persone. La strada proviene da Hebron, da Betlemme, si innesta su molte località palestinesi. Quando i soldati al check point hanno fermato la Skoda bianca mascherata con una targa gialla, vistisi smascherati sono saltati fuori e hanno sparato facendo 6 feriti. Una guardia di 20 anni Avraham Tutena è rimasta a terra; mentre ancora si dava la caccia ai tre terroristi, una ragazza di 25 anni, Talia Diker, paramedico dell’esercito, è uscita dalla sua auto avventurandosi per tentare la respirazione artificiale. Ma il gesto generoso è stato vano. Tutena è morto poco all’ospedale.
Nel portabagagli dei terroristi si scoprivano mitra, asce, divise israeliane, caricatori sufficienti per una grande strage a Gerusalemme bloccata solo dalla determinazione dei soldati. Secondo il classico martirologio degli shahid, insieme alle armi c’era una riserva di datteri e latte. I terroristi venivano da Hebron, la capitale del terrorismo di Hamas nell’Autorità Palestinese, e uno dei tre, Abdel al-Qadr al-Qawasmi, era il figlio di un famoso capo della stessa organizzazione che aveva fatto centinaia di morti in Israele durante la seconda Intifada, Abdallah al-Qawasmi, eliminato nel 2003. Un’azione carica di simboli per dire alla gente d’Israele: stiamo arrivando anche da voi. La novità consiste non nella ovvia rivendicazione di Hamas, collaterale all’azione di Gaza, ma nel mucchio di armi che denuncia un’ambizione larga e di lunga durata, e nella provenienza geografica.
Infatti Jenin è stata la casa madre degli attacchi che si sono succeduti uno dietro l’altro negli ultimi tre anni, non un’equa distribuzione fra Hamas, Jihad Islamica, Brigate di al-Aqsa, e la nuova “Lion Den”, la fossa dei leoni. Solo nell’ultimo mese ci sono stati quattro attentati letali, e prima, lungo il 2021, ‘22, ‘23, l’assedio nelle strade, nei caffe, alle fermate degli autobus ha fatto decine di morti…impossibile elencarli tutti, solo qualche esempio tre morti a Beersheba nel mall, (marzo ‘21), 4 per le strade di Bnei Berak (sempre marzo), tre a Tel Aviv al caffè (aprile ‘22) 7 a Neve Yakov (nel gennaio 23) 3 a Ramot, 2 a Hawara… molti spezzano il cuore come la mamma con due figlie il 7 aprile di quest’anno nella valle del Giordano, l’uccisione del nostro turista italiano nel giugno, l’assassinio di due fratellini di sei e otto anni nel febbraio alla fermata dell’autobus … Il terrorismo del West Bank, è pericoloso come quello di Hamas a Gaza, perché il regista è lo stesso: l’Iran e Khamenei. La sua strategia gli fa affermare che “la chiave della crescita della resistenza che metterà Israele in ginocchio è l’West Bank”. Hossein Salami, il capo delle Guardie rivoluzionarie ha lodato l’”esercito” palestinese dell’West bank, e certo lo seguita a rimpinzare di armi, come Hamas e la Jihad Islamica.
Anche tre residenti di Est Gerusalemme arrestati ieri probabilmente fanno parte del disegno. Dal 2005, ultime votazioni, Abu Mazen non ha mai più voluto andare alle urne: gli sarebbe servito solo a misurare la sua debolezza di fronte al vincitore, Hamas. Così, ha cercato di batterlo nel modo più sbagliato, con la concorrenza: invece di rendere solida la sua alleanza militare con Israele l’ha indebolita con una cultura dell’odio che alleva giovani Shahid pronti a passare a Hamas, e ha continuato a conferire ai terroristi stipendi per 170milioni di dollari l’anno. Teheran si è data cura di riempire l’West Bank di armi di tutti i generi, fucili automatici, missili con cui ormai si spara anche dentro la linea verde, droni. Sono queste le armi ritrovate dentro l’auto che doveva dare il via a un altro eccidio. Quando il presidente Biden, in buona fede, parla di “due Stati per due popoli” dovrebbe spiegare chi è l’interlocutore.
Le famiglie degli ostaggi fra speranza e ansia per la difficile trattativa
Il Giornale, 16 novembre 2023
Nel corso della serata di ieri, la proposta di Hamas si è fatta insistente: fra i 50 e i 100 rapiti da Israele, bambini e mamme e forse nonne, contro un numero per ora imprecisato di prigionieri nelle carceri di Gerusalemme. Si tratta comunque di terroriste donne e di ragazzi terroristi in carcere. Di donne ce ne sono, dietro le sbarre, 194, di ragazzi sotto i 16 anni 12, sopra i 16, 156. Difficilmente Israele potrà rifiutare una proposta che tocca il cuore di Israele e di tutto il mondo, e su cui Biden ha insistito anche ultimamente chiedendo di impegnarsi.
Ma ci sta pensando e chi sa se le difficoltà saranno superabili: è una trattativa che richiede una enorme attenzione alle trappole, ai giochi di Hamas, alla perfidia di Sinwar che solo due giorni fa ha lasciato scoprire che una ragazza, Noah Marziano rapita, era stata uccisa. Hamas vuole certo tenere coperte le sue carte, i segreti di dove nasconde gli ostaggi, e quindi può avere chiesto che non usino mezzi di ricognizione, come i droni, durante le operazioni di consegna e altri mezzi di sorveglianza.
Vuole potersi muovere senza impedimenti fra il nord e il sud di Gaza, e quindi in pratica usare tutte le vie di fuga e di riorganizzazione. Le famiglie dei rapiti fremono. Noa Ofek vorrebbe andare dentro Gaza a prendere i suoi cari, è uno dei sogni nati nel dolore: “Tutto il gruppo di famiglie dei rapiti vorrebbe marciare là dentro, e riportarli a casa tutti insieme: è questa la nostra richiesta, tutti e subito, a ogni costo… sono 40 giorni senza i bambini, le mamme, i nonni, l’amore della nostra vita… non sappiamo se sono vivi o morti, al buio delle gallerie, dentro case e rifugi introvabili… mangiano? Dormono? I malati, i vecchi, hanno le medicine? E i bambini, che ne è di loro?”.
La sorte ha messo insieme un esercito dolente di familiari e amici che attraversa a piedi Israele, vecchi e passeggini, fino all’ufficio del primo ministro. La prima proposta era stata 50 contro 50 più tre giorni di tregua. Ma è vero? È un bluff? Un tentativo di spaccare Israele? Le famiglie hanno sempre detto che pretendono l’unità, che sarebbe sbagliato accettare offerte parziali, per i passaporti stranieri o per un gruppo specifico mentre un altro resta abbandonato nelle mani dei barbari.
Ma Sinwar non accetterà mai di scambiare in blocco il suo maggiore scudo umano, la sua assicurazione sulla vita. Noa, un’insegnate per bambini con problemi, ha tre persone nelle grinfie dei terroristi, suo cugino Ravid la cui ultima bambina di 5 mesi, Alma, è salva con la mamma perché ha saputo tacere 6 ore mentre i terroristi assediavano il nascondiglio; e un’altra cugina più lontana, Oron, rapita insieme alle due bambine, Aviv di 4 anni, Raz di 2. “Ha descritto al telefono minuto per minuto, chiedendo aiuto, l’assedio, i terroristi in casa, il momento in cui l’hanno afferrata, caricata con le bambine su un camion… Abbiamo ritrovato nei film dei terroristi il momento spaventoso, mentre col corpo protegge una delle due bambine. Suo marito Gadi, ha localizzato il telefono e ha visto che la portavano dentro Gaza”.
Adesso, dopo 41 giorni di lontananza e silenzio rotto da ipotesi vane, ieri è stata una giornata di voci: le povere famiglie delle 239 persone innocenti, neonati, bambini piccoli, nonni, madri padri e fratelli, e persino di una creatura nata in prigionia di cui si sa solo questo, che la madre ha partorito, si interrogano sui possibili 70-80 ostaggi contro i prigionieri. Quali? Si tratterebbe di donne e bambini contro donne in carcere e “bambini”, di fatto giovani terroristi nelle carceri israeliane.
Si tratta di capire se la proposta è vera, e se Hamas manterrebbe la promessa? Avverrebbe in una volta? A fasi di ricatto successivo? Chi si considera “bambini? Chi garantirebbe il passaggio da Hamas a Israele? Dall’accerchiamento dell’ospedale di al-Shifa sotto il quale si trovano il quartier generale di Hamas, l’offerta si è spostata da 50 a circa 100 ostaggi. Sinwar gioca la trappola mediorientale dell’astuzia, ma Israele stavolta gioca duro.
“Noi sappiamo che senza la restituzione dei nostri cari, non ci sarà vittoria vera -dice Noa- A volte sono così stupefatta che ci sia chi nelle piazze d’Europa, osa associare l’idea di libertà con un’organizzazione che infligge anche ai suoi un regime feroce”.
Come fa a sopportare la sofferenza di questa tortura?
“Mi impongo dei pensieri quieti: per esempio, le bambine in casa di una donna palestinese che vede come sono belle e dolci, e prende cura di loro. La notte è difficile. Di giorno, siamo occupatissimi: May, una cugina di 24 anni, ha organizzato tutta la famiglia. Adesso marciamo verso Gerusalemme”.
Fra i soldati ventenni dopo settimane di lotta. "Combattiamo anche per i palestinesi, mai più terrorismo"
Il Giornale, 15 novembre 2023
La base di Zikim sulla riva del mare, confina con uno dei kibbutz straziati da Hamas. Il traffico continuo di tank, Namer (tigri), veicoli corazzati, di scavatrici che scoprono le gallerie dei terroristi, ruggisce sulla sabbia di gaza. È un via vai di ragazzi dall’aria intensa, l’apparente confusione è un succedersi di operazioni. I paracadutisti che incontriamo per primi finalmente bevono una bibita: ieri hanno fatto la doccia e mangiato dopo nove giorni nella Striscia dormendo qualche ora per terra e mangiando noccioline, conquistando posizioni ormai su tutti i giornali del mondo: le gallerie piene di armi, gli asili zeppi di missili, il Parlamento, la polizia di Hamas. Israele avanza, dagli ospedali ormai si assiste a sgomberi verso il sud dopo che è stato chiaro che Israele non avrebbe accettato che restassero in funzione come rifugio della leadership di Sinwar: “Non ho avuto tempo di telefonare alla famiglia. Lo so dovrei” -ride Shon, 24 anni- “Siamo riserve, ma perfettamente allenati. Ero a Tel Aviv, lavoro nelle start-up”. Ma… via di corsa, appena ha chiamato il comandante. Abbiamo subito combattuto nei kibbutz invasi. È indicibile quello che hanno fatto ai bambini e alle famiglie… cosa sento? Che non permetteremo che accada mai più. “A Gaza, spero, ci sono anche persone normali. Siamo qui per liberare anche loro” Erwin è tornato dall’India: “Ovvio, con orgoglio: si sa che si può morire, ma lo scopo è più grande di noi. Non c’è scelta, non subiremo un attacco come quello del 7 ottobre”. È con amore pratico e diretto per “la patria”, moledet, per la casa, la famiglia, tutti valori che in Europa sono difficili persino da pronunciare. Adesso nella parte nord di Gaza l’IDF ha catturato le basi più importanti del governo di Hamas a Sheick Ijlin e a Rimal dopo dure battaglie e consentendo corridoi umanitari verso il sud. I soldati uccisi dall’inizio della guerra sono 46, un prezzo che si aggiunge a quello degli 1400 assassinati dei 239 rapiti e dei più di 300 uccisi il 7 ottobre.
La determinazione dei soldati ha al centro la distruzione del gioiello della difesa di Hamas, le gallerie sotterranee. Quelle connesse con l’ospedale Rantisi rivela al mondo l’uso delle strutture umanitarie come scudo e retroterra, esce fuori dalle fondamenta una stanza con una delle motociclette del ratto, biberon e diapers, oggetti probabili dei rapiti, e una lista dei sorveglianti. Parlamento, governo, centrale di polizia, tutto è nelle mani di Israele. Ne è fiero all’ospedale Ichilov, ferito in battaglia Daniel 21 anni, pianista per l’esercito, tiratore scelto e infermiere: “Mi sono ritrovato nudo dopo il colpo che mi ha preso alla schiena e alla testa. Accanto a me il mio migliore amico sanguinava. Stordito, ho sentito urlare ‘infermiere, infermiere’, ma l’infermiere ero io, lui sanguinava, l’abbiamo salvato, ora è accanto a me qui all’ospedale. Ho danni a un orecchio, alla testa, sono bruciato sul braccio e sul corpo... ma muoio dalla voglia di tornare dalla mia unità. Io mi fido del mio lavoro di infermiere, c’è bisogno di me. Siamo un corpo unico: condividiamo il sacco a pelo e l’ultimo panino”. Alla base, appena rientrato, un paracadutista di 30 anni Shahar racconta: “Il 7 ci hanno mandato nei kibbutz direttamente, appena arrivati a Be’eri, a Alumim, abbiamo sbattuto la faccia nel sangue, i morti per terra, gli orrori e un numero enorme di terroristi.
Ho perduto là un mio amico carissimo, il cui corpo è stato ritrovato solo dopo una settimana. Entrare a Gaza a combattere è la cosa più naturale. Sono stato ferito alla schiena e alla testa. Ma ho chiesto di tornare prima possibile: i miei nonni erano sopravvissuti della Shoah, mio padre ha combattuto nella Guerra del Kippur. Never again e adesso, è il mio turno. So che a un ragazzo italiano può sembrare strano. Ma farebbe lo stesso se la sua casa, la sua ragazza, fossero a 10 chilometri da qui: se ci mostrassimo deboli, Hamas cercherà di farci di nuovo a pezzi, nei kibbutz non si potrebbe tornare a casa. Mi fa rabbia che nel mondo non si tenga per noi: facciamo di tutto per salvare la popolazione civile, Hamas la usa come scuso umano. Mia madre porta la gente di Gaza all’ospedale in Israele. Offriamo incubatrici agli ospedali che nascondono i leader terroristi… che altro ci si aspetta da noi?”.
Con Douglas Murray sul confine di Gaza: "L’Occidente non capisce, è il prossimo"
Il Giornale, 13 novembre 2023
Proprio nei giorni in cui esce in Italia il suo “Guerra all’Occidente” per Guerini, Douglas Murray si è infilato un giubbotto antiproiettile per andare sul confine di Gaza. Da una nostra conversazione esce la consueta valorosa passione a creare un muro di difesa per la società democratica che dal libro, passa al campo. Finalmente dalla Striscia a Gerusalemme davanti a un caffè, il giovane intellettuale cristiano dotato di quel british accent che dà valore aggiunto, sorride: certo che no i botti non gli fanno paura: “Sono stato l’anno scorso in Ucraina”. Prima si era fatto un giro per tutte le rovine fisiche e morali lasciate dall’attacco woke negli Stati Uniti. Adesso, è venuto a guardare negli occhi la terribile ferita inferta da Hamas il 7 di ottobre, a capire se il nostro mondo può affrontare una ferita simile. “Mi pare che Israele stia pensando bene a se stessa, adesso vediamo se ci riusciamo anche noi, ma sono scettico”. Douglas spiega che è venuto per portare affetto, solidarietà: “Volevo essere con voi” e così ha visto anche il film girato direttamente dai terroristi. “Credo quindi che comparare Hamas ai nazisti, non gli dia il dovuto.
In comune c’è l’intento genocida, ma i nazisti avevano bisogno, la sera, come raccontano molte memorie, di parecchio alcool dopo avere passato la giornata a sparare in testa agli ebrei e a buttarli nei fossi, o a gasarli. Hamas è felice di fare a pezzi bambini, ne fa sfoggio: filma tutto, riprende le facce felici dei suoi intenti in roghi, mutilazioni, stupri, registra la telefonata alla mamma dopo aver staccato la testa a un giovane: ‘Babbo ho ammazzato gli ebrei, sei contento? passami la mamma’”. Forse Douglas non si aspettava di planare in un simile inferno; o almeno sperava che la vicenda, così trasparente, potesse portare a fare chiarezza e a riorganizzare le idee del mondo su Israele e i palestinesi: “Invece si sente ancora dire che Israele aggredisce la popolazione pacifica ma non è vero, ci sono i film che mostrano le accoglienze dentro Gaza degli assassini con le loro vittime morte e mutilate da parte della gente entusiasta, c’è il voto compatto per Hamas, c’è Fatah buttata giù dai tetti, ci sono ormai 18 anni di organizzazione autoritaria, di incitamento a uccidere gli ebrei”. Ma Macron “de facto” nonostante tutto si veda in trasparenza, parla di bambini e donne uccisi, di punizione collettiva… È un tipico blood libel, ragiona Murray, uno dei tre classici dell’antisemitismo più dolorosi ebrei non possono sopportare: l’idea che gli ebrei sarebbero responsabili di un genocidio inesistente, di uccidere donne e bambini, mentre fanno di tutto per evitarlo, di aver creato un altro Ghetto di Varsavia, mentre al contrario non hanno fatto altro che aprire, fino all’oblio di se stessi”. E ora, nella patria di Murray, Londra, ieri 300mila hanno gridato slogan scriteriati di odio antisemita, di distruzione di Israele “from the river to the sea”... Douglas ha una smorfia di sofferenza: “Israele è solo il numero uno di una grande battaglia che tutto l’Occidente ora si trova a dover combattere.
È talmente chiaro che non c’è altra scelta…”. Talmente chiaro, però, che tutti chiedono a Israele di fermarsi. Sì ma qui Murray è sicuro: “Da quello che vedo, Israele si è ricompattata, riorganizzata, combatte bene, non ci sarà mai più un disastro così, come non può esserci più un undici di settembre. C’è stato un terribile momento di chiarificazione che ha portato all’unità e alla comprensione che i criteri vanno cambiati, che questa è una battaglia di necessità. E invece da noi…siamo lontani dal capire”. Ma forse non è così drammatico. Lo è, dice Murray: nel suo valoroso libro spiega come per puro masochismo la società abbia distrutto i pilastri di comprensione ed elaborazione colpevolizzandosi: “Queste grandi manifestazioni sono di nuovo il segno che ci siamo arresi di fronte alla pervasività del terrorismo islamico. Potevamo già affrontarlo, dal Bataclan all’attacco di Manchester nel 2017, Salman Abeidi fece 100 feriti a un concerto. Ma niente è stato fatto. Israele deve occuparsi di sé stessa, e noi dobbiamo cercare di rimettere le cose in ordine, incoraggiare la polizia, osservare le leggi”.
Londra, Parigi, Bruxelles in piazza e i leader "giustificano l'antisemitismo"
Il Giornale, 12 novembre 2023
La disinformazione sulla guerra
Qualcosa non torna nel modo in cui la politica si occupa della “crisi mediorientale”. Si tratta di un’espressione insufficiente: da quell’7 di ottobre di atrocità mai viste che possono ripetersi se Israele non ferma Hamas, il mondo soffre di una forma di cecità, di amnesia, da cui viene giustificata un’ondata antisemita di pregiudizio che invade le piazze, le università, distrugge la memoria e la civiltà in cui viviamo. Mentre enormi masse di volgari odiatori di Ebrei marciano a Londra e a Parigi a New York, la politica balbetta luoghi comuni che, se ubbiditi, di fatto salverebbero i boia di Hamas; la legge internazionale che prevede tregue fra stati nemici, non prevede di concederla a un’inaffidabile, feroce organizzazione terroristica. Uno sfondo di numeri non verificati e di fake news avalla le grandi marce antisemite che stanno invadendo l’Europa, aggredendo Israele e l’Occidente invece di Hamas.
Nelle ultime 48 ore Emmanuel Macron, Antony Blinken e persino Trump propagandano un umanitarismo politico per cui Israele agisce, se non si ferma, contro la legge internazionale, e anzi, ha un certo gusto perverso a violarle. Il presidente francese ha detto che “de facto” Israele uccide “donne e bambini”: la storia vera de facto è quella per cui Hamas ha ucciso donne e bambini ebrei. Ma Macron ha parlato alla BBC, la più prevenuta fra le tv, prima delle manifestazioni antisemite di ieri, kefie e urla che chiedono la distruzione di Israele “dal fiume al mare”. Macron aveva, proprio a Gerusalemme, sostenuto il diritto di Israele a difendersi; e adesso ha ripetuto che “de facto” è “senza giustificazione” che Israele uccida innocenti. Sa bene che Israele fa di tutto per evitarlo, tuttavia nella difficile decisione di battere Hamas anche se usa i suoi come scudi umani: questo non cambia la necessità di cancellare dal confine l’insicurezza, l’invivibilità assoluta per tutti i cittadini.
Anche Blinken ripete ogni giorno la richiesta USA non di una tregua, ma di una interruzione, mentre persino Trump ha esclamato che è “orribile” quello che accade. Ma che cosa sta accadendo nelle stesse ore? Intanto si dice che l’Ospedale di Shifa sia stato svuotato; l’esercito consente per ore, a volte intorno alle 4 al giorno richieste, la marcia verso il sud dei cittadini che si spostano, Per settimane con telefonate e volantini ha cercare di evacuare la popolazione: Hamas per tenersi i suoi scudi umani ha anche sparato. Il difficile obiettivo di Israele è battere su un terreno che nasconde ovunque le armi e gli uomini di Hamas un nemico che ha costruito una fortezza su 500 chilometri di gallerie, e combatte da trappole di fuoco, dove i soldati, ragazzi di 19 anni e riserve arrivate al confine dall’ufficio o dalla fabbrica, perdono la vita combattendo sul terreno (sono già più di 40 in un mese) per battere i terroristi molto bene armati. Tzahal ha catturato 11 outpost, i nidi di missili sono innumerevoli, un tunnel era piazzato all'ingresso di una scuola, un altro sotto i letti di due bambini in una camera, un edificio civile copriva una caserma piena di RPG, missili, armi automatiche, bombe a mano, strumenti tecnologici. I carri armati sono preceduti da unità che marciano in avanscoperta, i veicoli corazzati ricevono attacchi mortali di artiglieria e di missili. Con volantini o direttamente si rivolgono alla gente chiedendo informazioni sui rapiti, pensiero dominante. Dell’ospedale Shifa, al centro della battaglia tutto il mondo sa che copre il nido del ragno, Yehie Sinwar, il nazista-jihadista che ha concepito nei particolari la barbarie. Israele ha chiesto di spostare i pazienti, i medici, le attrezzature da settimane: Hamas l’ha impedito, ma adesso pare che lo sgombero sia avanzato. Si accusa Israele di violare la Convenzione di Ginevra ma la protezione di strutture umanitarie è legata a che “non siano usate fuori dei loro doveri umanitari, per atti pericolosi per il nemico”, cioè quando diventano strumenti di guerra. Così è stato per Shifa. I pazienti adesso devono raggiungere zone sicure, e essere curati: invece che applicarsi a fermare Israele, che non lo farà, le forze umanitarie potrebbero assistere i profughi.
"Liberi 100 palestinesi in cambio di ostaggi". La trattativa segreta tra Hamas e Israele (e l' ombra del bluff)
Il Giornale, 11 novembre 2023
In Israele ieri una nuova notte di domande, tormento e speranza dopo la notizia apparsa su al-Arabiya e poi ripresa dal Washington Post dell’accordo raggiunto da Hamas e da Israele per la restituzione di 100 dei 239 ostaggi rapiti nel giorno della strage in cambio, dice al Arabiya, in cambio di “100 donne e ragazzi” nelle carceri israeliani. Israele nega l’accordo, ma da giorni le notizie girano intorno alle più svariate voci di mediazioni, accordi, in cui sono coinvolti anche il Qatar e l’Egitto, su uno sfondo USA. L’ipotesi di cui si discute in queste ore è impossibile da certificare, ma ha alcune caratteristiche che forse la sottraggono alla pura ipotesi del tentativo dei terroristi di guadagnare tempo in un momento di estrema difficoltà sul campo, mentre due degli ospedali nel centro della città che coprono le strutture belliche di Hamas sono assediati e vengono sgomberati, in cui la gente fugge a sud con le bandiere bianche ormai in centinaia di migliaia.
Hamas oggi ha un interesse estremo a fermare l’assedio al bunker di Sinwar: per questo non è peregrina l’ipotesi che, tramite uno Stato amico, probabilmente il Qatar, si avventuri verso un grosso scambio. Fino ad ora gli ostaggi liberati sono gocce nel mare della sofferenza israeliana: madre e figlia il 20 di ottobre, poco più avanti due anziane signore. Solo due giorni fa le ferite psicologiche delle terribili immagini di Hana, 77 anni e di Yagil, 12 anni, i volti distrutti dalla prigionia. La Jihad Islamica ha dichiarato l’intenzione di liberarli e li ha evidentemente costretti a recitare una serqua di tragiche affermazioni propagandistiche.
Ma l’idea che Hamas giochi le sue carte due a due non convince Israele: anzi, questa ipotesi spinge a pensare ciò che per altro è un’idea molto diffusa, nell’esercito e fra i civili, fra i soldati e fra le famiglie dei rapiti, che per costringere Hamas con le buone o con le cattive a rilasciare i prigionieri, lo si debba stringere nell’angolo con la forza. Quindi fino a ora Netanyahu e ha detto: “Gli ostaggi sono la nostra prima preoccupazione, combattiamo per recuperarli e per cancellare Hamas, insieme. Ci sarà una tregua solo se ci restituiranno i rapiti”. Adesso però l’ipotesi di una grande restituzione aprirebbe un capitolo inedito: è difficile che, per quanto dannoso possa essere rallentare la battaglia, Israele la rifiuti. Nessuno che non sia qui può immaginare il coinvolgimento del Paese di fronte ai volti di quei bambini, di Avigail che ha due anni e mezzo e cui sono stati uccisi tutti e due i genitori ed è nelle mani delle belve che li hanno trucidati; nessuno può astrarsi dal pianto della nonna dei tre nipotini rapiti anche loro ormai orfani, o dall’urlo della madre trascinata via mentre stringe i suoi due bambini coi cappelli rossi, o della vecchietta su una moto fra due orribili centauri sanguinari.
Di tutti sappiamo i nomi, le medicine di cui hanno bisogno, la dolcezza. Si può ipotizzare che se Hamas è propone uno scambio così grosso, e se il mediatore è Doha sostenuta dagli Stati Uniti, è perché Biden ha il desiderio politico di portare Israele a una tregua. Uno scambio di queste dimensioni metterebbe in moto una quantità di protagonisti: la Croce Rossa, L’Egitto, il Qatar, la polizia israeliana, l’esercito. Si vedrebbero di nuovo in giro con grave pericolo una serie di giovani terroristi (che al-Arabiya li chiami bambini non cambia la realtà dire ragazzini e giovani già implicati nel terrore) come accadde al tempo di Gilad Shalit, quando fra i 1027 terroristi liberati, si trovava anche Yahya Sinwar.
L'anziana e il bimbo, un altro video-ricatto sui rapiti
Il Giornale, 10 novembre 2023
Scelti con astuzia sapendo di andare a toccare il cuore e la mente d’Israele, sui teleschermi israeliani nelle ore del massimo ascolto serale, prima di cena, dopo 34 giorni di sofferenza e 2 giorni di confusione assoluta sul tema degli ostaggi, un video della Jihad Islamica, ha mostrato le facce sofferenti, emaciate, bianche, di Anna Katzir 77 anni, e del piccolo Yagil Yaakov, 12 anni, ambedue di Nir Oz, uno dei kibbutz della strage, rapito con i genitori e il fratello di 16 anni. Disseppelliti dalle gallerie li hanno fatto recitare la parte che gli faceva comodo. Probabilmente saranno liberati entro poche ore. Hanno parlato della loro sofferenza e del desiderio di tornare a casa, poi Anna ha rimproverato Netanyahu come responsabile di tutto, e Yagil gli ha detto che sparando rischia la vita degli ostaggi e gli ha chiesto di fornire acqua, medicine, etc. Poi il solito zombie mascherato, stavolta della Jihad Islamica, ha annunciato che li vogliono liberare “quando ce ne saranno le condizioni”. Due su 339, uno segnato dal tempo unito alla tortura, l’altro di un bambino stravolto dalla pena, ambedue segnati dalla sofferenza, un messaggio scelto con cinica furbizia come per il copione film. È chiara l’intenzione di giocarsi gli ostaggi uno ad uno, nel tempo lungo che può servire di fronte a una guerra israeliana che avanza con successo. La mossa della Jihad Islamica, che evidentemente si è suddivisa con Hamas il compito di aguzzino dei 339 prigionieri, è legata a paura, a agitazione, è provocata da un sommovimento generale, punta a segnalare agli americani la necessità di spingere per la tregua, come peraltro Biden vorrebbe.
Ma è soprattutto un singulto dalle gallerie ormai assediate, dagli edifici ormai semidistrutti: la battaglia negli ultimi due giorni si è svolta dove hanno sede i depositi di armi, gli strumenti strategici, i locali dello Stato Maggiore di Hamas. L’esercito ormai assedia gli ospedali Indonesiano e quello di Shifa sotto il quale ha sede il nido del ragno, la sede di Yehiye Sinwar. Tutti e venti gli ospedali di Gaza sembrano essere collocati sopra punti strategici dei 500 chilometri di gallerie. L’esercito si è mosso sulla base delle informazioni fornite dagli interrogatori dei terroristi presi dopo la strage, e Hamas sta subendo una sventola: i suoi ufficiali decimati, le quotidiane sconfitte sul campo, la fuga di decine di migliaia di gazani con le bandiere bianche, adesso Hamas cerca di giocarla con l’unica ma potentissima arma che ha in mano: i rapiti. Colpisce Israele nella sua insopportabile sofferenza, continua la tortura del 7 ottobre, spinge tramite Doha, dove israeliani e americani si sono incontrati, la tregua di cui ha bisogno in cambio di ostaggi. L’idea che Israele possa concedere 4 ore di tregua al giorno, in realtà non cambia molto, e si aspettano altre novità: Gerusalemme già concede tregue per i cittadini, cui l’ha chiesto con volantini e telefonate, che si spostano a nord. Le famiglie unite non spingono per tregue, chiedono solo di mettere i loro cari al primo posto.
Sono ovunque: dalle piazze, dalle mura tempestate di foto, dai viaggi alla ricerca di solidarietà, chiedono di affrontare subito “achshav” la tragedia. Hanno tanti bambini, genitori, nonni, nelle mani dei macellai del Sabato nero, di cui non sanno più niente. Netanyahu che prima diceva “non ci fermeremo” ora ripete “ci sarà una tregua solo se restituiranno i nostri rapiti”. La Croce Rossa non porta informazioni, nemmeno il numero dei vivi, dei malati: ieri sera una grande manifestazione di medici le ha chiesto di fare il suo dovere.
Le gallerie sventrate di Hamas. A Gaza prime bandiere bianche
Il Giornale, 08 settembre 2023
Dalla nuvola di sabbia che avvolge Gaza in queste ore, si disegna un'immagine fatale: una processione di centinaia di persone che camminano con energia su una strada principale, forse la famosa Salahadin che taglia tutta la striscia da Nord a Sud. Fuggono verso il sud e portano bene in alto, che si vedano, delle bandiere bianche. Stavolta non sembra, come si è visto in altri filmati, che Hamas fermi la loro marcia sparando per non permettere che si sguarnisca nel nord assediato da Tzahal il suo scudo umano. Stavolta Hamas ha solo cercato invano di far sparire il film dai social, ma sono rimaste le immagini che significano resa. Il simbolo è pesante per Hamas, il Medio Oriente odia i perdenti, e anche l’Iran e gli Hezbollah lo vedono. Se l’episodio non significa ancora che la guerra sia prossima a concludersi, tuttavia c’è la sensazione che la strada sia segnata: l’esercito affronta con risultati impressionanti il difficilissimo terreno della città di gaza, una fortezza costruita negli anni, dallo sgombero del 2005, per gli scopi bellici del regime.
La sua maggiore caratteristica è l'incredibile rete di gallerie: gallerie piccole e grandi, orizzontali e verticali, non sono costruite sotto la città: è la città che è costruita sulle gallerie. Sono fatte per dirigere la guerra, entrare in Israele da sotto terra, ammassare missili, armi automatiche, congegni di alta tecnologia e droni, per accumulare cibo, acqua, benzina. Nei tunnel c’è tutto quello che serve ai terroristi, e per proteggere nel luogo più profondo e organizzato il comando di Yehia Sinwar e di Mohammed Deif. La struttura che Hamas ha costruito misura, dicono loro stessi, 500 chilometri e da un paio di giorni Israele ha cominciato a distruggerla, a esploderne gli ingressi, a farne crollare le strutture con grandi caterpillar spesso dopo che una bomba di profondità ha aperto la strada.
Nel regno delle tenebre però prima di tutto si cercano gli ostaggi. Gallerie armate sono state trovate sotto le moschee, accanto a scuole, presso una piscina per bambini. Dalle gallerie assediate spesso gruppi di assalto saltano fuori all’improvviso, i giovani israeliani affrontano pericoli terribili con una continua dimostrazione di valore e di unità, nonostante le perdite. Il sancta sanctorum delle gallerie è sotto gli ospedali, tutta Gaza lo sa, il bunker di Sinwar è probabilmente sotto l’ospedale Shifa dentro Gaza per approfittare dello scudo umano. L’avanzata è lenta, da ogni buco in terra possono saltare fuori armati di Hamas, ogni centimetro della città di Gaza è minata, ovunque. Israele ha fatto 6 milioni di telefonate e ha lanciato un milione e mezzo di volantini per indurre lo spostamento al sud. Difficile la guerra quando il nemico vuole anche il sangue dei suoi, ma Netanyahu ha ripetuto a tarda sera: solo in cambio dei nostri rapiti ci sarà la tregua umanitaria.
Un mese di guerra. L'inferno del 7 ottobre un punto senza ritorno
Il Giornale, 07 novembre 2023
Da quando, un mese fa, alle 6,20 di mattina, tutte le sirene d’Israele non sono bastate ad avvertire della calata dei barbari di Hamas sui kibbutz del confine sud di Israele, la nebbia avvolge il futuro, anche quello del mondo intero, e solo una certezza è rimasta. Siamo disorientati, stupiti. Ignoriamo ormai tante cose essenziali. Non sappiamo se c’è un limite alla crudeltà umana, dopo aver assistito in diretta, tramite le macchine da presa dei terroristi stessi, alle atrocità compiute sui corpi dei bambini di fronte alle madri, delle madri di fronte ai bambini. Non sappiamo se è davvero finito l’incubo dell’esercito di assassini che al grido “yehud yehud” e “Allahu akbar” ha ucciso 2700 innocenti, giovani che ballano, vecchi stupefatti, famiglie intere… uno ad uno.
Vediamo che questo urlo, con violenza e omicidi, invade adesso anche le città occidentali, e non sappiamo se ci sarà la forza e la volontà di contrastarlo, o se invece gli ebrei dovranno sgomberare, come dalle città di confine col Libano degli Hezbollah o con Gaza di Hamas. Non sappiamo più se Israele, che credevamo capace di difendersi con eccellenti mezzi tecnologi e militari, sia forte come si pensava; se la sofferenza estrema delle famiglie dei 240 ostaggi fra cui 30 bambini risveglierà le coscienze dell’occidente in una richiesta collettiva che per ora non si è sentita. E’ penoso anche combattere una guerra di sopravvivenza in un mondo che immagina che “pace” e “aiuti umanitari” siano parole universali, anche per Hamas che usa la sua gente come scudi umani e dichiara che vuole anche il suo sangue.
Ancora: non sappiamo dove arriverà la furia di strada antisemita-antisionista, un misto di demenziale, ignorante cultura woke mista a odio islamista. Però una cosa si sa: come dopo la Shoah, quando pareva impossibile che gli Ebrei trovassero la forza di costruire lo Stato d’Israele, gli ebrei sono entusiasti della vita, combattono per vincere, i giovani al fronte sanno che combattono la battaglia storica della sopravvivenza del popolo ebraico anche mentre piangono, e piangono! I caduti. Intorno, come al tempo della seconda guerra mondiale, si fronteggiano due continenti ideali, quello iraniano-russo coi loro “proxy” in un disegno oppressivo e feroce, determinato alla dominazione; dall’altra parte quello americano-israeliano-europeo. È quello della libertà, del giorno dopo il sabato nero, quando tornerà la luce.
La leadership di Abbas è debole e corrotta. Ma è una via possibile per una svolta pacifica
Il Giornale, 06 novembre 2023
Neppure Avi Issacharoff, giornalista e esperto di cultura araba, l’autore della serie più famosa su Gaza e Hamas si sarebbe mai immaginato quello che è successo. “Mai che avrebbero compiuto un’irruzione e una strage di quella crudeltà e di quelle dimensioni”. È una giornata cruciale per la guerra: l’esercito si addentra nella periferia della città principale di Gaza, dove ha sede la maggiore struttura bellica, ed essa affonda nella rete di 500 chilometri di gallerie. Avi ricorda con un mezzo sorriso che della enorme rete delle gallerie e dei bunker sotto l’Ospedale di Shifa, il maggiore, parlava già nella terza serie TV: “Non rivelavo niente che non fosse già noto. Non c’è bambino a Gaza che non sappia che sotto Shifa ci sono le strutture dello Stato Maggiore di Hamas, là sta Sinwar e il resto dei capi che hanno progettato la strage del 7 ottobre. Come si farà a destrutturarli, non so davvero dirlo”. Ma è chiaro che l’esercito si prepara ad affrontare la questione sul già difficilissimo territorio pieno di trappole esplosive e agguati.
I volantini dell’esercito israeliano chiedono di sgomberare e andare a sud, fuori, cercando di risparmiare i civili. Ma Hamas gioca sulla seria questione umanitaria posta dagli Ospedali. Dice Issacharoff che “non c’è dubbio che stavolta l’esercito vuole andare avanti, vediamo una grossa macchina da guerra, abbiamo cercato sempre di evitare lo scontro di terra: ma stavolta è diverso, la necessità di distruggere Hamas è primaria, e quindi entriamo in un territorio costruito come una macchina da guerra. E per Hamas, i cittadini non sono che uno degli strumenti”. Il dilemma di Israele è proprio questo e Avi Issacharoff è anche più diretto: Gaza è costruita sui tunnel, e non i tunnel sotto la città. La bomba da 900 chili di cui tutto il mondo ha parlato non era destinata a Jabalia, ma alla grande galleria sotto. Bisogna capire” spiega Avi, che ha dedicato la vita a descrivere il fenomeno “che Hamas uccide la sua gente intenzionalmente. Quando questo accade Israele entra in una zona di grande difficoltà, di freni internazionali.
E trattenendo i civili sulla sua testa, forma il grande scudo umano di cui ha bisogno”. Muhammed Deif e Sinwar hanno costruito un sistema in cui non uccidono solo gli ebrei, ma anche i loro concittadini: chi si ribella, e in questo caso chi si rifiuta di restare al nord, secondo foto di strade cosparse di corpi diffuse ieri, viene punito con la morte; chi protesta se Hamas ruba dagli ospedali la benzina, il bene più prezioso per i generatori, essenziali per le armi e le gallerie, è finito. Si sentono talvolta da telefonate e brevi registrazioni segnali di protesta: “In realtà” spiega Avi “il sostegno è un po' diminuito, ma è aumentato nell’Autorità nazionale Palestinese. Abu Mazen ha 89 anni, la leadership è debole e corrotta…”. E allora forse è inutile sperare che quando Hamas perderà, Fatah prenda il potere per un soluzione pacifica. Issacharoff ci spera: “E la meno peggio di tutte le soluzioni. Nel 2007 dopo la sconfitta subita da Hamas, per Fatah il ritorno è stato memorabile per la vitalità, la sicurezza, il buon rapporto con Israele”. Le domande sono profonde, e nessuna è dolorosa e difficile come quella sui 242 ostaggi di cui 33 bambini. Netanyahu ha detto ieri che non si parla di nessuna tregua umanitaria se non a fronte della restituzione degli ostaggi, e qui Issacharov alza le mani: “Non so che dire, è terribile, i mediatori sono a lavoro, e nessuno ottiene risultati… la sensazione è che Hamas non sia per ora interessata. Quanto alla tregua, Israele combatte una battaglia da cui per qualsiasi leader è difficile tirarsi indietro, tutto il Paese si sente impegnato, i ragazzi sono sul campo per vincere e contiamo ancora i nostri caduti. È stata la strage più grande in un giorno subita dall’Olocausto, non dimentichiamolo”. E come andrà a finire? L’autore di Fauda è fedele al copione sempre problematico dei suoi script: anche stavolta, difficilmente avremo la testa di Sinwar. La strada è lunga e accidentata.





