Le gallerie sventrate di Hamas. A Gaza prime bandiere bianche
Il Giornale, 08 settembre 2023
Dalla nuvola di sabbia che avvolge Gaza in queste ore, si disegna un'immagine fatale: una processione di centinaia di persone che camminano con energia su una strada principale, forse la famosa Salahadin che taglia tutta la striscia da Nord a Sud. Fuggono verso il sud e portano bene in alto, che si vedano, delle bandiere bianche. Stavolta non sembra, come si è visto in altri filmati, che Hamas fermi la loro marcia sparando per non permettere che si sguarnisca nel nord assediato da Tzahal il suo scudo umano. Stavolta Hamas ha solo cercato invano di far sparire il film dai social, ma sono rimaste le immagini che significano resa. Il simbolo è pesante per Hamas, il Medio Oriente odia i perdenti, e anche l’Iran e gli Hezbollah lo vedono. Se l’episodio non significa ancora che la guerra sia prossima a concludersi, tuttavia c’è la sensazione che la strada sia segnata: l’esercito affronta con risultati impressionanti il difficilissimo terreno della città di gaza, una fortezza costruita negli anni, dallo sgombero del 2005, per gli scopi bellici del regime.
La sua maggiore caratteristica è l'incredibile rete di gallerie: gallerie piccole e grandi, orizzontali e verticali, non sono costruite sotto la città: è la città che è costruita sulle gallerie. Sono fatte per dirigere la guerra, entrare in Israele da sotto terra, ammassare missili, armi automatiche, congegni di alta tecnologia e droni, per accumulare cibo, acqua, benzina. Nei tunnel c’è tutto quello che serve ai terroristi, e per proteggere nel luogo più profondo e organizzato il comando di Yehia Sinwar e di Mohammed Deif. La struttura che Hamas ha costruito misura, dicono loro stessi, 500 chilometri e da un paio di giorni Israele ha cominciato a distruggerla, a esploderne gli ingressi, a farne crollare le strutture con grandi caterpillar spesso dopo che una bomba di profondità ha aperto la strada.
Nel regno delle tenebre però prima di tutto si cercano gli ostaggi. Gallerie armate sono state trovate sotto le moschee, accanto a scuole, presso una piscina per bambini. Dalle gallerie assediate spesso gruppi di assalto saltano fuori all’improvviso, i giovani israeliani affrontano pericoli terribili con una continua dimostrazione di valore e di unità, nonostante le perdite. Il sancta sanctorum delle gallerie è sotto gli ospedali, tutta Gaza lo sa, il bunker di Sinwar è probabilmente sotto l’ospedale Shifa dentro Gaza per approfittare dello scudo umano. L’avanzata è lenta, da ogni buco in terra possono saltare fuori armati di Hamas, ogni centimetro della città di Gaza è minata, ovunque. Israele ha fatto 6 milioni di telefonate e ha lanciato un milione e mezzo di volantini per indurre lo spostamento al sud. Difficile la guerra quando il nemico vuole anche il sangue dei suoi, ma Netanyahu ha ripetuto a tarda sera: solo in cambio dei nostri rapiti ci sarà la tregua umanitaria.
Un mese di guerra. L'inferno del 7 ottobre un punto senza ritorno
Il Giornale, 07 novembre 2023
Da quando, un mese fa, alle 6,20 di mattina, tutte le sirene d’Israele non sono bastate ad avvertire della calata dei barbari di Hamas sui kibbutz del confine sud di Israele, la nebbia avvolge il futuro, anche quello del mondo intero, e solo una certezza è rimasta. Siamo disorientati, stupiti. Ignoriamo ormai tante cose essenziali. Non sappiamo se c’è un limite alla crudeltà umana, dopo aver assistito in diretta, tramite le macchine da presa dei terroristi stessi, alle atrocità compiute sui corpi dei bambini di fronte alle madri, delle madri di fronte ai bambini. Non sappiamo se è davvero finito l’incubo dell’esercito di assassini che al grido “yehud yehud” e “Allahu akbar” ha ucciso 2700 innocenti, giovani che ballano, vecchi stupefatti, famiglie intere… uno ad uno.
Vediamo che questo urlo, con violenza e omicidi, invade adesso anche le città occidentali, e non sappiamo se ci sarà la forza e la volontà di contrastarlo, o se invece gli ebrei dovranno sgomberare, come dalle città di confine col Libano degli Hezbollah o con Gaza di Hamas. Non sappiamo più se Israele, che credevamo capace di difendersi con eccellenti mezzi tecnologi e militari, sia forte come si pensava; se la sofferenza estrema delle famiglie dei 240 ostaggi fra cui 30 bambini risveglierà le coscienze dell’occidente in una richiesta collettiva che per ora non si è sentita. E’ penoso anche combattere una guerra di sopravvivenza in un mondo che immagina che “pace” e “aiuti umanitari” siano parole universali, anche per Hamas che usa la sua gente come scudi umani e dichiara che vuole anche il suo sangue.
Ancora: non sappiamo dove arriverà la furia di strada antisemita-antisionista, un misto di demenziale, ignorante cultura woke mista a odio islamista. Però una cosa si sa: come dopo la Shoah, quando pareva impossibile che gli Ebrei trovassero la forza di costruire lo Stato d’Israele, gli ebrei sono entusiasti della vita, combattono per vincere, i giovani al fronte sanno che combattono la battaglia storica della sopravvivenza del popolo ebraico anche mentre piangono, e piangono! I caduti. Intorno, come al tempo della seconda guerra mondiale, si fronteggiano due continenti ideali, quello iraniano-russo coi loro “proxy” in un disegno oppressivo e feroce, determinato alla dominazione; dall’altra parte quello americano-israeliano-europeo. È quello della libertà, del giorno dopo il sabato nero, quando tornerà la luce.
La leadership di Abbas è debole e corrotta. Ma è una via possibile per una svolta pacifica
Il Giornale, 06 novembre 2023
Neppure Avi Issacharoff, giornalista e esperto di cultura araba, l’autore della serie più famosa su Gaza e Hamas si sarebbe mai immaginato quello che è successo. “Mai che avrebbero compiuto un’irruzione e una strage di quella crudeltà e di quelle dimensioni”. È una giornata cruciale per la guerra: l’esercito si addentra nella periferia della città principale di Gaza, dove ha sede la maggiore struttura bellica, ed essa affonda nella rete di 500 chilometri di gallerie. Avi ricorda con un mezzo sorriso che della enorme rete delle gallerie e dei bunker sotto l’Ospedale di Shifa, il maggiore, parlava già nella terza serie TV: “Non rivelavo niente che non fosse già noto. Non c’è bambino a Gaza che non sappia che sotto Shifa ci sono le strutture dello Stato Maggiore di Hamas, là sta Sinwar e il resto dei capi che hanno progettato la strage del 7 ottobre. Come si farà a destrutturarli, non so davvero dirlo”. Ma è chiaro che l’esercito si prepara ad affrontare la questione sul già difficilissimo territorio pieno di trappole esplosive e agguati.
I volantini dell’esercito israeliano chiedono di sgomberare e andare a sud, fuori, cercando di risparmiare i civili. Ma Hamas gioca sulla seria questione umanitaria posta dagli Ospedali. Dice Issacharoff che “non c’è dubbio che stavolta l’esercito vuole andare avanti, vediamo una grossa macchina da guerra, abbiamo cercato sempre di evitare lo scontro di terra: ma stavolta è diverso, la necessità di distruggere Hamas è primaria, e quindi entriamo in un territorio costruito come una macchina da guerra. E per Hamas, i cittadini non sono che uno degli strumenti”. Il dilemma di Israele è proprio questo e Avi Issacharoff è anche più diretto: Gaza è costruita sui tunnel, e non i tunnel sotto la città. La bomba da 900 chili di cui tutto il mondo ha parlato non era destinata a Jabalia, ma alla grande galleria sotto. Bisogna capire” spiega Avi, che ha dedicato la vita a descrivere il fenomeno “che Hamas uccide la sua gente intenzionalmente. Quando questo accade Israele entra in una zona di grande difficoltà, di freni internazionali.
E trattenendo i civili sulla sua testa, forma il grande scudo umano di cui ha bisogno”. Muhammed Deif e Sinwar hanno costruito un sistema in cui non uccidono solo gli ebrei, ma anche i loro concittadini: chi si ribella, e in questo caso chi si rifiuta di restare al nord, secondo foto di strade cosparse di corpi diffuse ieri, viene punito con la morte; chi protesta se Hamas ruba dagli ospedali la benzina, il bene più prezioso per i generatori, essenziali per le armi e le gallerie, è finito. Si sentono talvolta da telefonate e brevi registrazioni segnali di protesta: “In realtà” spiega Avi “il sostegno è un po' diminuito, ma è aumentato nell’Autorità nazionale Palestinese. Abu Mazen ha 89 anni, la leadership è debole e corrotta…”. E allora forse è inutile sperare che quando Hamas perderà, Fatah prenda il potere per un soluzione pacifica. Issacharoff ci spera: “E la meno peggio di tutte le soluzioni. Nel 2007 dopo la sconfitta subita da Hamas, per Fatah il ritorno è stato memorabile per la vitalità, la sicurezza, il buon rapporto con Israele”. Le domande sono profonde, e nessuna è dolorosa e difficile come quella sui 242 ostaggi di cui 33 bambini. Netanyahu ha detto ieri che non si parla di nessuna tregua umanitaria se non a fronte della restituzione degli ostaggi, e qui Issacharov alza le mani: “Non so che dire, è terribile, i mediatori sono a lavoro, e nessuno ottiene risultati… la sensazione è che Hamas non sia per ora interessata. Quanto alla tregua, Israele combatte una battaglia da cui per qualsiasi leader è difficile tirarsi indietro, tutto il Paese si sente impegnato, i ragazzi sono sul campo per vincere e contiamo ancora i nostri caduti. È stata la strage più grande in un giorno subita dall’Olocausto, non dimentichiamolo”. E come andrà a finire? L’autore di Fauda è fedele al copione sempre problematico dei suoi script: anche stavolta, difficilmente avremo la testa di Sinwar. La strada è lunga e accidentata.
Il massacro del 7 ottobre come la Shoah. Quando il negazionismo stravolge la Storia
Il Giornale, 05 novembre 2023
Non ci sono eventi storici più comprovati della Shoah e della mostruosa strage del 7 di ottobre. Ambedue pur con dimensioni diverse, certamente sono stati programmati con passione distruttiva verso gli ebrei: uno ad uno, bambini, genitori, nonni, sono stati cercati, scovati, uccisi con una preparazione specifica documentata, anche se in luoghi e tempi diversi. Sempre di antisemitismo genocida si tratta, e di sete di sangue. Tutte e due le cacce all’ebreo sono state compiute secondo una decisione ideologica specifica: se per il nazismo gli ebrei erano topi e scarafaggi, per Hamas sono figli di maiali e scimmie. Però i nazisti, a differenza degli uomini di Hamas hanno nascosto i loro crimini finché con una valanga di documenti e di testimonianze delle vittime e dei nazisti stessi, sono venuti alla luce. E allora, è cominciato il negazionismo: non è vero, hanno detto e scritto i vari Faurisson, Garaudy, Dieudonnè, Irving, David Duke, supportati da disegni politici antisemiti, soprattutto quello Iraniano. Anche Abu Maze ha scritto la sua dissertazione negazionista all’università di Mosca sostenendo che anzi, gli ebrei erano d’accordo con i nazisti.
Per i negatori della Shoah l’invenzione è servita agli americani per giustificare la loro prepotenza imperialista, e agli ebrei per vendere il loro sionismo. Il substrato, la criminalizzazione degli ebrei stessi e la assoluzione dei nazisti. Sta accadendo di nuovo, stavolta col negazionismo del Sabato Nero. “La strage inaudita è tutta una balla per giustificare l’aggressione ai poveri palestinesi, e, anzi, qui si certifica l’indegnità congenita degli ebrei”, è il tema. Più complicato tuttavia sostenerlo, perché qui non ci sono volute ricerche per trovare le prove della barbarie: è tutto filmato e registrato. Lo scopo antisemita è scritto nelle urla “Yehud Yehud” mentre i terroristi scannano, e nella telefonata entusiasta “mamma, ho ucciso dieci ebrei, ho il loro sangue sulle mie mani”.
Le sevizie dei neonati e delle donne incinte, gli stupri e le mutilazioni, tutto è stato filmato con orgoglio dagli assassini stessi. Chi scrive, ha visto i 53 minuti di footage delle loro stesse macchine da presa, e mai film dell’orrore fu più insopportabile. Quando dalle loro stesse telecamere sei dentro la marcia dell’orrore verso una casa del kibbutz, quando apri la porta non arrivano i nostri, ma coi mostri entra la strage, il bagno di sangue di una famiglia, un rogo, una mutilazione impensabile. Il negazionismo però insiste: magari è una fake news degli israeliani per giustificare l’attacco ai palestinesi? Solo chi non sa niente della storia della democrazia israeliana, dei suoi mille tentativi di pace, solo l’ignoranza sullo scrutinio ossessivo dell’opinione pubblica può concepire una simile idea. Ma Nasrallah, che vuole alla fine avere il diritto morale di uccidere gli ebrei, nega tutto: gli israeliani stessi, dice, hanno compiuto la strage di donne e bambini. Poi c’è chi suggerisce con tono saccente di verificare, meglio temere le fake news: lo fanno i politicanti invogliati dal consenso dei cortei che urlano “Morte agli ebrei”. Il fratello di Corbyn si sbraccia: i feriti e i morti sono tutti attori! o lo suggerisce educata Carmen La Sorella, o i docenti di qualche università liberal americana; intanto si mette in prima linea per stabilire la verità delle immagini il solito nemico di Israele “Human Rights Watch”, che certo sa bene bene che il footage non mente. Ma il coro dei social media canta coi negazionisti, ed è un facile ritornello internazionale. Solo la vittoria di Israele su Hamas impedirà che la memoria venga seppellita.
Le portaerei americane bloccano gli ayatollah. E Israele non si ferma
Il Giornale, 04 novembre 2023
Tanto rumore per quasi nulla, almeno per ora. Il grande discorso di Hassan Nasrallah, il capo degli Hezbollah, è stato certamente una grande delusione per Hamas e per quanti si aspettavano, mentre le piazze di Beirut guardavano Nasrallah sul grande schermo, che le facesse sventolare in un tripudio bellico contro gli ebrei, annunciando la sua entrata in una guerra totale a fianco di Hamas. Non è andata così: in una giornata in cui in Israele si sono ascoltati in un puzzle di segnali essenziali le voci di Nasrallah (che parlava con una grancassa mediatica da cantante rock), del Segretario di Stato Anthony Blinken e di Netanyahu, abbiamo visto il capo del migliore proxy sciita dell’Iran comunicare soprattutto il suo nervosismo, in una pioggia di giustificazioni e di bugie.
Ha chiamato la barbarica impresa di Hamas “azione eroica” e poi ha spiegato però che nell’operazione del 7 ottobre si doveva leggere una scelta rigorosamente autonoma, che non vi erano coinvolti né l’Iran né la sua organizzazione. Hamas è forte, fa da solo: una giustificazione della propria assenza. In secondo luogo con tono profetico Nasrallah ha detto “a chi gli chiede quando entra in guerra” che non solo lo è stato subito, già dal 7 di ottobre, ma che la sua è una guerra vittoriosa: merito suo se i cittadini del nord si sono spostati, merito suo se l’esercito israeliano è là con un terzo delle sue forze, che così non possono essere utilizzate contro Hamas. In realtà le sue armi hanno sparato sporadicamente e in modo che gli è costato la perdita di 60 delle sue forze Radwan, mentre i missili importanti restavano inutilizzati salvo un paio di volte. E sì che Nasrallah ne ha fino a 200mila, forniti dall’Iran.
Due menzogne clamorose hanno infiorettato il discorso, quella per cui Hamas starebbe vincendo, mentre l’esercito israeliano in realtà avanza con dolorose ma non numerose perdite, mentre gli uomini di Hamas vengono decimati mentre i grossi leader restano nascosti. L’altra bugia è una rivoltante affermazione negazionista, per cui sarebbe stato l’esercito israeliano stesso a uccidere le donne e i bambini dei kibbutz, e Hamas sarebbe mondo dei crimini di guerra. La sentiremo ripetere dalle folle che ormai gridano “morte agli ebrei” nelle piazze di tutto il mondo, chiaramente Nasrallah l’ha detta per eccitarle. Insomma, per ora sulla scena non compare un grande fronte nord. E l’Iran aspetta. In Medio Oriente come in Medio Oriente, fa paura sia la determinazione di Israele, che le portaerei americane che hanno già fermato i missili balistici dei Houti. Blinken, per la quarta volta a Gerusalemme, ha ribadito i punti fondamentali dell’alleanza “indistruttibile”, il sostegno diplomatico, di armi e di denaro a Israele: ma il suo discorso ha avuto toni che segnano il passare del tempo. Adesso gli USA chiedono a Israele di impegnarsi di più sul terreno umanitario, e legano la questione a quella della liberazione degli ostaggi. Blinken ha nominato non a caso oltre al cibo, le medicine, l’acqua e anche la benzina, che è un punto chiave perché serve a un uso bellico molto diretto e Israele rifiuta di fornirla. Blinken ha parlato anche di “pausa umanitaria” che, anche se non è “tregua” può aiutare Hamas a riassestare le sue fila. Quel che ha fatto più effetto Blinken ha accostato la sorte dei bambini israeliani a quelle dei bambini palestinesi, stabilendo un’equivalenza che dimentica che i bambini palestinesi soffrono nelle mani di chi ne ha fatto scudi umani e certo non vi è nessuna intenzione di far loro del male. Le soluzioni sono difficili, e la richiesta deve tenerne conto. Anche Netanyahu ha preso ieri la parola per confortare e rafforzare i soldati, per ricordare i caduti, per lodarne l’eroismo. È stato un tipico antico discorso di guerra, come Ettore ai Troiani o Achille agli Achei: andare fino in fondo senza esitazioni nonostante il dolore e la difficoltà. Di “pausa” e tantomeno di “tregua” non si parla. Su questo gli americani devono aspettare. Al momento, tutta Israele sa che nessuno potrà tornare a abitare nel sud se i vicini promettono la prossima strage. E al nord la situazione è simile. Nessuno dorme a casa. Il fronte resta ancora aperto dopo il discorso del loro capo.
Hezbollah infiamma il fronte. Attese le parole di Nasrallah: il Medio Oriente può esplodere
Il Giornale, 03 novembre 2023
Oggi giornata di possibile allargamento della guerra che Israele deve combattere contro chi ha giurato di distruggerla. Il grande fuoco, ieri, nella sera buia di Kiriat Shmone, sul confine del Libano, causato da un missile di Nasrallah, è la degna quinta del teatro preparato dagli Hezbollah. IL capo degli Hezbollah, che dall’inizio della guerra Hamas aspetta all’angolo del comune giuramento di distruggere Israele, oggi parla. Avvolto nel mistero del suo turbante che ne fa l’Ayatollah incaricato dalla gerarchia sciita iraniana che lo mantiene, lo arma, lo rende tanto importante, dirà se intende aprire il suo fronte contro Israele. Fa paura? Ci prova con decisione, ieri gli obiettivi dei suoi missili sono stati una ventina su posizioni di Israele lungo il confine; l’IDF ha risposto fino a tarda notte. I suoi più di 50 “martiri” fatti in questi giorni dall’esercito israeliano nel rispondere agli attacchi, Nasrallah in una lettera scritta a mano li ha già denominati “martiri sulla via di Gerusalemme”. Hamas, mentre l’esercito d’Israele avanza ed è ormai coi soldati dentro la città maggiore, guarda a Nord. Gli hezbollah fino non hanno usato i migliori i circa 200mila, che negli anni tramite la strada siriana l’Iran gli ha fornito. Si sono tenuti bassi utilizzando soprattutto missili Kornet contro i soldati allineati lungo il confine. Poi, da domenica, è cominciato lo sfoggio, un drone israeliano è stato abbattuto con un missile terra aria, gli attacchi si sono moltiplicati, e questi e altri tipi di armi hanno distrutto mura; i cittadini sono stati evacuati dalle città del nord ormai da giorni. L’esercito ha risposto purtroppo nello scambio a fuoco sono stati colpiti per caso anche due pastori libanesi, oltre a una cellula che stava lanciando un missile.
Che cosa dirà Nasrallah? Non solo il pubblico, ma anche i coprotagonisti sono molto numerosi e importanti. Il capo di Stato maggiore israeliano Herzi Halevi ha ripetuto il suo consiglio a tenersi fuori dallo scontro, pena gravi conseguenze. Netanyahu aveva già spiegato che una scelta sbagliata porterebbe all’intero Libano un disastro, l’uso simile a quello di Hamas di scudi umani già disegnò nel 2006 la sconfitta degli hezbollah in un territorio disastrato. Due notizie conducono il conflitto in uno scenario internazionale che può investire il mondo. La prima è quella di un accordo fra la Compagnia militare privata Wagner e Hezbollah: secondo il Wall Street Journal, il gruppo paramilitare starebbe fornendo un sistema di difesa aerea agli Hezbollah. La Wagner ha già i suoi uomini in Siria, già a fianco di un altro abominevole tiranno, Assad. La Russia naturalmente è dietro a tutto ciò. L’altra importante notizia rispetto alla possibilità della dimensione che potrebbe prendere la questione libanese l’ha data l’IDF: una milizia iraniana ha raggiunto il sud del Libano. È il gruppo “Imam Hussein”, anch’ essa fino ad ora impegnato in Siria. Russia e Iran così trovano qui un altro interesse comune oltre a quello per cui gli Ayatollah forniscono droni a Putin contro l’Ucraina. Nasrallah cerca insieme a Hamas la distruzione dello Stato d’’Israele, e cerca la primogenitura in questo compito.
Deve tuttavia valutare alcune possibilità: a lui, che vanta un rapporto politico con lo scenario pluralistico del Libano sostenendo di farne gli interessi, sarebbe difficile sostenere una situazione in cui con una sua guerra di nuovo rovina il Libano intero, come nel 2006. In secondo luogo, la sua sete di sangue, certo pari a quella di Hamas, non ha, dopo il prudente sgombero dei civili israeliani di tutto il nord, dove avventarsi per una strategia di terrore civile. Comunque l’ordine finale e dell’Iran. E ciò a cui anche l’Iran sta certo pensando bene, è il “don’t” di Biden che oggi si concretizza plasticamente con l’arrivo in Israele del Segretario di Stato Antony Blinken, giusto in tempo per ascoltare il suo discorso. Sullo sfondo le due portaerei e le armi americane dedicate alla difesa d’Israele. E anche la battaglia leonina che i soldati metro per metro stanno dando dentro Gaza: siamo in Medioriente. La regola è: chi è forte, secondo la cultura islamista, deve essere rispettato, il debole mangiato.
Israele piange i caduti della Givati: Pedaya, Lavi e gli altri giovani eroi
Il Giornale, 02 novembre 2023
“Forza bambino, ringraziamo il Cielo, sei forte ce la farai”. Invece lui tutto pesto, con un occhio gonfio, piange senza rumore, è ancora piccolo nel luglio 2016, si appoggia al fratello che arriva di corsa sulla strada su cui di traverso si vede la macchina del padre. Il piccolo si chiama Pedaya Mark, figlio di un rabbino, Miky, che è appena stato ucciso sulla strada vicino a Hebron. La madre giace gravemente ferita, e anche la sorella Teillah appena più grande di lui, sanguina. Lui le ha parlato per tenerla in vita finché sono arrivati i soccorsi; sempre lui, ha trovato il telefono e chiamato l’ambulanza. Un bambino dolce e diretto, e appena ieri bel ragazzo di ventidue anni, con i riccioli laterali e una continua propensione al sorriso, è stato ucciso a Gaza con altri 15 ragazzi, per la maggior parte del suo gruppo, i mitologici GIvati. Era il secondo luogotenente del battaglione. Pedaya che nella notte prima di mercoledì è stato ucciso in battaglia ha vissuto sempre nel vento di tempesta dello scontro con i terroristi. Suo zio Elhanan è stato ucciso correndo a battersi contro i terroristi il 7 di ottobre. Una famiglia di eroi d’Israele, caduto perché il suo mezzo corrazzato, un Namer (tigre), avventuratosi fra gli edifici nelle vicinanze di Gaza città, nel nord della Striscia e stato colpito da un proiettile anti-tank. I soldati uccisi ieri sono stati 16, un numero che testimonio la grande difficoltà del lento avanzare delle truppe israeliane nella trappola di Gaza, un meandro urbano costruito solo per fare la guerra, in cui ogni casa, ospedale, scuola, ospita le armi e gli uomini di Hamas, ogni cittadino al piano inferiore o superiore è uno scudo umano. I genitori dei ragazzi in guerra, in questo Paese postmoderno, in cui per legge si attraversa per la mano fino all’età di nove anni e i bambini sono principi, dal momento che i figli partono non vivono più, ogni macchina che arriva di fronte alla loro porta, ogni campanello che suona, la tensione raggiunge il diapason.
E tuttavia prevale la sicurezza, più di sempre, che questa guerra è necessaria, che le belve non devono restare sulle porte del Paese perché possa vivere, che i cittadini sfollati devono tornare a casa. La concordia è forte, non c’è posto per il pacifismo. Nella battaglia sul campo, i terroristi, i missili, sono in agguato, i terroristi preparano lo scontro dal 2005. I Givati sono incredibili combattenti, fanteria di prima classe, che conosce il terreno di Gaza metro per metro. Pedaya nel 2022 aveva detto che da quando suo padre era stato ucciso aveva capito quanto fosse importante essere un combattente. E così è stato fino all’ultimo: era su un mezzo corazzato colpito da un missile anti-tank coi suoi, e sono stati uccisi in 7; si deve immaginare un territorio semicostruito, in ogni costruzione può nascondersi un lanciamissili, sotto ogni edificio può sboccare la rete che i terroristi stessi hanno descritto, un meandro di 500 chilometri, un groviglio di trappole, armi, esplosivi, celle per gli ostaggi. Due altri soldati sono stati uccisi raggiunti da un missile mentre perquisivano un edificio, altri col tank su una bomba anticarro. Ognuno dei 16 ha una storia di ragazzo, di sogni, musica, scienza, tecnologia. L’inizio della vita. Sul primo, forse, a morire, Lavi Lipshitz, 20 anni, anche lui un Givati, bello come un attore, circola un video per una ragazza incontrata per caso: riassume l’incontro casuale rimasto nel cuore, alla fine si butta: “Are you free thursday night?”, “Sei libera giovedì sera?” scrive. Tutta Israele sa che Lavi non ha potuto andare all’appuntamento.
Ma questa guerra segue l’inferno nazista del 7 ottobre, la gente d’Israele cerca di consolarsi: i soldati hanno verificato le abitazioni di una grande zona, hanno ripulito Jabalia da 500 terroristi, hanno identificato le posizioni militari da cui i terroristi sparano, hanno compiuto “incontrando significativa resistenza” operazioni in cui gli scambi a fuoco gli hanno dato un netto vantaggio. Hanno catturato o eliminato molti responsabili del 7 ottobre. Di Sinwar, l’inventore del sabato nero, si dice che si aggiri come Hitler nel bunker, disegnando morte prima di tutto per il suo popolo.
Stella gialla sull'ONU
Il Giornale, 01 novembre 2023
Il 6 settembre del 1941 i nazisti imposero agli ebrei dai sei anni in su nei Paesi che avevano occupato, di cucirsi sul petto una stella gialla. Doveva subito isolarli, indicarli al pubblico ludibrio, doveva creare la strada diretta verso lo sterminio, aprire la porta alla strage di uomini donne e bambini. Ma i Paesi in cui la stella divenne il tragico distintivo degli ebrei furono a loro volta straziati, distrutti, riempiti di morti, crollando sulle ceneri dei suoi ebrei. Quando è apparsa la stella gialla, nessuno è stato solo spettatore della vertigine, del baratro che la sua imposizione ha segnato per il mondo. Ieri la sua immagine ha invaso non come ricordo storico ma come monito sul presente la hall dell’ONU; non c’è scritto però Yude, come imponevano i nazisti, ma “Never Again” mai più. Israele ne ripropone il monito.
Il nonno di Gilad Erdan, l’ambasciatore d’Israele all’ONU che ieri davanti al Consiglio di Sicurezza si è appuntato sul petto una stella gialla insieme al gruppo israeliano seduto dietro di lui, non fece nemmeno in tempo a subire quell’ umiliazione. Umile agricoltore ebreo in Transilvania fu caricato su un camion dai tedeschi coi suoi 8 bambini e sua moglie Bracha e portato al macello. Tutti quanti, fuorché il padre di Gilad, sono stati uccisi perché ebrei, giudei, juden... jehud, come si dice in arabo e come urlavano agli agricoltori di Be’eri e di tante altre località il 7 di ottobre i terroristi di Hamas. È in onore delle le vittime della mattanza mai vista dalla Shoah in avanti e quindi per protestare contro la cecità folle dell’ONU e di un’opinione pubblica mondiale che rifiuta di condannare l’incredibile attacco del 7 di ottobre, che il rappresentante di Israele ha deciso di compire questo passo drammatico. Finché l’ONU non si deciderà a condannare Hamas, ha detto, vedrà gli israeliani indossare il distintivo che al tempo della Shoah faceva di loro bersagli di morte, e il mondo colpevole vittima della propria indifferenza. È stato un gesto molto estremo, gli ebrei d’oggi amano la loro stella chiara sulla bandiera d’Israele, quella della riscossa, che segna sullo sfondo luminoso, fra due strisce di cielo, la forza di un popolo che ha afferrato finalmente nelle proprie mani la sua stella.
La Shoah è un argomento sacro, la sua unicità, l’incomparabilità sono i fondamenti del pensiero ebraico e sionista. Non è un caso che il direttore di Yad Vashem, il museo della Shoah, Dani Dayan, ha rimproverato Erdan, si è detto dispiaciuto che abbia sfoderato la stella gialla che simbolizza la vulnerabilità del popolo ebraico; avrebbe voluto piuttosto vedere i rappresentanti d’Israele con la loro bandiera. Il gesto, certo, è stato una solenne presa di posizione, baldanzosa e fiera, di fronte a una situazione impossibile: è sembrato un altro incubo a Israele vedere Gutierrez, segretario dell’ONU, evitare di condannare Hamas e attribuire responsabilità allo Stato Ebraico, mentre ancora si sgomberavano i corpi dei bambini uccisi, di figli e padri decapitati, delle donne violentate e torturate, dei vecchi fatti a pezzi, mentre Hamas trascinava via 390 ostaggi. Il prezzo morale che il mondo è apparso disposto a pagare alla cosiddetta “causa palestinese” è apparso, e ancora appare nelle ore in cui a tutte le latitudini si susseguono manifestazioni che urlano morte agli ebrei sventolando la bandiera palestinese, pari a quello pagato col silenzio del mondo sulla Shoah. In questo, funziona la comparazione. Israele ieri ha dichiarato di nuovo che l’intenzione è quella di combattere fino in fondo Hamas fino a che non sarà sconfitto. È qui che sventola, in una guerra molto lunga e difficile, la stella azzurra, mentre il dolore è oltre l’immaginazione. Ha ragione il presidente Isaac Herzog quando avverte il mondo che le manifestazioni che urlano “dal fiume al mare” intendono la cancellazione del popolo ebraico, e che dietro l’attacco “più brutale visto dall’umanità nelle ultime generazioni” ce n’è uno immenso, che non riguarda solo gli ebrei. La stella gialla dello sterminio se non si combatte, è pronta per tutti.
Il nuovo antisemitismo genocida
Il Giornale, 31 ottobre 2023
Due sono le sorprese che ha portato con sé il 7 di ottobre: la vulnerabilità degli Ebrei nello Stato d’Israele a fronte dell’odio islamista, che a sua volta ha mostrato un volto sanguinario; e l’eco abnorme risuonata nelle ore successive alla carneficina, proveniente da tutto il mondo. L’eco dell’odio antisemita, che subito gridava “morte agli ebrei”, che li nazificava come responsabili. Veniva innanzitutto dalle Moschee di tutto il mondo, dalle case dei due miliardi di musulmani che popolano gli stati islamici o sono nostri ospiti nei Paesi occidentali, ma anche dalle raffinate università americane, dalle piazze europee di Londra, Parigi, Milano… il branco che ha inseguito gli ebrei per l’aeroporto di Makatchkala nel Dagestan, una masnada di bruti nelle sale d’attesa, dietro l’autobus in fuga, urlavano “siamo qui per gli ebrei, per ucciderli, Allahu akbar” come gli assassini nei kibbutz della immensa strage. Dopo il 7 ottobre è stata un’epidemia. Difficile scegliere gli esempi, ce ne sono centinaia. In tutti i Paesi islamici, in Austria, Francia, Germania, Inghilterra, Grecia, da noi, negli USA il numero degli incidenti antisemiti è aumentato del 200, il 400, il 600 per cento. A Milano con le bandiere palestinesi, i manifestanti gridavano “Aprite i confini, uccidiamo gli ebrei”; a Bologna su un cartello “Hitler vi incontrerà di nuovo all’inferno”. “Gas the Jews” è di moda. La paura delle comunità ebraiche ne cambia la vita, chi ha la Mezusà, la benedizione sulla porta, può temere che la si distrugga, come a Parigi. Città per città, Paese per Paese, con minacce personali, vili prese di posizioni di università come la Columbia, Yale, Berkeley, il raccapriccio per ciò che Hamas ha fatto si è trasformato in un antisemitismo mimetico, genocida. Non è vergogna per le folle invocare Hitler e il genocidio, inneggiare ai tagliagole.
È una novità infettiva. L’antisemitismo israelofobico dell’Occidente, oggi mischiato a quello del sempre crescente numero dei musulmani, si era già negli anni trasformato in odio militante. Il rovesciamento era già evidente, lo scopo da tempo non era “due Stati per due popoli” ma l’eliminazione di Israele e degli ebrei. Ma durante la seconda Intifada, quando i terroristi suicidi uccidevano 1500 civili, ci fu un’altra ondata mondiale di odio antiebraico e antisraeliano. Durante tutte le guerre in cui Israele è stato aggredito, anche dopo il rifiuto di qualsiasi accordo, è sempre cresciuto l’odio per gli ebrei. La novità è che sulla scia di Hamas, dell’ISIS, di al-Qaeda, il messianismo musulmano si è esplicitato con tracotanza in tutto il mondo, secondo il dettato che per vincere si deve terrorizzare, piegare, sfigurare.
L’attacco del 7 di ottobre ha avuto una forza propagandistica che si è allargata minacciando per esempio Biden o chiunque si associ alla difesa di Israele. È una svolta politica dell’antisemitismo ideologico: è la forte, potente divisione in due mondi che si vuole disegnare nelle menti e nei cuori. Puoi stare con lo schieramento vincente dei palestinesi, con gli Hezbollah, con la Siria di Assad, l’Iraq e lo Yemen sciiti, l’Iran, la Russia e la Turchia e agire nel nome del tuo antisemitismo, non solo a proclamarlo. Potrai finalmente distruggere Israele e gli ebrei. Ma perché gli studenti di Berkley e parte dei giovani italiani si associano? Perché il “palestinismo” è riuscito a essere la religione occidentale progressista, ignorante dell’origine di Israele, una macchina di odio che ne ha fatto uno stato “coloniale, razzista, imperialista” che pratica un “odio umanitario” (come lo chiama Shmuel Triganò) in nome dei diritti umani. Non ha nessun peso che Hamas e l’Iran ammazzino gli Lgtbq, ma lo ha per esempio l’idea, negativa, che gli ebrei abbiano voluto costruire una nazione. “Nazione”! Come “autodifesa”, o “identità”, è un concetto contrario al multiculturalismo, alle teorie di genere, alla cancel culture… Gli ebrei spinti fuori dalla modernità, anche se è vero tutto il contrario, sono rappresentati come “nazisti che vogliono sterminare i palestinesi”, una “piaga mortale” come sostengono gli Ayatollah e purtroppo anche le piazze di Londra. Il razzo della Jihad Islamica che ha colpito il 17 l’ospedale a Gaza, ancora viene definito israeliano da certi media internazionali e dalle manifestazioni. L’incontro dell’antisemitismo dei diritti umani con quello musulmano esplode e insegue gli ebrei per ucciderli.
Leonardo, sul fronte più minaccioso
Il Giornale, 30 ottobre 2023
Dal 7 di ottobre Leonardo Aseni, un giovane di Milano anche israeliano di 35 anni, ha lasciato la sua casa di Tel Aviv e il suo lavoro nell’high-tech per andare a combattere con i miluim, le riserve, della sua mitologica unità, i Golani. L’hanno destinato al confine del Libano, che da ieri dopo giorni di silenzio spara di nuovo, e preoccupa il mondo. A Kiriat Shmone una casa è stata colpita da un missile ieri sera. Biden disse agli Hezbollah e all’Iran: ”Don’t” non entrare in questa guerra, ma dall’inizio della guerra del sabato più nero tutta Israele si interroga sulla possibilità che anche gli Hezbollah decidano di attaccare mentre si combatte dentro Gaza con enorme dispiego di forza. Significherebbe fronteggiare un altro rischio, forse maggiore, per le vite dei soldati e soprattutto della popolazione civile d’Israele, dato che gli Hezbollah sono la milizia sciita d’elezione degli Ayatollah: l’Iran li ha forniti da decenni di missili e droni che adesso come avvertimento vengono sparati sui paesi di confine, ma possono arrivare ovunque e a miriadi; gli Hezbollah, più di Hamas, possiedono attrezzature belliche e training di prima scelta fornite dall’Iran, Nasrallah ha costruito un gruppo fanatico e abile nel terrorismo e nel traffico internazionale di droga e armi. Il sommo progetto è quello degli Ayatollah, distruggere Israele. Da quando Hamas, il suo collega sunnita, è in prima linea, Hezbollah ha sparato sul bordo dove Aseni presta servizio colpi di artiglieria, bombe, proiettili anche letali.
Si è fatto vivo anche Ieri, e durante uno degli scontri è stato colpito anche una postazione dei Caschi Blu dell’ONU. Ormai dal 7 ottobre Hezbollah conta una trentina di morti e ne ha fatto 6 fra gli israeliani, di cui due nell’unità di Leonardo. Ieri le sirene per la prima volta hanno mandato anche i cittadini di Roshpina nei rifugi. Dalla città maggiore, Kiriat Shmone e dai kibbutz della zona si è compiuta l’evacuazione di tutti i cittadini. “Quella mattina del 7 -racconta Aseni- ho intuito dalle prime sirene che qualcosa di enorme stava accadendo, l’impossibile, l’irreale, e sono partito di corsa per il punto d’incontro. Adesso, qui siamo compatti, dispiegati in gran numero; siamo di nuovo noi Golani, l’unità mitologica di cui fin da ragazzino sognavo di far parte, ci rivediamo ma con un affetto che non ci si può immaginare”. Leonardo, mi parla sul video del telefonino appena distante dal suo gruppo sotto un grande albero, vedo solo foglie e la sua divisa, ha addosso il suo fucile Tavor X95 del peso di tre chili: “Sono un tiratore scelto d’assalto. Io apro la strada su questo terreno: appena ti mostri ai loro occhi, sei un bersaglio. Io vado avanti a tutti, individuo da dove si deve passare durante le nostre operazioni per rischiare meno possibile, precedo il comandante”. È lui che prende rischio e responsabilità. “Sì, certo, fa paura, ma hai da fare, devi cercare boschi, cespugli, valli, che ti nascondano. Appena sei in vista gli Hezbollah ti individuano e ti sparano un missile Kornet di cui odi il sibilo. Ti insegue e ti becca di sicuro se non riesci a trovare un nascondiglio, e non sempre lo si trova”. Leonardo è straziato dall’uccisione di un soldato solitario, stavolta di 22 anni, Omer Balva, venuto a combattere dagli USA. “Siamo andati a recuperarne il corpo straziato, io gli volevo quel bene che ci si vuole qui, oltre ogni immaginazione. Se uno di noi ha fame tutti si levano il mangiare di bocca”. E ha fame Leonardo? “Beh, parecchia, l’altra notte non so come una signora è riuscita a arrivare con la pizza ed è stata una festa anche se era fredda. Fame, sonno: non abbiamo un edificio, dal 7 dormiamo per terra su un terreno molto sassoso e accidentato, ci riempiamo di spine, siamo in allarme continuo, tanto che non mi sono cambiato da allora”. Leonardo vede oltre il reticolato, gli Hezbollah vanno avanti e indietro… “Se mai dovessero preparare un’invasione come Hamas, sarebbe dieci volte più terribile.
Pensa cosa sarebbe se si rovesciassero a frotte su Metulla, Shtula... sono fanatici, feroci terroristi. Noi però non lo permetteremo”. Leonardo ha occhi pensosi, ma non sembra stanco anche se oggi ha mangiato un sacchettino di bamba, delle palline di nocciolina, 3 o 4 Mentos. Vorrebbe fare la doccia, l’ha punto una tarantola. È questo essere un eroe? Leonardo ride, ha da fare, cambiare l’acqua della borraccia, ricaricare le batterie delle torce a luce rossa, controllare una specie di coperta contro la pioggia. Ma ogni minuto possono chiamarlo per una missione, non c’è tempo nemmeno per fare la doccia. Ai genitori mando dei cuori e dei pollici in alto, sanno tutto senza parlare.