"Io, l'autore del Codice etico dell'Idf. Non si spara a chi ha le mani alzate"
Il Giornale, 19 dicembre 2023
Il professor Asa Kasher non fa sconti. È lui stesso il codice di comportamento morale dell’esercito israeliano, l’IDF: di fatto, ne è l’autore. L’espressione severa del filosofo e linguista ottantatreenne, la sua vitale determinazione a scoprire il senso di ciò che è giusto o sbagliato anche quando è quasi impossibile, ne fanno un deciso interlocutore in tempi in cui il suo esercito è sotto dura accusa.
Sull’episodio di venerdì in cui i soldati dentro Gaza hanno ucciso tre rapiti per errore, in lui prevalgono i toni d’ira. “Prima di tutto un combattente di Tzahal deve sapere che è un soldato d’Israele, e che questo fa di lui un difensore della santità della vita umana. Noi non spariamo se non si deve farlo: ha detto bene il Capo di Stato Maggiore. Non devi uccidere neanche un terrorista se viene incontro a mani alzate”.
Ma la situazione in cui si combatte a Gaza è piena di sorprese terribili, un uomo di 74 anni carico di tritolo è stato buttato addosso ai soldati, bambole che piangono in ebraico portano i soldati in trappola…
“Qui bastava, come ha detto Halevi, pensare un attimo. È la prima regola: sapere chi sei, un soldato d’Israele, non un giovanotto con un’arma in mano. Il soldato che ha sparato era un cecchino, era lontano, non aveva solo un secondo per decidere. Voglio dire di più: una parte della società immagina che sparare sia quasi naturale, in tempi difficili. C’è il nemico, spari. Persino due ministri lo dicono. Ma un soldato ha regole, fa corsi, esercitazioni, ha comandanti: la sua scelta è oggettiva, non soggettiva”.
Lo processerebbe?
“No. Non a Gaza. Gli ufficiali decideranno per il meglio, ci sono tanti modi per correggere, per cambiare i ruoli. Mi fido di chi guida la guerra sul campo, sapranno come trattare il terribile evento”.
Professore, l’esercito israeliano, ha detto Biden, è accusato di “indiscriminate bombing” in cui colpisce i civili. Persino Biden chiede a Netanyahu di cambiare.
“Biden è un amico straordinario, a lui tutta la mia stima e ammirazione. Ma con tutto il dovuto rispetto, sbaglia. Ci si accusa in sostanza di non applicare il principio di distinzione fra combattenti e cittadini. Se parliamo di un qualunque agglomerato civile palestinese, non dobbiamo di certo toccarlo: sono cittadini. Ma Hamas e Hezbollah usano un sistema di guerra in cui mescolano le due componenti”.
E tuttavia i cittadini esistono.
“Qui interviene la questione della proporzionalità: si deve valutare con saggezza, con obiettività e secondo la legge internazionale la proporzionalità (le ricordo che gli inventori di questo sistema sono Sant’Agostino e Tommaso D’Aquino) dell’intervento, cioè l’effetto positivo e quello negativo. Anche se una sola donna o un solo bambino soffrono l’effetto è negativo, ma ciò va commisurato col danno inferto al nemico. Nel caso di Hamas, non c’è edificio, scuola, ospedale, in cui, come molta pazienza e serietà la cosa non venga da noi valutata. Voi non avete idea di quanto noi sempre, e non solo adesso, blocchiamo aerei già in volo se si vede all’orizzonte un’auto che porta bambini. Noi agiamo quando è obbligatorio, anche se ci spezza il cuore”.
Ma il numero dei morti è alto.
“Noi prima avvertiamo, spingiamo ad andarsene da dove bombarderemo, creiamo tempi e luoghi necessari… È la crudeltà del nemico che usa scudi umani che impedisce alla gente lo sgombero”.
Professore, il suo Codice è ancora nelle tasche dei soldati?
“Ne sono sicuro, e le prime due cose che imparano sono scritte solo da noi: santità della vita, e limitazione della forza”.
Vedo che vi chiedono di restringere i tempi…
“Combatteremo per il tempo e come che ci serve, applicando solo il diritto all’autodifesa. Non c’è scenario di rinuncia ad esistere. Non vedo problemi esistenziali all’orizzonte”.
Vi si suggerisce di nuovo di accettare una condivisione coi palestinesi, due Stati…
“Considero legittima l’idea di uno Stato palestinese. Ma se nasce sull’intenzione di uccidere gli ebrei, allora il terrorismo non è una aspirazione che può essere pietra di fondazione di un Paese”.
Hamas, trovato il mega tunnel. E a Gaza è assalto ai tir di aiuti
Il Giornale, 18 dicembre 2023
Combattere dentro Gaza non è come affrontare un nemico normale, non è una guerra conosciuta, descritta nei libri di strategia. Non ci sono regole di combattimento, né divise, solo un nemico perverso. Israele, che discute amaramente il disastro dei tre ostaggi uccisi per sbaglio venerdì dall’esercito, ieri ha dovuto sobbalzare di nuovo alla scoperta di un tunnel gigantesco, una costruzione strategica in cui Hamas ha messo tutto il cemento che secondo gli accordi, riceveva per costruire case e scuole: è 50 metri sotto terra, fuori coperto da hangar e serre, è lunga decine di chilometri ma Israele ne ha scoperti 4 fino all’uscita del passaggio di Erez. In un filmato, il fratello di Sinwar, Mohammed, numero due dell’esercito terrorista, guida un veicolo al suo interno. Da Erez i cittadini di Gaza andavano a lavorare e all’ospedale, la galleria punta sul cuore di Israele. nel tunnel possono entrare veicoli e armi, è progettata per la prossima invasione, ma conservata per il prossimo eccidio. Le uscite interne sono in centro; è fornita di elettricità, acqua, gas.
Il disastro dei rapiti uccisi sofferto venerdì scorso a Sejaya, è al centro della discussione: si dibatte il codice di guerra dei soldati, cercando di non infierire dato il sacrificio continuo. La situazione sul campo è dura, siamo già a 122 soldati uccisi, oggi ne sono morti tre: Joseph Avner Doran, 26 anni, Shalev Zaltsman, 24, e Boris Dunavesky, 21. Tutta Israele li piange, e così ogni giorno. Ma la critica ha portato ieri il capo di Stato maggiore Herzi Halevi a entrare a Gaza per parlare sul campo: combattete, siate coraggiosi e forti, siete eroi, ha detto, ma i ragazzi fuggiti da Hamas erano senza camicia, sventolavano una bandiera bianca, hanno gridato in ebraico “azilu” (aiuto): “Da adesso almeno, imparate, quando si vedono le mani in alto, se c’è una bandiera bianca… non si spara mai. E soprattutto, soldati, non smettete mai di pensare, usate il cervello anche durante la battaglia”. Al funerale di Alon Shamris, del kibbutz Kfar Aza, tenutosi a Shfaim, tutte aree ferite a morte dalle atrocità di Hamas, il fratello Yonathan ha lanciato un’epica requisitoria in cui ha accusato il governo, ha promesso la vendetta politica. Le accuse sono puntate specie su Netanyahu: lo si accusa di scansarsi dalla responsabilità che invece il Capo di Stato Maggiore e il Ministro della Difesa si sono presi. I parenti dei rapiti chiedono un accordo che liberi tutti i rapiti a qualsiasi prezzo. Il Qatar sembra finalmente un po' più ottimista su un qualche accordo.
Ma anche altri genitori chiedono di onorare il sacrificio della vita dei loro figli soldati andando fino in fondo nella guerra contro Hamas, una guerra, ripetono, di sopravvivenza per Israele stesso: ieri Netanyahu ha letto pubblicamente una loro lettera, e si è impegnato a raggiungere la vittoria. Anche Jake Sullivan ha ricevuto una lettera simile: lascia che Israele combatta quanto e come è necessario. Se Sinwar immagina che a gennaio la guerra si fermi o rallenti, come chiedono gli USA, temporeggerà anche sui rapiti, che continuano a morire nelle sue mani. Intanto è difficile per Israele anche soddisfare Biden con gli aiuti umanitari, la gente assale i camion di aiuti sfidando persino Hamas.
È difficile combattere, spiegano i soldati, quando si è su un terreno sconquassato, dove ogni cittadino che ti si avvicina può essere una trappola umana zeppa di esplosivo; quando per esempio a Jabalia si scopre, che nella camera dei bambini da sotto la culla si diparte un tunnel; che in un ospedale si sono trovate armi dentro le incubatrici; che trappole per attirare i soldati sono state fatte con neonati di gomma che piangono con parole in ebraico; che il terrorismo suicida è frequente, i terroristi saltano fuori all’improvviso… tuttavia, dopo la visita del Capo di Stato maggiore i soldati sanno meglio che i rapiti possono spuntare fuori da edifici che forniscono loro rifugio. Una roulette russa.
Ostaggi uccisi, choc Israele. "bandiera bianca ignorata"
Il Giornale, 17 dicembre 2023
La spiegazione è venuta in un minuto dopo il disastro: è nostra responsabilità, ha detto l’esercito israeliano, è una tragedia e ve ne diamo conto. Ma è il cuore del dramma attuale che è ferito: il nesso fra la guerra e la questione dei rapiti. Tre giovani che cercavano di fuggire sono stati uccisi per sbaglio dalle truppe in guerra dentro Gaza, scambiati per terroristi. Peggio ancora di soffrire una ferita dal nemico, è il dolore inferto da una persona cara: e nessuno è più caro a Israele in questo momento dei soldati che 24 ore al giorno combattono a rischio della vita e perdono i loro compagni dentro gaza. Ma nessuno è più importante degli ostaggi selvaggiamente trattenuti, comma coerente della strage del 7 ottobre, da Sinwar.
Ma è accaduto: ed è un paradosso quasi insostenibile quando sei in guerra, come è Israele, contro il più feroce di tutti i nemici. Il gabinetto si è riunito, Netanyahu in un messaggio televisivo ha abbracciato le famiglie dei rapiti (“piango con voi”) e ha ribadito la sua fiducia nei soldati che rischiano la vita sul campo, e poi, anche in polemica con gli Stati Uniti, ha ribadito senza sconti la strategia oggi discussa duramente dalle famiglie e da parte del Paese: “Seguiteremo a combattere mentre ci impegniamo a riportare a casa i rapiti, ai nostri cari amici americani che ringraziamo dell’aiuto diciamo che l’Autorità nazionale palestinese che differisce da Hamas solo nei tempi, e non nel fine, non potrà prenderne il posto sulla Striscia. Saremo noi a controllarne la sicurezza in modo che non si possa minacciare la nostra vita”. Ma al di là dei programmi di lungo termine il clima di contestazione è inquieto, le famiglie dei rapiti hanno incontrato oggi il Gabinetto protestando duramente. Il Paese aspetta un’accelerazione sui rapiti. Venerdì, mentre Hamas sparava 6 missili su Gerusalemme, tre ragazzi caduti nelle mani di Hamas dal 7 di ottobre, Yotam Haim, di 28 anni, noto a tutti ormai, capelli rossi e mestiere di batterista, Alon Lulu Shamriz, di 26anni, un sorriso solare, studente di ingegneria dei computer, rapiti dal Kibbutz Kfar Aza, Samar Talalka di 22 anni, beduino israeliano agricoltore nel kibbutz Nir Am, si sono trovati liberi nei vicoli di Gaza, fra le pallottole e la polvere della battaglia. Forse erano fuggiti, forse erano stati buttati nel mezzo dello scontro.
Avanzavano, secondo il primo rapporto, senza camicia per segnalare di non essere terroristi suicidi, e con uno straccio bianco su un bastone: ma un soldato non si è fidato. Si tratta di un terreno su cui gli agguati nei vicoli e dai cunicoli sono continui, i soldati che combattono 24 ore su 24 dal 7 di ottobre hanno visto uccidere giorno dopo giorno 116 compagni. Hamas non indossa divise, i terroristi sono irriconoscibili, la tensione è terribile. Il soldato spara, uccide due delle persone che avanzano, il terzo ferito si è nascosto nell’edificio da cui era uscito. Il cuore si spezza al racconto di come gridasse “Azilu”, aiuto, in ebraico e non è stato sentito o creduto. IL comandante aveva ordinato l’alt vedendolo, ma quando è uscito un terzo soldato ha sparato lo stesso.
La tragedia si è compiuta: sono altri ostaggi morti, solo il 14 dicembre altri 2 corpi di ragazzi rapiti e tre giorni fa i corpi di Eden Zakaria, 28 anni, una bellissima ragazza seppellita solo ieri, e di Zvi Dado, soldato. Per recuperare i loro colpi due soldati sono stati uccisi, fra cui il figlio di Gadi Eisekot, membro del Gabinetto. Adesso si indaga, si risponderà sulla dinamica della vicenda, ma le famiglie chiedono adesso in grande polemica col governo che ci si decida, ci si muova subito per un nuovo scambio, qualsiasi scambio collettivo: ciascuno, dicono, è in pericolo immediato di vita e non si riesce a recuperarli con lo scontro bellico, come ripete Netanyahu. Anche il capo di Stato Maggiore Herzi Halevi ha ribadito che l’errore è terribile, non si deve sparare di fronte a una bandiera bianca. Ma ha detto che la battaglia continua con determinazione. Un altro annuncio tragico giunto da dentro Gaza ieri è stato quello della morte nelle mani dei Hamas di una ragazza rapita alla festa di Reim, Inbar Haiman di 27 anni.
Oggi i prigionieri sono ancora 128: Israele ha sempre sostenuto che Sinwar è stato costretto a cederne una parte in stato di choc e di necessità: i 105 tornati a casa sono stati scambiati perchè l’esercito aveva colpito a tutta forza, Hamas aveva bisogno di tempo. Adesso, a Oslo Primo Ministro del Qatar ha incontrato i maggiori rappresentanti della sicurezza Israeliana, forse si arriverà a un nuovo accordo, certo Hamas chiede un alto prezzo per lo scambio. Può esigere la liberazione di un gran numero di terroristi di prima linea, chiedere una lunga tregua con cui rimettersi in piedi e restare al potere. Due giorni fa nel Nord Europa è stata scoperta una congiura, Hamas aveva organizzato attacchi armati a istituzioni ebraiche in vari Paesi; venerdì, SInwar, il “difensore della Moschea di Al Aqsa” ha bombardato Gerusalemme. La scelta è, comunque, sempre fra lasciare sopravvivere un’organizzazione come l’ISIS, pericolosa per tutti, o combatterla a prezzi anche molto amari.
Le speranze vane di una pace con Hamas
Il Giornale, 16 dicembre 2023
Mentre Jake Sullivan, consigliere strategico di Biden, tesseva ieri la sua tela di speranza di pace a nome del Presidente degli Stati Uniti prima a Gerusalemme con Netanyahu, Gallant e tutto il gabinetto, e poi a Ramallah da Abu Mazen, Hamas si è fatto vivo: ha sparato sei missili su Gerusalemme, di cui quattro bloccati da Scudo d’acciaio, uno caduto su un edificio a Beith Shemesh. Ma l’ultimo, per un espressivo scherzo della sorte, mentre qui a Gerusalemme correvamo nei rifugi con le famiglie in casa per la serata di Shabbat, è finito sull’ospedale di Ramallah. Così Hamas ha fornito un’ulteriore tessera che può far capire a Sullivan come stanno le cose: la sua ferocia ideologica contro i cittadini di Israele non ha mai fine, molto oltre il campo di battaglia, dentro le case. È apparsa ancora più ridicola la ciarlataneria di Mousa Abu Marzuk, uno dei “pragmatici” di Hamas, che ha detto che forse si potrebbe, in modo da rientrare nei ranghi militanti dell’OLP che l’ha riconosciuto, riconoscere Israele.
Due menzogne in una, la prima percepibile a prima: Hamas è nato per uccidere uno ad uno gli ebrei, è scritto nella sua Carta. In secondo luogo perché l’OLP alla fine non ha mai riconosciuto Israele. Hamas dopo quello che ha fatto il 7 di ottobre può piacere solo a chi vuole distruggere la civiltà occidentale e uccidere gli ebrei. Non a Biden. Il consigliere ha spiegato come gli USA siano vigorosamente al fianco di Israele in guerra e per gli ostaggi, ma si aspettano un rallentamento delle operazioni, chiedendo precisi “stadi” in discesa a partire dalla prima settimana di gennaio; e che ci si avvii come ha ripetuto specie ai giornalisti americani, verso un piano per il day after che al centro metta la PA di Abu Mazen. Questo, come prolusione a un recupero del disegno dei “due stati per due popoli”. Ma Hamas l’ha mandato a dire anche ieri: un declino programmato non fa fronte all’accanimento con cui, per esempio, da Gaza si sparano missili che danno la caccia ai cittadini di Gerusalemme. I lanciamissili, le riserve missilistiche, sono state preparate da Sinwar per una lunga guerra di posizione; il rallentare, darsi delle scadenze, cedere al ricatto onnipresente dell’uso dei cittadini come scudi umani è apprezzabile per il rispetto della gente di Gaza, ma non consente la conclusione della missione. L’insistenza americana porta risultati, come per esempio l’apertura del valico di Kerem Shalom per far entrare duecento camion di rifornimenti; crea più attenzione nel favorire l’evacuazione della gente, anche se Hamas seguita a impedirla. Ma i dieci soldati uccisi due giorni fa sono stati assaliti da dentro una scuola, i rinforzi di Hamas dalle gallerie che hanno eliminato i giovani corsi a salvarli… tutto è ancora Hamas.
Migliaia di giovanissime famiglie con vedove e bambini già popolano la scena israeliana, e il loro numero cresce; gli spedali lavorano a tempo pieno. E anche la scena mediatica lo è: la CNN presenta la testimonianza di un medico senza avvertire che quel medico è parte di Hamas, o ne è terrorizzato. Quanto al Fatah di Abu Mazen, cui, sia pure in versione “riabilitata” Sullivan guarda disegnandolo come un futuro partner, Hamas ormai nel Westr Bank lo schiaccia. Gli Israeliani in battaglia due giorni fa a Jenin hanno scoperto una quantità senza precedenti di armi pesanti e ha fatto 70 prigionieri sospetti di Hamas.
Secondo il Palestinian Center for Policy Survey and Research (PCPSR) 72 per cento dei palestinesi, di qua e di là, sono d’accordo con quello che Hamas ha fatto il 7 di ottobre, e fra questi, l’85 per cento nel West Bank; il supporto per Hamas è triplicato nella PA, gli attacchi terroristici dal 7 di ottobre hanno superato il migliaio. Il 90 per cento dei palestinesi che fanno capo a Ramallah chiedono le dimissioni di Abbas. Gli USA giocano quindi una partita molto rischiosa, la stessa che si è lasciato che Hamas giocasse fino alla trasformazione in belva. Si capisce che Biden debba giocare una carta pacifista adatta al suo elettorato a fronte di un’opinione pubblica di cui l’ONU cinicamente si fa portabandiera, quella della tregua a costo della vita di Israele. Israele certo non vuol perdere il rapporto con Biden, ma quante vite dei suoi soldati in una guerra rallentata questo può costare? E quanto alla fine, questo conviene agli USA stessi?
Il consigliere di Netanyahu: "Il mondo non capisce, Israele lotta per sopravvivere"
Il Giornale, 15 dicembre 2023
Mark Regev è consigliere del Primo Ministro per la politica internazionale e per la comunicazione, ex ambasciatore in Inghilterra, durante la guerra la voce in inglese più ascoltata nel dibattito sul 7 ottobre, la guerra, la moralità di Israele, e il rapporto coi palestinesi.
Ambasciatore, perché Israele è così solo? È un insuccesso che, dopo le atrocità subite, sui media si senta soprattutto la richiesta di rallentare, di decidere per una tregua quanto prima.
Il mondo forse ha una certa difficoltà a capire: è abituato al fatto che da 16 anni, dallo sgombero di Gaza, dopo gli attacchi di Hamas si sono viste varie risposte per bloccare i bombardamenti e gli attentati. Il 7 di ottobre ha cambiato completamente le norme del giuoco: Hamas ha messo in scena una dichiarazione di guerra totale, con una quantità e una qualità di atrocità che non richiedono di “restaurare la quiete” o di “pagare un prezzo”. Qui si tratta di una guerra di sopravvivenza, in cui Hamas deve sparire dalla scena.
“La guerra coinvolge due milioni di persone sul confine…”
Coinvolge dolorosamente anche tutta Israele. Ma quello che ha fatto Hamas il 7 di ottobre è di dimensioni maggiori del 9-11 a New York, la maggiore aggressione al popolo ebraico dopo il 1945: i modi, coi bambini nascosti in soffitta e poi macellati, le fucilazioni di massa, come ha detto Scholz, sono identici a quelli dei nazisti. Da Gaza, poi, ci hanno giurato guerra permanente: “lo faremo ancora ancora e ancora”. Si tratta di sopravvivenza, l’assassino abita nella porta accanto.
Perché avete deciso di mostrare solo a un pubblico ristretto il film degli orrori subiti? Avete un livello di empatia molto basso durante una guerra difficile, la memoria è breve.
La decisione deriva dal rispetto verso le famiglie, alcune ci hanno permesso di mostrare le immagini solo così, e poi vogliamo evitare ogni possibile manipolazione. Abbiamo cura dei nostri cari così straziati. È notevole che sia stata proprio Hamas a farne, filmando e buttando sui social i crimini, un motivo di perversa propaganda. A differenza persino dei nazisti che mantenevano il segreto, quando uccide e mutila i bambini, violenta e fa a pezzi le donne, vuole che tutti sappiano quanto ne sono fieri.
Perché la vostra guerra investe un grande numero di civili? Perché dai teleschermi si accusa Israele?
Noi agiamo solo per destrutturare Hamas che usa la popolazione civile come scudo umano. Pure fra le vittime circa 5000 sono terroristi uccisi nelle durissime battaglie in cui muoiono anche i nostri soldati. Quanto alla gente, non sapremo mai la verità: a Gaza se si intervista a un medico, un giornalista... ognuno, pena la vita, dice solo quello che Hamas impone. Anzi è significativo che finalmente qualche voce coraggiosa critichi la rovina che Hamas ha portato, distruzione, fame.
Biden è il grande amico di Israele ma chiede un miglioramento dell’impegno umanitario
I camion vanno a Gaza dalla prima mattina, senza limiti, gli avvisi alla gente e le indicazioni delle zone franche sono chiare. È Hamas che al contrario di noi che spingiamo la gente a sfuggire il rischio, la trattiene per preservare le gallerie e le strutture civili, dalle scuole agli ospedali, in cui si nascondono e sparano… Ma i pregiudizi contro di noi sono infiniti e hanno un custode molto importante, l’ONU. Persino Kofi Annan e Ban Ki-moon hanno riconosciuto che l’ONU fa una politica antisraeliana. Gutierrez ne è un campione. Le pare logico, sin dal primo inizio della guerra, chiedere un’interruzione? Dall’inizio non si è fatto problemi nel conservare il potere di Hamas.
Ambasciatore, manca la prospettiva, Israele non dovrebbe considerare l’insistenza di Biden sui rapporti con l’Autorità nazionale palestinese?
Come dice Netanyahu: c’è un tempo per la guerra e uno per la pace. Ora dobbiamo vincere. Hamas non può essere parte del futuro, né chiunque abbracci le stesse idee radicali. E’ un peccato che la PA in 70 giorni non abbia mai condannato le atrocità di Hamas, e che Abu Mazen seguiti a pagare gli stipendi ai terroristi. Noi vinceremo la guerra: io prego perché allora si facciano largo le forze moderate. Biden immagina anche un mondo palestinese “rivitalizzato”. Vediamo.
Israele piange i suoi eroi e giura di combattere fino alla vittoria
Il Giornale, 14 dicembre 2023
Israele combatte con una mano legata dietro la schiena: tutti gli israeliani, di destra e di sinistra, dopo il 7 di ottobre, sentono di combattere una guerra di sopravvivenza. Vorrebbero che lo sentisse anche il vecchio amico americano, dall’inizio il più fedele, ma non è facile per Biden: l’opinione pubblica mondiale, e forse anche il suo elettorato, stanno dimenticando il senso del conflitto. Si dice spesso in guerra, come ha detto ieri Netanyahu, parlando con gli strumenti gracchianti dei soldati dentro Gaza: “Continueremo fino alla vittoria”. Ma ieri questa frase, ormai controversa fuori da Gerusalemme, ha suonato come una doppia promessa: la prima quella di non piegarsi di fronte a una guerra difficilissima, che ieri ha fatto altri dieci soldati, cinque della mitica unità Golani, uccisi in un giorno, fra cui due comandanti.
La seconda promessa, fronteggiare la vasta critica internazionale che sale dalle Nazioni Unite che, ignorando il pericolo vitale per Israele, in maggioranza hanno votato per il cessate il fuoco; e barcamenarsi di fronte alle ultime dichiarazioni di Joe Biden, che ha mandato martedì avvertimenti molto severi, parlando di “bombardamenti indiscriminati” e del rischio che “questo governo renda a Israele molto difficile muoversi”. Ieri tutta Israele stupefatta piangeva di fronte alla strage di Sujaya, dove una parte dei soldati procedendo in un vicolo è caduta in una trappola. Feriti da terroristi usciti da una galleria e edifici sono stati soccorsi dai compagni corsi eroicamente in loro aiuto: tutti sono caduti fra le trappole esplosive e i cecchini.
Israele discute mentre piange: si chiede perché il territorio in cui si sapeva che si dovevano cercare gli uomini di Sinwar, ancora molti nonostante gli arresti, e forse gli ostaggi (nel recupero di due corpi dei prigionieri due soldati hanno perso vita il giorno avanti) non era stato spianato per l’operazione. L’esercito ha addosso gli occhi di tutto il mondo mentre si batte su un terreno da cui spuntano i terroristi dalle gallerie e dagli edifici pubblici che Hamas ha fatto perché i cittadini diventino scudi umani. Hamas spara missili su Tel Aviv e Israele non ha il permesso di fermarli. Tomer Grinberg, di 35 anni, solo qualche giorno fa nell’ultima intervista raccontava di come aveva salvato due bambini piccoli, fra gli altri, in un’eroica impresa di scontro personale coi terroristi nei kibbutz: “Li ho portati fuori dicendogli di appoggiarmi il viso sulle spalle per non vedere l’orrore, e mi hanno sorriso attraversando la strage. Ho pensato alla mia bambina, e sono dentro Gaza per difenderla”.
Biden ha due punti centrali che deve presentare agli elettori ormai molto preoccupati dalla sofferenza dei palestinesi dentro Gaza: Hamas deve essere eliminato, spiega, ma vuole che “Bibi” come lo chiama, si impegni nell’aiuto umanitario e coinvolga meno i civili. Israele ci prova con i corridoi e le tregue umanitarie, i camion di aiuti gli avvertimenti prima delle bombe e le zone di rifugio. Ma Biden vuole garanzie storiche sullo scopo finale della scelta americana: riaprire la strada tramite il restauro della PA alla soluzione dei “due Stati per due popoli”. Bibi è duro su questo, non intende impegnarsi su chi sostiene il terrorismo e non ha mai riconosciuto lo Stato d’Israele. Biden forse corre troppo. Meglio per ora sperare in una compartecipazione del mondo arabo che ha scelto la pace con Israele. Forse così la sceglieranno anche i palestinesi di Abu Mazen.
L'ultimatum degli Usa a Netanyahu
Il Giornale, 13 dicembre 2023
Biden con mossa subitanea e forse legata all’ambiente di votanti democratici, quello dell’assemblea sul clima, ha detto a Netanyahu due cose finora rimaste sottintese: la prima che Bibi deve cambiare strada nel delineare l’uscita dalla guerra, mostrandosi più aperto verso l’Autorità nazionale palestinese; e poi, diretto al limite dell’intromissione, ha chiesto a Netanyahu di modificare il suo governo, il suo è troppo di destra, ha detto, per avere la legittimazione necessaria a una guerra tanto difficile. Domattina però Biden, che ci tiene a Israele e lo ripete sempre, incontrerà le famiglie dei rapiti, che in Israele sono in marcia verso la Knesset.
La situazione è ancora più drammatica, i corpi di due ostaggi Eden Zakaria uccisa alla festa da ballo, 27 anni, e Ziv Dado, un ufficiale di 36 anni sono stati recuperati al costo della vita, qualche giorno fa, di due soldati, Gal Eisenkot figlio del membro del gabinetto Gadi, e Meir Eyal Berky. La liberazione, vivi o morti, dei rapiti è una stella polare della guerra. Le sofferenze dell’inferno sono l’unico paragone possibile per le famiglie che ieri di nuovo hanno marciato sull’autostrada da Tel Aviv a Gerusalemme. Non si capisce ormai come tirino avanti le vecchie madri, le mogli sole coi bambini, i mariti, i fratelli alla 12esima settimana, stupefatti da una solitudine vuota di notizie e carica, da parte di ognuno dei cento ostaggi liberati, di notizie sempre più atroci; stravolti, smagriti, senza altro appetito e sogno che quello di riunirsi ai propri amati, ascoltano le notizie agghiaccianti i reduci.
Ci sono ancora 137 persone in mano di Hamas, fra cui anche la mamma e i bambini Bibas, su cui Israele non si vuole arrendere. “La cattività è una roulette russa” ha detto Sharon Alony Cunio 34 anni, rapita e tornata con le sue due gemelle Emma e Julie di tre anni, mentre il marito David è ancora nelle mani degli aguzzini. Ha parlato in un’intervista alla Reuters che ha bucato i teleschermi e i cuori di tutta Israele: “Là sotto non hai idea se pensano di tenerti in vita o di ammazzarti domattina”. Sharon ha raccontato come l’abbiano separata da una delle due bambine per dieci giorni, lasciandola con l’altra, ignara della sua sorte in un sotterraneo buio senza aria, quasi senza cibo, senza gabinetto, e costringendola tutto il tempo a zittire la piccolina.
È stato d’un tratto che la porta si è aperta per buttarle nelle braccia anche Emma; da allora sono rimaste tutti in una stanza in 12, a dividersi pochissimo cibo: “Tutti ne davano un po' per le bambine -ha detto- tenevamo un quarto di pita per il giorno dopo, ogni tanto qualche dattero e del formaggio”. L’aria poteva entrare solo quando l’elettricità veniva tagliata, aprendo un po' la porta. I bambini potevano solo sussurrare. I medici e gli assistenti psicologici che hanno parlato con le donne tornate raccontano terribili violenze di ogni tipo. Ma Sharon è cauta, David è ancora nelle loro mani: “L’amore della mia vita, le bambine chiedono di continuo dov’è papà”.
Il governo e l’esercito seguitano a mettere i rapiti al primo posto, diversi soldati hanno perso la vita avventurandosi nelle gallerie per gli ostaggi. Di ieri la notizia che si sarebbe riaperta una porta per lo scambio, stavolta con la mediazione del Qatar e dell’Egitto, e si discute della liberazione oltre che di donne e bambini anche di vecchi e malati. I soldati e le soldatesse restano un jolly nelle mani di Sinwar. Si dice che stavolta sia in ballo anche il rilascio di terroristi duri come Marwan Bargouti, cinque ergastoli, visto come il possibile nuovo leader dell’Autorità nazionale palestinese. Che cosa occorre perché gli scambi possano riprendere? Sinwar, dopo la dichiarazione di Biden di ieri, certo ora si sente più sicuro di sé. Sinwar dovrebbe vedere per cedere l’eliminazione dei suoi luogotenenti, come Deif, e non solo la cattura dei suoi scherani e la sofferenza del suo popolo, che anzi lui promuove in tutti i modi perché gli crea visibilità e consenso.
Semmai, cambierebbe le cose una ribellione più marcata della gente di Gaza, che già lo accusa di aver distrutto la Striscia, ma ancora non lo contesta abbastanza. La verità è che sia la sofferenza dei prigionieri di Hamas, che quella della gente di Gaza è frutto sia della pazzesca crudeltà e senso di onnipotenza di Sinwar, come anche delle piazze impazzite che in Europa e in America hanno preso la sua parte. Di questo Sinwar si fa scudo, del fatto che ci sono grandi folle pronte a scambiare l’aggressione antisemita e antioccidentale di Hamas per difesa anticoloniale e antimperialista. Insomma a favore degli oppressi contro gli oppressori. Basta studiare un po' per capire che è un imbroglio. Fu l’antisemitismo a distruggere l’Europa, tutta quanta, e anche quello era un imbroglio.
Per il dopoguerra una Commissione e opzioni contrastanti
Il Giornale, 12 dicembre 2023
C’è molto lavoro, il tempo è poco, gli attori sono tanti, e Israele ha tutto l’interesse a costruire uno scenario sul futuro di Gaza senza Hamas: per questo ha costruito una commissione che disegni un futuro strategico per la Striscia. Gli alleati americani lo richiedono proponendo soluzioni che per ora non combaciano con quelle di Israele. Jake Sullivan è in arrivo nel fine settimana in una situazione ancora molto movimentata, in cui l’unica cosa sicura è che gli USA insisteranno sui tempi e la risposta non esiste. Per vincere e cancellare Hamas, Israele deve ancora combattere.
Quindi, cercherà di aprire un discorso su come trovare una strada che non deluda il migliore amico: gli Stati Uniti, sostenitore numero uno di Israele hanno appena posto il loro veto alla richiesta dell’ONU di fermare lo scontro, richiedono con urgenza, oltre agli aiuti umanitari alla popolazione, di vedere un orizzonte politico, di avere le idee più chiare sullo sbocco strategico della guerra, e la loro richiesta è quella di un eventuale ritorno dell’Autorità Palestinese, come primo passo per tornare alla vecchia soluzione magica dei due stati per due popoli.
Questo si cercò di fare nel 2006 quando, dopo lo sgombero di Israele, invece Hamas fucilò, linciò, buttò giù dai tetti gli uomini di Fatah e poi creò dentro Gaza lo staterello autoritario e fanatico che con l’aiuto del Qatar è diventata quella follia terroristica che ha portato al 7 di ottobre. Sia Biden che Kamala Harris hanno ripetuto che si dovrebbe trattare di un’Autorità nazionale palestinese cambiata, non corrotta né pervaso di rifiuto antisraeliano come oggi, che non paghi gli stipendi ai terroristi in carcere come invece fa. D’altra parte Netanyahu non ci crede, dice che comunque occorre mantenere una presenza di sicurezza in Gaza: non si tratta spiega di occupazione, ma l’odio palestinese è ormai ideologico e forte anche nell’West bank, dove Hamas è maggioritario. Dunque la commissione dovrebbe indicare in concreto dove cercare una strada dopo la fine di Hamas. Al momento ne fanno parte i due ministri più senior, Tzachi Hanegbi, consigliere per la sicurezza nazionale e Ron Dermer il ministro per gli affari strategici, oltre ai servizi di sicurezza, l’esercito, e anche l’ambasciatore negli USA Mike Herzog, fratello del Presidente Isaac.
Hanegbi e Dermer sono personaggi fra i più stimati di cui il governo israeliano disponga: intellettuali moderati e liberali, Dermer reduce da un periodo in cui, a sua volta ambasciatore negli USA, è stato protagonista del successo dei Patti d’Abramo. I due sembrano disegnati per dare una chance a una gestione che inglobi i Sauditi, gli Emirati, gli Egiziani, i Giordani, ovvero gli arabi moderati, in una coalizione che potrebbe anche allora, includere i palestinesi riformati. Ma la politica è spesso ottimista: Biden sa che dall’West Bank dal 7 ottobre sono piovuti su Israele 1300 attacchi terroristici, l’83 per cento nell’Autonomia tiene per Hamas, e mai Abu Mazen ha condannato le atrocità del 7 ottobre.
Ancora ieri il centro di Israele è stato bombardato da Hamas, ieri si è raggiunto con altri sette uccisi il numero di 104 caduti; ancora da Beit Hanun a Khan Yunis, i territori su cui si avventurano i soldati, le gallerie e gli edifici pubblici e privati sono ancora bombe a tempo, depositi di armi e nascondigli da cui i gruppi armati sorprendono Israele. C’è ancora tempo per la pace. Ma un buon segnale l’ha dato, interrogato dalla polizia l’ex ministro di Sinwar Yousef al Mansi che ha chiamato il suo capo “un pazzo, un illuso, un eretico” che “ha ottenuto solo la distruzione del 60 per cento di Gaza, edifici, infrastrutture, strade, edifici pubblici”. Le sue atrocità, ha detto, sono “l’opposto dell’Islam”.
Putin chiama Netanyahu. Scontro al telefono
Il Giornale, 11 dicembre 2023
Se doveva essere una conferma del suo splendore internazionale come statista ricandidato alla presidenza russa, a fronte dell’importanza di Biden in uno degli agoni più infuocati del mondo, non gli è andata bene. La telefonata di ieri di Putin a Benjamin Netanyahu l’ha collocato definitivamente dalla parte della mappa dove troviamo con lui Iran, Hamas, Hezbollah, Houti, Assad di Siria e qualcun altro. Anzi, in parallelo con lo stesso colloquio telefonico di ieri durato cinquanta minuti per rispondere al quale Bibi è uscito alla riunione di Gabinetto, ha chiarito le cose una dichiarazione di rinforzo di Sergei Lavrov: nel mezzo del repertorio antisraeliano classico usato anche dall’ONU (“l’attacco non è avvenuto nel vuoto” ha detto proprio come Gutierrez) dichiarava inaccettabile la “punizione collettiva” dei civili palestinesi.
Gli è del tutto accettabile invece quella dei cittadini di Kiev e di tutta l’Ucraina, e anche quella, nel passato, dei cittadini ceceni. Solo che nel caso della Russia non si tratta di guerre di difesa, ma di aggressioni di conquista. La conversazione fra i due leader è andata male, un confronto fra nemici. Netanyahu ha criticato l’alleanza della Russia con l’Iran, gli ha espresso il suo scontento sull’ atteggiamento circa la guerra con Hamas. È dal 7 di ottobre che la Russia sta di fatto dalla parte dei terroristi che non chiama con questo nome, non li condanna ufficialmente, ospita a Mosca i leader di Hamas e spinge avanti senza sosta i rapporti con l’Iran. È divenuto dal 7 di ottobre il leader di riferimento, al di fuori del mondo islamico, per gli amici di Hamas.
Poco dopo le atrocità sui kibbutz, il 26 di ottobre, in Russia ebbe luogo una riunione strategica fra il capo delle relazioni internazionali di Hamas, Mousa Abu Marzuk, Michael Bogdanov, braccio destro di Putin per il Medio Oriente e il viceministro degli esteri iraniano Alì Bagheri Kani. Pochi giorni fa, il 7 dicembre, al Cremlino si è svolto un incontro fra Putin e Ibrahim Raisi, il presidente iraniano: si tratta di un’altra tappa nell’alleanza del fronte antisraeliano e antiamericano, in cui Putin ha lodato il contributo iraniano alla guerra contro gli Ucraini. Sono giorni in cui gli Houti dallo Yemen usano missili balistici iraniani in lanci su Eilat, 1700 chilometri più in là, sul territorio israeliano, e gli Hezbollah tengono accesa la possibilità di una guerra col Libano. Tutte queste entità terroriste sono agli ordini dell’Iran, e la Russia è il migliore amico occidentale, o in parte occidentale, degli ayatollah.
Putin ha cercato ieri un’esposizione nello scontro mediorientale telefonando a Netanyahu: il primo ministro israeliano non è in un periodo adatto al sorriso, ma avrà trovata ironica la denuncia della “catastrofica situazione umanitaria della Striscia di Gaza” da chi ha aggredito l’Ucraina. Putin ha telefonato anche perché ci tiene a evitare l’accusa di antisemitismo, e perché contava sul fatto che Netanyahu è stato sempre cauto nel rompere con Mosca, a causa della sua presenza armata dai confini siriani. Questo ha portato, nonostante la grande simpatia politica e popolare di Israele per l’Ucraina sostanziata da molto aiuto umanitario e da attrezzature non aggressive per evitare lo scontro diretto con Putin, all’attuale presa di coscienza della Russia come inevitabile nemico. C’è poco da fare, il dna della storia, per cui l’URSS costruì per prima la menzogna di un’Israele coloniale, razzista, imperialista, alleata degli USA contro il Terzo Mondo, non tramonta in un giorno.
Di recente la liberazione diretta, senza trattativa, di tre ostaggi di origine russa (due però sono state messe poi da Hamas sul conto di Israele) è avvenuta per intervento diretto di Putin: Netanyahu ha detto grazie, sapendo però che questo significa intimità coi terroristi.
Il "contesto" foglia di fico antisemita
Il Giornale, 10 dicembre 2023
Ormai tutto il mondo sa, non importa se poi ovviamente le geniali professoresse che dirigono Harvard, Mitt e Penn hanno fatto un passo indietro: per le Università più chic d’America “invocare il genocidio degli ebrei” non è in sé contrario al codice di condotta dei loro atenei, nei cui campus gli slogan “From the river to the sea” risuonano in variazioni fantasiose e tutte nazi-Hamas. Se lo si debba invocare o no, “dipende dal contesto”. Risposta molto interessante specie se data davanti alla Camera americana durante un’inchiesta sull’antisemitismo.
Ormai la quotidiana dose di urla, violenze, le prese di posizioni e aggressioni fisiche antisemite (sul cui sfondo ormai per il 50 per cento dei giovani fra i 18 e i 25 anni negli USA la Shoah è un mito e in Inghilterra solo l’11 per cento dei giovani fra i 18 e i 24 anni tengono per Israele e gli altri per Hamas) la verifichiamo ogni giorno senza stupore, l’antisemitismo è di nuovo fra noi sotto forma di odio per Israele, sulla base della ricostruzione fasulla della sua storia e sul suo comportamento e del negazionismo sulla strage del 7 di ottobre. Ma addirittura lo sterminio degli ebrei si giustifica col “contesto”? Quale contesto? Le nostre intellettuali non usano le parole a caso. La cornice è quello che conta: innanzitutto il “contesto” del denaro, per cui la loro istituzione, il loro campus è finanziato a centinaia di milioni di dollari, e bisogna sempre difendere l’istituzione; la retta è solo per chi può, essere antisemiti qui è diverso da esserlo in una miserabile banlieue.
Qui i giovani musulmani che si mescolano alla sinistra giovanile sono, in un “contesto” di cultura giovanile che le presidi devono considerare nell’ambito della “libertà di opinione”. E di che si tratta? Innanzitutto, della rabbia furiosa che ormai è considerata legittima, quella degli “oppressi” contro gli “oppressori”. Una furia fisica di cui vedremo espressioni sempre più gravi; una arrabbiatura teorizzata, che ha già portato a parecchie aggressioni e distruzioni, come quelle di black lives matter; si costruisce, in questo contesto, la tua ragione di odiare, aggredire, distruggere perché la società è costruita solo per i cattivi, gli sfruttatori, gli oppressori, i colonialisti.
Gli oppressi hanno il dovere di infuriarsi. Come disse Borrell? La strage non avviene in un vuoto. Ha le sue ragioni. La rabbia è contro il razzismo, contro il colonialismo, contro coloro che hanno distrutto l’ambiente, contro i maschi, contro l’occupazione; non importa se i violentatori, gli odiatori dei gay, i dittatori, i razzisti sono dall’altra parte. Gli ebrei sono al top del “contesto” woke desiderato. In più, il “contesto” della tradizione genocida antisemita dai tempi dell’antico Egitto non ti tradisce: prima contro la religione, poi contro la razza, ora contro lo Stato. Giustifica perfino lo stupro omicida a centinaia. Il contesto per gli ebrei non manca mai.





