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Nella base di Tze’elim i riservisti fremono: "Distruggere Hamas aspettiamo l’ordine"

venerdì 1 dicembre 2023 Il Giornale 2 commenti

Il Giornale, 01 dicembre 2023

Come fa la guerra un soldato israeliano? Può avere ogni età, può fare qualsiasi mestiere, può non aver preso un’arma in mano da secoli. Adesso, però, è là per esempio, a Tze’elim, una delle basi più grandi, diritta di fronte a Gaza sulla sabbia gialla. Luce marina, e vuole liberare il suo Paese dall’incubo della presenza del terrorismo di Hamas sul suo confine. È concentrato su questo, e aspetta l’ordine di tornare a combattere dopo la tregua per liberare gli ostaggi, l’altro compito sui tiene molto. È un soldato molto più antico e pieno di sentimenti di quanto la sua psiche postmoderna, in un Paese tecnologico, lasci immaginare. La sua intenzione è precisa: “Never Again” con Hamas, e freme un po' aspettando l’ordine mentre siede sulla sabbia. File di baracche e tende disordinate oltre la misura ospitano migliaia di soldati di tutte le compagnie e di tutte le specialità. Il mosaico si compone sulla brigata di riservisti che incontriamo, la 252: sono “miluim” oltre il servizio di leva di tre anni, o di due se sono ragazze. Hanno sempre sotto il letto la “borsa del miluim”; se il telefono suona, come è accaduto il sette di ottobre, si precipitano sia che siano a Tel Aviv o in viaggio in Giappone, di sinistra o di destra, professori o tassisti. I soldati del miluim si strappano dalla camera operatoria e dalla bottega, dallo studio di avvocato e dall’autobus che guidano.  Il comandante A. è un fisico, magro, capelli grigi, sorriso gentile. È religioso. La mattina del 7 ottobre era in sinagoga, senza telefono. L’hanno chiamato dicendogli “sta succedendo qualcosa di mai visto prima”. A. è corso al suo punto di raccolta, al sud, non ha più lasciato il grigio verde, e i carri armati.  Beit Hanoun è la missione della 252. “La mia brigata ha avuto dopo pochi giorni di guerra il compito di prendere questa punta di diamante di Hamas, Beith Hanoun, roccaforte missilistica, 50mila abitanti circa, nell’angolo estremo, di fronte alla città più bombardata di Israele, Sderot”.

Appena arrivati tutte le riserve sono state gettate alla difesa dei cittadini dei kibbutz trucidati e rapiti: davano la caccia agli uomini di Hamas rimasti per le strade e nei kibbutz, raccoglievano i feriti e i morti nei campi e sulle strade. A. socchiude gli occhi: ha visto l’inferno. Poi con la guerra, le sue riserve hanno dovuto prima di tutto imparare ciò che non sapevano più, usando una specie di modello di Gaza: una città finta in cui si entra, si spara, si esce, ci si arrampica, si assale, si praticano le gallerie piene di tritolo, ci si allena contro gli agguati, i cecchini, gli RPG. “Ma una volta dentro, abbiamo dovuto imparare subito una lezione: l’agguato di Beith Hanoun è nel suo cuore, non nelle cerchia esterne. Quelle, i terroristi te le lasciano passare facilmente. Una fila di case, due, tre, ed ecco, è là che Hamas ti aspetta. Dove non te lo aspetti, nelle strutture civili”. A. ferma il racconto e spiega: se decidiamo di distruggere una struttura e ci sono dentro civili, noi avvertiamo la popolazione civile… ci sono regole precise per valutare se dobbiamo necessariamente agire, e se è indispensabile perché altrimenti ne va della vita dei soldati o dei cittadini israeliani, cerchiamo comunque di debellare il loro uso continuo di scudi umani cercando di spostare la completamente. “Di civili uccisi a Ben Hanoun” dice A. contento “il numero è zero”. Ma nella battaglia in città ci sono stati soldati israeliani uccisi in varie circostanze. A volte i mezzi corazzati sono stati colpiti in agguati, ma il maggiore Moshe, capo del settore ingegneria, un 50enne che lavora nell’high-tech e che dal 7 è sul campo spiega: “Un esercito in genere avanza su un territorio che, una volta occupato, è la linea di partenza del tuo prossimo passo. Ma qui tramite le gallerie sotto il terreno, d’un tratto ti troverai il nemico alle spalle che ti spara”. Così, grandi energie sono state spese per individuare le gallerie: “E con grande sorpresa, e con l’uso di strumenti sofisticati, e anche subendo a volte esplosioni inaspettate dato che la specialità di Hamas è minare tutto quanto con grandi quantità di esplosivo, abbiamo dovuto capire in fretta che le gallerie erano una rete molto sofisticata, non quei buchi di varie dimensioni scavati in qua e in là, ma una ragnatela enorme che convergeva sul centro urbano. Qui sono le strutture che le proteggevano con la gente usata da Hamas.

La Moschea, la scuola, l’ospedale, la piscina pubblica, negli gli edifici, le camere dei bambini, persino i loro letti. Armi ovunque. Per scavare e per entrarci, e anche per essere certi di non andare a toccare gli ostaggi, abbiamo cambiato tecnica tutti i giorni. Adesso in questa citta smantellata, da cui avevamo fatto uscire la gente, un po' di persone hanno ripreso a girare intorno. Tornano. Possiamo bloccarli, ma non attaccarli né avvicinarli, c’è la tregua”. Ma siete stati feriti in tre due giorni fa. “Vero, e abbiamo risposto al fuoco. Se siamo in pericolo rispondiamo. Alcuni certo preparano la ripresa armata, altri, forse rubano, altri sono cecchini pronti a sparare, altri ci osservano. Ma noi siamo in tregua, agiamo secondo le regole di difesa”. E voi non vi preparate a tornare in campo? “Abbiamo due modalità di stare in guerra: l’offensiva e la difesa. L’offensiva è molto più facile, affronti il nemico, ti puoi muovere. La difesa è snervante, anche pericolosa, specie quando ci sono in giro civili. Ci sono tante cose da fare comunque, “rassicura, per esempio -racconta- avevamo smantellato completamente il sistema esplosivo dentro un edificio, e poi ci siamo accorti che era tutto minato di nuovo…”. E Hamas dov’è in tutto ciò? Hamas è nei dintorni, più facile da affrontare che da sopportare mentre non ci si può muovere. E allora? Allora si aspettano gli ordini. Il compito è: distruggere Hamas e riportare a casa i rapiti. Questo è, e niente altro.     

 

"Combatteremo fino alla fine". Le ragioni di Netanyahu contro le ambizioni di Sinwar e la tregua lunga e pericolosa

giovedì 30 novembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 30 novembre 2023

Al 54esimo giorno di guerra Israele sembra essersi innervosita parecchio alla pubblicità dell’ipotesi ripetuta all’infinito sui media di uno scambio “tutti contro tutti” accompagnato dalla possibilità di una tregua a tempo indefinito e dall’impegno a risparmiare i capi di Hamas, specie Sinwar e Mohammed Deif. Mentre ieri si preparava infatti il sesto rilascio dopo 61 ostaggi e 150 palestinesi, cioè dieci israeliani più due israeliane con passaporto russo e si rendeva nota la possibilità non solo di altri due giorni sempre così formulati con uno scambio col triplo di palestinesi, ma di una prosecuzione forse di dieci giorni, forse a lungo termine, l’idea disegnava una conclusione in cui Hamas di fatto veniva tenuta buona con una demilitarizzazione sostanziale della Striscia mentre lentamente i più di duecentomila soldati delle riserve, ora dislocati nel nord, avrebbero dovuto di fatto iniziare un ritiro, e restare congelati. Un’ipotesi aggravata dal fatto che Hamas, come ha fatto martedì per tre volte, gli spara addosso impunemente.

Ora sono stati feriti, domani potrebbero essere un morto in più sulla già lunga lista di 50 perduti in questa guerra, dopo il 7 di ottobre. È stato quando questa ipotesi cominciava, nel pomeriggio, ad apparire anche come una fonte di discussione politica che Netanyahu ha parlato alla tv: “Mi hanno chiesto se tornerò a combattere dopo questo stadio di ritorno degli ostaggi, e la risposta e inequivoca, non esiste al mondo che io non torni a combattere fino alla fine. Ho tre scopi, distruggere Hamas, il ritorno degli ostaggi, la liberazione definitiva di Gaza”.

Questo significa prima di tutto fare piazza pulita dell’idea “tutti contro tutti” ripetuta ieri all’infinito come si dice vorrebbe Sinwar: 8000 palestinesi fuori, persino gli assassini dei pick-up che hanno compiuto la mostruosa strage del 7 di ottobre; accettare qualsiasi tregua di media o lunga durata, significherebbe dare la possibilità a Hamas di riposare, ricostruire i depositi di armi, le riserve di cibo, medicine, benzina; vorrebbe dire creare nel Medio Oriente l’idea che Israele è debole, non è più capace, con l’esercito migliore e con la morale più forte, di recuperare la deterrenza che aveva prima del 7 ottobre. Se Israele non torna in tempi brevi e vittoriosamente a combattere avrà duecentomila soldati delle riserve sul terreno dopo che hanno lasciato il lavoro e le famiglie per combattere; al Nord, fra le rovine, Hamas ancora controlla gallerie e rifugi da cui nei giorni scorsi sono stati mandati fuori bambini e donne israeliani.

 Hamas vuole tornare al potere con cui il 6 di ottobre ha preparato l’attacco, e prepararne ancora. Gode dell’entusiasmo oltre che dell’aiuto dei grandi alleati che disegnano dalla Russia all’Iran una fascia di protezione. In loro Sinwar vede la sua assicurazione sulla vita. Khamenei in un solenne indirizzo ai Basiji ha dichiarato che “Hamas ha cambiato il panorama geopolitico a favore dell’asse della resistenza promuovendo la deamericanizzazione dell’area”. Un ruolo strategico. E un regalo che l’ONU sembra condividere quando il voto dell’assemblea dell’ONU destina a Assad, altro amico di Hamas, il Golan, disegnando un’eventuale ulteriore strage in cui Assad è esperto; e anche Josep Borrel ha tenuto un discorso all’Unione Europea che, in un incredibile mucchio di frasi stantie, ha anche paragonato più volte la violenza del 7 novembre all’autodifesa di Israele.

Sinwar muove tutte le sue pedine per rilanciare sempre più in largo perché conta anche sul fatto che Israele ha sviluppato nei confronti delle famiglie dei rapiti un enorme senso di responsabilità; li conosce e li difende uno ad uno, ed è dubbio se quando i giochi di Sinwar si faranno troppo pesanti, puntando specie sui soldati nelle sue mani, Israele saprà reagire. Pure il popolo ebraico è consapevole, specie dal 7 di ottobre, di dovere innanzitutto difendere la sua esistenza e il suo significato di scudo di difesa. difendendo sé stesso e tutta la civiltà cui appartiene. Certo è pieno di amore, ma anche di soldati ben preparati che non vogliono più vedere le case, le città, esposte all’intenzione genocida di Hamas.   

 

Ma i palestinesi stanno solo preparando altro terrore

mercoledì 29 novembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 29 novembre 2023

È stata la sua cara mamma che quando uno dei detenuti per terrorismo delle carceri palestinesi appena liberato nello scambio con i bambini e le mamme israeliani, tutto drappeggiato nella bandiera verde degli assassini, Omar Artsan, è corso fra le sue braccia, ha subito gridato commossa lo slogan: “Coll’anima, col sangue, ti esalteremo Hamas”. Un altro grido di donna scandiva in coro: "Non siamo qui a festeggiare, ma per giurare lealtà a Hamas”. Non solo l’autorità palestinese di Abu Mazen ma anche Est Gerusalemme si ammanta del verde di Hamas. Non si vede nessuna Autonomia Palestinese moderata che possa rappresentare quel punto di riferimento per un eventuale futuro pacificato che Biden suggerisce ogni giorno: i terroristi liberati esprimono con la piazza dell’Autorità Palestinese entusiasta la solita condanna a morte dello Stato d’Israele, la determinazione a uccidere gli ebrei.

È dal 1948, fondazione dello Stato d’Israele, dal ritorno degli Ebrei alla loro terra, che per cinque volte i palestinesi prima di Arafat e poi di Abu Mazen hanno scelto la guerra, il terrore, l’attacco genocida, hanno consegnato ai bambini il messaggio che gli ebrei sono figli di di scimmie e maiali, nelle scuole appendono cartine della Palestina che disegnano tutto lo Stato d’Israele, hanno disegnato simboli fatti di spade, fucili, hanno ripetuto che gli ebrei non hanno a che fare nulla con Gerusalemme! coprono i media di menzogne e inneggiano alla strage. Il risultato lo dà l’Arab World Research and Development, AWRAD: ed è l’enorme supporte dei palestinesi per il terrorismo, il rifiuto della pace. Il 75 per cento approva il massacro del 7 ottobre, l’85,9 rifiuta la coesistenza con Israele, il 71,1 vuole restaurare la “storica Palestina” mai esistita, quindi, vuole la terra “from the river to the sea”.

 Palestinesi e Hamas oggi sono quasi una cosa sola, e non perché Israele abbia rifiutato accordi di pace. Adesso Blinken è di nuovo in arrivo: il vecchio sogno dei due stati per due popoli balena continuamente nei discorsi degli americani e di chiunque voglia disegnare un futuro: Gaza invece che da Hamas dovrebbe, col supporto di sponsor arabi e occidentali, essere governata, dopo la guerra, da Fatah.

È Abu Mazen, agli occhi di Biden, che nei panni di una potenza moderata sceglierebbe la coesistenza e, chissà, forse anche la democrazia. Purtroppo lo schema è irreale: non solo l’odio aggredisce bambini, giovani, donne dalla scuola allo schermo tv ai discorsi di un rais corrotto e debole che nega la Shoah, accusa gli ebrei di dissacrare Al Aqsa coi loro “piedi sudici”, finanzia il terrorismo a milioni, e alla fine viene emarginato dalla sanguinaria capacità di Hamas.

 La società palestinese in questi giorni, tramite gli scambi accoglie centinaia di giovani e di donne che proprio come accadde quando Sinwar fu rilasciato nello scambio per Gilad Shalit, diventeranno altrettanti militanti e forse leader del terrorismo. Fra i terroristi liberati ci sono anche parecchi arabi israeliani, rilasciati a Gerusalemme. E mentre il sentimento degli israeliani è tutto volto al ritorno degli ostaggi, e il Paese intero trepido sospende la guerra di sopravvivenza per permetterne il rientro, Sinwar di fatto compie con gli scambi una sua guerra di conquista fino al West Bank, facendone la prossima roccaforte di Hamas. Blinken, in arrivo in Israele, deve pensare un suggerimento migliore per il futuro di Gaza e anche del West Bank.   

 

 

Hamas straccia le intese. Separa le famiglie e prova a logorare Israele. Doppia tortura per i piccoli

martedì 28 novembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 28 novembre 2023

Palloncini, sorrisi, discorsi di tenerezza e benvenuto. Israele è un Paese che da quando è nato non fa altro che festeggiare commosso la sua resurrezione da guerre, il superamento dei suoi terribili lutti, la sua gioia di essere vivo e l’incredibile resistenza dei suoi cittadini e soldati. La gioia di chi ritorna e di chi lo accoglie dopo il timore di una separazione definitiva è in questi giorni fonte di grande fiducia. Così è in questi giorni: si cerca di risorgere un po' nei ritorni quotidiani degli ostaggi. Ma è difficile ripararsi dalle immense contraddizioni che la gioia contiene, i soldati aspettano sulla sabbia di Gaza, è un confronto perdente col sadismo di Hamas: anche ieri la restituzione è contestata ritardata, alla fine arriva dopo la rottura del sempre ritardati, sempre contestati nel buio di gaza dal sadismo di Hamas.

Hamas rompe i patti, divide madri e bambini a suo piacimento in modo da allungare i tempi e avere tregue più lunghe, offre ostaggi ottenendo un sì per i prossimi due giorni senza promettere i bambini di cui anzi lascia intendere di aver perso le tracce per il bel numero di 18 creature. Non a caso ieri su 9 bambini c'erano solo due mamme; e ancora, i due bambini Bibas dai capelli color carota che tutto il mondo ormai conosce, uno dei quali ha dieci mesi, non sono fra i restituiti. Un altro gesto di odio e ripicca.

Hamas cerca anche di confondere la testa del mondo suggerendo una sindrome di Stoccolma con finti saluti gentili dei mostri e delle loro vittime. Ma poi è chiaro: Elma Avraham 84 anni, appena giunta in Israele è crollata in una sorta di coma finale con cui i dottori lottano, tutti sono denutriti, Adina Shoshani di 72 anni, il cui marito era stato appena assassinati quando i terroristi l’hanno caricata sulla moto, scendendo dalla macchina ha respinto con la mano il braccio del terrorista. La gente d’Israele seguita a combattere con tutte le sue forze per l’ossigeno del ritorno dei propri cari.

 Ma se sono una bandiera le foto di Avigail, 4 anni, restituita dopo 50 giorni di prigionia, è difficile ignorare che questa bambina non ha più casa, la sua mamma e il suo babbo sono stati assassinati a Kfar Aza, le restano i nonni e i due fratellini Michael di 9 anni e Amalia di 6 che si sono salvati restando zitti chiusi un armadio per sei ore mentre i mostri cercavano altre vittime nella casa. Avranno di che pensare e parlare nel futuro. E se tutta Israele tesse una tela di positività indispensabile, di generosità unica, pure la tragedia del 7 di ottobre è immanente, onnipresente finché Hamas non sarà sconfitto. Hila, 13 anni, accolta nelle braccia dello zio, è tornata senza mamma: Raya Rotem era con la figlia fino a poche ore prima del rilascio e Hamas dice invece che ne ha perso le tracce. Manipolazioni. Anche Maya Regev è stata restituita mentre Itay suo fratello di 18 anni, è sempre nelle mani dei terroristi. Chi ha visto la foto di Chen Goldstein che finalmente riceve fra le sue braccia Agam di 17 anni, Gal di 11 e Tal di 9 sente un grande dolcezza e consolazione: ma forse i bambini ignorano che sono orfani del padre e orbati della sorella diciannovenne Yam, rimasta col papà, uccisi. Ella Elyakim di 8 anni e la sorella Dafna di 14  che finalmente abbiamo potuto vedere nelle braccia della mamma, hanno visto assassinare il padre, la sua compagna, il loro bambino Tomer. Le storie che accompagnano queste e tutte le altre vicende sono complicate una ad una, con nascondigli, bruciati vivi, tagliati a pezzi… sono peggiori di qualsiasi film dell’orrore, sono storie di caccia alle donne ai bambini. L’amore della gente di Israele, generoso, consistente, accompagna uno ad uno chi ritorna; anche chi li accoglie è orfano, vedovo, scioccato.

Gli ultimi ostaggi, quasi tutti bambini, sono stati scortati con boria militare dai gruppi di terroristi che Sinwar ha usato nelle operazioni di sterminio, e persino con le stesse macchine pickup bianche. Dentro il nord di Gaza, dove specie a Sajaia sembra essere viva la forza di Sinwar, i soldati aspettano il segnale. Ci vorrà ancora del tempo, lo scambio durerà altri due giorni almeno. Molti calcoli dicono che anche dopo queste manovre, Hamas si terrà ancora 18 bambini in mano. Ma alla fine, è escluso che Israele non riprenda la battaglia per tornare a dare ai suoi, a tutti quanti, una casa.  

 

Questo femminismo cieco non riconosce la mattanza delle donne israeliane

lunedì 27 novembre 2023 Il Giornale 2 commenti

Il Giornale, 27 novembre 2023

Nessuna denuncia di violenza contro le donne ha senso se non misurata su quella del 7 di ottobre contro le donne israeliane. Oppure, si è antisemiti. Non solo chi l’ha vista nei film girati dai terroristi stessi lo sa, come me, ma anche chiunque veda la tv o abbia un po' di buon senso. Oppure, si è antisemiti. I terroristi di Hamas si sono autofilmati mentre violentano, strappano le vesti, trascinano per i capelli, caricano sulle macchine vive e morte donne spogliate nella parte inferiore del corpo sanguinante.

Alla morgue dove i resti delle donne uccise venivano ricomposti a centinaia spesso solo per parti recuperabili dalle mutilazioni e dal rogo, spesso le gambe erano fratturate e irrecuperabili a causa delle violenze. Bambine, vecchie e anche bambini piccolissimi sono stati violentati, hanno verificato i dottori: dopo tentativi difficili per raccogliere le prove dei fatti, anche i DNA dei violentatori sono stati ricuperati. Una sopravvissuta dalla festa dove sono state uccise più di trecento giovani che ballavano, ha testimoniato di una sua amica brutalizzata da diversi, tenuta ferma per i capelli; l’ultimo le ha sparata in testa e dopo ha continuato fino a che ha finito il suo atto sessuale. Una ragazza è stata mutilata dei seni coi quali i terroristi hanno giocato. Il footage che abbiamo visto mostra molte ragazze morte, svestite, sanguinante. Ma che razza di esseri umani sono le donne che non protestano?

Il femminismo ha sempre albergato una tarantola nel suo guscio, fin da quando negli anni settanta con un gruppo di amiche fondammo la rivista “Rosa”, sofisticata, intelligente, certo di sinistra. Io ero stata comunista, avevo perfino scritto un libretto sulla storia delle donne comuniste: il mio femminismo, molto primigenio, istintivo, di famiglia, pure non poteva fare a meno della catena della rivoluzione, di Rosa Luxemburg, del diritto al lavoro. Poi venne il corpo, l’aborto, il divorzio, l’autocoscienza: eppure restava l’indispensabile intersezione con le grandi radunate internazionali, terzomondiste, sovietiche! Che già sbattevano le donne israeliane fuori dai loro incontri.  Donne meravigliose, che avevano affrontato come eroine la maternità e la guerra, la zappa, la scienza, la poesia. La libertà! Donne senza soggezione verso gli uomini nel loro valoroso ritorno a casa, Israele, un simbolo non certo di colonizzazione, ma di decolonizzazione dalle grandi potenze. Per saperlo, bisogno studiare un po' dio storia.

Ma il femminismo già soffriva allora dell’enorme soggezione al movimento comunista, aveva bisogno della sua approvazione e delle sue bandiere. Quindi una volta che esso ha sanzionato lo Stato d’Israele, l’unico che garantisse l’uguaglianza dei sessi in tutto il Medio Oriente, il femminismo si è associato nella gran parte appiccicando etichette fasulle, coloniale, imperiale, capitalista, apartheid… il femminismo si è allineato. Adesso la femminista si è evoluta, è intersezionale, woke, pronta a sacrificarsi alla violenza di Hamas, perché gli “oppressori” sono bianchi, cristiani o ebrei: non importa se proprio loro salvano gli lgbtq dagli “oppressi” che li appendono ai lampioni; e non importa se Hamas, da loro difeso, impone alle bambine matrimoni con adulti pedofili, protegge e anzi ordina gli stupri, le botte, i rapimenti. È provato dalle loro stesse testimonianze dopo la strage. Il divorzio fra il femminismo e i diritti umani si è concluso da tempo: dopo quello che hanno patito le donne in Iran all’ ONU gli Ayatollah presiedono la commissione per i diritti umani e non risulta che il movimento abbia sussurrato.

Adesso siamo all’antisemitismo: peggiore, disperante direi, è che non si sia levata dalle manifestazioni italiane una voce sullo stupro di massa unito al femminicidio seriale che il 7 di ottobre ha travolto donne, bambine, anziane, mentre i loro cari, 1400, venivano uno ad uno trucidati. Perché avete rapito i bambini e le bambine, ha chiesto la polizia ai terroristi catturati. “per violentarli” hanno risposto. Maschilismo? Violenza? No, caccia alle ebree imperialiste e coloniali. Uccidiamole. 

 

Ultima tortura jihadista per logorare Israele. Ma Gerusalemme è pronta a riprendere la guerra

domenica 26 novembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 26 novembre 2023

Uno scambio di ostaggi con Hamas non è un pranzo di gala. Hamas ieri ha inventato una nuova tortura, e ne inventerà una al giorno per mettere Israele in ginocchio con l’unica arma che gli è rimasta e cercare di tornare a regnare su Gaza. Una serie di false accuse hanno bloccato al valico di Rafiah gli ostaggi israeliani. Sinwar è ormai a un punto di rottura il goffo tentativo di ieri di sollevare problemi tecnici su una questione vitale come il ritorno di 13 rapiti, mostra solo la perversione di Hamas. Il suo terreno di gioco è l’impegno di Israele a non abbandonare nessuno, tantomeno donne e bambini, costi quel che costi. Il ritardo nella consegna fissata per le 4 suggerisce un perverso disegno di dominio della psiche israeliana.

Durante tutto il giorno una vaga lista di proteste è uscita tramite pettegolezzi, la benzina promessa non è nella quantità prevista, i camion con l’aiuto umanitario non sono in numero giusto, i detenuti palestinesi non corrispondono al patto (peraltro sono rimasti fermi negli autobus fino come pattuito alla liberazione degli israeliani), Israele ha violato la tregua quando ha bloccato il passaggio a nord (richiesto da Hamas) degli sfollati al sud… Intanto, probabilmente terrorizzati, i bambini israeliani con le loro mamme aspettavano di salire sulle ambulanze della Croce Rossa. Una dichiarazione dei gruppi al-Qassam di Hamas ha sancito la decisione di Hamas. Al-Jazeera ha detto che i rapiti non sarebbero stati consegnati fino al completamento del patto. In questo tragico teatro le famiglie e gli amici dei rapiti che secondo le previsioni, appartengono al kibbutz Be’eri che ha visto gli orrori più indicibili della strage, hanno aspettato all’Hotel David sul mar Morto, dove le abbiamo visitate: nell’attesa, sono nel più profondo stato di shock, ma la forza della gente dei Kibbutz di Israele di sopportare il lutto e la trepidazione è sorprendente.

Non c’è invidia per le famiglie delle persone già liberate. C’è ottimismo nell’aspettare il proprio turno. La menzogna, dato che Israele non oserebbe mai violare un accordo che mette a rischio donne e bambini, vuole schiacciare la gente, i soldati, renderli sconvolti e incerti. Hamas vuole allungare i tempi per rimettersi in sesto: e suggerisce che gli scambi possano continuare altri giorni, forse fino a 10 giorni in cui si restituirebbero altri ostaggi. Per creare uno sfondo credibile si è avuta ieri la discesa sui cieli di Tel Aviv di un inviato speciale dal Qatar, e a Gaza la presenza dell’ufficiale sempre incaricato di portare le famose valige verdi col denaro coi miliardi per Hamas. Sinwar spera che con l’aiuto del Qatar e dell’Egitto, e dato l’interesse di Biden alla tregua, può spingere avanti col terrore l’interruzione della guerra, e farla diventare una tregua. Ma Israele sa bene che anche la restituzione dei rapiti è una conseguenza della sconfitta militare, e certo non dei motivi umanitari. Per questo, nel bel mezzo del momento di più intensa tensione, il Capo di Stato Maggiore Herzi Ha Levi ha detto a tutto il Paese in attesa: “Appena conclusa la restituzione dei rapiti, continuiamo”.

Ovvero, è solo questione di tempo. La salvezza di Israele non è nei patti con un’organizzazione di zombie che bruciano, stuprano, uccidono decapitano, anche se il Qatar e l’Egitto fanno di tutto per farlo credere. È nel batterne l’organizzazione una volta per tutte, cancellarla dal confine lungo il quale sorgono i kibbutz e le città la cui devastazione ha cambiato Israele per sempre. Herzi Ha Levi ha dichiarato la determinazione dell’esercito a andare avanti. Quando ha parlato non aveva ancora come confine la mezzanotte. Ma è quella l’ora in cui la tregua scade, e l’esercito deve prendere le sue decisioni in caso i patti sugli ostaggi siano stati violati.   

 

Armi mute dopo 50 giorni. Ma la guerra non si ferma

sabato 25 novembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 25 novembre 2023

Non sono stati sonni tranquilli quelli nella Striscia: nel buio profondo del silenzio delle armi, dopo la liberazione dei primi ostaggi, i soldati di Israele e i terroristi di Hamas seguitano a fronteggiarsi. È un intervallo in cui tutto può succedere, i soldati avvertiti di conservare la massima allerta, sono rimasti tutti ai loro posti dentro il nord e sud di Gaza; i terroristi preparano in segreto le loro prossime mosse, qualsiasi gesto cinico e perverso è possibile. È sempre la guerra fatale nata da una strage mai vista dal popolo ebraico dal tempo della Shoah, e adesso giocata sulla pelle dei sopravvissuti, specie i bimbi piccoli, la carta preferita di Sinwar. Inutile illudersi: la tregua non è in vista, solo un ‘ intervallo legato agli ostaggi, non si sa per quanti giorni oltre i quattro fissati. L’interruzione delle operazioni di guerra è per Hamas un guadagno che però segnala una sconfitta strategica: contro le aspettative di Sinwar, che si aspettava un’operazione limitata negli scopi e nel tempo come per le guerre precedenti, Israele ha cambiato volto.

La decisione è stata quella di combattere una guerra di sopravvivenza che non consenta mai più a Hamas di conservare il suo potere sul territorio e la gente di Gaza. Fino ad ora il nord, centro decisionale strategico, è stato circondato, Sheik Jilin, Shati, Beit Hanun, Rimal e parte di Zeitun e Jabalia sono state conquistate. Le unità che le dominavano sono state eliminate, e così buona parte della leadership intermedia. I dieci battaglioni nel nord non esistono più. È difficile contare quanti dei membri delle 140 compagnie composte ciascuna da 100 armati sono stati cancellati, ma il panorama urbano è un incredibile spettacolo di devastazione, i rifugi, le abitazioni e le armi sono a pezzi. La ragnatela di tunnel sotto gli ospedali così da garantire la protezione di scudi umani, la grande invenzione di Hamas è stata in gran parte scoperta, e sgomberati di armi e di uomini. Prima del cessate il fuoco l’esercito ha fatto saltare gli ingressi per impedire che gli uomini di Sinwar tentino di tornare a prendere possesso del nord e dei loro covi.

Hamas ha chiesto di tornare a nord alla massa sfollata a sud dopo che Tzahal aveva chiesto di lasciare le zone di guerra; ci sono stati dei tentativi di tornare a nord fermati dall’esercito che ha fatto due morti. Sinwar ha dunque accettato lo scambio costretto da una clamorosa sconfitta sul campo, costretto anche a vedere indietreggiare gli amici che si aspettava intervenissero, dall’Iran agli Hezbollah a Assad fino agli iracheni che insistono solo nel bombardare le basi americane. Adesso Hamas cercherà di prolungare il silenzio e  il divieto di sorveglianza aerea manipolando con la vita degli ostaggi il calendario e l’opinione pubblica israeliana e mondiale. Spera di riorganizzarsi e di spingere l’opinione pubblica internazionale sulla strada della tregua che consentirebbe all’organizzazione jihadista più pericolosa del mondo di restare in possesso di Gaza. Sinwar giocherà qualsiasi carta che serva a legittimare l’idea che occorre una tregua: ci saranno pesanti provocazioni per esporre Israele alla disapprovazione pacifista, azioni cosmetiche come quella di liberare 12 tailandesi, un regalo agli egiziani che sponsorizzano l’evento. Ma Israele, pure nell’indicibile emozione del successo, per niente scontato, nel mettere i cittadini al primo posto, specie i bambini sa che la maggioranza deve ancora tornare, e che i soldati restano per ora sulla sabbia di Gaza, finché Hamas non sia sconfitto.     

 

 

Posticipi, rilanci e dubbi. È l'ultima tortura jihadista

venerdì 24 novembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 24 novembre 2023

In arabo, dice Harold Rhode che ha lavorato molti anni al Pentagono come esperto del mondo islamico, si chiama “shamatah”, un concetto che esprime lo speciale piacere che deriva dal vedere un altro essere umano soffrire. Hamas ne sa qualcosa, il suo gioco non conosce limiti: dopo il pogrom del 7 di ottobre che aveva lo scopo preciso di gettare in uno stato di shock e lutto mai conosciuto prima lo Stato Ebraico, adesso pizzica con sadismo tutte le corde di una società occidentale che è forte militarmente, ma molto fragile nella sua concezione degli affetti e nella sua aspirazione alla pace. Ama la vita quanto Hamas ama la morte, come dicono loro stessi. Il gioco psicologico è durissimo. Israele in queste ore vive un’altra fase di attesa come quella che nelle ore della sera di mercoledì, a tarda notte ha portato alle lacrime ogni famiglia in agonica attesa degli ostaggi, da quelle dei bambini di pochi mesi a quelle dei vecchi nonni. Adesso, mentre l’ironia della storia lo travestiva da diplomatico dai modi cortesi, il portavoce del Qatar, mallevadore dell’accordo e migliore amico di Hamas, di fronte alle famiglie che aspettano i loro cari e a tutta Israele, ha disegnato il nuovo momento della liberazione di 13 dei suoi, donne e bambini, dice Hamas, contro lo stesso numero moltiplicato per tre di detenuti palestinesi, per quattro giorni. Il vecchio accordo, si è detto, forse è saltato perché Hamas ha rifiutato a Israele che la Croce Rossa possa visitare tutti gli ostaggi.

Ma l’uomo con la Kefia ben stirata ha anche consegnato un messaggio molto chiaro: dopo i 4 giorni stabiliti, ha detto, se vorrete andremo avanti fino a un cessate il fuoco definitivo. Il sottinteso: così Hamas resterà a Gaza, e non verrà distrutto. Queste alternative disegnano per Israele grandi difficoltà, drammatiche scelte. Su oggi, Israele è cauta, contratta: alle 7 col cessate il fuoco, dopo i camion pieni di benzina e di generi vari al nord e al sud della Striscia, si aspettano i bambini a Rafiah. Ma sarà poi vero? Tutto andrà come stabilito? Alle 4 verranno consegnati i cittadini?  I loro nomi, noti da molte ore, pure per prudenza restano segreti. Qualcuno teme addirittura che Hamas abbia dato una lista fasulla e che il precedente stop sia stato programmato. Potrebbe esserci un nuovo inciampo fatale in programma. Tutte le famiglie, anche quelle non in lista, hanno ricevuto un messaggio che dice quale sia la loro sorte, e prega di non credere alle fake news. Il gioco dei nomi ha tormentato il paese con sussurri e grida. Dopo i 50 prigionieri, forse gli scambi continueranno: ma la guerra non verrà fermata, solo interrotta, ripete la leadership israeliana.

Nessuno desidera fermare l’esercito: tuttavia i soldati adesso resteranno nella Striscia per un tempo imprevisto, potranno rompere la tregua solo in immediato pericolo di vita, e saranno molto più fragili di fronte alla possibilità, che come ha fatto durante altre tregue, Hamas approfitti per tentare di colpire, rapire, fare esplodere la situazione se gli conviene, sempre fidando sugli ostaggi nelle sue mani come elemento di deterrenza. Da una parte quindi Israele è preoccupato di dovere contenere le trappole di Hamas, e dall’altra di non cadere in una tregua indefinita. Israele sa che deve concludere la guerra con l’eliminazione di Hamas. Sa che anche Biden spingerà per ottenere una situazione di pace. Sa che l’Europa lo farà. Non capiscono che sono in pericolo se, dall’Iran a Hamas, agli Houthi agli Hezbollah, non si ristabilisce una situazione di deterrenza contro il terrorismo che parte da Gaza.

 

The Rome-Jerusalem Summit's 10 Principles for Combating Global Antisemitism

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SAVE THE DATE Convegno "Rome-Jerusalem Emergency Summit on Global Antisemitism"

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