Fiamma Nirenstein Blog

La guerra antisemita contro l'Occidente

7 ottobre 2023 Israele brucia

Jewish Lives Matter

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Museo del popolo ebraico

Gli eroi di Be'eri: "Noi vivi tra i cadaveri"

domenica 29 ottobre 2023 Il Giornale 6 commenti

Il Giornale, 29 ottobre 2023

Di fronte all’entrata di marmi e palme di plastica dell’hotel David in fondo al Mar Morto, fra le dune gialle e le rocce saline, si accantonano i sopravvissuti del kibbutz Be’eri. Come in un film di Fellini arriva una fila di Porsche, di lucide Alfa Romeo, macchine di lusso: vengono a prendere i bambini orfani, dispersi, scioccati, privi di casa e di bussola psicologica per farli sorridere un minuto: è una fila di volontari che ha rastrellato le auto rombanti. Stasera viene la famosa cantante Yardena Rasi. I doni invadono l’hotel, pollo arrosto, humus e pita, torte fatte in casa. Vestiti nuovi per tutti, dottori, psicologi. Si aggirano offrendo aiuto alla folla di profughi che affolla la hall. A gruppi si abbracciano, si riconoscono, ringraziano. Non c’è libro che possa contenere tutte le storie di questi cittadini dignitosi e quieti, eroi, parenti di gente fatta a pezzi, di figli di rapiti, scampati per caso alla mattanza di Be’eri. Quei bambini che corrono in molti hanno visto uccidere un fratello, i genitori. Il kibbutz contava 1200 persone, agricoltori, una tipografia orgoglio del kibbutz pacifista. 350 morti sono stati trovati fra le sue rovine fra cui molti terroristi. Be’eri sa combattere. Le case sono bruciate, le finestre sfondate, le porte a pezzi, la mobilia e gli oggetti i terroristi li hanno polverizzati mentre la loro corte saccheggiava. Ma la storia dell’assalto comincia con un eroe, Ari Kraunik, capo della sicurezza, che corse verso i terroristi appena gli fu segnalato che entravano al kibbutz, riuscì a fermarne sette, e poi fu ucciso a spari. Le storie da non dimenticare mai adesso, all’hotel, sono qui con noi.
Doron Tzemach è un piccolo uomo calmo e dignitoso, ha perduto Shahar, suo figlio. La sua resistenza durata ore ha salvato la vita a tanti altri membri del Kibbutz. Shahar, parte della sicurezza, ha capito fra i primi cosa stava succedendo. “Alle 6,30, fra gli scoppi dei missili troppo veloci, insoliti, ricevette il messaggio di allarme. Subito ha preso l’arma, ha mandato Ella di 4 anni e mezzo e Annetta di 2 e mezzo con Ofri, la moglie, nel rifugio”. E lui è uscito a salvare la gente, uno contro cento. Shahar aveva 37 anni, fiore d’Israele, attivista della pace, nella tradizione del kibbutz e della famiglia. I terroristi cercano le prede. Shahar è corso alla clinica dentistica, da dove veniva una richiesta di aiuto. Nella stanza c’è il medico, l’infermiera Nirit e la stagista Amit. Da là mentre cominciano a arrivare in forza i terroristi fra le case, sparano e appiccano il fuoco, Shahar raccoglie un ferito grave, fino in fondo conduce una battaglia a fuoco mentre le persone intorno a lui vengono ferite. Resiste a lungo. Scorge i terroristi al giardino degli scivoli e vede un elicottero militare: “Sparate” chiede. Gli rispondono che non hanno il permesso. I gruppi delle belve compiono le loro mostruosità, alla fine assediano Shahar. “Fino alle 2 del pomeriggio è riuscito a ucciderne almeno 5, credo” dice il padre. A Efri scrive di continuo mentre finisce le pallottole: “Non vi preoccupate, arriva l’esercito, metti il frigo davanti alla porta”. Il kibbutz non riesce a serrare i rifugi, i terroristi arrostiscono gli assediati. Uno dei feriti nella clinica muore, al secondo morente Shahar mentre spara ripete “sei forte, resta con me, parlami, va tutto bene”. Gli uomini di Hamas gettano contro la porta bombe a mano e sfondano. Nirit, l’infermiera, resterà immobile due ore dentro l’armadio. Shahar e il suo compagno Eitan si battono fino alla fine, un altro salvato seguiterà ore a fingersi morto. IL meraviglioso figlio di Doron, Shahar lascia per sempre le sue due bambine piccole e il padre, che solo per un attimo piange fra le mie braccia.
 
Avida Bachar su una sedia a rotelle mi guarda fisso coi suoi occhi neri, preciso sfida la realtà. La gamba destra è saltata via. Il braccio sinistro ferito. Alle 7,30 Avida si rifugia con la famiglia, sicuro che fra poco arriverà l’esercito. Lui, la moglie Dana, Hadar, di 13 anni, e Carmel di 15. I terroristi invadono la casa, cercano di entrare spaccando tutto nel rifugio Al mattino del 7, Dana e figli fanno pipì nelle pentole, e con questo unico liquido, bagneranno gli stracci per coprirsi il viso quando i terroristi col fuoco dalla porta e dalla finestra del rifugio li soffocano. L’arabo dice “Yftach el bab” apri la porta, lui risponde “Ruch” vattene”. Ci sparano, a Carmel portano via un braccio, a me poco dopo una gamba. È un lago di sangue. Ho resistito cosciente fino a non averne più un goccio. Ci tirano tre bombe a mano. Hadar scrive senza mai smettere su whatsapp. Sangue ovunque. Dico a Dana che la gamba è chiusa nei jeans, cerchiamo di legare il braccio di Carmel con una federa. Cado all’indietro, soffochiamo, i terroristi sparano due colpi, tac tac.. Dana dice “ahi, respiro male…” e io dico ai ragazzi, “la mamma sta bene adesso, state tranquilli, nessuno può farle più male”. 
 
Allora Carmel mi ha detto: “Babbo seppelliscimi col mio skateboard…” ha tirato gli ultimi due respiri e se n’è andato. Siamo rimasti noi due, ho detto a Hadar. Non ti preoccupare per me ha detto, sto bene. Quando sono arrivati a prenderci mi ha fatto caricare sul tank e poi sull’ambulanza, e mi ha salvato. I genitori e i figli dei rapiti hanno il volto contratto, la loro voce ti interroga. Così Ella di 23 anni, che dormiva col suo compagno, e ha rivisto, bruciata la casa dei suoi genitori, Ras e Ohad Ben Ami, rapiti. “I messaggi di mio padre raccontano tutta la storia: sono entrati, rompono tutto, entrano nel rifugio… poi 5 giorni fa ho visto mio padre, in un film, buttato sotto una tenda. La mamma è molto malata, ha bisogno delle medicine… Aspettiamo disperati”. Nir Shani ha quattro bambini, Micha di 18, Amit di !6, Emma di !2, Rani di 9. Ma Amit è stato rapito, non se ne sa più nulla. Nir sorride, Amit è un grande tifoso della Juventus: “L’anno prossimo lo porto in Italia”. Nir ha resistito chiuso nel rifugio mentre quelli erano per ogni dove nella sua casa, spaccavano, urlavano Allahu Akbar, davano fuoco. “Mi sono fatto una maschera con una federa, e mi dicevo, mentre telefonavo a mia figlia: così si muore? Che strana cosa. La porta era bollente, ero al buio, poi mi hanno portato semisoffocato all’ospedale, e allora mia moglie mi ha detto che hanno preso Amit alle 12 circa”. Cerava una conferma nel mio sguardo: Amit è saggio, saprà come cavarsela”. Golan Abitbul sa un po' di italiano, 44 anni. Ha chiuso la sua famiglia con quattro bambini dentro il rifugio e poi ha deciso di rischiare la vita armato solo di una Smith & Wesson, andando di casa in casa a cercare di tirare fuori dai piani alti la gente che bruciava viva. “Prima tre, poi sei di Hamas armati di RPG, io però dovevo andare a prendere tutta la famiglia di mio fratello con i due piccoli, e portare anche loro da noi. Dopo ho chiamato via via varie famiglie la cui casa era in fiamme: vi prendo io, correte fuori o morirete bruciati. Aiutavo a scappare e mettersi in salvo. Quando sono arrivati i soldati coi tank, ci hanno detto: ‘Andiamo, tappate gli occhi ai bambini che non vedano lo strazio’. E così coi bambini siamo andati, andati… fra i cadaveri, i pezzi di corpo, le case bruciate”. Ricostruiremo, mi promette. Ci credo, sono un gruppo di eroi.  
 
   
 

Tutti gli amici di Hamas all'assalto

venerdì 27 ottobre 2023 Il Giornale 2 commenti

Il Giornale, 27 ottobre 2023

Il discorso di Gutierrez all’ONU è stato il “liberitutti” per dare fuoco alle polveri antisraeliane e antisemite insieme alla ripetuta imposizione russa nel Consiglio di Sicurezza di non condannare Hamas. Ieri per chiarire bene le alleanze, una delegazione di Hamas è atterrata a Mosca con una delegazione dall’ Iran e una dalla Siria: ormai la definizione dell’asse antidemocratico prende una decisa forma internazionale belligerante. Pochi giorni prima, Hamas e la Jihad Islamica hanno incontrato Nasrallah a Beirut, scopo esplicito come continuare la guerra di Hamas. La copertura internazionale ha fornito uno scenario all’esplosione antisemita del premier turco Tayyip Erdogan che in Parlamento, fra applausi entusiasti, ha accusato Israele di sistematica eliminazione dei bambini palestinesi, l’ha accusato di attaccare “ospedali, scuole, moschee, e chiese… con operazioni che confinano col genocidio”.

Erdogan fa parte di una compagnia in cui il Qatar splende, più cauto ma più abile e l’accompagnano schierati, gli Egiziani e i Giordani, in cui un’azione di continuo “petting” con l’Occidente lascia uno spazio improvviso all’odio di cui sono intrisi i popoli di questi Paesi. Appare così chiaro il senso politico della dichiarazione della regina Rania di Giordania, di origine palestinese, che, certo col permesso del marito re Abdullah, ha attaccato durante un’intervista alla CNN il presidente Biden per aver detto che Hamas ha decapitato dei bambini, sostenendo che non ce ne sono prove. Cauto invece Mohammed Bin Salman dall’Arabia Saudita mentre sorprende il vecchio alleato di Israele Abdel Fattah al Sisi. Erdogan, invece, ha sempre odiato Israele, con intervalli strategici: ma ora che ha rifiutato di proseguire nelle sanzioni a Putin, che ha incontrato, stavolta ha deciso di collocarsi nella posizione che ritiene forte: quella di leader della Fratellanza Mussulmana, cui anche Hamas appartiene, anche per contrastare l’abilità e il doppio registro dell’altro importante leader sunnita, di Mohammed bin Abdulrahaman Al Thani visitato sei giorni fa anche dal segretario di Stato Antony Blinken.

È di ieri la notizia che adesso, nel bel mezzo della trattativa per gli ostaggi, evidentemente per elevare la credibilità del mediatore che dovrebbe riuscire nella difficile trattativa sugli ostaggi, Blinken, secondo il Washington Post, ha ottenuto dal Qatar di rivedere i rapporti con Hamas, anche se non si parla esplicitamente di chiudere l’ufficio di Hamas a Doha, suo centro fisso di elaborazione e centro comunicazioni, e di cacciare via Ismail Haniyeh.  Il Qatar, che insieme riesce a finanziare al-Jazeera, think tank mondiali, squadre sportive, la Formula Uno, e il più sanguinario gruppo terrorista del mondo Hamas, sembra adesso essere il plenipotenziario vero, non smentito da Israele, della liberazione di “buona parte”, si dice degli ostaggi. Sono 220 persone fra cui molti 30-40 infanti e bambini, donne, vecchi, e molti con passaporto straniero (tailandesi, americani nel numero maggiore, e altri). Si parla del rilascio di donne e bambini, le famiglie disperate premono perché si risponda alle richieste di cibo, medicine, acqua e altri beni essenziali. La trattativa però verte, sembra, sulla benzina. Gli ospedali se ne servono per la loro attività, dice il Qatar, ma è chiaro che si tratta di un bene indispensabile alla guerra. E comunque ogni aiuto finisce nelle mani di Hamas, specie se se ne occupa il Qatar. La discussione implica capziose distinzioni su chi deve essere considerato bambino (fino a 16? A 17 anni?). I soldati aspettano sul confine, ma agiscono con operazioni mirate in cui si raccolgono soprattutto molte informazioni per lo scopo basilare: distruggere Hamas. Né la Turchia né il Qatar persino con l’aiuto di Gutierrez hanno per ora spostato la decisione. Intanto all’ONU al ministro degli esteri iraniano che di nuovo minacciava dal podio e esaltava gli shahid islamici, Dani Danon, rappresentante di Israele, ha risposto mostrando all’assemblea di un bambino decapitato da Hamas.

 

Un massacro mai visto

giovedì 26 ottobre 2023 Il Giornale 3 commenti

Il Giornale, 26 ottobre 2023

Si sta rimuovendo il 7 ottobre: è troppo difficile interrompere il bel sogno pacifista del dopoguerra per capire che abbiamo assistito all’apertura inguardabile, inaspettata, di una guerra mai vista prima a tutto il mondo civile. Un massacro di bambini ha bisogno di strumenti particolari per essere compreso. Bisogna prima di tutto guardarlo, sapere resistere alle immagini delle creature piccole che dicono «voglio la mamma» mentre li si tortura e uccide. Poi, bisogna sapersi chiedere come è accaduto; guardare proprio in faccia i massacratori, ascoltare cosa dicono. Infine, scacciare la paura per domandarsi come evitare che arrivi fino a te.

Nessuna di queste operazioni è stata fatta da Guterres, il segretario dell’Onu, né dalle piazze che inneggiano alla distruzione dello Stato d’Israele che blaterano del conflitto israelo-palestinese. Vorrei costringerli a sedersi al buio come ha fatto la cronista ieri e a guardare per 45 minuti le riprese fatte con le loro telecamere dagli uomini di Hamas mentre massacravano le loro 1.500 vittime innocenti, le famiglie stupefatte dell’aggressione e poi immerse nel loro sangue, gli stralci di video dei telefonini delle vittime ritrovati fra le rovine dei kibbutz.

Come sono davvero i terroristi? Sono allegri e disciplinati, affollati sui pickup per compiere il massacro e cominciano a ammazzare tutti i guidatori delle auto: così è previsto. Una volta entrati nei kibbutz avevano una missione precisa. Svelata da un biglietto scritto a mano, trovato sul corpo di uno dei miliziani uccisi e diffuso dall’esercito israeliano: «Sappi che questo tuo nemico è una malattia che non ha cura, se non la decapitazione e l’estrazione di cuore e fegato!». Li vediamo agire secondo un copione collettivo, con grandi roncole fanno a pezzi tutti quanti... «Allah akbar», ripetono senza smettere un attimo, ogni colpo per staccare una testa, ogni gruppo che si butta in massa addosso a una ragazza ormai tutta sanguinante e semi spogliata ripete e ripete che Allah è grande, si incitano felici l’un l’altro. Una pletora di corpi bruciati vivi rende evidente che la soddisfazione va di pari passo con l’organizzazione, il programma procede.

Hanno una gerarchia precisa, rispondono a capi, eseguono ordini: lo fanno quando si scatenano dietro a un gruppo di bambine ammucchiate sotto un tendone per la mutilazione, la morte, lo stupro da vive e da morte, come si vede nei video. Agiscono in gruppi organizzati, sono del tutto atoni al pianto infantile, alla parola «innocenti» o «madre», la parola «bambino» non ha più ruolo semantico: hanno istruzioni come quelle delle SS quando buttano addosso a un padre con due bambini piccoli in fuga una bomba a mano, uccidono il padre, buttano i bambini in una stanza. Il più grande zitto accarezza il secondo che grida «babbo, babbo, è morto davvero, non è un film, voglio la mia mamma», e l’altro gli chiede «ci vedi da quell’occhio», il piccolo dice di no, e finisce là; sono solo due dei bambini la cui sorte è ignota.

Questa vicenda non finisce qui, è diversa da tutte, mai si è sperimentato l’ordine di spopolare con mezzi estremi, famiglia per famiglia, tutto il territorio, con una strategia che suggerisca la fine del mondo. Cos’è tutto quest’odio? Chiedo al generale Micky Edelstein che presenta il film: «Non è odio - dice - è un programma». Come rivela la Cnn sono durati due anni i preparativi di Hamas, i terroristi sono riusciti a eludere la sorveglianza delle più potenti agenzie di intelligence del pianeta con uno stratagemma, un «controspionaggio vecchio stile». Privilegiati incontri di persona e telefoni fissi nei tunnel di Gaza. E solo una piccola cellula di Hamas era al corrente dei piani per l’assalto simulato - come rivela il Wall Street Journal - a settembre in Iran, poi è stato allertato un gruppo più ampio di combattenti, pronti ad agire, solo quando ormai era tutto deciso.

Harold Rhode, già consigliere speciale del Pentagono per la cultura islamica, spiega così la filosofia: «È la cultura nomadica araba, dettata da leggi di sopravvivenza selvagge: una terra un tempo musulmana deve tornare all’Islam a qualsiasi costo. Non c’è limite ai mezzi per farlo, di generazione in generazione».

Spiega ancora Rhode che mentre conquisti, devi terrorizzare, donne e bambini sono solo la carne da macello che deve sanguinare per disegnare il tuo dominio. Chi non lo fa, è una pecora: i nemici vanno divorati vivi. Il piano del sabato nero era questo, e l’Iran è il suo profeta.

 

Un carosello di equivoci internazionali, e Israele farà ciò che vuole

mercoledì 25 ottobre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 25 ottobre 2023

Il Capo di Stato Maggiore Herzi Halevi, mentre si discute sempre più intensamente del destino degli ostaggi e degli aiuti umanitari, ha dato la sua risposta alla domanda che tutto il mondo si fa: l’esercito di Israele sta per entrare “stivali sul terreno” a Gaza? È pronto a combattere strada a strada, vicolo a vicolo, porta a porta, alla ricerca dei capi di Hamas, fino alla distruzione dell’organizzazione terrorista? Quali sono le intenzioni dell’esercito a fronte della pressione internazionale, al suo caleidoscopio di opinioni di cautela, di pacifismo, a volte di distacco rispetto alla tragedia del 7 ottobre? Su uno sfondo di ragazzi in divisa sul confine, “Siamo pronti”, ha detto Herzi Halevi con la sua faccia grave e composta. Un annuncio significativo: vuol dire che l’esercito in 17 giorni ha portato a termine una quantità di preparativi logicistici e tecnici; il terreno su cui si dovrà marciare è stato esaminato; la speranza di minimizzare le perdite è forte; si ritiene soddisfacente al momento il numero di comandanti di Hamas colpiti con gli aerei; quanto ai rapiti, si pensa di poter agire per la loro liberazione. Una dozzina sono state le eliminazioni, molti edifici, nidi di missili, depositi di armi nascoste sono state colpiti. Si potrebbe continuare dall’aria, ma Halevi senza discutere questa possibilità ha detto “ora possiamo entrare”.

Ieri pomeriggio persino Tel Aviv è stata di nuovo pesantemente bombardata, e a Sikim, al sud, è stato fermato un gruppo di terroristi. Halevi aspetta. L’ordine però è sospeso, si sa solo che il triunvirato Netanyahu-Gallant-Halevi ripete di essere sulla stessa linea, ma mentre c’è la concordia sulla decisione di distruggere Hamas occorre anche la solidarietà internazionale. Ieri però il ministro degli esteri Eli Cohen, ha dovuto ascoltare una stupefacente relazione del segretario generale dell’ONU, Antonio Gutierrez, che dopo una frettolosa dichiarazione di solidarietà incurante dell’entità e della qualità delle barbarie di Hamas, ha perfino giustificato le mostruosità del 7 di ottobre dicendo che “non è accaduta nel vuoto”, con una sua versione della storia in cui anche Gaza soffrirebbe di un’occupazione, finita invece nel 2006. Il ministro Eli Cohen ha cancellato un incontro con Gutierrez e Benny Gantz ha definito “buio” il tempo in cui si sostiene così il terrorismo. Il segretario di Stato Blinken è intervenuto però per sostenere la guerra di Israele, anche se Biden insiste per l’ingresso di medicinali, cibo, acqua, e aiuti in denaro. La confusione fra intervento umanitario e cessate il fuoco è dell’ONU e dell’Unione Europea. Gli Usa, semmai, come ha raccontato il New York Times frenano l’attacco di terra, il Segretario alla Difesa Lloyd Austin, suggerisce di stare cauti, pena una nuova Falluja: deve esservi chiaro, ha argomentato, l’esito finale, dice il NYT.

Tuttavia gli americani ripetono che spetta a Israele ogni scelta. Tortuosa e ambigua è invece la proposta europea di una “tregua umanitaria” che somiglia a un cessate il fuoco: è quella di Joseph Borrell, che a Lussemburgo ha detto che occorre una pausa perché “ora la cosa più importante è che l’aiuto umanitario entri a Gaza”. Francia, Spagna, Olanda, Irlanda, Slovenia l’hanno sostenuto, mentre la ministra degli esteri tedesca Annalena Baerbock ha risposto che occorre aiutare, ma “il terrorismo va fermato”. Borrell vuole ora un documento al summit UE questa settimana, ma la consapevolezza degli orrori sta crescendo: le visite da Sunnak, a Macron, a Sholtz, a Mitzotakis, a Giorgia Meloni... tutti portano solidarietà, fanno obiezioni umanitarie, danno consigli. Alla fine, le decisioni di Israele saranno solo sue, come ha detto oggi Halevi.  

 

Oltre l'orrore la shoah di Hamas

martedì 24 ottobre 2023 Il Giornale 3 commenti

Il Giornale, 24 ottobre 2023

Ieri, la cronista che credeva di aver capito la storia del terrorismo e dell’antisemitismo ha dovuto girare pagina: niente è come era, il male ha una sua nuova incarnazione, che si è rivelata sabato 7 ottobre. Siamo fino al collo dentro una guerra nuova, inusitata, e se non ci difendiamo ne saremo travolti come da uno tsunami. Sull’onda infuocata dell’antisemitismo Hitler distrusse quasi tutto il mondo. Ma durante la Shoah i nazisti nascondevano lo sterminio degli ebrei, ci sono voluti anni per individuarne la dimensione e la crudeltà. I pervertiti terroristi di Hamas si sono messi sulla fronte le telecamere, hanno filmato il loro genocidio gestito con fantasia ad personam, yehud yehud, bambino per bambino, ragazza per ragazza, per poi postarlo su Tik Tok, Instagram, Facebook. Hanno documentato come davano fuoco ai bambini davanti agli occhi della madre e viceversa, come violentavano le ragazze e poi le ammazzavano, come stupravano le bambine e le vecchie in pigiama e sventravano le donne incinte, come hanno tagliato la testa a centinaia di persone e non contenti poi hanno usato le armi più taglienti per farle a pezzi e strappargli gli occhi.

Ieri, la nostra visita di vari gironi dell’inferno ha avuto la sua voragine più profonda prima di scendere al sud, nella base militare di Shura, una struttura rudimentale, all’aria aperta, in cui quello che si scorge arrivando sono file di container bianchi numerati, e alcune tende semichiuse in cui si lavora in silenzio. Entrano ed escono militari indaffarati e uno di loro, sotto il container ALLU 17024, denominato anche mecolà 10, ci spiega: “In tutti questi frigoriferi sono accumulati centinaia e centinaia di corpi ancora non identificati a causa dei roghi, delle torture, delle mutilazioni cui sono state sottoposte. Parlate piano, non fate tanto rumore”, chiede il colonnello Chaim Wisberg anche al gruppo di parlamentari europei guidati da Elmet, l’organizzazione che guida la loro missione di solidarietà e che mi ha aiutato nella visita: “Abbiamo tre modi di identificare per portare le persone a degna sepoltura riconsegnando i corpi alle famiglie disperate. Ancora tanti cercano, senza trovarli, i loro cari. Il primo modo è quello diretto, il secondo con l’esame della dentatura, il terzo col DNA. Purtroppo, il primo sistema, dato quello che i terroristi hanno fatto, non si può quasi mai praticare. I resti sono stati trovati nei posti più disparati, è stata una semina infinita di corpi ovunque, e poi amorosamente suddivisi in sacchi con numeri. Si cerca di rimettere insieme parti che Hamas ha tagliato: oltre alle teste, anche genitali, braccia, piedi, mani. I cadaveri delle donne violentate arrivano pieni di fratture ovunque. Prima di capire che un troncone era di una donna e del suo bambino insieme bruciati e seviziati, c’è voluto molto studio”. Vediamo nei container, da cui aprendoli esce il gelo a nuvole e l’odore della morte perché ormai i giorni sono passati e non si riesce a identificare tante creature, sacchi a centinaia, di tutte le dimensioni, tutti sistemati per grandezza. I volontari sono quieti e gentili, tutti in divisa. Sheryl spiega: “Cerchiamo la dignità, la memoria umana di quei poveri resti, in un orecchino da restituire alla famiglia, nelle bellissime unghie curate di qualche ragazza di cui non rimane quasi nient’altro… sistemiamo piano piano piano quel che c’è, con amore. Con ordine. I parenti che vogliono almeno seppellire i loro cari, qui entrano solo coi risultati certi del DNA”. 

Per la strada, verso sud, ogni cespuglio parla, racconta la mostruosa sorpresa del sabato 7, L’esercito è ormai schierato lungo il confine sud, ci avvertono mentre siamo diretti a Kfar Aza che l’esercito ha proibito quell’obiettivo perché c’è una sospetta incursione terrorista; facciamo un giro largo per arrivare a Be’eri, la maggiore vittima della mattanza, che confina con Re’im, il kibbutz a fianco del quale si è svolta la festa dell’eccidio, quella in cui sono stati ammazzati almeno 260 ragazzi che ballavano, e da cui ne sono stati rapiti una buona parte dei 222 rapiti, e alla cui folla appartengono un gruppo degli scomparsi, fra i 100 e i 200. Numeri enormi. A Re’im, la grande tenda bianca stracciata, le masserizie, gli stracci, il nero dell’erba bruciata dagli spari e dalle battaglie è una belva in agguato: i fossi erano, ci dicono i militari, pieni di ragazzi uccisi. L’erba su cui sono fuggiti invano ha il colore del tradimento, e il giallo è più giallo, il nero del bruciato definitivo. A Be’eri il comandante Golan, un campione di umanità che in Turchia ha salvato 19 persone dopo l’ultimo terremoto, un esempio tipico dell’umanità di quei kibbutz tutti umanitari, liberali, amici degli arabi, ci mostra con parole ancora stupefatte, interrogative, le case bruciate con le famiglie intere chiuse dentro, esplose fino a mandare in briciole i tetti stessi, racconta che ha trovato il corpo carbonizzato di un suo poliziotto d ha raccolto il telefono anche contro la prassi perché la scritta sullo schermo diceva “amore mio”, e ha detto alla moglie dell’ucciso che il suo caro non c’era più. “Non volevo che aspettasse settimane l’identificazione”.

 
Le trincee in cui avevano tentato di nascondersi i fuggitivi della festa sono diventate fosse comuni; giovedì un membro del congresso americano ha trovato insieme a lui ancora un corpo in mezzo a quella pazzesca confusione di pietre pallottole, armi e pickup abbandonati da Hamas. Mentre parliamo si spara forte intorno. Non ti preoccupare, dice, sono spari nostri. Eitan Dana, il capo operazioni locale, restituisce il senso della bella Israele che ha lottato come un leone sorpreso e ferito: il suo migliore amico, comandante Elhanan e suo fratello, con la jeep sparando all’impazzata avanti e indietro ha salvato decine di persone, e poi è stato ucciso. È   solo un esempio: la gente si è sacrificata senza risparmio, ha difeso col suo corpo famiglia e sconosciuti, correndo sempre in aiuto, dando la vita. Una grossa jeep armata dei terroristi ha intorno di tutto, chiavi, medicinali vari, pallottole speciali, si dice anche droghe, e cittadini di Gaza che ancora oggi, si afferma, tengono nelle loro case private gli ostaggi. Ecco, per loro batte il cuore di Israele: un gruppo di genitori e di figli e nipoti dignitoso, calmo, con le foto strette al petto dei loro ragazzi, dei loro nonni, ci incontrano per chiedere che si faccia tutto, qualunque cosa, per mettere la liberazione dei loro cari al primo posto. Ci raccontano il loro dolore impossibile Keren disperata, stretta al petto la foto della sua Mia che abbiamo visto ferita in tv, Shelly Shem Tov che come ultima notizia di suo figlio 22enne Omer ha l’immagine del rapimento sul pickup e poi più niente; Dalit prega per la zia, lo zio, il cugino, tutta la famiglia Katzir rapita, la figlia del 79enne Haim Peri dice “Presto. Non abbiamo tempo!”.
 
Prima di lasciare Be’eri, in un asilo nido letteralmente inondato di sangue, rosso, un lago fra i balocchi, ho chiesto il permesso di raccogliere un foglio con uno di cuori di plastilina che fanno i bambini. Il comandante mi ha detto “lo tenga come pegno, l’hanno prossimo qui sarà di nuovo pieno di bambini che restituiranno la vita a questo kibbutz, alla scuola, a quel bambino”. Per questo però, bisogna sconfiggere i mostri.      

L'amore della sinistra per la causa palestinese? Da quelle lezioni di Arafat coi Vietcong e Ceausescu

lunedì 23 ottobre 2023 Il Giornale 1 commento

Il Giornale, 23 ottobre2023

Comincia più di cinquant’anni fa la storia del coinvolgimento attivo della sinistra in difesa della “causa palestinese”, la sua decisione del tutto arbitraria che essa sia parte della “lotta degli oppressi, dello scontro antimperialista, anticolonialista, per la pace, per l’autodeterminazione, per l’eguaglianza dei diritti”, e persino un grande protagonista, il cemento di molte le battaglie “intersezionali”, come si dice oggi, che portano folle di giovani, donne, neri, lgbtq, e vecchi delle associazioni partigiane e di sinistra in piazza a sostenere, dopo le barbarie di Hamas, la suddetta “causa” accusando Israele e prendendosela con tutti gli ebrei. Bisogna, perché si presenti nei termini attuali, tornare agli anni sessanta, con le visite di Yasser Arafat a Hanoi, una meta per lui familiare in quegli anni, e con la frequentazione della Romania di Ceausescu. Dal generale Vo Nguyen Giap, capo militare della resistenza “antimperialista” vietnamita, Arafat di abbevera: il leader dei vietcong gli spiega che per vincere deve fare uscire la sua battaglia dallo scontro regionale, e renderlo una battaglia morale antimperialista, come quella dei vietcong, capace di incantare, mobilitare, unificare le masse antiamericane in tutto il mondo.

Ceausescu gli insegna in un famoso dialogo, cosa sia il marxismo, gli fa lezione di egemonia, gli spiega come la guerra terrorista, peraltro indispensabile, deve accompagnarsi con la pretesa ripetuta fino allo sfinimento di volere una soluzione pacifica. Negli anni ‘80 e ‘90, con la disintegrazione dell’URSS suo maggiore partner e finanziatore, e anche con la fine di Ceausescu, il suo istruttore politico, quando l’esilio di Tunisi lo umilia e lo tiene lontano dalla politica, l’offerta di Israele di tornare a Ramallah con gli accordi di Oslo, gli fornisce una magnifica occasione per usare un nuovo cavallo di troia molto popolare: la pace, cuore della propaganda a sinistra! Arafat non ha nessuna intenzione di riconoscere Israele o di rinunciare al terrorismo, ma la sinistra mondiale lo segue: i palestinesi compiono l’innesto fra la “causa palestinese” col suo messaggio terzomondista e l’antisemitismo che fiorisce nel campo comunista sin dal tempo di Stalin. Accantoniamo il solido odio per gli ebrei di Proudhon e Marx. Dopo un breve periodo di sostegno alla nascita di Israele data la sua ispirazione socialista, l’ideologia sovietica torna all’antisemitismo originario. [...]

Egitto, un summit cinico e fallito

domenica 22 ottobre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 22 ottobre 2023

Il “summit per la pace” de Il Cairo ieri, 31 pomposi inviti in tutto il mondo, ha di fatto celebrato l’apertura da parte dell’Egitto del passaggio di Rafah per introdurre alcuni camion di aiuti per i palestinesi, ma ha anche lavorato in maniera autolesionista per tutto il mondo a rafforzare i nemici di Israele, dedicandogli i monologhi soprattutto arabi di esecrazione e di intimidazione politica a fronte di una guerra che lo Stato Ebraico deve sostenere per seguitare a vivere. L’intento politico immediato è quello di ritardare la battaglia di terra che Israele sta per affrontare perché Hamas non resti il dittatore terrorista di Gaza. Un obiettivo bizzarro da parte di al Sisi, interessato com’è a porre fine al regno di quella forte sezione della Fratellanza Musulmana, la sua principale nemica, che è Hamas. Il tono è stato ambiguo e antisraeliano, nonostante lo sforzo politico di alcuni partecipanti di fra cui dobbiamo lodare Giorgia Meloni per denunciare la crudeltà di Hamas e stabilire il diritto di Israele a vivere. [...]

 

I palestinesi devono cambiare strada

sabato 21 ottobre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 21 ottobre 2023

Khaled Abu Toameh è un giornalista e analista palestinese unico, da anni fronteggia i pericoli che il suo mondo diviso fra il regime religioso-fascista di Hamas e quello autoritario della Autorità nazionale palestinese di Mahmoud Abbas riservano a chi dice la verità. Gli articoli di Khaled sul Jerusalem Post sono una fonte di conoscenza spietata, senza rivali delle dinamiche politiche e ideologiche palestinesi.
Khaled lei oggi scrive sul Jerusalem Post che, anche in base a accordi presi nei mesi scorsi, Hamas aspetta con ansia che Hezbollah entri in guerra a suo fianco.

Accadrà?

“La fratellanza strategica e ideologica delle due organizzazioni è fuori di dubbio, anche recentemente a Beirut sia Hamas che la Jihad Islamica hanno fatto svariate visite a Nasrallah… Non importa se una è sciita e l’altra sunnita”.
 

Con la supervisione dell’Iran…

“Hezbollah non farebbe nessuna mossa senza il nulla osta dei suoi patron. Per ora quello si vogliono fare vivi senza troppo impegno, i colpi di artiglieria sono intensi, ma alla vigilia dell’ingresso a Gaza non vogliono farne, per ora, un casus belli… però in queste situazioni la situazione può sfuggire di mano. Se un colpo di mortaio colpisce un gruppo di israeliani, è fatta. Hamas nel 2006 non si aspettava che Israele dopo il rapimento dei soldati arrivasse a Beirut: Nasrallah disse poi che era pentito. Ma il suo legame con Gaza, con l’Iran, possono determinare sviluppi; è una guerra ideologica. In Hamas l’aggressività è cresciuta nel tempo col coordinamento su base regolare”.
 

Biden ha ripetuto che la bestialità dell’attacco è tipico solo di Hamas, che i palestinesi sono un’altra cosa. Lei ha parlato con la sua gente, è stupefatta? Disgustata? O invece soddisfatta, approva?

“Lo stupore c’è eccome, ma si manifesta poco e in segreto sulla strage orribile: si ha paura di essere creduti sostenitori di Israele. Semmai in pubblico si esclama sulla dimensione dell’attacco, non si pensava che Hamas fosse in grado di agire su vasta scala. Ma di rifiuto morale, e io sono certo che ce ne sia, non si trova espressione”.
 

Anche perché Abu Mazen non ha mai condannato

“All’inizio uscì un post in cui si dissociava, e poi però l’ha cancellato. Eppure Abu Mazen desidera che Hamas scompaia, ne ha subito svariate sconfitte e non solo alle elezioni del 2007. Nell’Autorità Palestinese stessa, nelle Istituzioni, Università, unioni degli insegnanti, unioni dei lavoratori… Hamas vince sempre!”.
 

Eppure anche Abu Mazen conta cercando il consenso sull’antisemitismo, sull’odio per Israele, sulla copertura del terrorismo

“Ma Hamas è forte perché la leadership di Abu Mazen è vecchia, corrotta, incapace, non porta a casa nessun risultato pensa solo a sé stessa. Ma anche a Gaza ci sono state proteste subito stroncate. E pochi vi hanno partecipato. La maggioranza sostiene dei leaders feroci, fanatici, che non le ha portato che guerre, distruzione, che coi finanziamenti ha costruito missili e terrorismo”.
 

E le masse dei civili sofferenti di Gaza vedono la situazione in cui Hamas li ha messi?

“Non so. Spero solo che, se Israele è serio è porta al rovesciamento di Hamas, nasca una nuova leadership palestinese che renda chiara la sua rottura col passato. Per ora è difficile sostenere che i palestinesi di Gaza non siano legati a Hamas”.
 
Cosa vuol dire “se Israele è serio”?
 
“Vuol dire che deve avere la forza d’animo e la pazienza di distruggere tutte le complesse istallazioni belliche che Hamas con molti uomini, molti soldi, su grandi spazi, ha costruito. Ci vorrà molto tempo”.
 

Sta parlando di occupazione?

“La chiami come vuole. Sto parlando di restare disponibili per molto tempo a non lasciare un territorio inquinato dalla guerra e dall’odio. La presenza dell’Autorità palestinese di Abu Mazen, dovrà nel caso contribuire con un lavoro di mesi e di anni”.


Lo può fare la leadership che lei descriveva poco fa?

“Mahmoud Abbas, ma anche al-Sisi, non sognano altro che di veder scomparire Hamas. Devono prendere una posizione coraggiosa e decidere di cambiare il futuro del popolo palestinese”.
 

Biden ha parlato di “due Stati per due popoli”

“Una formula consumata; se Israele si ritirasse dal West Bank, in un attimo Hamas prenderebbe il sopravvento. E sarebbe un bagno di sangue. Basta con le formulette: i palestinesi devono dedicarsi a una profonda riflessione andare oltre le dittature e la corruzione che li domina, oltre la disastrosa pulsione islamista che ha preso il sopravvento. Basta. Chiediamoci what went wrong, “che cosa è andato male?”.     

I burattinai della guerra

venerdì 20 ottobre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 20 ottobre 2023

 
Hezbollah attacca il nord di Israele, ha lanciato ieri decine di missile e colpito la città di Qiriat Shmone, ancora in modo sporadico, mentre a sud Hamas seguita a sparare i suoi razzi e l’esercito temporeggia: il gabinetto di guerra si è riunito durante la notte. Beirut viene evacuata in alcune zone, e così anche alcune zone del nord d’Israele. La domanda fatale nell’aria è quale guerra Israele deve affrontare, entrerà solo a Gaza, e quando, e quale altro scontro il mondo deve ancora vedere, di quale dimensione, di quanta crudeltà. Biden, a fianco della guerra di Israele contro i massacratori di Hamas, ci ha messo tutta l’energia possibile: don’t, don’t, don’t. Tre volte ha chiesto a “chiunque” intenda aggregarsi alla guerra contro Israele di tirarsi indietro, pena trovarsi di fronte gli Stati Uniti. L’avvertimento all’Iran e ai suoi vassalli è chiarissimo. Molto meno chiaro se funzionerà. Se non accadrà, le portaerei, i velivoli, i proiettili che vengono in queste fornite a Israele, persino i 900 americani di stanza nella zona, potrebbero diventare parte di un conflitto i cui limiti sono quelli della fantasia messianica dell’Iran: immensi. La cui crudeltà, è quella di Hamas. Per l’Iran la distruzione di Israele rappresenta la gloria escatologica, il tappeto rosso per la venuta del Mahdi, il profeta sciita che condurrà l’Islam alla vittoria definitiva e alla redenzione del mondo. Anche gli Stati Uniti sono il nemico naturale per l’Iran, cristiani, moderni, liberali, ma ben armati di tecnologia e di strutture belliche. Con le stragi, la continua diffamazione, l’assedio e la delegittimazione internazionale, l’Iran prepara la sua guerra definitiva, e aspetta il momento giusto. Israele è il segnale di guerra globale, Hamas è la sua carta di credito presso il mondo sunnita. Solo due anni fa la televisione di stato di Teheran mise in onda un video in cui un missile colpiva Capitol Hill, e lo consumava nelle fiamme. Il video era accompagnato da un canto in cui gli Usa erano “il palazzo dell’oppressione” e Gerusalemme veniva liberata. Di nuovo un video mostra Khamenei che in prima persona accusa gli USA di essere il burattinaio responsabile di tutti gli ultimi eventi, e dice che tutto il mondo mussulmano e non, “è arrabbiato, molto arrabbiato”.
 
 Ieri, la “Resistenza Islamica irachena” ha rivendicato la responsabilità del lancio di droni sulla base aerea di Ain al-Asad, che ospita forze statunitensi nella parte occidentale dell' Iraq e in Siria ha preso di mira la base di Al Tanf, vicino ai confini con l’Iraq e il giacimento Conco Gas, nella regione settentrionale di Deir al-Zor, definendolo “occupato dalle forze americane”. Tutte forze iraniane: il gruppo Kataib Hezbollah minaccia di colpire le basi americane in Iraq per “sostenere Gaza”. Mentre un cacciatorpediniere statunitense operante nel Mar Rosso settentrionale ha abbattuto tre missili terra-superficie e diversi droni lanciati dai ribelli Houthi in Yemen e secondo il Pentagono "potenzialmente diretti verso obiettivi in Israele".
 
Sono scadute ieri le sanzioni all’Iran in base alle quali erano state sospesi i programmi balistici e nucleari: ora esso può importare e esportare missili e tecnologie, e avanzare le ambizioni nucleari. Dopo i droni a Putin, i mullah passano forse ora ai missili balistici e forniscono armi ai Hamas, la Jihad Islamica, Houthi, Hezbollah, ai i siriani di Assad, alle organizzazioni terroristiche con cui ha rapporti che spaventano tutto il mondo arabi. In queste ore, le tv iraniane in lingua araba, Al Alam e vari website, si rivolgono direttamente al pubblico, secondo una tecnica tipica, quella di scavalcare le leadership spesso nemiche del regime degli ayatollah che temono e di cui non si fidano, per rivolgersi direttamente al popolo, e nei Paesi del Golfo per esempio, accusano le leadership di debolezza. Dopo il missile della Jihad islamica palestinese sull’ospedale di Gaza attribuito a Israele, la piazza araba anche più contenuta nei confronti di Israele, è esplosa in un coro di odio: in Egitto, in Giordania, in Libano, in Turchia e anche nei Paesi degli accordi di Abramo i leader esplodono in un odio islamista e antisemita della vicenda. Anche in Europa e negli USA si allargano gli scontri. La guerra di Hamas è stata decisa e condotta secondo un piano di cui l’Iran è la testa: adesso si tratta di capire se il paese degli ayatollah intende procedere in un disegno che ovviamente cerca il momento migliore per esplodere. Se Teheran deciderà che il momento è questo, lo vedremo nelle prossime ore, dal comportamento degli Hezbollah. Molti ufficiali di Hamas, come Ahmed Abdulhadi o Ali Baraka, hanno raccontato ai media americani e russi, come il piano stia stato studiato per due anni con l’aiuto dell’Iran e con gli Hezbollah. Hamas ha potuto sempre contare su vari aiuti, come quello del Qatar e della Turchia, ma l’unico Paese che gli ha fornito assistenza e know-how è l’Iran. Col suo aiuto ha costruito la sua industria di missili. Data l’ampiezza del programma del 7 di ottobre, è chiaro, scrive Jonathan Spyer che tutto il training è stato preparato fuori dei confini. Il riferimento di missili Fajr e dei M302, è tutta roba iraniana come scrive Jonathan Spyer sul Jerusalem Post.
 
L’IRGC, la poliedrica costruzione militar-ideologica del regime iraniano che si occupa dalle donne che non indossano propriamente il velo fino alla strategia per conquistare il mondo ha disegnato la strategia attuale: bypassare la tecnologia e la forza militare attaccando a morte la società israeliana. Il Libano, Gaza, la Siria, l’Iraq, ormai parte del West bank, e adesso anche gli altri Paesi stravolti nell’opinione pubblica a causa della guerra, sono tutti territori utilizzabili. La questione atomica era in primo piano mentre l’Iran costruiva una quantità di cavalli di troia, servendosi anche delle sue amicizie politiche. La Russia nel consiglio di sicurezza tiene per Hamas, e in questo l’Iran ha certo un ruolo. Il coordinatore all’ONU del processo di pace, Tor Wennesland ha detto che la pericolosità dell’espansione di questo conflitto è “reale, molto reale”. La verità è che l’intero occidente si trova oggi, inconsapevole, di fronte al reame degli incubi: in queste ore si ritrovano altri corpi carbonizzati dei bambini bruciati vivi dai terroristi insieme alle loro mamme, nuovi video materiale mostrano i lanzichenecchi a caccia dei ragazzini alla festa, a frotte scendono dalle Subaru con in tasca i biglietti di istruzioni che dicono come ammazzare, torturare e rapire luogo per luogo. Su ciascuno di quei bigliettini, l’impronta ideologica dell’Iran che in queste ore può dare agli Hezbollah l’ordine di guerra. Don’t, suggerisce non solo Biden, ma la enorme determinazione di Israele a combattere e a vincere. Ma il mondo trema.

Biden abbraccia Netanyahu. "È come l'11 settembre, ma non rifate i nostri errori. Strage a Gaza? Non è vostra"

giovedì 19 ottobre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 19 ottobre 2023

Non siete soli, ha ripetuto tutto il giorno il Presidente, ma a sera ha lasciato di nuovo Israele in preda della sua guerra, i soldati sul bordo di Gaza che aspettano l’ordine di entrare mentre le famiglie tremano, le decine di migliaia di persone private dei loro cari, dei vecchi e dei bambini, i kibbutz del sud bruciati, quelli del nord in fase di sgombero mentre gli hezbollah sparano. Con eloquio lento, un vecchio saggio che compie il suo dovere, ha fatto sentire compreso questo Paese disperato. Erano le 6,30, molto più tardi dell’ora stabilita dal protocollo, quando, illuminato, l’Air Force One si è levato nel cielo di Tel Aviv. La gente d’Israele l’ha salutato già in preda alla nostalgia. La visita di ieri ha avuto un grande merito, quello di ristabilire il significato reale del 7 di ottobre, e con esso l’importanza della patria degli Ebrei per tutto il mondo libero: a chi ha classificato la vicenda mostruosa come un episodio dello scontro israelo-palestinese, chi ne ha fatto addirittura una conseguenza della sofferenza della Striscia di Gaza, immaginata erroneamente come occupata, ha potuto sentire nelle parole di Biden l’ammirazione per il popolo ebraico, per la sua fatica di vivere, l’indispensabilità per il mondo libero a fronte di quello dell’oscurità terrorista. Biden ha recuperato il senso strategico e morale della vicenda: difendere Israele da una minaccia mostruosa, che, ha detto, minaccia anche gli USA. Con la strage è stata riproposto l’incredibile mostro della Shoah: l’attacco genocida, e Biden non ha risparmiato le parole, nei numeri e nella ferita alle famiglie d’Israele, è sovrapponibile alle peggiori persecuzioni, alla Shoah, e nella storia degli USA è simile all’attacco dell’11 di settembre. [...]

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