Fiamma Nirenstein Blog

La guerra antisemita contro l'Occidente

7 ottobre 2023 Israele brucia

Jewish Lives Matter

Informazione Corretta, il nuovo video di Fiamma Nirenstein

Museo del popolo ebraico

Con Douglas Murray sul confine di Gaza: "L’Occidente non capisce, è il prossimo"

lunedì 13 novembre 2023 Il Giornale 1 commento

Il Giornale, 13 novembre 2023

Proprio nei giorni in cui esce in Italia il suo “Guerra all’Occidente” per Guerini, Douglas Murray si è infilato un giubbotto antiproiettile per andare sul confine di Gaza. Da una nostra conversazione esce la consueta valorosa passione a creare un muro di difesa per la società democratica che dal libro, passa al campo. Finalmente dalla Striscia a Gerusalemme davanti a un caffè, il giovane intellettuale cristiano dotato di quel british accent che dà valore aggiunto, sorride: certo che no i botti non gli fanno paura: “Sono stato l’anno scorso in Ucraina”. Prima si era fatto un giro per tutte le rovine fisiche e morali lasciate dall’attacco woke negli Stati Uniti. Adesso, è venuto a guardare negli occhi la terribile ferita inferta da Hamas il 7 di ottobre, a capire se il nostro mondo può affrontare una ferita simile. “Mi pare che Israele stia pensando bene a se stessa, adesso vediamo se ci riusciamo anche noi, ma sono scettico”. Douglas spiega che è venuto per portare affetto, solidarietà: “Volevo essere con voi” e così ha visto anche il film girato direttamente dai terroristi. “Credo quindi che comparare Hamas ai nazisti, non gli dia il dovuto.

In comune c’è l’intento genocida, ma i nazisti avevano bisogno, la sera, come raccontano molte memorie, di parecchio alcool dopo avere passato la giornata a sparare in testa agli ebrei e a buttarli nei fossi, o a gasarli. Hamas è felice di fare a pezzi bambini, ne fa sfoggio: filma tutto, riprende le facce felici dei suoi intenti in roghi, mutilazioni, stupri, registra la telefonata alla mamma dopo aver staccato la testa a un giovane: ‘Babbo ho ammazzato gli ebrei, sei contento? passami la mamma’”. Forse Douglas non si aspettava di planare in un simile inferno; o almeno sperava che la vicenda, così trasparente, potesse portare a fare chiarezza e a riorganizzare le idee del mondo su Israele e i palestinesi: “Invece si sente ancora dire che Israele aggredisce la popolazione pacifica ma non è vero, ci sono i film che mostrano le accoglienze dentro Gaza degli assassini con le loro vittime morte e mutilate da parte della gente entusiasta, c’è il voto compatto per Hamas, c’è Fatah buttata giù dai tetti, ci sono ormai 18 anni di organizzazione autoritaria, di incitamento a uccidere gli ebrei”. Ma Macron “de facto” nonostante tutto si veda in trasparenza, parla di bambini e donne uccisi, di punizione collettiva… È un tipico blood libel, ragiona Murray, uno dei tre classici dell’antisemitismo più dolorosi ebrei non possono sopportare: l’idea che gli ebrei sarebbero responsabili di un genocidio inesistente, di uccidere donne e bambini, mentre fanno di tutto per evitarlo, di aver creato un altro Ghetto di Varsavia, mentre al contrario non hanno fatto altro che aprire, fino all’oblio di se stessi”. E ora, nella patria di Murray, Londra, ieri 300mila hanno gridato slogan scriteriati di odio antisemita, di distruzione di Israele “from the river to the sea”... Douglas ha una smorfia di sofferenza: “Israele è solo il numero uno di una grande battaglia che tutto l’Occidente ora si trova a dover combattere.

È talmente chiaro che non c’è altra scelta…”. Talmente chiaro, però, che tutti chiedono a Israele di fermarsi. Sì ma qui Murray è sicuro: “Da quello che vedo, Israele si è ricompattata, riorganizzata, combatte bene, non ci sarà mai più un disastro così, come non può esserci più un undici di settembre. C’è stato un terribile momento di chiarificazione che ha portato all’unità e alla comprensione che i criteri vanno cambiati, che questa è una battaglia di necessità. E invece da noi…siamo lontani dal capire”. Ma forse non è così drammatico. Lo è, dice Murray: nel suo valoroso libro spiega come per puro masochismo la società abbia distrutto i pilastri di comprensione ed elaborazione colpevolizzandosi: “Queste grandi manifestazioni sono di nuovo il segno che ci siamo arresi di fronte alla pervasività del terrorismo islamico. Potevamo già affrontarlo, dal Bataclan all’attacco di Manchester nel 2017, Salman Abeidi fece 100 feriti a un concerto. Ma niente è stato fatto. Israele deve occuparsi di sé stessa, e noi dobbiamo cercare di rimettere le cose in ordine, incoraggiare la polizia, osservare le leggi”.

 

Londra, Parigi, Bruxelles in piazza e i leader "giustificano l'antisemitismo"

domenica 12 novembre 2023 Il Giornale 0 commenti

 

"Liberi 100 palestinesi in cambio di ostaggi". La trattativa segreta tra Hamas e Israele (e l' ombra del bluff)

sabato 11 novembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 11 novembre 2023

In Israele ieri una nuova notte di domande, tormento e speranza dopo la notizia apparsa su al-Arabiya e poi ripresa dal Washington Post dell’accordo raggiunto da Hamas e da Israele per la restituzione di 100 dei 239 ostaggi rapiti nel giorno della strage in cambio, dice al Arabiya, in cambio di “100 donne e ragazzi” nelle carceri israeliani. Israele nega l’accordo, ma da giorni le notizie girano intorno alle più svariate voci di mediazioni, accordi, in cui sono coinvolti anche il Qatar e l’Egitto, su uno sfondo USA. L’ipotesi di cui si discute in queste ore è impossibile da certificare, ma ha alcune caratteristiche che forse la sottraggono alla pura ipotesi del tentativo dei terroristi di guadagnare tempo in un momento di estrema difficoltà sul campo, mentre due degli ospedali nel centro della città che coprono le strutture belliche di Hamas sono assediati e vengono sgomberati, in cui la gente fugge a sud con le bandiere bianche ormai in centinaia di migliaia.

Hamas oggi ha un interesse estremo a fermare l’assedio al bunker di Sinwar: per questo non è peregrina l’ipotesi che, tramite uno Stato amico, probabilmente il Qatar, si avventuri verso un grosso scambio. Fino ad ora gli ostaggi liberati sono gocce nel mare della sofferenza israeliana: madre e figlia il 20 di ottobre, poco più avanti due anziane signore. Solo due giorni fa le ferite psicologiche delle terribili immagini di Hana, 77 anni e di Yagil, 12 anni, i volti distrutti dalla prigionia. La Jihad Islamica ha dichiarato l’intenzione di liberarli e li ha evidentemente costretti a recitare una serqua di tragiche affermazioni propagandistiche.

Ma l’idea che Hamas giochi le sue carte due a due non convince Israele: anzi, questa ipotesi spinge a pensare ciò che per altro è un’idea molto diffusa, nell’esercito e fra i civili, fra i soldati e fra le famiglie dei rapiti, che per costringere Hamas con le buone o con le cattive a rilasciare i prigionieri, lo si debba stringere nell’angolo con la forza. Quindi fino a ora Netanyahu e ha detto: “Gli ostaggi sono la nostra prima preoccupazione, combattiamo per recuperarli e per cancellare Hamas, insieme. Ci sarà una tregua solo se ci restituiranno i rapiti”. Adesso però l’ipotesi di una grande restituzione aprirebbe un capitolo inedito: è difficile che, per quanto dannoso possa essere rallentare la battaglia, Israele la rifiuti. Nessuno che non sia qui può immaginare il coinvolgimento del Paese di fronte ai volti di quei bambini, di Avigail che ha due anni e mezzo e cui sono stati uccisi tutti e due i genitori ed è nelle mani delle belve che li hanno trucidati; nessuno può astrarsi dal pianto della nonna dei tre nipotini rapiti anche loro ormai orfani, o dall’urlo della madre trascinata via mentre stringe i suoi due bambini coi cappelli rossi, o della vecchietta su una moto fra due orribili centauri sanguinari.

Di tutti sappiamo i nomi, le medicine di cui hanno bisogno, la dolcezza. Si può ipotizzare che se Hamas è propone uno scambio così grosso, e se il mediatore è Doha sostenuta dagli Stati Uniti, è perché Biden ha il desiderio politico di portare Israele a una tregua. Uno scambio di queste dimensioni metterebbe in moto una quantità di protagonisti: la Croce Rossa, L’Egitto, il Qatar, la polizia israeliana, l’esercito. Si vedrebbero di nuovo in giro con grave pericolo una serie di giovani terroristi (che al-Arabiya li chiami bambini non cambia la realtà dire ragazzini e giovani già implicati nel terrore) come accadde al tempo di Gilad Shalit, quando fra i 1027 terroristi liberati, si trovava anche Yahya Sinwar.    

 

L'anziana e il bimbo, un altro video-ricatto sui rapiti

venerdì 10 novembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 10 novembre 2023

Scelti con astuzia sapendo di andare a toccare il cuore e la mente d’Israele, sui teleschermi israeliani nelle ore del massimo ascolto serale, prima di cena, dopo 34 giorni di sofferenza e 2 giorni di confusione assoluta sul tema degli ostaggi, un video della Jihad Islamica, ha mostrato le facce sofferenti, emaciate, bianche, di Anna Katzir 77 anni, e del piccolo Yagil Yaakov, 12 anni, ambedue di Nir Oz, uno dei kibbutz della strage, rapito con i genitori e il fratello di 16 anni. Disseppelliti dalle gallerie li hanno fatto recitare la parte che gli faceva comodo. Probabilmente saranno liberati entro poche ore. Hanno parlato della loro sofferenza e del desiderio di tornare a casa, poi Anna ha rimproverato Netanyahu come responsabile di tutto, e Yagil gli ha detto che sparando rischia la vita degli ostaggi e gli ha chiesto di fornire acqua, medicine, etc. Poi il solito zombie mascherato, stavolta della Jihad Islamica, ha annunciato che li vogliono liberare “quando ce ne saranno le condizioni”. Due su 339, uno segnato dal tempo unito alla tortura, l’altro di un bambino stravolto dalla pena, ambedue segnati dalla sofferenza, un messaggio scelto con cinica furbizia come per il copione film. È chiara l’intenzione di giocarsi gli ostaggi uno ad uno, nel tempo lungo che può servire di fronte a una guerra israeliana che avanza con successo. La mossa della Jihad Islamica, che evidentemente si è suddivisa con Hamas il compito di aguzzino dei 339 prigionieri, è legata a paura, a agitazione, è provocata da un sommovimento generale, punta a segnalare agli americani la necessità di spingere per la tregua, come peraltro Biden vorrebbe.

Ma è soprattutto un singulto dalle gallerie ormai assediate, dagli edifici ormai semidistrutti: la battaglia negli ultimi due giorni si è svolta dove hanno sede i depositi di armi, gli strumenti strategici, i locali dello Stato Maggiore di Hamas. L’esercito ormai assedia gli ospedali Indonesiano e quello di Shifa sotto il quale ha sede il nido del ragno, la sede di Yehiye Sinwar. Tutti e venti gli ospedali di Gaza sembrano essere collocati sopra punti strategici dei 500 chilometri di gallerie. L’esercito si è mosso sulla base delle informazioni fornite dagli interrogatori dei terroristi presi dopo la strage, e Hamas sta subendo una sventola: i suoi ufficiali decimati, le quotidiane sconfitte sul campo, la fuga di decine di migliaia di gazani con le bandiere bianche, adesso Hamas cerca di giocarla con l’unica ma potentissima arma che ha in mano: i rapiti. Colpisce Israele nella sua insopportabile sofferenza, continua la tortura del 7 ottobre, spinge tramite Doha, dove israeliani e americani si sono incontrati, la tregua di cui ha bisogno in cambio di ostaggi. L’idea che Israele possa concedere 4 ore di tregua al giorno, in realtà non cambia molto, e si aspettano altre novità: Gerusalemme già concede tregue per i cittadini, cui l’ha chiesto con volantini e telefonate, che si spostano a nord.  Le famiglie unite non spingono per tregue, chiedono solo di mettere i loro cari al primo posto.

Sono ovunque: dalle piazze, dalle mura tempestate di foto, dai viaggi alla ricerca di solidarietà, chiedono di affrontare subito “achshav” la tragedia. Hanno tanti bambini, genitori, nonni, nelle mani dei macellai del Sabato nero, di cui non sanno più niente. Netanyahu che prima diceva “non ci fermeremo” ora ripete “ci sarà una tregua solo se restituiranno i nostri rapiti”. La Croce Rossa non porta informazioni, nemmeno il numero dei vivi, dei malati: ieri sera una grande manifestazione di medici le ha chiesto di fare il suo dovere.

 

Le gallerie sventrate di Hamas. A Gaza prime bandiere bianche

mercoledì 8 novembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 08 settembre 2023

Dalla nuvola di sabbia che avvolge Gaza in queste ore, si disegna un'immagine fatale: una processione di centinaia di persone che camminano con energia su una strada principale, forse la famosa Salahadin che taglia tutta la striscia da Nord a Sud. Fuggono verso il sud e portano bene in alto, che si vedano, delle bandiere bianche. Stavolta non sembra, come si è visto in altri filmati, che Hamas fermi la loro marcia sparando per non permettere che si sguarnisca nel nord assediato da Tzahal il suo scudo umano. Stavolta Hamas ha solo cercato invano di far sparire il film dai social, ma sono rimaste le immagini che significano resa. Il simbolo è pesante per Hamas, il Medio Oriente odia i perdenti, e anche l’Iran e gli Hezbollah lo vedono. Se l’episodio non significa ancora che la guerra sia prossima a concludersi, tuttavia c’è la sensazione che la strada sia segnata: l’esercito affronta con risultati impressionanti il difficilissimo terreno della città di gaza, una fortezza costruita negli anni, dallo sgombero del 2005, per gli scopi bellici del regime.

La sua maggiore caratteristica è l'incredibile rete di gallerie: gallerie piccole e grandi, orizzontali e verticali, non sono costruite sotto la città: è la città che è costruita sulle gallerie. Sono fatte per dirigere la guerra, entrare in Israele da sotto terra, ammassare missili, armi automatiche, congegni di alta tecnologia e droni, per accumulare cibo, acqua, benzina. Nei tunnel c’è tutto quello che serve ai terroristi, e per proteggere nel luogo più profondo e organizzato il comando di Yehia Sinwar e di Mohammed Deif. La struttura che Hamas ha costruito misura, dicono loro stessi, 500 chilometri e da un paio di giorni Israele ha cominciato a distruggerla, a esploderne gli ingressi, a farne crollare le strutture con grandi caterpillar spesso dopo che una bomba di profondità ha aperto la strada. 

Nel regno delle tenebre però prima di tutto si cercano gli ostaggi. Gallerie armate sono state trovate sotto le moschee, accanto a scuole, presso una piscina per bambini. Dalle gallerie assediate spesso gruppi di assalto saltano fuori all’improvviso, i giovani israeliani affrontano pericoli terribili con una continua dimostrazione di valore e di unità, nonostante le perdite. Il sancta sanctorum delle gallerie è sotto gli ospedali, tutta Gaza lo sa, il bunker di Sinwar è probabilmente sotto l’ospedale Shifa dentro Gaza per approfittare dello scudo umano. L’avanzata è lenta, da ogni buco in terra possono saltare fuori armati di Hamas, ogni centimetro della città di Gaza è minata, ovunque. Israele ha fatto 6 milioni di telefonate e ha lanciato un milione e mezzo di volantini per indurre lo spostamento al sud. Difficile la guerra quando il nemico vuole anche il sangue dei suoi, ma Netanyahu ha ripetuto a tarda sera: solo in cambio dei nostri rapiti ci sarà la tregua umanitaria.

 

 

Un mese di guerra. L'inferno del 7 ottobre un punto senza ritorno

martedì 7 novembre 2023 Il Giornale 1 commento

Il Giornale, 07 novembre 2023

Da quando, un mese fa, alle 6,20 di mattina, tutte le sirene d’Israele non sono bastate ad avvertire della calata dei barbari di Hamas sui kibbutz del confine sud di Israele, la nebbia avvolge il futuro, anche quello del mondo intero, e solo una certezza è rimasta. Siamo disorientati, stupiti. Ignoriamo ormai tante cose essenziali. Non sappiamo se c’è un limite alla crudeltà umana, dopo aver assistito in diretta, tramite le macchine da presa dei terroristi stessi, alle atrocità compiute sui corpi dei bambini di fronte alle madri, delle madri di fronte ai bambini. Non sappiamo se è davvero finito l’incubo dell’esercito di assassini che al grido “yehud yehud” e “Allahu akbar” ha ucciso 2700 innocenti, giovani che ballano, vecchi stupefatti, famiglie intere… uno ad uno.

Vediamo che questo urlo, con violenza e omicidi, invade adesso anche le città occidentali, e non sappiamo se ci sarà la forza e la volontà di contrastarlo, o se invece gli ebrei dovranno sgomberare, come dalle città di confine col Libano degli Hezbollah o con Gaza di Hamas. Non sappiamo più se Israele, che credevamo capace di difendersi con eccellenti mezzi tecnologi e militari, sia forte come si pensava; se la sofferenza estrema delle famiglie dei 240 ostaggi fra cui 30 bambini risveglierà le coscienze dell’occidente in una richiesta collettiva che per ora non si è sentita. E’ penoso anche combattere una guerra di sopravvivenza in un mondo che immagina che “pace” e “aiuti umanitari” siano parole universali, anche per Hamas che usa la sua gente come scudi umani e dichiara che vuole anche il suo sangue.

Ancora: non sappiamo dove arriverà la furia di strada antisemita-antisionista, un misto di demenziale, ignorante cultura woke mista a odio islamista. Però una cosa si sa: come dopo la Shoah, quando pareva impossibile che gli Ebrei trovassero la forza di costruire lo Stato d’Israele, gli ebrei sono entusiasti della vita, combattono per vincere, i giovani al fronte sanno che combattono la battaglia storica della sopravvivenza del popolo ebraico anche mentre piangono, e piangono! I caduti. Intorno, come al tempo della seconda guerra mondiale, si fronteggiano due continenti ideali, quello iraniano-russo coi loro “proxy” in un disegno oppressivo e feroce, determinato alla dominazione; dall’altra parte quello americano-israeliano-europeo. È quello della libertà, del giorno dopo il sabato nero, quando tornerà la luce. 

 

La leadership di Abbas è debole e corrotta. Ma è una via possibile per una svolta pacifica

lunedì 6 novembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 06 novembre 2023

Neppure Avi Issacharoff, giornalista e esperto di cultura araba, l’autore della serie più famosa su Gaza e Hamas si sarebbe mai immaginato quello che è successo. “Mai che avrebbero compiuto un’irruzione e una strage di quella crudeltà e di quelle dimensioni”. È una giornata cruciale per la guerra: l’esercito si addentra nella periferia della città principale di Gaza, dove ha sede la maggiore struttura bellica, ed essa affonda nella rete di 500 chilometri di gallerie. Avi ricorda con un mezzo sorriso che della enorme rete delle gallerie e dei bunker sotto l’Ospedale di Shifa, il maggiore, parlava già nella terza serie TV: “Non rivelavo niente che non fosse già noto. Non c’è bambino a Gaza che non sappia che sotto Shifa ci sono le strutture dello Stato Maggiore di Hamas, là sta Sinwar e il resto dei capi che hanno progettato la strage del 7 ottobre. Come si farà a destrutturarli, non so davvero dirlo”. Ma è chiaro che l’esercito si prepara ad affrontare la questione sul già difficilissimo territorio pieno di trappole esplosive e agguati.

I volantini dell’esercito israeliano chiedono di sgomberare e andare a sud, fuori, cercando di risparmiare i civili. Ma Hamas gioca sulla seria questione umanitaria posta dagli Ospedali. Dice Issacharoff che “non c’è dubbio che stavolta l’esercito vuole andare avanti, vediamo una grossa macchina da guerra, abbiamo cercato sempre di evitare lo scontro di terra: ma stavolta è diverso, la necessità di distruggere Hamas è primaria, e quindi entriamo in un territorio costruito come una macchina da guerra. E per Hamas, i cittadini non sono che uno degli strumenti”. Il dilemma di Israele è proprio questo e Avi Issacharoff è anche più diretto: Gaza è costruita sui tunnel, e non i tunnel sotto la città. La bomba da 900 chili di cui tutto il mondo ha parlato non era destinata a Jabalia, ma alla grande galleria sotto. Bisogna capire” spiega Avi, che ha dedicato la vita a descrivere il fenomeno “che Hamas uccide la sua gente intenzionalmente. Quando questo accade Israele entra in una zona di grande difficoltà, di freni internazionali.

E trattenendo i civili sulla sua testa, forma il grande scudo umano di cui ha bisogno”. Muhammed Deif e Sinwar hanno costruito un sistema in cui non uccidono solo gli ebrei, ma anche i loro concittadini: chi si ribella, e in questo caso chi si rifiuta di restare al nord, secondo foto di strade cosparse di corpi diffuse ieri, viene punito con la morte; chi protesta se Hamas ruba dagli ospedali la benzina, il bene più prezioso per i generatori, essenziali per le armi e le gallerie, è finito. Si sentono talvolta da telefonate e brevi registrazioni segnali di protesta: “In realtà” spiega Avi “il sostegno è un po' diminuito, ma è aumentato nell’Autorità nazionale Palestinese. Abu Mazen ha 89 anni, la leadership è debole e corrotta…”. E allora forse è inutile sperare che quando Hamas perderà, Fatah prenda il potere per un soluzione pacifica. Issacharoff ci spera: “E la meno peggio di tutte le soluzioni. Nel 2007 dopo la sconfitta subita da Hamas, per Fatah il ritorno è stato memorabile per la vitalità, la sicurezza, il buon rapporto con Israele”. Le domande sono profonde, e nessuna è dolorosa e difficile come quella sui 242 ostaggi di cui 33 bambini. Netanyahu ha detto ieri che non si parla di nessuna tregua umanitaria se non a fronte della restituzione degli ostaggi, e qui Issacharov alza le mani: “Non so che dire, è terribile, i mediatori sono a lavoro, e nessuno ottiene risultati… la sensazione è che Hamas non sia per ora interessata. Quanto alla tregua, Israele combatte una battaglia da cui per qualsiasi leader è difficile tirarsi indietro, tutto il Paese si sente impegnato, i ragazzi sono sul campo per vincere e contiamo ancora i nostri caduti. È stata la strage più grande in un giorno subita dall’Olocausto, non dimentichiamolo”. E come andrà a finire? L’autore di Fauda è fedele al copione sempre problematico dei suoi script: anche stavolta, difficilmente avremo la testa di Sinwar. La strada è lunga e accidentata. 

 

Il massacro del 7 ottobre come la Shoah. Quando il negazionismo stravolge la Storia

domenica 5 novembre 2023 Il Giornale 2 commenti

Il Giornale, 05 novembre 2023

Non ci sono eventi storici più comprovati della Shoah e della mostruosa strage del 7 di ottobre. Ambedue pur con dimensioni diverse, certamente sono stati programmati con passione distruttiva verso gli ebrei: uno ad uno, bambini, genitori, nonni, sono stati cercati, scovati, uccisi con una preparazione specifica documentata, anche se in luoghi e tempi diversi. Sempre di antisemitismo genocida si tratta, e di sete di sangue. Tutte e due le cacce all’ebreo sono state compiute secondo una decisione ideologica specifica: se per il nazismo gli ebrei erano topi e scarafaggi, per Hamas sono figli di maiali e scimmie. Però i nazisti, a differenza degli uomini di Hamas hanno nascosto i loro crimini finché con una valanga di documenti e di testimonianze delle vittime e dei nazisti stessi, sono venuti alla luce. E allora, è cominciato il negazionismo: non è vero, hanno detto e scritto i vari Faurisson, Garaudy, Dieudonnè, Irving, David Duke, supportati da disegni politici antisemiti, soprattutto quello Iraniano. Anche Abu Maze ha scritto la sua dissertazione negazionista all’università di Mosca sostenendo che anzi, gli ebrei erano d’accordo con i nazisti.

Per i negatori della Shoah l’invenzione è servita agli americani per giustificare la loro prepotenza imperialista, e agli ebrei per vendere il loro sionismo. Il substrato, la criminalizzazione degli ebrei stessi e la assoluzione dei nazisti. Sta accadendo di nuovo, stavolta col negazionismo del Sabato Nero. “La strage inaudita è tutta una balla per giustificare l’aggressione ai poveri palestinesi, e, anzi, qui si certifica l’indegnità congenita degli ebrei”, è il tema. Più complicato tuttavia sostenerlo, perché qui non ci sono volute ricerche per trovare le prove della barbarie: è tutto filmato e registrato. Lo scopo antisemita è scritto nelle urla “Yehud Yehud” mentre i terroristi scannano, e nella telefonata entusiasta “mamma, ho ucciso dieci ebrei, ho il loro sangue sulle mie mani”.

Le sevizie dei neonati e delle donne incinte, gli stupri e le mutilazioni, tutto è stato filmato con orgoglio dagli assassini stessi. Chi scrive, ha visto i 53 minuti di footage delle loro stesse macchine da presa, e mai film dell’orrore fu più insopportabile. Quando dalle loro stesse telecamere sei dentro la marcia dell’orrore verso una casa del kibbutz, quando apri la porta non arrivano i nostri, ma coi mostri entra la strage, il bagno di sangue di una famiglia, un rogo, una mutilazione impensabile. Il negazionismo però insiste: magari è una fake news degli israeliani per giustificare l’attacco ai palestinesi? Solo chi non sa niente della storia della democrazia israeliana, dei suoi mille tentativi di pace, solo l’ignoranza sullo scrutinio ossessivo dell’opinione pubblica può concepire una simile idea. Ma Nasrallah, che vuole alla fine avere il diritto morale di uccidere gli ebrei, nega tutto: gli israeliani stessi, dice, hanno compiuto la strage di donne e bambini. Poi c’è chi suggerisce con tono saccente di verificare, meglio temere le fake news: lo fanno i politicanti invogliati dal consenso dei cortei che urlano “Morte agli ebrei”. Il fratello di Corbyn si sbraccia: i feriti e i morti sono tutti attori! o lo suggerisce educata Carmen La Sorella, o i docenti di qualche università liberal americana; intanto si mette in prima linea per stabilire la verità delle immagini il solito nemico di Israele “Human Rights Watch”, che certo sa bene bene che il footage non mente. Ma il coro dei social media canta coi negazionisti, ed è un facile ritornello internazionale. Solo la vittoria di Israele su Hamas impedirà che la memoria venga seppellita.  

 

Le portaerei americane bloccano gli ayatollah. E Israele non si ferma

sabato 4 novembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 04 novembre 2023

Tanto rumore per quasi nulla, almeno per ora. Il grande discorso di Hassan Nasrallah, il capo degli Hezbollah, è stato certamente una grande delusione per Hamas e per quanti si aspettavano, mentre le piazze di Beirut guardavano Nasrallah sul grande schermo, che le facesse sventolare in un tripudio bellico contro gli ebrei, annunciando la sua entrata in una guerra totale a fianco di Hamas. Non è andata così: in una giornata in cui in Israele si sono ascoltati in un puzzle di segnali essenziali le voci di Nasrallah (che parlava con una grancassa mediatica da cantante rock), del Segretario di Stato Anthony Blinken e di Netanyahu, abbiamo visto il capo del migliore proxy sciita dell’Iran comunicare soprattutto il suo nervosismo, in una pioggia di giustificazioni e di bugie.

Ha chiamato la barbarica impresa di Hamas “azione eroica” e poi ha spiegato però che nell’operazione del 7 ottobre si doveva leggere una scelta rigorosamente autonoma, che non vi erano coinvolti né l’Iran né la sua organizzazione. Hamas è forte, fa da solo: una giustificazione della propria assenza. In secondo luogo con tono profetico Nasrallah ha detto “a chi gli chiede quando entra in guerra” che non solo lo è stato subito, già dal 7 di ottobre, ma che la sua è una guerra vittoriosa: merito suo se i cittadini del nord si sono spostati, merito suo se l’esercito israeliano è là con un terzo delle sue forze, che così non possono essere utilizzate contro Hamas. In realtà le sue armi hanno sparato sporadicamente e in modo che gli è costato la perdita di 60 delle sue forze Radwan, mentre i missili importanti restavano inutilizzati salvo un paio di volte. E sì che Nasrallah ne ha fino a 200mila, forniti dall’Iran.

Due menzogne clamorose hanno infiorettato il discorso, quella per cui Hamas starebbe vincendo, mentre l’esercito israeliano in realtà avanza con dolorose ma non numerose perdite, mentre gli uomini di Hamas vengono decimati mentre i grossi leader restano nascosti. L’altra bugia è una rivoltante affermazione negazionista, per cui sarebbe stato l’esercito israeliano stesso a uccidere le donne e i bambini dei kibbutz, e Hamas sarebbe mondo dei crimini di guerra. La sentiremo ripetere dalle folle che ormai gridano “morte agli ebrei” nelle piazze di tutto il mondo, chiaramente Nasrallah l’ha detta per eccitarle. Insomma, per ora sulla scena non compare un grande fronte nord. E l’Iran aspetta. In Medio Oriente come in Medio Oriente, fa paura sia la determinazione di Israele, che le portaerei americane che hanno già fermato i missili balistici dei Houti. Blinken, per la quarta volta a Gerusalemme, ha ribadito i punti fondamentali dell’alleanza “indistruttibile”, il sostegno diplomatico, di armi e di denaro a Israele: ma il suo discorso ha avuto toni che segnano il passare del tempo. Adesso gli USA chiedono a Israele di impegnarsi di più sul terreno umanitario, e legano la questione a quella della liberazione degli ostaggi. Blinken ha nominato non a caso oltre al cibo, le medicine, l’acqua e anche la benzina, che è un punto chiave perché serve a un uso bellico molto diretto e Israele rifiuta di fornirla. Blinken ha parlato anche di “pausa umanitaria” che, anche se non è “tregua” può aiutare Hamas a riassestare le sue fila. Quel che ha fatto più effetto Blinken ha accostato la sorte dei bambini israeliani a quelle dei bambini palestinesi, stabilendo un’equivalenza che dimentica che i bambini palestinesi soffrono nelle mani di chi ne ha fatto scudi umani e certo non vi è nessuna intenzione di far loro del male. Le soluzioni sono difficili, e la richiesta deve tenerne conto. Anche Netanyahu ha preso ieri la parola per confortare e rafforzare i soldati, per ricordare i caduti, per lodarne l’eroismo. È stato un tipico antico discorso di guerra, come Ettore ai Troiani o Achille agli Achei: andare fino in fondo senza esitazioni nonostante il dolore e la difficoltà. Di “pausa” e tantomeno di “tregua” non si parla. Su questo gli americani devono aspettare. Al momento, tutta Israele sa che nessuno potrà tornare a abitare nel sud se i vicini promettono la prossima strage. E al nord la situazione è simile. Nessuno dorme a casa. Il fronte resta ancora aperto dopo il discorso del loro capo.

 

Hezbollah infiamma il fronte. Attese le parole di Nasrallah: il Medio Oriente può esplodere

venerdì 3 novembre 2023 Il Giornale 0 commenti

Il Giornale, 03 novembre 2023

Oggi giornata di possibile allargamento della guerra che Israele deve combattere contro chi ha giurato di distruggerla. Il grande fuoco, ieri, nella sera buia di Kiriat Shmone, sul confine del Libano, causato da un missile di Nasrallah, è la degna quinta del teatro preparato dagli Hezbollah. IL capo degli Hezbollah, che dall’inizio della guerra Hamas aspetta all’angolo del comune giuramento di distruggere Israele, oggi parla. Avvolto nel mistero del suo turbante che ne fa l’Ayatollah incaricato dalla gerarchia sciita iraniana che lo mantiene, lo arma, lo rende tanto importante, dirà se intende aprire il suo fronte contro Israele. Fa paura? Ci prova con decisione, ieri gli obiettivi dei suoi missili sono stati una ventina su posizioni di Israele lungo il confine; l’IDF ha risposto fino a tarda notte. I suoi più di 50 “martiri” fatti in questi giorni dall’esercito israeliano nel rispondere agli attacchi, Nasrallah in una lettera scritta a mano li ha già denominati “martiri sulla via di Gerusalemme”. Hamas, mentre l’esercito d’Israele avanza ed è ormai coi soldati dentro la città maggiore, guarda a Nord. Gli hezbollah fino non hanno usato i migliori i circa 200mila, che negli anni tramite la strada siriana l’Iran gli ha fornito. Si sono tenuti bassi utilizzando soprattutto missili Kornet contro i soldati allineati lungo il confine. Poi, da domenica, è cominciato lo sfoggio, un drone israeliano è stato abbattuto con un missile terra aria, gli attacchi si sono moltiplicati, e questi e altri tipi di armi hanno distrutto mura; i cittadini sono stati evacuati dalle città del nord ormai da giorni. L’esercito ha risposto purtroppo nello scambio a fuoco sono stati colpiti per caso anche due pastori libanesi, oltre a una cellula che stava lanciando un missile.

Che cosa dirà Nasrallah? Non solo il pubblico, ma anche i coprotagonisti sono molto numerosi e importanti. Il capo di Stato maggiore israeliano Herzi Halevi ha ripetuto il suo consiglio a tenersi fuori dallo scontro, pena gravi conseguenze. Netanyahu aveva già spiegato che una scelta sbagliata porterebbe all’intero Libano un disastro, l’uso simile a quello di Hamas di scudi umani già disegnò nel 2006 la sconfitta degli hezbollah in un territorio disastrato. Due notizie conducono il conflitto in uno scenario internazionale che può investire il mondo. La prima è quella di un accordo fra la Compagnia militare privata Wagner e Hezbollah: secondo il Wall Street Journal, il gruppo paramilitare starebbe fornendo un sistema di difesa aerea agli Hezbollah. La Wagner ha già i suoi uomini in Siria, già a fianco di un altro abominevole tiranno, Assad. La Russia naturalmente è dietro a tutto ciò. L’altra importante notizia rispetto alla possibilità della dimensione che potrebbe prendere la questione libanese l’ha data l’IDF: una milizia iraniana ha raggiunto il sud del Libano. È il gruppo “Imam Hussein”, anch’ essa fino ad ora impegnato in Siria. Russia e Iran così trovano qui un altro interesse comune oltre a quello per cui gli Ayatollah forniscono droni a Putin contro l’Ucraina. Nasrallah cerca insieme a Hamas la distruzione dello Stato d’’Israele, e cerca la primogenitura in questo compito.

Deve tuttavia valutare alcune possibilità: a lui, che vanta un rapporto politico con lo scenario pluralistico del Libano sostenendo di farne gli interessi, sarebbe difficile sostenere una situazione in cui con una sua guerra di nuovo rovina il Libano intero, come nel 2006.  In secondo luogo, la sua sete di sangue, certo pari a quella di Hamas, non ha, dopo il prudente sgombero dei civili israeliani di tutto il nord, dove avventarsi per una strategia di terrore civile. Comunque l’ordine finale e dell’Iran. E ciò a cui anche l’Iran sta certo pensando bene, è il “don’t” di Biden che oggi si concretizza plasticamente con l’arrivo in Israele del Segretario di Stato Antony Blinken, giusto in tempo per ascoltare il suo discorso. Sullo sfondo le due portaerei e le armi americane dedicate alla difesa d’Israele. E anche la battaglia leonina che i soldati metro per metro stanno dando dentro Gaza: siamo in Medioriente. La regola è: chi è forte, secondo la cultura islamista, deve essere rispettato, il debole mangiato.

 

 

      

 

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