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La guerra antisemita contro l'Occidente

7 ottobre 2023 Israele brucia

Jewish Lives Matter

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Museo del popolo ebraico

Putin chiama Netanyahu. Scontro al telefono

lunedì 11 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 11 dicembre 2023

Se doveva essere una conferma del suo splendore internazionale come statista ricandidato alla presidenza russa, a fronte dell’importanza di Biden in uno degli agoni più infuocati del mondo, non gli è andata bene. La telefonata di ieri di Putin a Benjamin Netanyahu l’ha collocato definitivamente dalla parte della mappa dove troviamo con lui Iran, Hamas, Hezbollah, Houti, Assad di Siria e qualcun altro. Anzi, in parallelo con lo stesso colloquio telefonico di ieri durato cinquanta minuti per rispondere al quale Bibi è uscito alla riunione di Gabinetto, ha chiarito le cose una dichiarazione di rinforzo di Sergei Lavrov: nel mezzo del repertorio antisraeliano classico usato anche dall’ONU (“l’attacco non è avvenuto nel vuoto” ha detto proprio come Gutierrez) dichiarava inaccettabile la “punizione collettiva” dei civili palestinesi.

Gli è del tutto accettabile invece quella dei cittadini di Kiev e di tutta l’Ucraina, e anche quella, nel passato, dei cittadini ceceni. Solo che nel caso della Russia non si tratta di guerre di difesa, ma di aggressioni di conquista. La conversazione fra i due leader è andata male, un confronto fra nemici. Netanyahu ha criticato l’alleanza della Russia con l’Iran, gli ha espresso il suo scontento sull’ atteggiamento circa la guerra con Hamas. È dal 7 di ottobre che la Russia sta di fatto dalla parte dei terroristi che non chiama con questo nome, non li condanna ufficialmente, ospita a Mosca i leader di Hamas e spinge avanti senza sosta i rapporti con l’Iran. È divenuto dal 7 di ottobre il leader di riferimento, al di fuori del mondo islamico, per gli amici di Hamas.

Poco dopo le atrocità sui kibbutz, il 26 di ottobre, in Russia ebbe luogo una riunione strategica fra il capo delle relazioni internazionali di Hamas, Mousa Abu Marzuk, Michael Bogdanov, braccio destro di Putin per il Medio Oriente e il viceministro degli esteri iraniano Alì Bagheri Kani. Pochi giorni fa, il 7 dicembre, al Cremlino si è svolto un incontro fra Putin e Ibrahim Raisi, il presidente iraniano: si tratta di un’altra tappa nell’alleanza del fronte antisraeliano e antiamericano, in cui Putin ha lodato il contributo iraniano alla guerra contro gli Ucraini. Sono giorni in cui gli Houti dallo Yemen usano missili balistici iraniani in lanci su Eilat, 1700 chilometri più in là, sul territorio israeliano, e gli Hezbollah tengono accesa la possibilità di una guerra col Libano. Tutte queste entità terroriste sono agli ordini dell’Iran, e la Russia è il migliore amico occidentale, o in parte occidentale, degli ayatollah.

Putin ha cercato ieri un’esposizione nello scontro mediorientale telefonando a Netanyahu: il primo ministro israeliano non è in un periodo adatto al sorriso, ma avrà trovata ironica la denuncia della “catastrofica situazione umanitaria della Striscia di Gaza” da chi ha aggredito l’Ucraina. Putin ha telefonato anche perché ci tiene a evitare l’accusa di antisemitismo, e perché contava sul fatto che Netanyahu è stato sempre cauto nel rompere con Mosca, a causa della sua presenza armata dai confini siriani. Questo ha portato, nonostante la grande simpatia politica e popolare di Israele per l’Ucraina sostanziata da molto aiuto umanitario e da attrezzature non aggressive per evitare lo scontro diretto con Putin, all’attuale presa di coscienza della Russia come inevitabile nemico. C’è poco da fare, il dna della storia, per cui l’URSS costruì per prima la menzogna di un’Israele coloniale, razzista, imperialista, alleata degli USA contro il Terzo Mondo, non tramonta in un giorno.

Di recente la liberazione diretta, senza trattativa, di tre ostaggi di origine russa (due però sono state messe poi da Hamas sul conto di Israele) è avvenuta per intervento diretto di Putin: Netanyahu ha detto grazie, sapendo però che questo significa intimità coi terroristi. 

 

Il "contesto" foglia di fico antisemita

domenica 10 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 10 dicembre 2023

Ormai tutto il mondo sa, non importa se poi ovviamente le geniali professoresse che dirigono Harvard, Mitt e Penn hanno fatto un passo indietro: per le Università più chic d’America “invocare il genocidio degli ebrei” non è in sé contrario al codice di condotta dei loro atenei, nei cui campus gli slogan “From the river to the sea” risuonano in variazioni fantasiose e tutte nazi-Hamas. Se lo si debba invocare o no, “dipende dal contesto”. Risposta molto interessante specie se data davanti alla Camera americana durante un’inchiesta sull’antisemitismo.

Ormai la quotidiana dose di urla, violenze, le prese di posizioni e aggressioni fisiche antisemite (sul cui sfondo ormai per il 50 per cento dei giovani fra i 18 e i 25 anni negli USA la Shoah è un mito e in Inghilterra solo l’11 per cento dei giovani fra i 18 e i 24 anni tengono per Israele e gli altri per Hamas)  la verifichiamo ogni giorno senza stupore, l’antisemitismo è di nuovo fra noi sotto forma di odio per Israele, sulla base della ricostruzione fasulla della sua storia e sul suo comportamento e del negazionismo sulla strage del 7 di ottobre. Ma addirittura lo sterminio degli ebrei si giustifica col “contesto”? Quale contesto? Le nostre intellettuali non usano le parole a caso. La cornice è quello che conta: innanzitutto il “contesto” del denaro, per cui la loro istituzione, il loro campus è finanziato a centinaia di milioni di dollari, e bisogna sempre difendere l’istituzione; la retta è solo per chi può, essere antisemiti qui è diverso da esserlo in una miserabile banlieue.

Qui i giovani musulmani che si mescolano alla sinistra giovanile sono, in un “contesto” di cultura giovanile che le presidi devono considerare nell’ambito della “libertà di opinione”. E di che si tratta? Innanzitutto, della rabbia furiosa che ormai è considerata legittima, quella degli “oppressi” contro gli “oppressori”. Una furia fisica di cui vedremo espressioni sempre più gravi; una arrabbiatura teorizzata, che ha già portato a parecchie aggressioni e distruzioni, come quelle di black lives matter; si costruisce, in questo contesto, la tua ragione di odiare, aggredire, distruggere perché la società è costruita solo per i cattivi, gli sfruttatori, gli oppressori, i colonialisti.

Gli oppressi hanno il dovere di infuriarsi. Come disse Borrell? La strage non avviene in un vuoto. Ha le sue ragioni. La rabbia è contro il razzismo, contro il colonialismo, contro coloro che hanno distrutto l’ambiente, contro i maschi, contro l’occupazione; non importa se i violentatori, gli odiatori dei gay, i dittatori, i razzisti sono dall’altra parte. Gli ebrei sono al top del “contesto” woke desiderato. In più, il “contesto” della tradizione genocida antisemita dai tempi dell’antico Egitto non ti tradisce: prima contro la religione, poi contro la razza, ora contro lo Stato. Giustifica perfino lo stupro omicida a centinaia. Il contesto per gli ebrei non manca mai.   

 

I tunnel e la guerra asimmetrica. Gerusalemme ha bisogno di più tempo

sabato 9 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 09 dicembre 2023

Israele non ha intenzione di tagliare corto la guerra lasciando in vita Hamas. Sinwar conta sulla crescita della tensione internazionale contro Israele, ben esemplificata dal comportamento dell’ONU, ma non è detto che funzioni. Gli USA, migliori amici di Israele, ne hanno anche sempre ricevuto dei severi “no” ogni volta che cercando l’appeasement col mondo arabo hanno cercato di fermarlo. Ma fra Reagan and Begin, fra Rabin e Gerald Ford, fra Shamir e Bush, fra Golda e Nixon, fra Obama e Bibi, le differenze di opinioni hanno spesso portato a fratture, poi tuttavia ricomposte.

Per ora gli USA identificano il loro interesse con quello di Israele, ma chiedono di accelerare la conclusione e di ammorbidire l’attacco in modo da risparmiare la popolazione civile. Ma la richiesta non tiene contro del livello a cui Hamas ha portato la guerra asimmetrica, con l’uso di tutte le strutture civili nessuna esclusa. Una tregua è proibitiva a meno di qualche straordinaria novità sui rapiti, come uno scambio drammatico, che per ora Hamas però non mette sul tappeto. Ieri invece Hamas ha sparato una gran raffica di missili fino a Tel Aviv, e ancora Sinwar non esce con le mani alzate. I suoi uomini però si sono arresi a centinaia, la sua casa è stata distrutta a Khan Yunis. Nella battaglia ogni casa, scuola, moschea si dimostrano alla cattura un deposito d’armi. Non c’è edificio nel centro aristocratico e nelle strade popolari di Khan Yunis in cui gli appartamenti non si siano mostrati nella natura di copertura della guerra maniacale e feroce di Hamas. La guerra è galleria a galleria; ieri un altro rapito, Eitan Levy, è stato dichiarato caduto dentro Gaza, mentre si seguitano a perdere militari che combattono sul quel terreno impossibile pieno di volenterosi aiutanti di Hamas, come il direttore dell’ospedale Shifa, arrestato, e un professore di scuola dell’UNRWA che era il custode di uno dei bambini rapiti. E’ difficile razionalizzare, se non per motivi di opportunismo, che il mondo voglia tagliare corto con la conseguenza di mantenere in vita un’organizzazione pericolosa per il mondo intero.

Gli Stati Uniti di Biden nonostante si oppongano alle richieste internazionale di una tregua, vellicano l’elettorato e l’opinione pacifista internazionale con esclamazioni che però non contengono una dead line. L’ha confermato Jon Finer, membro del Consiglio di Sicurezza del Governo al foro dell’Aspen a Washington: “Francamente -ha detto- se la guerra si fermasse oggi, Hamas seguiterebbe a essere una minaccia, e questa è la ragione per cui non chiediamo di forzare un cessate il fuoco”. Per contenere l’opinione pubblica, gli USA chiedono e ottengono da Israele di fornire più “aiuti umanitari”, anche se la benzina, ad esempio, certo finisce nelle mani di Hamas. Inoltre Biden chiede in cambio del sostegno una promessa ad associare l’Autonomia Palestinese di Abu Mazen al futuro di Gaza. E’ difficile accettare questa prospettiva mentre l’AP tiene per Hamas all’80 per cento e seguita a pagare gli stipendi in carcere ai terroristi. Netanyahu non ha tuttavia disegnato nessuna prospettiva per il futuro di Gaza, sembra ancora troppo preso dalla difficoltà della battaglia, aumentata dalla questione degli ostaggi e anche delle decine di migliaia di sfollati.

Israele sa di non potere concludere le operazioni belliche altro che con la sconfitta di Hamas, che ogni altra decisione sarebbe una condanna a morte, e che per farlo combatte una guerra fra le più difficili.  Vedere piangere Gadi Eizenkot, membro del Gabinetto, ex Capo di Stato Maggiore amato da tutta Israele, mentre seppelliva suo figlio Gal e gli prometteva di combattere fino in fondo questa guerra giusta per essere degno di lui, ha segnato ancora una volta la difficoltà psicologica e anche strategica in cui si svolge questa guerra: nessuno è più solo di chi seppellisce un figlio, e ormai Israele ne ha seppelliti quasi cento in queste battaglie. Gal è caduto nel modo più temuto e più classico: un attacco con spari e esplosioni da una galleria. Una delle mille primitive selvagge gallerie che come una rete di odio connettono tutti i punti di Gaza. L’esercito avanza dentro le basi dove si nascondono i terroristi, verso la caverna dove è rintanato Sinwar, cercando le grotte in cui sono rinchiusi gli ostaggi. Un mezzo veloce per farlo, non è stato scoperto checchè ne dica il mondo.

 

Gli assassini in ginocchio, il figlio del ministro caduto: ma Israele ancora si chiede perché tanto antisemitismo

venerdì 8 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 08 dicembre 2023

Due mesi, 62 giorni di guerra, giovani medici, autisti, avvocati ora tutti in divisa che non hanno più rivisto la famiglia dal 7 di ottobre, 186 ostaggi ancora in mano di Hamas, anche ieri 3 soldati uccisi fra cui il figlio venticinquenne di un membro del gabinetto, Gabi Eisenkot, e finalmente lo spettacolo di uomini in fila, un gruppo che si è consegnato ieri, una schiera che era probabilmente parte della “nukba”, la banda di assassini, ed eccoli con le mani legate proprio a Khan Yunes dove Sinwar si nasconde sotto terra. La voce internazionale spinge Israele fuori da Gaza, fa sentire il suo desiderio di tornare all’illusione di una tregua; ma dall’altra parte, nello Stato d’Israele, è sempre più forte la determinazione a vincere, in una situazione di necessità e con uno spirito di unità sconosciuto da anni in questo Paese dove si scontrano sempre laici e religiosi, ashkenaziti e sefarditi.

I prati intorno ai kibbutz del sud ricominciano a mostrare qualche colore sotto il nero e il grigio del fuoco dei terroristi. Qualche abitante ieri frugava a Be’eri fra le masserizie distrutte per recuperare il Lego che il figlio aspetta all’Hotel sul Mar Morto. Due mesi e due domande fondamentali occupano l’orizzonte. Quel giorno il sole illuminava i kibbutz del sud fiore del movimento ecologico e democratico sul bordo di Gaza, e alle 6,30 sono arrivati i pickup bianchi e le motociclette da Gaza. Qui è la prima domanda. Gli zombie con una folla di aiutanti, infilatisi dietro di loro dalle reti e dalle mura sfondate, hanno ucciso, fatto a pezzi, bruciato, violentato oltre ogni misura dell’immaginabile. I bambini sono stati uno degli obiettivi favoriti, e anche le ragazze e i ragazzi che ballavano a una festa trans là vicino. La strage programmata, filmata dai terroristi stessi, disegnata con i suoi orrori senza precedenti da ordini precisi ritrovati scritti o confessati dai prigionieri, rende faticoso chiamare solo terroristi gli uomini di Sinwar, perché Hamas è al di là dell’Isis o di Al Qaeda: si è trattato di più di esseri provenienti da un mondo sconosciuto, e questa è stata la prima sorpresa accompagnata dalla mancanza di qualsiasi allarme. Ancora tutti si chiedono come mai siano stati ignorato i segnali che pure erano chiari, numerosi, persino presentati a chi poteva decidere di agire.

Come si è potuto ignorare una tempesta di odio senza confini ben armata, organizzata, programmata nei particolari con molteplici incontri internazionali? Eppure è accaduto, e a differenza della guerra del Kippur quando Kissinger chiese a Golda Meir di non avviare il reclutamento delle riserve per non contrariare gli arabi, stavolta la spinta è stata interiore, la fiducia presuntuosa nel “queta non movere”, fidando nella propria forza di dissuasione. La seconda domanda è altrettanto spaventosa: come è potuto succedere che invece di affiancare Israele nella lotta ai mostri che urlavano Yehud uccidendo, memori di ciò che gli ebrei hanno dovuto subire a causa dell’antisemitismo, si sia invece generata quasi subito un’ondata di odio antisemita senza precedenti nel dopoguerra?

 Proprio ieri un’indagine dell’Wall Street Journal verificava che gli studenti che urlano “From the river to the sea Palestine will be free”, ovvero un genocidio spazzerà via Israele dal Giordano al Mediterraneo, solo il 47 per cento sanno fra che mare a che fiume gli ebrei dovrebbero sparire: qualcuno provava a dire il Nilo o l’Eufrate, i Caraibi, il Mar Morto, l’Oceano Atlantico… insomma il significato unico era la sparizione degli ebrei, un genocidio compiuto dai palestinesi, o da qualcun altro. Questo odio pregiudiziale è frutto dell’incontro fra la nuova presenza islamica in Occidente e il movimento figlio della Guerra Fredda oggi detto intersezionale, che fa di Israele uno stato imperialista e coloniale, un oppressore.

Quando a centinaia, le donne israeliane sono state sottoposte alla peggiore forma di violenza, lo stupro, seguita spesso dall’omicidio, le organizzazioni internazionali e i gruppi femministi hanno seguitato a discriminarne la verità e le testimonianze e persino l’immagine: l’hashtag “#MeToo if I am not a jew”, #MeToo se non sei ebrea. Una forma estrema di antisemitismo, come quella di tre presidenti delle più eleganti università americane, membri delle Ivy league, richieste a un’audizione del Congresso se fosse legittimo nelle manifestazioni chiedere il genocidio degli ebrei, hanno risposto: “Dipende dal contesto”. È un odio antisemita; è quello per cui Hamas grida “Jehud Jehud” uccidendo. È successo. Può succedere ancora. La guerra di Israele e degli ebrei dal 7 di ottobre è guerra dura. 

 

Informazione Corretta, il nuovo video di Fiamma Nirenstein: "L'inquietante incontro tra l'antisemitismo islamico e quello occidentale"

venerdì 8 dicembre 2023 Generico 0 commenti
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Il pressing disperato per gli ostaggi: "Ogni giorno può essere l’ultimo"

giovedì 7 dicembre 2023 Il Giornale 1 commento

Il Giornale, 07 dicembre 2023

Da quando la guerra è ripresa dopo che Hamas ha fatto saltare la tregua legata alla restituzione di donne e bambini che aveva liberato 136 ostaggi su 339 in cambio del triplo di detenuti palestinesi per terrorismo, lo scontro rimbomba soprattutto nella città di Khan Yunis, sulla soglia di casa di Yahye Sinwar; Hamas seguita a irrorare Israele di missili fino a Tel Aviv, prova che la guerra ancora ha molti obiettivi da raggiungere. La battaglia è lenta e sicura, le gallerie mostrano ogni giorno di più il loro reticolo, la leadership di Hamas, sembra assediata. Ma in parallelo risuona la richiesta disperata delle famiglie dei rapiti: “portateli a casa, adesso”. Sul palcoscenico mondiale di Israele la pietà postmoderna e democratica, la responsabilizzazione arrabbiata che investe in pieno il potere più vicino, si incontra con una guerra di sopravvivenza contro un primitivo mostro terrorista peggiore dell’ISIS, e che se non verrà sconfitto non cesserà di minacciare orrori come quelli del 7ottobre. L’arma più pregiata di Israele contro la depressione e contro l’antisemitismo internazionale, è il volto unito e entusiasta di combattere una guerra giusta, nonostante la richiesta di frenare. Ma due giorni fa si è svolto a Tel Aviv un incontro drammatico fra le famiglie dei rapiti e il gabinetto di sicurezza.

La paura che ogni giorno può essere fatale per gli ostaggi è diventata frenetica da quando le testimonianze di chi è tornato a casa hanno raccontato che cosa significa stare per settimane nelle mani di Hamas: fame, sete, solitudine, maltrattamenti, le pillole di calmanti forzate prima che le tv filmi i rapiti tranquilli al ritorno. Poi, la sofferenza è sgorgata inarrestabile, molti ostaggi sono crollati, alcuni sono ricoverati all'ospedale, nuove malattie si sono sviluppate, quelle vecchie sono peggiorate o inguaribili ormai; e martedì sono state gettate sul viso di Netanyahu e del ministro della Difesa Gallant anche le violenze sessuali, e la terribile paura degli ostaggi quando l’aviazione israeliana bombardava nelle vicinanze. Danielle, tornata con la sua piccola, ha detto che tutto tremava, che la piccola era disperata, che si chiedeva se ne sarebbero uscite vive. La questione degli stupri inoltre, è diventata sempre più importante via via che all’ONU si cominciava ad ammettere lo stupro di massa delle donne israeliane come arma di guerra di Hamas, cosa che è stata vergognosamente ignorata per settimane.

Si è anche detto che proprio a causa della violenza subita dalle ragazze prigioniere Hamas ha rifiutato di consegnare donne e bambini secondo i patti, temendo che portassero testimonianza. La richiesta logica e comprensibile delle famiglie è di fare qualsiasi cosa per liberare i loro cari: per esempio, accettare la tregua e la restituzione dei detenuti terroristi importanti in cambio del ritorno di tutti, consentendo la partenza di Sinwar come fu fatto nell’82 per Arafat quando lo si lasciò partire dal Libano dopo che era stato sconfitto. Questa scelta comporterebbe il disastro strategico della sopravvivenza del terrorismo di Hamas, bloccherebbe l’esercito, salverebbe parte delle armi, dei missili, degli uomini di Hamas nelle gallerie, sotto le scuole, nelle moschee e negli ospedali, vanificherebbe il grande sacrificio di vite umane che tutti i giorni i soldati pagano combattendo. Sembra di capire soprattutto che il Gabinetto abbia ancora molta fiducia se non in un’operazione di salvataggio di tipo Entebbe, impossibile dato che gli ostaggi sono sparsi, in un combattimento molto diretto al fine di ritrovarli, ora che da coloro che sono tornati sono state raccolte molte informazioni.

Gallant l’ha detto quasi chiaramente alle famiglie: noi combattiamo con unità molto specializzate, che sanno cosa fanno, dove arrivano, cosa trovano. E al primo posto c’è sempre la salvezza dei rapiti. Ma naturalmente questo non basta alle madri e ai figli: lo gridano forte, e anche se la guerra fa molto rumore, in un paese come Israele che dette nel 2011 la bellezza di 1027 detenuti terroristi di prima linea fra cui Sinwar, le loro voci risuonano nella mente e nel cuore.      

 

"Ebrei attenti all'Italia". Per Israele ora siamo Paese a "rischio giallo"

martedì 5 dicembre 2023 Il Giornale 1 commento

Il Giornale, 05 dicembre 2023

L’Italia è gialla su una mappa su cui si arriva al rosso scuro, nella nobile gara dell’antisemitismo internazionale. Non è al massimo della vergogna, ma è al secondo livello su quattro; purtroppo, non è color turchese come i Paesi per i quali si può partire senza angoscia. Insomma l’indicazione del Consiglio Nazionale di Sicurezza di Israele, per noi è triste: se un ebreo o un cittadino israeliano ha programmato un viaggio a Roma o a Firenze, e meglio che lo rimandi o almeno che stia molto attento. Arancione e rosso: fermi a casa. Giallo: stai molto attento, ebreo.

C’è pericolo, in generale, di aggressioni antisemite, di violenza. Il testo che accompagna la mappa in cui sono classificati 80 Paesi, è drammatico e specifico: “Dall’inizio della guerra ci sono stati molti sforzi da parte dell’Iran e dei suoi affiliati, incluso Hamas e la Jihad Islamica, di colpire israeliani ed ebrei in tutto il mondo. Su questa base e a causa della crescita del livello di incitamento e della crescita dell’aggressione e dell’antisemitismo nel mondo, il Consiglio raccomanda di riconsiderare qualsiasi viaggio non essenziale di questi tempi”. In un monto stucchevolmente avvolto nelle retoriche antirazziste, interreligioso interraziale internazionalista, a 75 anni dalla Shoah gli ebrei, proprio loro, sono consigliati al tempo delle vacanze di Hanuccah di restare a casa; e ormai è tutto il mondo o quasi che a gradazioni diversi, soffre della malattia mortale dell’antisemitismo e secondo le indicazioni del Consiglio, se ci si deve proprio andare è meglio togliersi la kippà o la stella di David, di non parlare di politica con nessuno, di evitare l’ebraico…

Non a caso proprio oggi si svolge una manifestazione contro l’antisemitismo, speriamo che sia imponente, che faccia paura a chi vuole far paura. Sulla carta israeliana i Paesi più scuri sono quelli a maggioranza musulmana, gialli sono anche la Francia, l’Inghilterra, la Germania, verde solo gli USA, e a torto perché ormai le aggressioni antisemite sono all’ordine del giorno; e vengono assolti anche il Canada, la Groenlandia e la Mongolia. Ma sono ormai in tutto il mondo le manifestazioni in cui si è urlato “morte agli ebrei”(Parigi, Berlino, Londra)  e “Hamas uccidi gli ebrei” o “Aprite i confini uccidiamo gli ebrei” (Milano) o “Rivedrete Hitler all’inferno” (Bologna) sventolando la bandiera palestinese; ed è diventato difficile, anzi impossibile nelle scuole e nelle università difendere le ragioni di Israele davanti a una folla di giovani ignoranti i cui urli sono avallati da professori che firmano documenti contro Israele e ripetono a pappagallo slogan fasulli, in cui Israele è colonialista, imperialista, in cui i poveri palestinesi soffrono a causa degli ebrei, e non, come nella realtà, in cui rifiutandone ogni proposta da decenni ne cercano la cancellazione, e ieri ne hanno ucciso i bambini e le madri, bruciato vive le famiglie, stuprato e ucciso le ragazze.

L’odio condiviso in gradazioni diverse dal resto dal mondo, si esibisce ora ovunque in seguito alla strage più grande che gli ebrei abbiano subito dalla Shoah: prima l’antisemitismo si posò sulla religione, poi sulla razza, ora sullo Stato. Ogni volta ha distrutto il mondo intero, l’odio nazifascista per gli ebrei ha travolto l’Europa, quello del fanatismo woke-islamico rischia di trascinarla in un baratro di sangue, scoppi, coltellate. Se ne vedono già i bagliori. E dove Israele riuscirà a resistere perché ha formato una muraglia indispensabile, l’Europa gialla, arancione, rossa, rischia di venire travolta dalla forza dell’odio contro la società democratica e occidentale.

 

Sinwar, segni di debolezza. Nel popolo della Striscia la rabbia contro i miliziani: "Così ci portano al disastro"

lunedì 4 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 04 dicembre 2023

“Che Allah bruci Hamas”; “Hamas ci ha portato un disastro”… e altro. Questi post appaiono per la prima volta in questi giorni a Gaza. Il giornalista Khaled Abu Toameh spiega: anche a Gaza comincia a formicolare fra le case distrutte e la gente in fuga verso le zone indicate da Israele come spazi di non belligeranza, l’idea che l’uso cinico della popolazione come scudo umano abbia trascinato l’intera Striscia, i suoi abitanti, in un disastro senza precedenti. Filtrano le spiegazioni che Israele ripete in arabo tramite i suoi speaker: raccontano di nuovo la strage, la guerra seguita all’aggressione cui è obbligato a rispondere per sopravvivere, spiegano che Hamas usa la gente, chiede di allontanarsi dalle strutture prese di mira.

L’idea è anche che Yahya Sinwar e Mohammed Deif abbiano sbagliato i loro calcoli; che il piano per cui dopo il genocidio si resta al potere non funzioni, e che il ruggito d’odio si stia trasformando in debolezza con la determinazione di Israele a combattere fino in fondo. Hamas non se l’aspettava: in Medio Orientale la debolezza è la fine. Sinwar ha cercato di trascinare le interruzioni per le restituzioni fino a una vera tregua nella quale salvare il suo potere. La sua arma, i bambini e le donne rapite dieci a dieci, usate con ritardi e diminuzioni, con giochetti psicologici le ha usate fino a rifiutare di mantenere la promessa per conservarsi le carte migliori, ma Israele gli ha scoperto la trappola. Su Gaza, gli aerei di Israele volano di nuovo, presto comincerà la battaglia di terra; Khan Yunes, la città di Yahya Sinwar, quella in cui il 90 per cento si dichiara un guerriero di Hamas fin dall’età di cinque anni, dall’alto appare ormai come un cumulo di rovine, da là ieri certamente sono piovuti meno missili.

Sotto terra, però l’intreccio delle gallerie è efficiente, forse Sinwar prepara sorprese, forse una fuga in Egitto. La sua crudeltà è la sua forza, tutti hanno paura di un leader che ha sepolto vivo un suo compagno accusato di fare il gioco di Israele, ma ora può diventare un criminale che ha portato solo disastri. Kamala Harris mentre Israele usciva verso la nuova offensiva, ha di nuovo ribadito la linea USA per cui da una parte Israele deve distruggere Hamas, e dall’altra non spostare la popolazione, rispettarne l’integrità, non occupare spazi che devono invece essere conservati per un futuro in cui l’Autonomia palestinese di Abu Mazen ne prenda il posto “revitalizzata”. Harris vede una conclusione che ancora purtroppo sembra lontana, e suggerisce soprattutto la nostalgia per una formula in cui anche i palestinesi sembravano potere avere una faccia moderata. Il tempo, i mille no, gli stipendi ai terroristi di Abu Mazen, la mancata condanna delle azioni di Hamas suscitano dubbi: “Hamas vinse le elezioni a Gaza contro Fatah; Hamas lo sconfisse e lo buttò dai tetti.

Oggi nel West Bank il favore per Hamas è dell’80 per cento, a fronte del 60 per cento pro Fatah” dice Abu Toameh. Paradossalmente è più facile che si accorga dell’orrore di Hamas la gente che ha visto uscire i kalashnikov e i missili dalle scuole e da sotto il letto dei bambini, della schiera di Abu Mazen. “La verità “dice Khaled stupito che questo possa accadere “la presenza di Israele non è stata accettata nemmeno a Ramallah. I “coloni” non sono quelli dell’West Bank, per Hamas e Fatah stanno a Tel Aviv o nei kibbutz del sud”.  

 

Il dilemma di Netanyahu: vincere senza tradire Biden

domenica 3 dicembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 03 dicembre 2023

L’Esercito e il governo di Israele con la ripresa della guerra di Gaza hanno due precisi scopi uno sull’altro: eliminare Hamas mantenendo l’impegno di ritrovare gli ostaggi. E anche, da ieri, affrontare il problema impossibile che gli Stati Uniti impongono a Tzahal: combattere e vincere con una mano legata.  Ovvero, “formulare” come ha detto il Segretario di Stato Antony Blinken durante la sua terza visita “un piano chiaro per proteggere le vite dei civili e per fornire un consistente aiuto umanitario”.

Al sud della Striscia, provenienti dal nord belligerante, si sono ormai rifugiati centinaia di migliaia di palestinesi. Gli USA vorrebbero anche che Israele facesse presto e bene, per potere poi impostare un programma che metta in ruolo dirigente un mondo palestinese “rinnovato” come dice sibillinamente il suggerimento, implicando Abu Mazen, vecchio, debole, che non ha mai condannato Hamas. Sono sfide encomiabili e anche necessarie a Biden di fronte al suo elettorato democratico; Israele cerca di accettare le richieste del migliore amico, e elabora fino all’impossibile come fare in una guerra in cui Hamas utilizza la sua popolazione come scudo umano. La decisione rallenta di certo, se non mette a rischio, la guerra nata sull’empito indispensabile di cancellare l’organizzazione terrorista che il 7 di ottobre ha sommerso Israele in un bagno di sangue. Via via che in questi giorni tornavano a casa gli ostaggi, le loro esperienze di crudeltà e maltrattamenti aumentavano la fretta di Israele di vedere Sinwar battuto.

 L’esercito comincia a operare in zone nuove, e ieri, al centro, si è imbattuta sull’intreccio della popolazione che non indossa divise, con Hamas: un gran numero di missili, armi di ogni genere, sono state trovate in una scuola dell’UNRWA. Un bambino rapito aveva già raccontato come un maestro dell’UNRWA lo aveva tenuto prigioniero, maltrattandolo, a casa sua. Nelle città le gallerie convergono sui centri e le case civili per consentire agli armati, coperti dalla gente, l’uso di abitazioni, ospedali, scuole. Israele, rispondendo a Biden, ha disegnato in arabo una mappa in cui sono disegnate le aeree, città per città, in cui si possono rifugiare coloro che vogliono lasciare le zone pericolose. “Il sud può accogliere molti rifugiati, ci sono vaste aree di rifugio. Così il nord resterà zona chiusa da cui Hamas è espulsa una perdita territoriale che danneggerà la sua leadership” dice il generale Giora Eiland ex capo del consiglio di Sicurezza Nazionale “I palazzi sono nidi di sniper da cui si spara; gli edifici sono tane dove si preparano i lanciamissili e si organizza Hamas con l’aiuto di una società militarizzata, direi nazificata. Non risparmia vite rallentare le operazioni, il contrario. Possiamo cercare di far spostare le persone con avvisi e zone di rifugio, e per risparmiare vite invece di sparare tagliare infrastrutture fondamentali come l’internet, per costringere Hamas a arrendersi”. “Gli americani” dice il brigadier generale Yossi Kuperwasser ex capo ricerche dell’esercito “sostengono la nostra vittoria, capiranno che ci chiedono di combattere con una mano legata allungando il tempo di combattimento. Questo aumenta, non diminuisce il numero dei morti, nostri e loro”. L’esercito a ogni passo ha strutture che controllano le leggi internazionali per restare nella legalità: puoi colpire un obiettivo che comporta danno ai civili solo se il suo uso bellico è sicuro e ne trascende il significato civile quotidiano, per esempio una moschea divenuta caserma.

Biden al fondo chiede a Israele di non violare il tabù moderno per il quale è proibito combattere una guerra difficile perché asimmetrica: e ricorda che l'orologio ticchetta senza tregua. D’altra parte mentre conferma il suo aiuto perché la guerra venga vinta, conferma, secondo il Wall Street Journal, l’indispensabile rifornimento di armi fra cui anche bombe di profondità, un’arma preziosa per distruggere le gallerie. Israele da parte sua sa chiaramente che si tratta di una guerra di sopravvivenza, e questo non può essere dimenticato anche di fronte ai migliori amici.   

 

 

Nella base di Tze’elim i riservisti fremono: "Distruggere Hamas aspettiamo l’ordine"

venerdì 1 dicembre 2023 Il Giornale 2 commenti

Il Giornale, 01 dicembre 2023

Come fa la guerra un soldato israeliano? Può avere ogni età, può fare qualsiasi mestiere, può non aver preso un’arma in mano da secoli. Adesso, però, è là per esempio, a Tze’elim, una delle basi più grandi, diritta di fronte a Gaza sulla sabbia gialla. Luce marina, e vuole liberare il suo Paese dall’incubo della presenza del terrorismo di Hamas sul suo confine. È concentrato su questo, e aspetta l’ordine di tornare a combattere dopo la tregua per liberare gli ostaggi, l’altro compito sui tiene molto. È un soldato molto più antico e pieno di sentimenti di quanto la sua psiche postmoderna, in un Paese tecnologico, lasci immaginare. La sua intenzione è precisa: “Never Again” con Hamas, e freme un po' aspettando l’ordine mentre siede sulla sabbia. File di baracche e tende disordinate oltre la misura ospitano migliaia di soldati di tutte le compagnie e di tutte le specialità. Il mosaico si compone sulla brigata di riservisti che incontriamo, la 252: sono “miluim” oltre il servizio di leva di tre anni, o di due se sono ragazze. Hanno sempre sotto il letto la “borsa del miluim”; se il telefono suona, come è accaduto il sette di ottobre, si precipitano sia che siano a Tel Aviv o in viaggio in Giappone, di sinistra o di destra, professori o tassisti. I soldati del miluim si strappano dalla camera operatoria e dalla bottega, dallo studio di avvocato e dall’autobus che guidano.  Il comandante A. è un fisico, magro, capelli grigi, sorriso gentile. È religioso. La mattina del 7 ottobre era in sinagoga, senza telefono. L’hanno chiamato dicendogli “sta succedendo qualcosa di mai visto prima”. A. è corso al suo punto di raccolta, al sud, non ha più lasciato il grigio verde, e i carri armati.  Beit Hanoun è la missione della 252. “La mia brigata ha avuto dopo pochi giorni di guerra il compito di prendere questa punta di diamante di Hamas, Beith Hanoun, roccaforte missilistica, 50mila abitanti circa, nell’angolo estremo, di fronte alla città più bombardata di Israele, Sderot”.

Appena arrivati tutte le riserve sono state gettate alla difesa dei cittadini dei kibbutz trucidati e rapiti: davano la caccia agli uomini di Hamas rimasti per le strade e nei kibbutz, raccoglievano i feriti e i morti nei campi e sulle strade. A. socchiude gli occhi: ha visto l’inferno. Poi con la guerra, le sue riserve hanno dovuto prima di tutto imparare ciò che non sapevano più, usando una specie di modello di Gaza: una città finta in cui si entra, si spara, si esce, ci si arrampica, si assale, si praticano le gallerie piene di tritolo, ci si allena contro gli agguati, i cecchini, gli RPG. “Ma una volta dentro, abbiamo dovuto imparare subito una lezione: l’agguato di Beith Hanoun è nel suo cuore, non nelle cerchia esterne. Quelle, i terroristi te le lasciano passare facilmente. Una fila di case, due, tre, ed ecco, è là che Hamas ti aspetta. Dove non te lo aspetti, nelle strutture civili”. A. ferma il racconto e spiega: se decidiamo di distruggere una struttura e ci sono dentro civili, noi avvertiamo la popolazione civile… ci sono regole precise per valutare se dobbiamo necessariamente agire, e se è indispensabile perché altrimenti ne va della vita dei soldati o dei cittadini israeliani, cerchiamo comunque di debellare il loro uso continuo di scudi umani cercando di spostare la completamente. “Di civili uccisi a Ben Hanoun” dice A. contento “il numero è zero”. Ma nella battaglia in città ci sono stati soldati israeliani uccisi in varie circostanze. A volte i mezzi corazzati sono stati colpiti in agguati, ma il maggiore Moshe, capo del settore ingegneria, un 50enne che lavora nell’high-tech e che dal 7 è sul campo spiega: “Un esercito in genere avanza su un territorio che, una volta occupato, è la linea di partenza del tuo prossimo passo. Ma qui tramite le gallerie sotto il terreno, d’un tratto ti troverai il nemico alle spalle che ti spara”. Così, grandi energie sono state spese per individuare le gallerie: “E con grande sorpresa, e con l’uso di strumenti sofisticati, e anche subendo a volte esplosioni inaspettate dato che la specialità di Hamas è minare tutto quanto con grandi quantità di esplosivo, abbiamo dovuto capire in fretta che le gallerie erano una rete molto sofisticata, non quei buchi di varie dimensioni scavati in qua e in là, ma una ragnatela enorme che convergeva sul centro urbano. Qui sono le strutture che le proteggevano con la gente usata da Hamas.

La Moschea, la scuola, l’ospedale, la piscina pubblica, negli gli edifici, le camere dei bambini, persino i loro letti. Armi ovunque. Per scavare e per entrarci, e anche per essere certi di non andare a toccare gli ostaggi, abbiamo cambiato tecnica tutti i giorni. Adesso in questa citta smantellata, da cui avevamo fatto uscire la gente, un po' di persone hanno ripreso a girare intorno. Tornano. Possiamo bloccarli, ma non attaccarli né avvicinarli, c’è la tregua”. Ma siete stati feriti in tre due giorni fa. “Vero, e abbiamo risposto al fuoco. Se siamo in pericolo rispondiamo. Alcuni certo preparano la ripresa armata, altri, forse rubano, altri sono cecchini pronti a sparare, altri ci osservano. Ma noi siamo in tregua, agiamo secondo le regole di difesa”. E voi non vi preparate a tornare in campo? “Abbiamo due modalità di stare in guerra: l’offensiva e la difesa. L’offensiva è molto più facile, affronti il nemico, ti puoi muovere. La difesa è snervante, anche pericolosa, specie quando ci sono in giro civili. Ci sono tante cose da fare comunque, “rassicura, per esempio -racconta- avevamo smantellato completamente il sistema esplosivo dentro un edificio, e poi ci siamo accorti che era tutto minato di nuovo…”. E Hamas dov’è in tutto ciò? Hamas è nei dintorni, più facile da affrontare che da sopportare mentre non ci si può muovere. E allora? Allora si aspettano gli ordini. Il compito è: distruggere Hamas e riportare a casa i rapiti. Questo è, e niente altro.     

 

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