Il compleanno di Kfir nelle mani di Hamas
Il Giornale, 17 gennaio 2024
La creaturina “gingi” come si definisce in ebraico una persona coi capelli rossi, è ormai Israel stessa, tutti sognano Kfir Bibas e suo fratello Ariel ogni soldato sogna di salvarli in fondo a una galleria oscura, ogni manifestazione ne inalbera i bei ritratti. Il 18 gennaio Kfir, il fagottino che non vede la luce del sole da 103 giorni, avrà un anno. Tre mesi fa le sue foto e i film che abbiamo visto tutti ormai, in tutte le parti del mondo, sembravano disegnare l’infanzia più felice del mondo: Kfir ha un sorriso più largo della sua faccia rosea, più largo della vita, qui gioca insieme al suo fratello di quattro anni Ariel, là lo baciano la mamma Shiri e il papà Yarden, due giovani di 32 e 34 anni. Il 7 di ottobre i due bambini, due cuccioli di leone, mentre piovono senza sosta i missili, secondo il testo che la mamma manda sul telefonino alla sorella, capiscono cosa sta accadendo, sono agitati, incontenibili; i terroristi sono entrati nel loro kibbutz, Nir Oz.
Dopo aver scritto alle 9,45 “Sono entrati” e “Vi amo” alla famiglia, la prossima notizia e anche l’ultima di Shiri sarà il volto disperato, lo sguardo incredulo e terrorizzato della giovane donna mentre i terroristi la trascinano via e lei tiene ambedue i bambini stretti, invano. Tutta la famiglia è stata rapita. Yarden si rivedrà in fotografia e in un filmino, sanguinate dalla testa. Israele è in agonia per i Bibas ma soprattutto per quel bambino meraviglioso e per suo fratello, i piccoli che hanno dovuto incontrare l’inferno, l’odio di cui non avevano idea, lo sfregio fisico che ora li tieni chiusi al buio da 103 giorni che li affama, li asseta, li perseguita: senza saperlo essi sono il fiore all’occhiello di Hamas, l’Oscar all’antisemitismo mondiale, il Nobel della crudeltà e dell’orrore. Questo Hamas vuole: usare il meglio per ottenere il peggio, distruggere la vita per ottenere la guerra e la morte del nemico e la propria. L’incertezza per cui Israele si ostina a ritenere vivi i bambini anche se Hamas li ha dichiarati morti, aggiunge una tensione intollerabile alla guerra psicologica che Sinwar sa inventare usando la sofferenza degli ostaggi, come si è visto anche dai film di questi giorni, per ridurre il mondo intero in ginocchio a chiedere pietà per gli innocenti e piegarsi alla sua volontà. L’ambasciatore all’ONU di Israele Gilad Erdan si è presentato davanti all’Assemblea Generale con una torta su cui era rappresentato il viso di Kfir e gli ha dedicato il suo augurio: “Spero che l’anno prossimo celebrerai il tuo compleanno circondato dall’amore della tua famiglia. Questa torta è per te, tu sei la ragione per cui Israele combatte notte e giorno”. La voce che tre membri della famiglia fosse stata uccisa ha cominciato a circolare a notte in cui su un’auto della Croce Rossa partirono gli scambi che hanno riportato cento ostaggi lasciandone 136 nelle mani di Hamas: i fratellini con la madre non erano fra le persone finalmente libere anche se stravolte. I bambini più sorridenti, più piccoli, non sono mai tornati.
Intanto Yarden è stato sottoposto alla tortura, filmata e mostrata al pubblico, di un annuncio sulla morte di tutta la sua famiglia. Ma l’unica cosa che si riesca a immaginare al momento e in cui si spera è che i Bibas, siano finiti nelle mani della Jihad Islamica o di qualche altro gruppo dentro Gaza, come per altro altri sette bambini e ragazzini esclusi dallo scambio, e che siano finiti nella confusione per la custodia dei prigionieri in qualche cunicolo. Israele non perde la speranza che nella impossibile discussione sugli scambi che coinvolge Qatar ed Egitto e in cui tanti Paesi cercano di dire la loro, si accenda una luce. Ma ha ragione Erdan: è mai possibile che in tutto ciò la voce dell’ONU non si sia ancora mai udita? “E’ mai possibile che invece di ricevere amore e calore Kfir sia oggi circondato da pura malvagità? Che la pena di un infante sia dimenticata dall’ONU come se non fosse mai accaduta? Per amor di Dio questa creatura celebra il suo compleanno in prigionia”. La torta di Kfir è rimasta in vista all’ONU, finché gli addetti alle pulizie non se la porteranno via. Questa è l’ONU; che non ha mai condannato Hamas se non chiedendo un cessate il fuoco che gli consentirebbe di sopravvivere.
Calciatore arrestato dai turchi perché manifesta per i rapiti
Il Giornale, 16 gennaio 2024
Ha alzato una mano dopo aver legato al polso, come un piccolo manifesto, una fascia bianca con scritto “7 ottobre, 100” e accanto una piccola Stella di David, il numero da giorni da quando gli ostaggi israeliani sono nelle mani di Hamas. Poi ha disegnato un cuore con le mani, nel cuore della Turchia che odia Israele. Domenica Sagiv Yehezkel era appena riuscito a condurre la sua squadra l’Antalyaspor al pareggio contro il Trabzonspor nel campionato turco quando ha fatto la sua manifestazione. Sapeva certo che nella Turchia di Erdogan questo è un delitto da punire: i 132 ostaggi sono per il regime turco solo una meritata punizione per il regime sionista nella guerra in cui Erdogan parteggia per Hamas sin da prima del 7 di ottobre. Mentre il club dell’Antalyaspor sospendeva il giocatore israeliano, cancellava dal sito tutte le foto del celebrato goal licenziando in tronco il giocatore perché “ha agito contro la sensibilità di Antalya, dell’Antalyaspor e del nostro paese” (un licenziamento che gli costerà, dicono gli esperti, più di un milione di dollari) la Federazione turca del calcio trovava il gesto del tutto “appropriato”. E qui, il Ministro della Giustizia ha aperto un caso giudiziario contro il giocatore “per aver incitato il popolo all’odio e all’ostilità” col suo “disgustoso gesto di supporto per il massacro israeliano di Gaza” e gli ha mandato la polizia. Sagiv è stato quindi portato in prigione nello stile di Erdogan le cui carceri sono piene di giornalisti, di donne che non seguono le regole dell’Islam e osano protestare, di curdi, di dissidenti di ogni tipo che hanno nei decenni osato ribellarsi alla prepotenza del neosultano.
Ma stavolta la protesta internazionale, probabilmente riscaldata dalla guerra in corso, e quell’elasticità opportunista che fa di Erdogan sia un membro della Nato che l’estremista della Fratellanza Musulmana amico di Hamas, che organizzò lo sbarco armato della Mavi Marmara, che chiama Netanyahu “Hitler”, ha suggerito di espellere subito Sagiv invece di lasciarlo marcire nelle carceri del regime. Così i fan della squadra Hapoel Be'er Sheva, la squadra originaria di Sagiv, hanno ieri sera già ricevuto con le bandiere all’aeroporto Ben Gurion l’eroe che non ha avuto paura di mostrarsi solo di fronte a un popolo aizzato e a un regime che lo odia. Sagiv Yehezkel portato in trionfo al grido di “gibor”, eroe, ha detto alla folla solo la frase che ripetono i soldati in questi giorni: “Nessuno è come il popolo d’Israele. Ora, però, vado a riposarmi un po' a casa”. Erdogan si è distinto dal sette di ottobre nel suo consueto odio per Israele e sostegno per il terrorismo: nei giorni scorsi durante il processo dell’Aya ha anche dichiarato che si stava dando da fare per fornire prove all’ICJ che Israele è un Paese genocida, cosa che peraltro aveva già sostenuto in vari modi. Da vero Sultano ottomano Erdogan si vede, e l’ha dichiarato più volte, come liberatore di Gerusalemme e della Moschea di Al Aqsa, riceve e ospita a casa sua alti rappresentanti di Hamas e degli Hezbollah, ha contatti strategici con l’Iran e la Russia. Il Ministero degli Esteri israeliano ha lavorato, ha detto, per rimuovere tutti gli ostacoli per il ritorno; i toni di preoccupazione e d’ira, anche di Netanyahu, si sono acquietati per consentirlo dopo dichiarazioni durissime, fra cui quella del ministro Ben Gvir che ha invitato gli israeliani a non andare mai più in Turchia, di Yoav Gallant, Ministro della Difesa, che ha ricordato la generosità con cui Israele ha aiutato la Turchia durante il terremoto e ne ha deplorato l’ ipocrisia e ingratitudine; mentre il ministro degli esteri Israel Katz ha detto che “chi arresta un giocatore di calcio per aver espresso solidarietà con 136 ostaggi detenuti da 100 giorni nelle mani di una delittuosa organizzazione terrorista, rappresenta una cultura di odio e violenza”.
Adesso, ancora si attendono le reazioni delle grandi organizzazioni sportive: sono loro che devono proteggere lo sport come la libertà di opinione quando non inciti alla violenza. Quando dopo l’uccisione di George Floyd i giocatori si inchinarono su tutti i campi di calcio, lo fecero nel rispetto generale. Per i sequestrati, bambini vecchi, donne, nemmeno una piccola fascia bianca su un braccio?
Il nuovo cittadino israeliano che nasce dopo il 7 ottobre
Il Giornale, 15 gennaio 2024
C’è un fatto essenziale che segna la resistenza di Israele in tempi impossibili e spiega che il Paese ce la farà: i ragazzi israeliani d’oggi, quelli fra i 18 e i 35 anni, sono molto più simili ai vecchi pionieri alla Ben Gurion e alla Jabotinsky della generazione dei professionisti moderni, ecologici, ideologici, woke come noi. Oggi in battaglie impossibili, a Khan Yunes o a Shlomi, giorno e notte, volontari negli ospedali, nell’agricoltura, nelle scuole, nella distribuzione di generi primari, le maestre d’asilo, i cantanti che fra le cannonate vanno a Gaza a cantare, o le cuoche che impacchettano gavette di cuscus… trovi ragazzini molto pratici, diretti, che amano la casa, la famiglia, che vogliono molti bambini, che ripetono “non ho altro Paese che questo”, telefonano alla mamma e alla fidanzata, sanno usare le armi in battaglia. E resistere al dolore in nome del loro futuro. Strana gente. Questi giovani saranno quelli che oltre i politici odierni compiranno un terremoto ideologico, senza destra e sinistra, oltre i religiosi e laici, perché hanno verificato che il Paese altrimenti rischia la vita.
Abbandoneranno l’illusione che il Paese possa diventare la Svizzera, saranno quelli che porteranno una nuova e profonda comprensione della natura della guerra di Hamas, degli Hezbollah, dell’Iran con Israele, come descritta da Hossein Salami nel 1922 “Palestinesi e Hezbollah, passo passo, muoveranno insieme per liberare la Palestina in una guerra di terra, non coi missili”. Il West Bank si muove su questo modello, anch’esso per una profonda convinzione religiosa. Israele ha immaginato che condivisione e benessere portassero alla pace. Chi ha visto cos’è successo a Be’eri, chi ha ascoltato le testimonianze degli ostaggi ritornati, aggiungono molte tessere al mosaico della loro interpretazione della moralità ebraica: si deve anche sopravvivere, e mai più sopportare un’altra Shoah. Nel rispetto del valore della vita umana e delle regole internazionali, saranno quelli che sanno che si vince lo si fa da soli; e ci si batte per gli ostaggi non per motivi di pietà, ma per orgoglio. Questo è il Medio Oriente; i cento giorni lo hanno rivelato definitivamente. La centesima giornata dal 7 di ottobre ha portato su di sé tutto il fardello di quello che oggi Israele deve affrontare: l’attacco omicida ai civili dal Libano, Hezbollah e palestinesi, sulle case e sulla gente, gli attacchi terroristi dall’West Bank sul modello di quello di Gaza, recinti sfondati, mitra, asce, coltelli; l’Iran sullo sfondo di una guerra totale.
E la lunga operazione di Gaza, carica di eroismo, di caduti, incerta sui tempi e soprattutto su come liberare 136 rapiti. Nel centesimo giorno, al nord e sul sud si vede la devastazione dei kibbutz intrisi di sangue, la desolazione dei Paesi al confine col Libano; e il peso sugli amici, sui membri della famiglia, dell’elaborazione del lutto, del significato misterioso del male, dei caduti in battaglia e dei tunnel dove si torturano i rapiti. Ma non è un’angoscia simile a quella del passato, nemmeno per la ferita che brucia dell’ondata di antisemitismo nel mondo, “from the river to the sea”. Qui, basta guardarsi intorno, osservare i ragazzi, e si vede che sta nascendo un nuovo israeliano.
"Se c'è un genocidio è contro di noi". Israele si difende contro le follie Onu
Il Giornale, 13 gennaio 2024
Ieri Israele si è difesa con bravura e pazienza in un teatro dell’assurdo, davanti ai quindici giudici che all’Aia da due giorni dibattono le accuse del Sud Africa a Israele di perseguire il genocidio dei palestinesi. Un segnale che il mondo non è del tutto impazzito è finalmente giunto dalla Germania, il Paese che sa, che ricorda che cosa è un genocidio, la Shoah: i suoi rappresentati hanno espresso la richiesta di prendere parte al dibattito quando verrà riconvocato il tribunale dell’ICJ, l’International Court of Justice. Dopo la particolareggiata risposta alle tre ore di inconsistenti e addirittura scombinate accuse di giovedì (si è persino detto che i soldati israeliani violentano le donne palestinesi, e impediscono le nascite!) un filo di ottimismo illumina la serata di ieri all’Aia: prima ha parlato il consigliere legale del Ministero degli Esteri, Tal Becker e poi l’avvocato inglese Malcolm Shaw con una linea che si basa nella storia degli eventi, tutto il contrario della scelta del Sud Africa che ha obliterato dal racconto le azioni di sterminio programmato che hanno causato la guerra e, come un ventriloquo ha cercato la soluzione politica utile per Hamas: sospendere la guerra così da riorganizzare il suo potere terrorista. Israele è ripartita dal 7 di ottobre, ha scelto di spiegare che il genocidio è stato compiuto da Hamas il 7 di ottobre, ne ha ripotato alla luce la strage di famiglie, le mutilazioni, le violenze sessuali, le decapitazioni, i rapimenti; quindi, ha spiegato che la guerra non è stata scelta da Israele, ma causata dalla necessità di difendersi dagli assassini, con i loro chiari intenti genocidi, promettono “ancora e ancora”. Show ha dimostrato che è impossibile attribuire un intento genocida a chi ha fornito aiuto umanitario, vie di fuga, avvertimenti ripetuti così da risparmiare la popolazione.
Ha però anche chiarito che Hamas usa in guerra tutte le strutture civili rendendo molto difficile risparmiare gli scudi umani di impianti bellici. Mai però nella storia di Israele si è avuto l’intento di cancellare i palestinesi. Al contrario l’idea, la proposta della convivenza domina tutta la storia d’Israele, nonostante il rifiuto continuo dei palestinesi e i progetti genocidi, “from the river to the sea”, dal fiume al mare. Sulle citazioni di alcuni uomini politici che furiosi, sono esplosi in maniera impropria parlando di bomba atomica, l’avvocato ha ricordato che si è trattato di personaggi marginali e comunque smentite da Netanyahu. Forse lo squilibrio fra le ragioni del Sudafrica, ovvero di Hamas, e quelle di Israele, indurrà l’ICJ a cercare altre strade rispetto a fermare la guerra. E tuttavia resta che si è parlato di Israele per due giorni interi sotto il titolo “genocidio”, non quello vero subito dagli ebrei con la Shoah, e in chiave limitata, il 7 di ottobre.
La Germania, gli USA, l’Inghilterra, i Paesi occidentali democratici che siedono nel tribunale voteranno per Israele, ed esso ha potuto dispiegare la sua difesa come deve, solo orgoglioso, in guerra contro il male quale che siano i risultati. Ma sullo sfondo fra le bandiere di Hamas alle manifestazioni, è risuonata una condanna a morte molto chiaramente espressa dal rappresentante sudafricano e che si rispecchierà nel voto finale che sarà il solito di tutto ciò che è un derivato dell’ONU: egli non ha parlato di genocidio a partire dall’inizio della guerra ma del peccato originale di Israele di esistere “da 75 anni” come ha detto, e questo sarà comunque punito. Allora non esisteva ancora il concetto di “palestinese” se non per riferirsi agli ebrei sionisti che lavoravano nel Paese a loro restituito dal movimento sionista, dalla Società delle nazioni, dall’ONU, dal diritto storico di un popolo indigeno. E dalla necessità di avere un rifugio dall’antisemitismo genocida. Ma all’Aia gli ebrei sono stati di nuovo delegittimati, definiti razzisti, stato di apartheid, colonialisti, e adeso anche genocidi. Una bordata di odio e di delegittimazione che si chiama antisemitismo. Di questo ha discusso tutto il mondo.
Nazione nata dalla Shoah. Che infamia
Il Giornale, 12 gennaio 2023
La Corte internazionale di giustizia ieri, comunque finisca, si è screditata agli occhi dell’opinione pubblica internazionale: tutti quelle vestaglie e parrucche non copriranno il fatto che per la prima volta ha accettato di discutere le accuse presentate contro un Paese democratico e liberale da un Paese corrotto che ha fornito il suo megafono a un’organizzazione terrorista.
Lo scopo è politico: mettere in questione il diritto di Israele a combattere, a difendersi dall’attacco genocida di Hamas cui è stato sottoposto il 7 di ottobre. Nell’ombra, l’Iran e l’attivo impegno di Hezbollah. Russia, Somalia, Cina, tutta l’asse antioccidentale può, secondo la tradizione dell’ONU, votare perché Israele fermi la guerra e quindi si metta in moto il Consiglio di Sicurezza per obbligare Israele a ubbidire, costringendo così Biden a fare uso del veto, evento mortificante. Israele è in sé, come Stato ebraico, il contrario del genocidio: è la rinascita dal genocidio, l’ha subito con la Shoah.
Dal 1948 ha cercato la condivisione trovando il rifiuto dei palestinesi. In questa guerra avverte i civili, fornisce i beni fondamentali, rallenta la guerra per evitare l’uccisione di innocenti. Ma l’alto numero dei morti è fornito dal ministero agli ordini di Hamas. 8500 sono gli armati di Hamas uccisi in guerra; i loro stessi missili fanno molte vittime. La dissonanza è immensa: sul confine le famiglie gridano con un megafono ai loro cari “ti amo, resisti” sperando che la voce voli a Gaza. Sul Daily Mail appaiono 4 ragazzine insanguinate, ostaggi come gli altri 132. Alla tv un eroe che fra ragazze e ragazzi violentati e smembrati ha salvato i sopravvissuti di Nova, racconta.
Una madre torna nella stanza in cui le hanno ucciso il figlio. Alcuni soldati stanchi raccontano l’eroismo dei caduti. Questa è Israele oggi, dal 1948 la patria nata dopo la Shoah, subito assalita dagli arabi, in guerra contro il rischio genocida di Hamas, la patria dell’unico “Never Again” che non verrà distrutto dalla Corte internazionale di giustizia.
Difesa di Israele sulle accuse di genocidio
Il Giornale, 11 gennaio 2024
È un bel palazzo gotico quello che all’Aia ospiterà da oggi per due giorni l’accusa di “genocidio” che il Sud Africa ha sollevato presso l’ICJ (international Court of Justice da non confondere con l’ICC, International Criminal Court) contro di Israele. L’intento del Sud Africa è fermare l’azione militare di Israele, sostenendo che la guerra è combattuta con intenzioni genocide. Ci vorranno alcune settimane perché la Corte dia un parere, e poi un seguito di mesi nel merito delle singole accuse e la competenza della Corte. L’evento di oggi è ironico, interessante, e molto allarmante e triste dal punto di vista della cultura mondiale. Ironico: perché il termine genocidio è stato coniato nel 1944 da un avvocato ebreo Raphael Lemkin per definire le atrocità e le intenzioni naziste. Nel 1948 la corte fu creata su questa ispirazione, e ecco che la “nazificazione” di Israele”, una base dell’antisemitismo contemporaneo come dice il grande storico Robert Wistrich, appare in tutta la sua forza mentre Israele si batte per la vita.
Interessante, perché sulle sedie degli imputati invece di Israele dovrebbe palesemente esserci chi ha espresso e messo in atto ultimamente intenzioni genocide: ovvero, Hamas che nella sua Carta chiama ad uccidere tutti gli ebrei, e lo fa, indistintamente nella pratica terrorista. Allarmante: perché denuncia una grande confusione cognitiva che sotto l’egida degli “oppressi contro gli oppressori” ignora la storia: solo tre mesi fa abbiamo avuto nel Paese accusato una strage inenarrabile di bambini e famiglie al grido “Yehud Yehud” (ebreo, ebreo) con intenti genocidi. Israele sta ancora raccogliendo i resti della strage mentre combatte due guerre di sopravvivenza: una per sconfiggere a Gaza l’esercito terrorista del 7 di ottobre; l’altra per strappargli i poveri 136 ostaggi, anche loro solo “ebrei”.
Tutto questo è quasi inesistente nella memoria di più di 80 pagine presentata all’ICJ. Da stamani essa è vagliata da 15 giudici all’Aia. Il tribunale è incaricato dall’ONU, i giudici, fra cui Aharon Barak sono di alto livello, fra di loro siedono gli americani, i francesi, tutti gli occidentali vantano un giudiziario libero; ma ci sono anche Russia, Cina, Somalia, Uganda, Libano, Paesi in cui si può supporre il legame fra giudiziario e politico. L’accusa di genocidio a Israele è un’aggressione politica, negli anni, Israele ha sempre cercato un compromesso coi palestinesi, (i processi e gli accordi di Madrid, Camp David, Oslo…), le guerre sono state di difesa, lo sgombero di Gaza come altri, dimostra la speranza nella convivenza che è sempre stata nel sionismo. I numeri dei morti civili a Gaza purtroppo sono alti, ma innanzitutto sono forniti dal governo di Gaza, lo stesso che ha organizzato le atrocità del 7 ottobre, difficile fidarsi; dei circa 15mila membri dell’esercito di Hamas sembra che circa 8000 siano stati uccisi in battaglia, e che sia alto, come si è visto dall’episodio dell’ospedale colpito dal missile palestinese, sono frequenti i lanci sbagliati. Soprattutto il terreno è una fortezza in cui le strutture civili sono casematte e la popolazione è usata come scudo di difesa. Israele ha cercato con volantini di indurre i cittadini a sgomberare, e ha fornito gli aiuti umanitari richiesti. Il Sud Africa porta affermazioni di alcuni politici che annunciavano incaute intenzioni di radere al suolo Gaza, poi però modificate con l’intenzione di cancellare Hamas. Durante questo giovedì si discuteranno le accuse, e venerdì parlerà l’avvocato inglese Malcolm Show in difesa di Israele.
Ma già un’accusa tanto cruda invoca la delegittimazione dell’esistenza stessa dello Stato Ebraico, quella che “From the river to the sea”, dal fiume al mare, chiede l’obliterazione degli ebrei. Se, la Corte accettasse la richiesta sudafricana, la prima conseguenza sarebbe l’imposizione a Israele di fermare la guerra a Hamas. In seguito a un “no”, potrebbe essere convocato il Consiglio di Sicurezza. Sarebbe una sconfitta penosa del buon senso, del prestigio stesso dell’ICJ e del diritto all’autodifesa dal terrorismo.
La svolta di Israele: basta compromessi
Il Giornale, 09 gennaio 2024
Le svolte storiche sono fatte di molte tessere di un mosaico che si compone lentamente, a volte negli anni. Israele dopo il 7 di ottobre ha più volte dichiarato che niente sarà come è stato, e il significato è chiaro: non si dovrà mai più dare una situazione in cui i cittadini debbano subire un’aggressione mortale, in cui siano minacciati giorno dopo giorno, e che da questo derivi un condizionamento della politica, delle idee del comportamento. È arrivato a Gerusalemme Blinken proveniente dall’Arabia Saudita e prima dall’UAE e dalla Turchia, e ha portato la sua politica di solidarietà ma anche di contenimento di Israele: oggi uno scontro con gli Hezbollah è l’ultima cosa al mondo che Biden desidera.
Ieri, Netanyahu sul confine col Libano coi soldati che al freddo difendono dal 7 ottobre il confine, ripeteva che i profughi sarebbero stati riportati a casa loro, le montagne bombardate e dove una sede di controllo aereo era stata colpita da Hezbollah sarebbe divenute sicure, pena un attacco sul Libano simile a quello su Gaza. Sempre ieri, “secondo fonti straniere”, Israele ha eliminato Issam al Tawil, molto vicino a Nasrallah, fra le foto ricordo quella con Kassem Suleimani, il generalissimo iraniano dell’asse sciita patron di Hamas. Israele ha già eliminato il 2 gennaio a Beirut, a Dahiah, fra gli Hezbollah, Saleh al Aruri, un altro nome importante, ma sunnita e di Hamas. La sfida non era così diretta e Hezbollah ha risposto con la solita guerra di attrizione.
Adesso sotto gli occhi di Blinken, che non gradisce, Israele mostra che sul serio non sopporterà che Hamas gli sposti il confine: le città e i kibbutz vuoti come ha detto ieri in un’intervista all’Wall Street Journal il ministro della difesa, Yohav Gallant, sono una vittoria dell’Iran. Israele sta anche spostando con la terza fase le sue pedine nella guerra a Gaza con una strategia che implica maggiore impegno nel centro sud, dove Sinwar si nasconde e dove si spera di riuscire anche a progredire nella ricerca dei rapiti: qui ogni passo è difficile, è la questione più dolorosa e politica per uscire dall’ombra nera del 7 di ottobre. La resa dei conti è rimandata ancora per un po': un’unica bandiera, molto difficile, si vede nella scelta di Netanyahu di scegliere il giudice Aharon Barak, 87 anni, sopravvissuto alla Shoah, il suo grande oppositore nella questione giudiziaria, per andare all’Aia a contrattaccare il Tribunale Internazionale che da giovedì discuterà l’accusa di genocidio del Sud Africa. Un’accusa del genere sarebbe stata ignorata fino a ieri: tutte le organizzazioni onusiane sono prevenute contro Israele, in genere Israele non si cura delle continue accuse, assurde accuse dominate dal doppio standard. Stavolta è diverso: à la guerre comme à la guerre, ovunque, guerra di sopravvivenza.
Gerusalemme pronta alla fase tre. Caccia a Sinwar e Deif nel Sud della Striscia. Obiettivo liberare i rapiti
Il Giornale, 08 gennaio 2024
La guerra a Gaza fa manovra mentre Israele deve vedersela da adesso, anche se ancora la guerra con gli Hezbollah è un insieme di missili e punti interrogativi, su due fronti: un terzo dell’esercito è già al fronte nord; si mormora con insistenza anche di una mancanza di munizioni cui supplire con l’aiuto americano. A nord e a sud sul confine città come Sderot a sud e Kiriat Shmone a nord, kibbutz, sono stati sgomberati e almeno 200mila cittadini chiedono di tornare a casa in sicurezza. Ma certo non per vivere fianco a fianco con dei nemici che promettono di uccidere tutti gli ebrei. Nasrallah ha aumentato il volume della minaccia sparando missili molto raffinati, di vario genere e grado, su importanti istallazioni israeliane sul monte Merom dopo che il suo ospite Al Haruri era stato eliminato sul suo territorio. Ma le decisioni grosse girano nella giostra della fortuna.
Può diventare una guerra terribile, che investa Tel Aviv di missili iraniani, o bloccarsi sulla paura che Nasrallah ha di passare alla storia come il distruttore dell’intero Libano: questa è la minaccia, se Israele sarà costretto a entrare in guerra. L’ha ripetuto Netanyahu e il ministro Gallant ambedue d’accordo anche su un punto non facile: la guerra continua fino alla vittoria su Hamas, fino a che tornino i rapiti, finché ci sarà sicurezza per Israele. Una scommessa che ancora aspetta un piano: se ne discute freneticamente in questi giorni. A Gaza, fase di grande passaggio, dalla fase due alla fase tre. Si va dal nord verso al sud, passando per Sinwar, al centro di Khan Yunes: nei suoi anfratti di case e uffici è stato trovato di tutto, dalle armi di precisione autoprodotte, fino a grandi archivi che disegnano un’organizzazione miliardaria e minuziosamente preparata a uccidere. Una nuova foto di Mohammed Deif, ce lo mostra con una mano piena di dollari e l’altra, funzionante contro le informazioni precedenti, con una tazza di caffè.
Con precisione, ricchezza di episodi e una vivacità il cui sottinteso sembra essere “noi soldati facciamo la nostra difficile parte, a voi politici le mosse politiche per il futuro” il portavoce dell’esercito, l’ ammiraglio Daniel Hagari ha svoltato l’angolo della terza fase: già alcuni battaglioni di riserve, hanno ritrovato per il momento la via di casa; il nord della Striscia , a Jabalia e altre otto aeree, è a pezzi, i terroristi non hanno più leader nella zona, eliminati; la tensione adesso, e con imprese più specifiche e modificate, è sul centro e sul sud. Il disegno della immensa rete di gallerie diventa più chiara e molto intensa la campagna per distruggerle, si capisce che c’è un’evidente ricerca a Khan Yunis e dintorni dei grandi capi della carneficina, specie Sinwar e Deif. La grande speranza è quella di salvare un numero rilevante di ostaggi, riportarli a casa, specie le ragazze.
È di questi giorni la generosa testimonianza di prigioniere tornate, una diciasettenne, Agam Goldstein rapita dopo che le hanno ucciso il padre sotto gli occhi, ha raccontato episodi terribili di violenze sessuali e ferite alle ragazze rinchiuse con lei, i pianti, le fasciature inutili e insufficienti, la vergogna e l’oltraggio. E una madre Danielle Aloni ha raccontato come ha detto alla bambina di tre anni, mentre le rapivano per poi strapparle l’una dall’altra, che stavano per morire, e di come la creatura la consolava e le asciugava le lacrime dicendole “mamma io sto bene”. Questi e altri episodi, insieme al lutto per i soldati uccisi, ogni giorno si intrecciano con la voce del primo ministro Netanyahu di combattere fino in fondo: le insinuazioni del Washington Post che Netanyahu continui la guerra per restare al suo posto di Primo Ministro, hanno trovato la reazione scandalizzata persino di Benny Gantz. Anche i politici capiscono che niente conta fuorché la guerra di sopravvivenza, e lo si è visto anche nel rifiuto di scontrarsi sulla decisione della Corte suprema di cassare la riforma giudiziaria.
Oggi il sindacato farà uno sciopero di cento minuti dalla parte dei rapiti: come se a Sinwar importasse qualcosa dello sciopero. Nulla lo smuoverà fuorché il suo obiettivo: una tregua lunga, che gli dia il tempo di riorganizzarsi, o addirittura l’interruzione della guerra. Non avverrà anche se ci cerca di spaventarlo da una parte, e dall’altra di attrarlo con uno scambio di terroristi pesanti. Si misura qui il tema molto interessante e spaventoso di come a fronte della furia ideologica del mondo islamico, degli attacchi terroristici, Israele e gli americani, fanno di tutto per mantenere un terreno di discussione in cui tutti gli attori, nazionali e internazionali, portano opinioni diverse e mosse contrastanti. Per esempio, il messaggio che Blinken porta qui oggi a Netanyahu è evidente: “Non vogliamo vedere un’escalation a nord”. Dall’altra parte è stato proprio lui che pochi giorni fa ha dichiarato che Israele deve riportare la gente nei luoghi da cui sono stati espulsi. Hochstein viaggia in Libano cercando un rapporto fra le parti con pochissime possibilità di successo mentre Blinken dice a Erdogan, dopo che ha dato di Hitler a Netanyahu: “Se vuoi conservare un ruolo, calma”. Poi, è andato a Doha… e via avanti. Adesso spera che da un cocktail avvelenato, esca una nuova ricetta.
C'è il piano per Gaza. Ma la destra attacca il capo dell'esercito. E Bibi è sotto assedio
Il Giornale, 06 gennaio 2023
Non è una crisi di nervi né uno scontro solo politico quello che alle una di notte ha scosso la riunione del Gabinetto di Guerra fino a che Netanyahu ha dovuto sospenderlo. È la crisi esistenziale che Israele deve attraversare dopo il disastro del 7 di ottobre. Una conseguenza dello scontro è stata la reazione di Benny Gantz, antagonista storico di Netanyahu ma oggi insieme nel governo di emergenza, che lo ha pubblicamente invitato a prendere posizione chiara scegliendo l’unità, evidentemente con lui, oppure la politica. L’origine dello scontro è stato l’annuncio, durante la riunione di ieri, del Capo di Stato Maggiore Herzi Halevi di una commissione di indagine sull’esercito che partisse dal fallimento di ottobre.
Non è chiaro se Halevi vuole risposte sull’ottobre, quindi anche sul suo operato, o sui problemi di un esercito che oggi affronta la guerra più difficile, sopra e sottoterra, negli ospedali, nelle case, nelle moschee. Gli si chiede di combattere più deciso, più forte, con più interventi dall’aria, per affrontare la sofferenza del paese di fronte ai soldati uccisi; o al contrario si vuole cautela perché sottoterra o negli edifici possono trovarsi gli ostaggi. La disputa si è accesa su due punti: il primo sull’opportunità di porre ora all’esercito questioni mentre sta combattendo, senza aspettare la fine della guerra. E il secondo riguarda le scelte dei nomi: soprattutto Shaul Mofaz, ex Capo di Stato maggiore, e il generale Aharon Zeevi Farkash, ex capo dell’intelligence dell’esercito. Quattro ministri nell’imbarazzo della commissione presieduta da Netanyahu, che infatti ha chiuso l’incontro dopo improprie grida udite anche fuori della stanza, si sono scagliati contro il Capo di Stato Maggiore: sono i ministri della destra Ben Gvir e Betzalel Smotrich, e due membri del Likud, Miri Regev e David Amsalem.
I quattro hanno ricordato che Mofaz tenne per lo sgombero di Gaza nel 2005, che Farkash ha sostenuto l’obiezione militare nello scontro sulla riforma giudiziaria… punti poco legati al tema. Punti sostenibili, ma certo improprio l’attacco al pilastro dell’attuale difesa israeliana sul campo, e quindi al punto di riferimento dei soldati in battaglia. Gallant ha cercato di bloccare con Gantz i quattro, Bibi ha chiuso la riunione senza parlare e d è criticato per questo Adesso si tratta di affrontare come in programma, dato che Blinken è in arrivo, la questione del “day after”, oggetto della riunione fallita. IL ministro degli affari strategici Ron Dermer e Gallant ministro della Difesa, hanno il compito difficile di illustrare i punti in comune e le differenze con gli USA. Si sa del piano di Yoav Gallant che Israele manterrà libertà di azione militare ma che non ci sarà presenza civile israeliana a Gaza dopo che gli obiettivi della guerra siano stati raggiunti. Una forza multinazionale di stati europei e arabi sosterrà la responsabilità della ricostruzione e della gestione insieme ai palestinesi, Stati Uniti e con Israele e Egitto contribuiranno a isolare il confine fra Gaza e L’Egitto. L’entità palestinese riformata e affiancata dalla forza multinazionale governerà coi meccanismi amministrativi esistenti dentro Gaza, basata su comitati locali. La forza multinazionale sorveglierà e aiuterà. Parole dietro le quali si celano mille domande. Che il piano sia o meno realizzabile, è il terreno di incontro che si può concordare con Biden, un rilancio da Premio Nobel, fantasioso, volenteroso, di “due stati per due popoli”. Ma che i palestinesi di Abu Mazen (all’ospedale in queste ore), che fino ad ora tengono per Hamas, diventino un partner, è possibile se abbandoneranno il loro sogno: vedere crescere la mezzaluna iraniana che, come dimostra anche il discorso di Nasrallah, pensa di strangolare Israele circondandola di nemici. Per questo che quando Ben Gvir dice che vuole rioccupare Gaza, prospettiva davvero poco attraente che non a caso fu rigettata d Sharon con lo sgombero nel 2005, ha un peso nell’opinione pubblica. Prima dell’aggressione del 7 aprile, Israele non conosceva una lezione che purtroppo ha poi dovuto imparare: quella dell’odio che non conosce confini. Su come gestire questa nuova consapevolezza in un Paese democratico, è aperta una difficile discussione.
"ll Libano è pronto". Nasrallah minaccia (ma non morde)
Il Giornale, 04 gennaio 2024
Nasrallah durante il suo atteso discorso di ieri ha detto tutto quello che ci si poteva aspettare: ha maledetto il nemico sionista, ha promesso una terribile vendetta che verrà quando opportuno per l’eliminazione del vicecapo di Hamas Saleh al-Arouri martedì alle 6 in Libano, a Beirut, nel suo quartiere Dahiah. Ma non è andato oltre, perché, ha spiegato “ci barcameneremo fra l’odio per Israele e la necessità di salvaguardare il Libano. Ha esaltato, congratulandosi, la grande impresa di Hamas, definendo le rovine di Gaza una immagine di vittoria per i palestinesi, ha detto che “gli ebrei ormai non sono più sicuri in Israele” ed “è tempo di fare le valige”.
Ha anche porto le sue condoglianze al suo master e padre spirituale, l’Iran, che ha sofferto ieri l’attentato alla tomba di Soleimani: un modo di ribadire il legame con gli ayatollah; ma ha anche, come si deve, ribadito l’indipendenza dei membri dell’asse iraniano. Per quanto abbia parlato due ore l’eventuale grande esplosione sulla morte di al-Arouri non c’è stata. Nasrallah non ha sfidato la minaccia di Israele dopo aver osservato la guerra a Gaza. E dopo tutto al-Arouri è stato ucciso con cinque dei suoi, tutti di Hamas, in un ufficio dell’organizzazione, da due missili ben mirati che hanno evitato di colpire uomini o cose degli Hezbollah. Nasrallah considerava il suo ospite un alleato che aveva anche costruito sul confine una sua forza armata e agiva per Hamas ma secondo le comuni indicazioni ricevute dall’Iran: tuttavia subito il portavoce dell’esercito israeliano, dopo l’eliminazione ha ripetuto, sempre evitando di prendere responsabilità, che Israele è solo concentrata sulla guerra contro Hamas.
Cioè: non contro Nasrallah. Altro segnale: il capo degli Hezbollah era uscito per la prima volta da mesi dal suo bunker dove è significativamente tornato tranquillo. Quindi, niente guerra totale. Tuttavia, i missili Nun Tet hanno riempito ieri di botti e di fuoco il confine di Israele col Libano. La guerra di attrito potrebbe diventare più minacciosa ancora di quella in corso con Gaza se si riscalda. Gli hezbollah hanno stipato negli anni la capacità di colpire Israele quasi ovunque coi 250mila missili di cui li ha forniti l’Iran.
L’eliminazione proprio a Dahiah appare comunque molto audace: ancora in agosto, mentre già al-Arouri si appoggiava al Libano per costruire una nuova forza armata di Hamas, Nasrallah aveva minacciato di tremenda vendetta chiunque toccasse gli ospiti sul suo territorio. Ma Israele non poteva fare a meno di abbracciare l’occasione di eliminare l’uomo che fa concorrenza a Sinwar l’articolato tessitore di rapporti internazionali, l’Iran, la Siria, il Libano, e soprattutto era l’uomo che nell’Autorità Palestinese aveva costruito una grande rete di terrore che colpisce da anni Israele, sostituendo con Hamas il Fatah di Abu Mazen che certo non piange la sua dipartita. La sua impresa di catturare tre adolescenti che andavano a scuola nell’West bank e ucciderli tutti, provocò la guerra con Gaza del 2014.
Alcuni dicono che la sua uccisione può frenare la trattativa sugli ostaggi, di cui il Cairo ha annunciato ieri lo stop: ma altri mediorientalisti pensano che fosse lui il più duro nel chiedere uno stop della guerra contro gli ostaggi, e inoltre adesso Sinwar, allarmato dalla sua eliminazione, potrebbe piegarsi a uno scambio più morbido. Al-Arouri aveva la sua sede più consueta a Istanbul. Là si incontro con Ismail Haniyeh subito dopo l’attacco del 7 ottobre, e solo due settimane fa vi ha tenuto un’altra riunione di vertice. Probabilmente il suo disegno era organizzare dall’Autonomia Palestinese un massacro nelle città ebraiche nello stile del 7 di ottobre. Adesso, in Turchia si sta dirigendo il primo ministro iraniano Raisi per incontrare Erdogan. Sarà un summit su Gaza. Dopo che il premier turco ha dato di “Hitler” a Netanyahu, i due avranno molti argomenti di conversazione.





