Israele piange i caduti della Givati: Pedaya, Lavi e gli altri giovani eroi
Il Giornale, 02 novembre 2023
“Forza bambino, ringraziamo il Cielo, sei forte ce la farai”. Invece lui tutto pesto, con un occhio gonfio, piange senza rumore, è ancora piccolo nel luglio 2016, si appoggia al fratello che arriva di corsa sulla strada su cui di traverso si vede la macchina del padre. Il piccolo si chiama Pedaya Mark, figlio di un rabbino, Miky, che è appena stato ucciso sulla strada vicino a Hebron. La madre giace gravemente ferita, e anche la sorella Teillah appena più grande di lui, sanguina. Lui le ha parlato per tenerla in vita finché sono arrivati i soccorsi; sempre lui, ha trovato il telefono e chiamato l’ambulanza. Un bambino dolce e diretto, e appena ieri bel ragazzo di ventidue anni, con i riccioli laterali e una continua propensione al sorriso, è stato ucciso a Gaza con altri 15 ragazzi, per la maggior parte del suo gruppo, i mitologici GIvati. Era il secondo luogotenente del battaglione. Pedaya che nella notte prima di mercoledì è stato ucciso in battaglia ha vissuto sempre nel vento di tempesta dello scontro con i terroristi. Suo zio Elhanan è stato ucciso correndo a battersi contro i terroristi il 7 di ottobre. Una famiglia di eroi d’Israele, caduto perché il suo mezzo corrazzato, un Namer (tigre), avventuratosi fra gli edifici nelle vicinanze di Gaza città, nel nord della Striscia e stato colpito da un proiettile anti-tank. I soldati uccisi ieri sono stati 16, un numero che testimonio la grande difficoltà del lento avanzare delle truppe israeliane nella trappola di Gaza, un meandro urbano costruito solo per fare la guerra, in cui ogni casa, ospedale, scuola, ospita le armi e gli uomini di Hamas, ogni cittadino al piano inferiore o superiore è uno scudo umano. I genitori dei ragazzi in guerra, in questo Paese postmoderno, in cui per legge si attraversa per la mano fino all’età di nove anni e i bambini sono principi, dal momento che i figli partono non vivono più, ogni macchina che arriva di fronte alla loro porta, ogni campanello che suona, la tensione raggiunge il diapason.
E tuttavia prevale la sicurezza, più di sempre, che questa guerra è necessaria, che le belve non devono restare sulle porte del Paese perché possa vivere, che i cittadini sfollati devono tornare a casa. La concordia è forte, non c’è posto per il pacifismo. Nella battaglia sul campo, i terroristi, i missili, sono in agguato, i terroristi preparano lo scontro dal 2005. I Givati sono incredibili combattenti, fanteria di prima classe, che conosce il terreno di Gaza metro per metro. Pedaya nel 2022 aveva detto che da quando suo padre era stato ucciso aveva capito quanto fosse importante essere un combattente. E così è stato fino all’ultimo: era su un mezzo corazzato colpito da un missile anti-tank coi suoi, e sono stati uccisi in 7; si deve immaginare un territorio semicostruito, in ogni costruzione può nascondersi un lanciamissili, sotto ogni edificio può sboccare la rete che i terroristi stessi hanno descritto, un meandro di 500 chilometri, un groviglio di trappole, armi, esplosivi, celle per gli ostaggi. Due altri soldati sono stati uccisi raggiunti da un missile mentre perquisivano un edificio, altri col tank su una bomba anticarro. Ognuno dei 16 ha una storia di ragazzo, di sogni, musica, scienza, tecnologia. L’inizio della vita. Sul primo, forse, a morire, Lavi Lipshitz, 20 anni, anche lui un Givati, bello come un attore, circola un video per una ragazza incontrata per caso: riassume l’incontro casuale rimasto nel cuore, alla fine si butta: “Are you free thursday night?”, “Sei libera giovedì sera?” scrive. Tutta Israele sa che Lavi non ha potuto andare all’appuntamento.
Ma questa guerra segue l’inferno nazista del 7 ottobre, la gente d’Israele cerca di consolarsi: i soldati hanno verificato le abitazioni di una grande zona, hanno ripulito Jabalia da 500 terroristi, hanno identificato le posizioni militari da cui i terroristi sparano, hanno compiuto “incontrando significativa resistenza” operazioni in cui gli scambi a fuoco gli hanno dato un netto vantaggio. Hanno catturato o eliminato molti responsabili del 7 ottobre. Di Sinwar, l’inventore del sabato nero, si dice che si aggiri come Hitler nel bunker, disegnando morte prima di tutto per il suo popolo.
Stella gialla sull'ONU
Il Giornale, 01 novembre 2023
Il 6 settembre del 1941 i nazisti imposero agli ebrei dai sei anni in su nei Paesi che avevano occupato, di cucirsi sul petto una stella gialla. Doveva subito isolarli, indicarli al pubblico ludibrio, doveva creare la strada diretta verso lo sterminio, aprire la porta alla strage di uomini donne e bambini. Ma i Paesi in cui la stella divenne il tragico distintivo degli ebrei furono a loro volta straziati, distrutti, riempiti di morti, crollando sulle ceneri dei suoi ebrei. Quando è apparsa la stella gialla, nessuno è stato solo spettatore della vertigine, del baratro che la sua imposizione ha segnato per il mondo. Ieri la sua immagine ha invaso non come ricordo storico ma come monito sul presente la hall dell’ONU; non c’è scritto però Yude, come imponevano i nazisti, ma “Never Again” mai più. Israele ne ripropone il monito.
Il nonno di Gilad Erdan, l’ambasciatore d’Israele all’ONU che ieri davanti al Consiglio di Sicurezza si è appuntato sul petto una stella gialla insieme al gruppo israeliano seduto dietro di lui, non fece nemmeno in tempo a subire quell’ umiliazione. Umile agricoltore ebreo in Transilvania fu caricato su un camion dai tedeschi coi suoi 8 bambini e sua moglie Bracha e portato al macello. Tutti quanti, fuorché il padre di Gilad, sono stati uccisi perché ebrei, giudei, juden... jehud, come si dice in arabo e come urlavano agli agricoltori di Be’eri e di tante altre località il 7 di ottobre i terroristi di Hamas. È in onore delle le vittime della mattanza mai vista dalla Shoah in avanti e quindi per protestare contro la cecità folle dell’ONU e di un’opinione pubblica mondiale che rifiuta di condannare l’incredibile attacco del 7 di ottobre, che il rappresentante di Israele ha deciso di compire questo passo drammatico. Finché l’ONU non si deciderà a condannare Hamas, ha detto, vedrà gli israeliani indossare il distintivo che al tempo della Shoah faceva di loro bersagli di morte, e il mondo colpevole vittima della propria indifferenza. È stato un gesto molto estremo, gli ebrei d’oggi amano la loro stella chiara sulla bandiera d’Israele, quella della riscossa, che segna sullo sfondo luminoso, fra due strisce di cielo, la forza di un popolo che ha afferrato finalmente nelle proprie mani la sua stella.
La Shoah è un argomento sacro, la sua unicità, l’incomparabilità sono i fondamenti del pensiero ebraico e sionista. Non è un caso che il direttore di Yad Vashem, il museo della Shoah, Dani Dayan, ha rimproverato Erdan, si è detto dispiaciuto che abbia sfoderato la stella gialla che simbolizza la vulnerabilità del popolo ebraico; avrebbe voluto piuttosto vedere i rappresentanti d’Israele con la loro bandiera. Il gesto, certo, è stato una solenne presa di posizione, baldanzosa e fiera, di fronte a una situazione impossibile: è sembrato un altro incubo a Israele vedere Gutierrez, segretario dell’ONU, evitare di condannare Hamas e attribuire responsabilità allo Stato Ebraico, mentre ancora si sgomberavano i corpi dei bambini uccisi, di figli e padri decapitati, delle donne violentate e torturate, dei vecchi fatti a pezzi, mentre Hamas trascinava via 390 ostaggi. Il prezzo morale che il mondo è apparso disposto a pagare alla cosiddetta “causa palestinese” è apparso, e ancora appare nelle ore in cui a tutte le latitudini si susseguono manifestazioni che urlano morte agli ebrei sventolando la bandiera palestinese, pari a quello pagato col silenzio del mondo sulla Shoah. In questo, funziona la comparazione. Israele ieri ha dichiarato di nuovo che l’intenzione è quella di combattere fino in fondo Hamas fino a che non sarà sconfitto. È qui che sventola, in una guerra molto lunga e difficile, la stella azzurra, mentre il dolore è oltre l’immaginazione. Ha ragione il presidente Isaac Herzog quando avverte il mondo che le manifestazioni che urlano “dal fiume al mare” intendono la cancellazione del popolo ebraico, e che dietro l’attacco “più brutale visto dall’umanità nelle ultime generazioni” ce n’è uno immenso, che non riguarda solo gli ebrei. La stella gialla dello sterminio se non si combatte, è pronta per tutti.
Il nuovo antisemitismo genocida
Il Giornale, 31 ottobre 2023
Due sono le sorprese che ha portato con sé il 7 di ottobre: la vulnerabilità degli Ebrei nello Stato d’Israele a fronte dell’odio islamista, che a sua volta ha mostrato un volto sanguinario; e l’eco abnorme risuonata nelle ore successive alla carneficina, proveniente da tutto il mondo. L’eco dell’odio antisemita, che subito gridava “morte agli ebrei”, che li nazificava come responsabili. Veniva innanzitutto dalle Moschee di tutto il mondo, dalle case dei due miliardi di musulmani che popolano gli stati islamici o sono nostri ospiti nei Paesi occidentali, ma anche dalle raffinate università americane, dalle piazze europee di Londra, Parigi, Milano… il branco che ha inseguito gli ebrei per l’aeroporto di Makatchkala nel Dagestan, una masnada di bruti nelle sale d’attesa, dietro l’autobus in fuga, urlavano “siamo qui per gli ebrei, per ucciderli, Allahu akbar” come gli assassini nei kibbutz della immensa strage. Dopo il 7 ottobre è stata un’epidemia. Difficile scegliere gli esempi, ce ne sono centinaia. In tutti i Paesi islamici, in Austria, Francia, Germania, Inghilterra, Grecia, da noi, negli USA il numero degli incidenti antisemiti è aumentato del 200, il 400, il 600 per cento. A Milano con le bandiere palestinesi, i manifestanti gridavano “Aprite i confini, uccidiamo gli ebrei”; a Bologna su un cartello “Hitler vi incontrerà di nuovo all’inferno”. “Gas the Jews” è di moda. La paura delle comunità ebraiche ne cambia la vita, chi ha la Mezusà, la benedizione sulla porta, può temere che la si distrugga, come a Parigi. Città per città, Paese per Paese, con minacce personali, vili prese di posizioni di università come la Columbia, Yale, Berkeley, il raccapriccio per ciò che Hamas ha fatto si è trasformato in un antisemitismo mimetico, genocida. Non è vergogna per le folle invocare Hitler e il genocidio, inneggiare ai tagliagole.
È una novità infettiva. L’antisemitismo israelofobico dell’Occidente, oggi mischiato a quello del sempre crescente numero dei musulmani, si era già negli anni trasformato in odio militante. Il rovesciamento era già evidente, lo scopo da tempo non era “due Stati per due popoli” ma l’eliminazione di Israele e degli ebrei. Ma durante la seconda Intifada, quando i terroristi suicidi uccidevano 1500 civili, ci fu un’altra ondata mondiale di odio antiebraico e antisraeliano. Durante tutte le guerre in cui Israele è stato aggredito, anche dopo il rifiuto di qualsiasi accordo, è sempre cresciuto l’odio per gli ebrei. La novità è che sulla scia di Hamas, dell’ISIS, di al-Qaeda, il messianismo musulmano si è esplicitato con tracotanza in tutto il mondo, secondo il dettato che per vincere si deve terrorizzare, piegare, sfigurare.
L’attacco del 7 di ottobre ha avuto una forza propagandistica che si è allargata minacciando per esempio Biden o chiunque si associ alla difesa di Israele. È una svolta politica dell’antisemitismo ideologico: è la forte, potente divisione in due mondi che si vuole disegnare nelle menti e nei cuori. Puoi stare con lo schieramento vincente dei palestinesi, con gli Hezbollah, con la Siria di Assad, l’Iraq e lo Yemen sciiti, l’Iran, la Russia e la Turchia e agire nel nome del tuo antisemitismo, non solo a proclamarlo. Potrai finalmente distruggere Israele e gli ebrei. Ma perché gli studenti di Berkley e parte dei giovani italiani si associano? Perché il “palestinismo” è riuscito a essere la religione occidentale progressista, ignorante dell’origine di Israele, una macchina di odio che ne ha fatto uno stato “coloniale, razzista, imperialista” che pratica un “odio umanitario” (come lo chiama Shmuel Triganò) in nome dei diritti umani. Non ha nessun peso che Hamas e l’Iran ammazzino gli Lgtbq, ma lo ha per esempio l’idea, negativa, che gli ebrei abbiano voluto costruire una nazione. “Nazione”! Come “autodifesa”, o “identità”, è un concetto contrario al multiculturalismo, alle teorie di genere, alla cancel culture… Gli ebrei spinti fuori dalla modernità, anche se è vero tutto il contrario, sono rappresentati come “nazisti che vogliono sterminare i palestinesi”, una “piaga mortale” come sostengono gli Ayatollah e purtroppo anche le piazze di Londra. Il razzo della Jihad Islamica che ha colpito il 17 l’ospedale a Gaza, ancora viene definito israeliano da certi media internazionali e dalle manifestazioni. L’incontro dell’antisemitismo dei diritti umani con quello musulmano esplode e insegue gli ebrei per ucciderli.
Leonardo, sul fronte più minaccioso
Il Giornale, 30 ottobre 2023
Dal 7 di ottobre Leonardo Aseni, un giovane di Milano anche israeliano di 35 anni, ha lasciato la sua casa di Tel Aviv e il suo lavoro nell’high-tech per andare a combattere con i miluim, le riserve, della sua mitologica unità, i Golani. L’hanno destinato al confine del Libano, che da ieri dopo giorni di silenzio spara di nuovo, e preoccupa il mondo. A Kiriat Shmone una casa è stata colpita da un missile ieri sera. Biden disse agli Hezbollah e all’Iran: ”Don’t” non entrare in questa guerra, ma dall’inizio della guerra del sabato più nero tutta Israele si interroga sulla possibilità che anche gli Hezbollah decidano di attaccare mentre si combatte dentro Gaza con enorme dispiego di forza. Significherebbe fronteggiare un altro rischio, forse maggiore, per le vite dei soldati e soprattutto della popolazione civile d’Israele, dato che gli Hezbollah sono la milizia sciita d’elezione degli Ayatollah: l’Iran li ha forniti da decenni di missili e droni che adesso come avvertimento vengono sparati sui paesi di confine, ma possono arrivare ovunque e a miriadi; gli Hezbollah, più di Hamas, possiedono attrezzature belliche e training di prima scelta fornite dall’Iran, Nasrallah ha costruito un gruppo fanatico e abile nel terrorismo e nel traffico internazionale di droga e armi. Il sommo progetto è quello degli Ayatollah, distruggere Israele. Da quando Hamas, il suo collega sunnita, è in prima linea, Hezbollah ha sparato sul bordo dove Aseni presta servizio colpi di artiglieria, bombe, proiettili anche letali.
Si è fatto vivo anche Ieri, e durante uno degli scontri è stato colpito anche una postazione dei Caschi Blu dell’ONU. Ormai dal 7 ottobre Hezbollah conta una trentina di morti e ne ha fatto 6 fra gli israeliani, di cui due nell’unità di Leonardo. Ieri le sirene per la prima volta hanno mandato anche i cittadini di Roshpina nei rifugi. Dalla città maggiore, Kiriat Shmone e dai kibbutz della zona si è compiuta l’evacuazione di tutti i cittadini. “Quella mattina del 7 -racconta Aseni- ho intuito dalle prime sirene che qualcosa di enorme stava accadendo, l’impossibile, l’irreale, e sono partito di corsa per il punto d’incontro. Adesso, qui siamo compatti, dispiegati in gran numero; siamo di nuovo noi Golani, l’unità mitologica di cui fin da ragazzino sognavo di far parte, ci rivediamo ma con un affetto che non ci si può immaginare”. Leonardo, mi parla sul video del telefonino appena distante dal suo gruppo sotto un grande albero, vedo solo foglie e la sua divisa, ha addosso il suo fucile Tavor X95 del peso di tre chili: “Sono un tiratore scelto d’assalto. Io apro la strada su questo terreno: appena ti mostri ai loro occhi, sei un bersaglio. Io vado avanti a tutti, individuo da dove si deve passare durante le nostre operazioni per rischiare meno possibile, precedo il comandante”. È lui che prende rischio e responsabilità. “Sì, certo, fa paura, ma hai da fare, devi cercare boschi, cespugli, valli, che ti nascondano. Appena sei in vista gli Hezbollah ti individuano e ti sparano un missile Kornet di cui odi il sibilo. Ti insegue e ti becca di sicuro se non riesci a trovare un nascondiglio, e non sempre lo si trova”. Leonardo è straziato dall’uccisione di un soldato solitario, stavolta di 22 anni, Omer Balva, venuto a combattere dagli USA. “Siamo andati a recuperarne il corpo straziato, io gli volevo quel bene che ci si vuole qui, oltre ogni immaginazione. Se uno di noi ha fame tutti si levano il mangiare di bocca”. E ha fame Leonardo? “Beh, parecchia, l’altra notte non so come una signora è riuscita a arrivare con la pizza ed è stata una festa anche se era fredda. Fame, sonno: non abbiamo un edificio, dal 7 dormiamo per terra su un terreno molto sassoso e accidentato, ci riempiamo di spine, siamo in allarme continuo, tanto che non mi sono cambiato da allora”. Leonardo vede oltre il reticolato, gli Hezbollah vanno avanti e indietro… “Se mai dovessero preparare un’invasione come Hamas, sarebbe dieci volte più terribile.
Pensa cosa sarebbe se si rovesciassero a frotte su Metulla, Shtula... sono fanatici, feroci terroristi. Noi però non lo permetteremo”. Leonardo ha occhi pensosi, ma non sembra stanco anche se oggi ha mangiato un sacchettino di bamba, delle palline di nocciolina, 3 o 4 Mentos. Vorrebbe fare la doccia, l’ha punto una tarantola. È questo essere un eroe? Leonardo ride, ha da fare, cambiare l’acqua della borraccia, ricaricare le batterie delle torce a luce rossa, controllare una specie di coperta contro la pioggia. Ma ogni minuto possono chiamarlo per una missione, non c’è tempo nemmeno per fare la doccia. Ai genitori mando dei cuori e dei pollici in alto, sanno tutto senza parlare.
Gli eroi di Be'eri: "Noi vivi tra i cadaveri"
Il Giornale, 29 ottobre 2023
Tutti gli amici di Hamas all'assalto
Il Giornale, 27 ottobre 2023
Il discorso di Gutierrez all’ONU è stato il “liberitutti” per dare fuoco alle polveri antisraeliane e antisemite insieme alla ripetuta imposizione russa nel Consiglio di Sicurezza di non condannare Hamas. Ieri per chiarire bene le alleanze, una delegazione di Hamas è atterrata a Mosca con una delegazione dall’ Iran e una dalla Siria: ormai la definizione dell’asse antidemocratico prende una decisa forma internazionale belligerante. Pochi giorni prima, Hamas e la Jihad Islamica hanno incontrato Nasrallah a Beirut, scopo esplicito come continuare la guerra di Hamas. La copertura internazionale ha fornito uno scenario all’esplosione antisemita del premier turco Tayyip Erdogan che in Parlamento, fra applausi entusiasti, ha accusato Israele di sistematica eliminazione dei bambini palestinesi, l’ha accusato di attaccare “ospedali, scuole, moschee, e chiese… con operazioni che confinano col genocidio”.
Erdogan fa parte di una compagnia in cui il Qatar splende, più cauto ma più abile e l’accompagnano schierati, gli Egiziani e i Giordani, in cui un’azione di continuo “petting” con l’Occidente lascia uno spazio improvviso all’odio di cui sono intrisi i popoli di questi Paesi. Appare così chiaro il senso politico della dichiarazione della regina Rania di Giordania, di origine palestinese, che, certo col permesso del marito re Abdullah, ha attaccato durante un’intervista alla CNN il presidente Biden per aver detto che Hamas ha decapitato dei bambini, sostenendo che non ce ne sono prove. Cauto invece Mohammed Bin Salman dall’Arabia Saudita mentre sorprende il vecchio alleato di Israele Abdel Fattah al Sisi. Erdogan, invece, ha sempre odiato Israele, con intervalli strategici: ma ora che ha rifiutato di proseguire nelle sanzioni a Putin, che ha incontrato, stavolta ha deciso di collocarsi nella posizione che ritiene forte: quella di leader della Fratellanza Mussulmana, cui anche Hamas appartiene, anche per contrastare l’abilità e il doppio registro dell’altro importante leader sunnita, di Mohammed bin Abdulrahaman Al Thani visitato sei giorni fa anche dal segretario di Stato Antony Blinken.
È di ieri la notizia che adesso, nel bel mezzo della trattativa per gli ostaggi, evidentemente per elevare la credibilità del mediatore che dovrebbe riuscire nella difficile trattativa sugli ostaggi, Blinken, secondo il Washington Post, ha ottenuto dal Qatar di rivedere i rapporti con Hamas, anche se non si parla esplicitamente di chiudere l’ufficio di Hamas a Doha, suo centro fisso di elaborazione e centro comunicazioni, e di cacciare via Ismail Haniyeh. Il Qatar, che insieme riesce a finanziare al-Jazeera, think tank mondiali, squadre sportive, la Formula Uno, e il più sanguinario gruppo terrorista del mondo Hamas, sembra adesso essere il plenipotenziario vero, non smentito da Israele, della liberazione di “buona parte”, si dice degli ostaggi. Sono 220 persone fra cui molti 30-40 infanti e bambini, donne, vecchi, e molti con passaporto straniero (tailandesi, americani nel numero maggiore, e altri). Si parla del rilascio di donne e bambini, le famiglie disperate premono perché si risponda alle richieste di cibo, medicine, acqua e altri beni essenziali. La trattativa però verte, sembra, sulla benzina. Gli ospedali se ne servono per la loro attività, dice il Qatar, ma è chiaro che si tratta di un bene indispensabile alla guerra. E comunque ogni aiuto finisce nelle mani di Hamas, specie se se ne occupa il Qatar. La discussione implica capziose distinzioni su chi deve essere considerato bambino (fino a 16? A 17 anni?). I soldati aspettano sul confine, ma agiscono con operazioni mirate in cui si raccolgono soprattutto molte informazioni per lo scopo basilare: distruggere Hamas. Né la Turchia né il Qatar persino con l’aiuto di Gutierrez hanno per ora spostato la decisione. Intanto all’ONU al ministro degli esteri iraniano che di nuovo minacciava dal podio e esaltava gli shahid islamici, Dani Danon, rappresentante di Israele, ha risposto mostrando all’assemblea di un bambino decapitato da Hamas.
Un massacro mai visto
Il Giornale, 26 ottobre 2023
Si sta rimuovendo il 7 ottobre: è troppo difficile interrompere il bel sogno pacifista del dopoguerra per capire che abbiamo assistito all’apertura inguardabile, inaspettata, di una guerra mai vista prima a tutto il mondo civile. Un massacro di bambini ha bisogno di strumenti particolari per essere compreso. Bisogna prima di tutto guardarlo, sapere resistere alle immagini delle creature piccole che dicono «voglio la mamma» mentre li si tortura e uccide. Poi, bisogna sapersi chiedere come è accaduto; guardare proprio in faccia i massacratori, ascoltare cosa dicono. Infine, scacciare la paura per domandarsi come evitare che arrivi fino a te.
Nessuna di queste operazioni è stata fatta da Guterres, il segretario dell’Onu, né dalle piazze che inneggiano alla distruzione dello Stato d’Israele che blaterano del conflitto israelo-palestinese. Vorrei costringerli a sedersi al buio come ha fatto la cronista ieri e a guardare per 45 minuti le riprese fatte con le loro telecamere dagli uomini di Hamas mentre massacravano le loro 1.500 vittime innocenti, le famiglie stupefatte dell’aggressione e poi immerse nel loro sangue, gli stralci di video dei telefonini delle vittime ritrovati fra le rovine dei kibbutz.
Come sono davvero i terroristi? Sono allegri e disciplinati, affollati sui pickup per compiere il massacro e cominciano a ammazzare tutti i guidatori delle auto: così è previsto. Una volta entrati nei kibbutz avevano una missione precisa. Svelata da un biglietto scritto a mano, trovato sul corpo di uno dei miliziani uccisi e diffuso dall’esercito israeliano: «Sappi che questo tuo nemico è una malattia che non ha cura, se non la decapitazione e l’estrazione di cuore e fegato!». Li vediamo agire secondo un copione collettivo, con grandi roncole fanno a pezzi tutti quanti... «Allah akbar», ripetono senza smettere un attimo, ogni colpo per staccare una testa, ogni gruppo che si butta in massa addosso a una ragazza ormai tutta sanguinante e semi spogliata ripete e ripete che Allah è grande, si incitano felici l’un l’altro. Una pletora di corpi bruciati vivi rende evidente che la soddisfazione va di pari passo con l’organizzazione, il programma procede.
Hanno una gerarchia precisa, rispondono a capi, eseguono ordini: lo fanno quando si scatenano dietro a un gruppo di bambine ammucchiate sotto un tendone per la mutilazione, la morte, lo stupro da vive e da morte, come si vede nei video. Agiscono in gruppi organizzati, sono del tutto atoni al pianto infantile, alla parola «innocenti» o «madre», la parola «bambino» non ha più ruolo semantico: hanno istruzioni come quelle delle SS quando buttano addosso a un padre con due bambini piccoli in fuga una bomba a mano, uccidono il padre, buttano i bambini in una stanza. Il più grande zitto accarezza il secondo che grida «babbo, babbo, è morto davvero, non è un film, voglio la mia mamma», e l’altro gli chiede «ci vedi da quell’occhio», il piccolo dice di no, e finisce là; sono solo due dei bambini la cui sorte è ignota.
Questa vicenda non finisce qui, è diversa da tutte, mai si è sperimentato l’ordine di spopolare con mezzi estremi, famiglia per famiglia, tutto il territorio, con una strategia che suggerisca la fine del mondo. Cos’è tutto quest’odio? Chiedo al generale Micky Edelstein che presenta il film: «Non è odio - dice - è un programma». Come rivela la Cnn sono durati due anni i preparativi di Hamas, i terroristi sono riusciti a eludere la sorveglianza delle più potenti agenzie di intelligence del pianeta con uno stratagemma, un «controspionaggio vecchio stile». Privilegiati incontri di persona e telefoni fissi nei tunnel di Gaza. E solo una piccola cellula di Hamas era al corrente dei piani per l’assalto simulato - come rivela il Wall Street Journal - a settembre in Iran, poi è stato allertato un gruppo più ampio di combattenti, pronti ad agire, solo quando ormai era tutto deciso.
Harold Rhode, già consigliere speciale del Pentagono per la cultura islamica, spiega così la filosofia: «È la cultura nomadica araba, dettata da leggi di sopravvivenza selvagge: una terra un tempo musulmana deve tornare all’Islam a qualsiasi costo. Non c’è limite ai mezzi per farlo, di generazione in generazione».
Spiega ancora Rhode che mentre conquisti, devi terrorizzare, donne e bambini sono solo la carne da macello che deve sanguinare per disegnare il tuo dominio. Chi non lo fa, è una pecora: i nemici vanno divorati vivi. Il piano del sabato nero era questo, e l’Iran è il suo profeta.
Un carosello di equivoci internazionali, e Israele farà ciò che vuole
Il Giornale, 25 ottobre 2023
Il Capo di Stato Maggiore Herzi Halevi, mentre si discute sempre più intensamente del destino degli ostaggi e degli aiuti umanitari, ha dato la sua risposta alla domanda che tutto il mondo si fa: l’esercito di Israele sta per entrare “stivali sul terreno” a Gaza? È pronto a combattere strada a strada, vicolo a vicolo, porta a porta, alla ricerca dei capi di Hamas, fino alla distruzione dell’organizzazione terrorista? Quali sono le intenzioni dell’esercito a fronte della pressione internazionale, al suo caleidoscopio di opinioni di cautela, di pacifismo, a volte di distacco rispetto alla tragedia del 7 ottobre? Su uno sfondo di ragazzi in divisa sul confine, “Siamo pronti”, ha detto Herzi Halevi con la sua faccia grave e composta. Un annuncio significativo: vuol dire che l’esercito in 17 giorni ha portato a termine una quantità di preparativi logicistici e tecnici; il terreno su cui si dovrà marciare è stato esaminato; la speranza di minimizzare le perdite è forte; si ritiene soddisfacente al momento il numero di comandanti di Hamas colpiti con gli aerei; quanto ai rapiti, si pensa di poter agire per la loro liberazione. Una dozzina sono state le eliminazioni, molti edifici, nidi di missili, depositi di armi nascoste sono state colpiti. Si potrebbe continuare dall’aria, ma Halevi senza discutere questa possibilità ha detto “ora possiamo entrare”.
Ieri pomeriggio persino Tel Aviv è stata di nuovo pesantemente bombardata, e a Sikim, al sud, è stato fermato un gruppo di terroristi. Halevi aspetta. L’ordine però è sospeso, si sa solo che il triunvirato Netanyahu-Gallant-Halevi ripete di essere sulla stessa linea, ma mentre c’è la concordia sulla decisione di distruggere Hamas occorre anche la solidarietà internazionale. Ieri però il ministro degli esteri Eli Cohen, ha dovuto ascoltare una stupefacente relazione del segretario generale dell’ONU, Antonio Gutierrez, che dopo una frettolosa dichiarazione di solidarietà incurante dell’entità e della qualità delle barbarie di Hamas, ha perfino giustificato le mostruosità del 7 di ottobre dicendo che “non è accaduta nel vuoto”, con una sua versione della storia in cui anche Gaza soffrirebbe di un’occupazione, finita invece nel 2006. Il ministro Eli Cohen ha cancellato un incontro con Gutierrez e Benny Gantz ha definito “buio” il tempo in cui si sostiene così il terrorismo. Il segretario di Stato Blinken è intervenuto però per sostenere la guerra di Israele, anche se Biden insiste per l’ingresso di medicinali, cibo, acqua, e aiuti in denaro. La confusione fra intervento umanitario e cessate il fuoco è dell’ONU e dell’Unione Europea. Gli Usa, semmai, come ha raccontato il New York Times frenano l’attacco di terra, il Segretario alla Difesa Lloyd Austin, suggerisce di stare cauti, pena una nuova Falluja: deve esservi chiaro, ha argomentato, l’esito finale, dice il NYT.
Tuttavia gli americani ripetono che spetta a Israele ogni scelta. Tortuosa e ambigua è invece la proposta europea di una “tregua umanitaria” che somiglia a un cessate il fuoco: è quella di Joseph Borrell, che a Lussemburgo ha detto che occorre una pausa perché “ora la cosa più importante è che l’aiuto umanitario entri a Gaza”. Francia, Spagna, Olanda, Irlanda, Slovenia l’hanno sostenuto, mentre la ministra degli esteri tedesca Annalena Baerbock ha risposto che occorre aiutare, ma “il terrorismo va fermato”. Borrell vuole ora un documento al summit UE questa settimana, ma la consapevolezza degli orrori sta crescendo: le visite da Sunnak, a Macron, a Sholtz, a Mitzotakis, a Giorgia Meloni... tutti portano solidarietà, fanno obiezioni umanitarie, danno consigli. Alla fine, le decisioni di Israele saranno solo sue, come ha detto oggi Halevi.
Oltre l'orrore la shoah di Hamas
Il Giornale, 24 ottobre 2023
Ieri, la cronista che credeva di aver capito la storia del terrorismo e dell’antisemitismo ha dovuto girare pagina: niente è come era, il male ha una sua nuova incarnazione, che si è rivelata sabato 7 ottobre. Siamo fino al collo dentro una guerra nuova, inusitata, e se non ci difendiamo ne saremo travolti come da uno tsunami. Sull’onda infuocata dell’antisemitismo Hitler distrusse quasi tutto il mondo. Ma durante la Shoah i nazisti nascondevano lo sterminio degli ebrei, ci sono voluti anni per individuarne la dimensione e la crudeltà. I pervertiti terroristi di Hamas si sono messi sulla fronte le telecamere, hanno filmato il loro genocidio gestito con fantasia ad personam, yehud yehud, bambino per bambino, ragazza per ragazza, per poi postarlo su Tik Tok, Instagram, Facebook. Hanno documentato come davano fuoco ai bambini davanti agli occhi della madre e viceversa, come violentavano le ragazze e poi le ammazzavano, come stupravano le bambine e le vecchie in pigiama e sventravano le donne incinte, come hanno tagliato la testa a centinaia di persone e non contenti poi hanno usato le armi più taglienti per farle a pezzi e strappargli gli occhi.
Ieri, la nostra visita di vari gironi dell’inferno ha avuto la sua voragine più profonda prima di scendere al sud, nella base militare di Shura, una struttura rudimentale, all’aria aperta, in cui quello che si scorge arrivando sono file di container bianchi numerati, e alcune tende semichiuse in cui si lavora in silenzio. Entrano ed escono militari indaffarati e uno di loro, sotto il container ALLU 17024, denominato anche mecolà 10, ci spiega: “In tutti questi frigoriferi sono accumulati centinaia e centinaia di corpi ancora non identificati a causa dei roghi, delle torture, delle mutilazioni cui sono state sottoposte. Parlate piano, non fate tanto rumore”, chiede il colonnello Chaim Wisberg anche al gruppo di parlamentari europei guidati da Elmet, l’organizzazione che guida la loro missione di solidarietà e che mi ha aiutato nella visita: “Abbiamo tre modi di identificare per portare le persone a degna sepoltura riconsegnando i corpi alle famiglie disperate. Ancora tanti cercano, senza trovarli, i loro cari. Il primo modo è quello diretto, il secondo con l’esame della dentatura, il terzo col DNA. Purtroppo, il primo sistema, dato quello che i terroristi hanno fatto, non si può quasi mai praticare. I resti sono stati trovati nei posti più disparati, è stata una semina infinita di corpi ovunque, e poi amorosamente suddivisi in sacchi con numeri. Si cerca di rimettere insieme parti che Hamas ha tagliato: oltre alle teste, anche genitali, braccia, piedi, mani. I cadaveri delle donne violentate arrivano pieni di fratture ovunque. Prima di capire che un troncone era di una donna e del suo bambino insieme bruciati e seviziati, c’è voluto molto studio”. Vediamo nei container, da cui aprendoli esce il gelo a nuvole e l’odore della morte perché ormai i giorni sono passati e non si riesce a identificare tante creature, sacchi a centinaia, di tutte le dimensioni, tutti sistemati per grandezza. I volontari sono quieti e gentili, tutti in divisa. Sheryl spiega: “Cerchiamo la dignità, la memoria umana di quei poveri resti, in un orecchino da restituire alla famiglia, nelle bellissime unghie curate di qualche ragazza di cui non rimane quasi nient’altro… sistemiamo piano piano piano quel che c’è, con amore. Con ordine. I parenti che vogliono almeno seppellire i loro cari, qui entrano solo coi risultati certi del DNA”.
Per la strada, verso sud, ogni cespuglio parla, racconta la mostruosa sorpresa del sabato 7, L’esercito è ormai schierato lungo il confine sud, ci avvertono mentre siamo diretti a Kfar Aza che l’esercito ha proibito quell’obiettivo perché c’è una sospetta incursione terrorista; facciamo un giro largo per arrivare a Be’eri, la maggiore vittima della mattanza, che confina con Re’im, il kibbutz a fianco del quale si è svolta la festa dell’eccidio, quella in cui sono stati ammazzati almeno 260 ragazzi che ballavano, e da cui ne sono stati rapiti una buona parte dei 222 rapiti, e alla cui folla appartengono un gruppo degli scomparsi, fra i 100 e i 200. Numeri enormi. A Re’im, la grande tenda bianca stracciata, le masserizie, gli stracci, il nero dell’erba bruciata dagli spari e dalle battaglie è una belva in agguato: i fossi erano, ci dicono i militari, pieni di ragazzi uccisi. L’erba su cui sono fuggiti invano ha il colore del tradimento, e il giallo è più giallo, il nero del bruciato definitivo. A Be’eri il comandante Golan, un campione di umanità che in Turchia ha salvato 19 persone dopo l’ultimo terremoto, un esempio tipico dell’umanità di quei kibbutz tutti umanitari, liberali, amici degli arabi, ci mostra con parole ancora stupefatte, interrogative, le case bruciate con le famiglie intere chiuse dentro, esplose fino a mandare in briciole i tetti stessi, racconta che ha trovato il corpo carbonizzato di un suo poliziotto d ha raccolto il telefono anche contro la prassi perché la scritta sullo schermo diceva “amore mio”, e ha detto alla moglie dell’ucciso che il suo caro non c’era più. “Non volevo che aspettasse settimane l’identificazione”.
L'amore della sinistra per la causa palestinese? Da quelle lezioni di Arafat coi Vietcong e Ceausescu
Il Giornale, 23 ottobre2023
Comincia più di cinquant’anni fa la storia del coinvolgimento attivo della sinistra in difesa della “causa palestinese”, la sua decisione del tutto arbitraria che essa sia parte della “lotta degli oppressi, dello scontro antimperialista, anticolonialista, per la pace, per l’autodeterminazione, per l’eguaglianza dei diritti”, e persino un grande protagonista, il cemento di molte le battaglie “intersezionali”, come si dice oggi, che portano folle di giovani, donne, neri, lgbtq, e vecchi delle associazioni partigiane e di sinistra in piazza a sostenere, dopo le barbarie di Hamas, la suddetta “causa” accusando Israele e prendendosela con tutti gli ebrei. Bisogna, perché si presenti nei termini attuali, tornare agli anni sessanta, con le visite di Yasser Arafat a Hanoi, una meta per lui familiare in quegli anni, e con la frequentazione della Romania di Ceausescu. Dal generale Vo Nguyen Giap, capo militare della resistenza “antimperialista” vietnamita, Arafat di abbevera: il leader dei vietcong gli spiega che per vincere deve fare uscire la sua battaglia dallo scontro regionale, e renderlo una battaglia morale antimperialista, come quella dei vietcong, capace di incantare, mobilitare, unificare le masse antiamericane in tutto il mondo.
Ceausescu gli insegna in un famoso dialogo, cosa sia il marxismo, gli fa lezione di egemonia, gli spiega come la guerra terrorista, peraltro indispensabile, deve accompagnarsi con la pretesa ripetuta fino allo sfinimento di volere una soluzione pacifica. Negli anni ‘80 e ‘90, con la disintegrazione dell’URSS suo maggiore partner e finanziatore, e anche con la fine di Ceausescu, il suo istruttore politico, quando l’esilio di Tunisi lo umilia e lo tiene lontano dalla politica, l’offerta di Israele di tornare a Ramallah con gli accordi di Oslo, gli fornisce una magnifica occasione per usare un nuovo cavallo di troia molto popolare: la pace, cuore della propaganda a sinistra! Arafat non ha nessuna intenzione di riconoscere Israele o di rinunciare al terrorismo, ma la sinistra mondiale lo segue: i palestinesi compiono l’innesto fra la “causa palestinese” col suo messaggio terzomondista e l’antisemitismo che fiorisce nel campo comunista sin dal tempo di Stalin. Accantoniamo il solido odio per gli ebrei di Proudhon e Marx. Dopo un breve periodo di sostegno alla nascita di Israele data la sua ispirazione socialista, l’ideologia sovietica torna all’antisemitismo originario. [...]