C'è il piano per Gaza. Ma la destra attacca il capo dell'esercito. E Bibi è sotto assedio
Il Giornale, 06 gennaio 2023
Non è una crisi di nervi né uno scontro solo politico quello che alle una di notte ha scosso la riunione del Gabinetto di Guerra fino a che Netanyahu ha dovuto sospenderlo. È la crisi esistenziale che Israele deve attraversare dopo il disastro del 7 di ottobre. Una conseguenza dello scontro è stata la reazione di Benny Gantz, antagonista storico di Netanyahu ma oggi insieme nel governo di emergenza, che lo ha pubblicamente invitato a prendere posizione chiara scegliendo l’unità, evidentemente con lui, oppure la politica. L’origine dello scontro è stato l’annuncio, durante la riunione di ieri, del Capo di Stato Maggiore Herzi Halevi di una commissione di indagine sull’esercito che partisse dal fallimento di ottobre.
Non è chiaro se Halevi vuole risposte sull’ottobre, quindi anche sul suo operato, o sui problemi di un esercito che oggi affronta la guerra più difficile, sopra e sottoterra, negli ospedali, nelle case, nelle moschee. Gli si chiede di combattere più deciso, più forte, con più interventi dall’aria, per affrontare la sofferenza del paese di fronte ai soldati uccisi; o al contrario si vuole cautela perché sottoterra o negli edifici possono trovarsi gli ostaggi. La disputa si è accesa su due punti: il primo sull’opportunità di porre ora all’esercito questioni mentre sta combattendo, senza aspettare la fine della guerra. E il secondo riguarda le scelte dei nomi: soprattutto Shaul Mofaz, ex Capo di Stato maggiore, e il generale Aharon Zeevi Farkash, ex capo dell’intelligence dell’esercito. Quattro ministri nell’imbarazzo della commissione presieduta da Netanyahu, che infatti ha chiuso l’incontro dopo improprie grida udite anche fuori della stanza, si sono scagliati contro il Capo di Stato Maggiore: sono i ministri della destra Ben Gvir e Betzalel Smotrich, e due membri del Likud, Miri Regev e David Amsalem.
I quattro hanno ricordato che Mofaz tenne per lo sgombero di Gaza nel 2005, che Farkash ha sostenuto l’obiezione militare nello scontro sulla riforma giudiziaria… punti poco legati al tema. Punti sostenibili, ma certo improprio l’attacco al pilastro dell’attuale difesa israeliana sul campo, e quindi al punto di riferimento dei soldati in battaglia. Gallant ha cercato di bloccare con Gantz i quattro, Bibi ha chiuso la riunione senza parlare e d è criticato per questo Adesso si tratta di affrontare come in programma, dato che Blinken è in arrivo, la questione del “day after”, oggetto della riunione fallita. IL ministro degli affari strategici Ron Dermer e Gallant ministro della Difesa, hanno il compito difficile di illustrare i punti in comune e le differenze con gli USA. Si sa del piano di Yoav Gallant che Israele manterrà libertà di azione militare ma che non ci sarà presenza civile israeliana a Gaza dopo che gli obiettivi della guerra siano stati raggiunti. Una forza multinazionale di stati europei e arabi sosterrà la responsabilità della ricostruzione e della gestione insieme ai palestinesi, Stati Uniti e con Israele e Egitto contribuiranno a isolare il confine fra Gaza e L’Egitto. L’entità palestinese riformata e affiancata dalla forza multinazionale governerà coi meccanismi amministrativi esistenti dentro Gaza, basata su comitati locali. La forza multinazionale sorveglierà e aiuterà. Parole dietro le quali si celano mille domande. Che il piano sia o meno realizzabile, è il terreno di incontro che si può concordare con Biden, un rilancio da Premio Nobel, fantasioso, volenteroso, di “due stati per due popoli”. Ma che i palestinesi di Abu Mazen (all’ospedale in queste ore), che fino ad ora tengono per Hamas, diventino un partner, è possibile se abbandoneranno il loro sogno: vedere crescere la mezzaluna iraniana che, come dimostra anche il discorso di Nasrallah, pensa di strangolare Israele circondandola di nemici. Per questo che quando Ben Gvir dice che vuole rioccupare Gaza, prospettiva davvero poco attraente che non a caso fu rigettata d Sharon con lo sgombero nel 2005, ha un peso nell’opinione pubblica. Prima dell’aggressione del 7 aprile, Israele non conosceva una lezione che purtroppo ha poi dovuto imparare: quella dell’odio che non conosce confini. Su come gestire questa nuova consapevolezza in un Paese democratico, è aperta una difficile discussione.
"ll Libano è pronto". Nasrallah minaccia (ma non morde)
Il Giornale, 04 gennaio 2024
Nasrallah durante il suo atteso discorso di ieri ha detto tutto quello che ci si poteva aspettare: ha maledetto il nemico sionista, ha promesso una terribile vendetta che verrà quando opportuno per l’eliminazione del vicecapo di Hamas Saleh al-Arouri martedì alle 6 in Libano, a Beirut, nel suo quartiere Dahiah. Ma non è andato oltre, perché, ha spiegato “ci barcameneremo fra l’odio per Israele e la necessità di salvaguardare il Libano. Ha esaltato, congratulandosi, la grande impresa di Hamas, definendo le rovine di Gaza una immagine di vittoria per i palestinesi, ha detto che “gli ebrei ormai non sono più sicuri in Israele” ed “è tempo di fare le valige”.
Ha anche porto le sue condoglianze al suo master e padre spirituale, l’Iran, che ha sofferto ieri l’attentato alla tomba di Soleimani: un modo di ribadire il legame con gli ayatollah; ma ha anche, come si deve, ribadito l’indipendenza dei membri dell’asse iraniano. Per quanto abbia parlato due ore l’eventuale grande esplosione sulla morte di al-Arouri non c’è stata. Nasrallah non ha sfidato la minaccia di Israele dopo aver osservato la guerra a Gaza. E dopo tutto al-Arouri è stato ucciso con cinque dei suoi, tutti di Hamas, in un ufficio dell’organizzazione, da due missili ben mirati che hanno evitato di colpire uomini o cose degli Hezbollah. Nasrallah considerava il suo ospite un alleato che aveva anche costruito sul confine una sua forza armata e agiva per Hamas ma secondo le comuni indicazioni ricevute dall’Iran: tuttavia subito il portavoce dell’esercito israeliano, dopo l’eliminazione ha ripetuto, sempre evitando di prendere responsabilità, che Israele è solo concentrata sulla guerra contro Hamas.
Cioè: non contro Nasrallah. Altro segnale: il capo degli Hezbollah era uscito per la prima volta da mesi dal suo bunker dove è significativamente tornato tranquillo. Quindi, niente guerra totale. Tuttavia, i missili Nun Tet hanno riempito ieri di botti e di fuoco il confine di Israele col Libano. La guerra di attrito potrebbe diventare più minacciosa ancora di quella in corso con Gaza se si riscalda. Gli hezbollah hanno stipato negli anni la capacità di colpire Israele quasi ovunque coi 250mila missili di cui li ha forniti l’Iran.
L’eliminazione proprio a Dahiah appare comunque molto audace: ancora in agosto, mentre già al-Arouri si appoggiava al Libano per costruire una nuova forza armata di Hamas, Nasrallah aveva minacciato di tremenda vendetta chiunque toccasse gli ospiti sul suo territorio. Ma Israele non poteva fare a meno di abbracciare l’occasione di eliminare l’uomo che fa concorrenza a Sinwar l’articolato tessitore di rapporti internazionali, l’Iran, la Siria, il Libano, e soprattutto era l’uomo che nell’Autorità Palestinese aveva costruito una grande rete di terrore che colpisce da anni Israele, sostituendo con Hamas il Fatah di Abu Mazen che certo non piange la sua dipartita. La sua impresa di catturare tre adolescenti che andavano a scuola nell’West bank e ucciderli tutti, provocò la guerra con Gaza del 2014.
Alcuni dicono che la sua uccisione può frenare la trattativa sugli ostaggi, di cui il Cairo ha annunciato ieri lo stop: ma altri mediorientalisti pensano che fosse lui il più duro nel chiedere uno stop della guerra contro gli ostaggi, e inoltre adesso Sinwar, allarmato dalla sua eliminazione, potrebbe piegarsi a uno scambio più morbido. Al-Arouri aveva la sua sede più consueta a Istanbul. Là si incontro con Ismail Haniyeh subito dopo l’attacco del 7 ottobre, e solo due settimane fa vi ha tenuto un’altra riunione di vertice. Probabilmente il suo disegno era organizzare dall’Autonomia Palestinese un massacro nelle città ebraiche nello stile del 7 di ottobre. Adesso, in Turchia si sta dirigendo il primo ministro iraniano Raisi per incontrare Erdogan. Sarà un summit su Gaza. Dopo che il premier turco ha dato di “Hitler” a Netanyahu, i due avranno molti argomenti di conversazione.
Il paradosso di Israele, all'Aja per genocidio
Il Giornale, 03 gennaio 2023
Quando potrà Israele dichiarare vittoria nella guerra contro Hamas? La risposta si trova oltre il territorio di Gaza, al di là della politica che ha portato al 7 di ottobre. Niente potrà mai essere uguale, Io Stato Ebraico dopo aver visto l’odio divenuto strage di massa, reagisce alle accuse che l’hanno accompagnata mentre il terrorismo colpiva negli anni, e va alla Corte di Giustizia dell’Aja (ICC) i per difendersi e per accusare. L’hanno preceduta 9 fra le famiglie delle vittime del massacro. Gli avvocati preparano già le carte, si spiegherà al di là degli schermi televisivi e della propaganda su tic toc il perché dei morti e dei feriti, delle distruzioni e dei profughi. Si ripercorrerà anche il massacro, perché l’ICC indagherà anche questo.
Israele nello specifico reagisce alle accuse di genocidio mosse dal Sudafrica, ma vuole parlare al mondo, e specie a quello delle istituzioni internazionali. Il Sudafrica ha chiesto un ordine immediato di sospensione delle azioni militari di Israele accusandolo di crimini di guerra, anzi, di genocidio. Già il 19 novembre il presidente Cyril Ramaphosa aveva lanciato l’attacco: “Gaza è un campo di concentramento dove si svolge un genocidio”. La tipica accusa del nuovo antisemitismo, un “blood libel”: la nazificazione di Israele. Il 16 novembre Pretoria aveva richiamato i suoi diplomatici e passato una risoluzione per chiudere l’ambasciata d’Israele. La parola apartheid è una specie di ritornello in tutte le condanne, immemori del fatto che Mandela era buon amico di Israele.
Netanyahu ha risposto: “No, noi non perpetriamo genocidio, è Hamas che ha aggredito per questo scopo. Ci ucciderebbe tutti se potesse. Al contrario l’esercito agisce al massimo della moralità, cerca di evitare di colpire i civili mentre Hamas fa di tutto per riuscirsi, e li usa come scudi umani. E poi, dov’eravate quando milioni sono stati assassinati e sradicati in Siria, Yemen, in altre aree? Ciò che dite è solo bugia e vanità. Noi continueremo la nostra guerra difensiva con giustizia e moralità senza pari”. Dunque, Tzachi Hanegbi capo del Consiglio di Sicurezza nazionale ha annunciato che Israele non boicotterà l’indagine e il giudizio dell’ICC. Ha spiegato che Israele è firmatario della convenzione sul genocidio e che l’accusa equivale a diffamazione. “Il nostro popolo ha sperimentato il genocidio più di qualsiasi nazione con la Shoah. Una crudeltà analoga, che si sarebbe sviluppata su tutto il popolo se avesse potuto, è stata inflitta ai nostri cittadini col massacro del 7 di ottobre. Ma adesso c’è Israele a difendere gli Ebrei, e lo farà”.
L’ICC è’ un’istituzione che Israele ha sempre guardato con distacco e disgusto, è parte del sistema onusiano del doppio standard dei diritti umani: suo mestiere, una massa di risoluzioni, imprese legali, indagini su Israele. Esso, dunque, ha rifiutato ogni coinvolgimento anche perché il non esistente Stato palestinese è diventato nel 2015 il 123esimo membro dell’ICC. È ironico e triste che la Corte sia nata nella mente dei padri fondatori proprio in seguito alla Shoah. Israele è già stato messo sotto accusa almeno tre volte dalla sua famosa ex pubblico ministero Fatou Ben Souda, una nemica giurata. Un paese amico al tempo di Mandela, poi trasformatosi nel promotore sotto la nuova leadership dell’accusa di apartheid. A Durban nel 2001 la conferenza dell’ONU contro il razzismo si trasformò in una conferenza razzista contro Israele.
L’indagine studierà se nella diabolica guerra con Hamas che ha trasformato sopra e sottoterra in caserme gli ospedali, le scuole, le moschee, le case, che ha visto l’uso totale della gente come scudi umani, Israele si è attenuto al concetto basilare della proporzionalità. Essa non ha a che fare con i numeri, ma con la ragionevolezza dello scopo e con la pericolosità del nemico. Israele può vantare i continui avvisi ai civili ad allontanarsi dal pericolo imminente, il rispetto delle regole di tregua e di aiuto umanitario. Hamas ha poco di cui vantarsi. Le testimonianze raccontano le torture dei rapiti e l’uso schiavistico dei suoi cittadini.
Israele, l'anno più duro e le incognite. E i giudici riaccendono lo scontro: stop alla riforma della giustizia di Bibi
Il Giornale, 02 gennaio 2024
Finalmente è finito: il 2023 per Israele è stato un anno che ha cambiato il corso della storia, niente di ciò che era sarà. Si può paragonarlo al 1948, al 1967, al 1973, in cui guerre fondamentali decisero della vita di Israele e ne cambiarono il carattere. Crearono inventività, resistenza e anche presunzione. Ma nulla ha travolto l’epos, il carattere del Paese come il 7 di ottobre. Tutto è ancora da scrivere: come e quando finirà, torneranno gli ostaggi, quanti morti avremo? Hamas verrà distrutta? Nessun anno ha mai avuto le conseguenze di devastazione e anche di valore che ancora si scoprono.
L’israeliano medio, di ogni idea e classe sociale, di ogni età, è protagonista di un film di cui non conosciamo la fine. L’Annus orribilis si è concluso, ma siamo nel mezzo a una tempesta che scuote la nave; la sicurezza costruita dopo la maggiore delle persecuzioni, la Shoah, è in dubbio. Anche l’antisemitismo occidentale insieme ai nemici mediorientali e una terribile sorpresa. Israele prima del 2023 non immaginava che Hamas sarebbe andata oltre gli attacchi terroristici, che sarebbe stata contenuta; non sapeva affatto che avrebbe in massa macellato famiglie, bambini, ragazze, fino a 1400 vittime. La tecnologia, la medicina, la forza dei Patti di Abramo avrebbero funzionato da deterrente. Israele si era illuso di annebbiare i palestinesi, l’Iran, i suoi proxy.
Tutti hanno sbagliato: Netanyahu che pensava di combattere a basso volume ignorando che l’ideologia è più inebriante della politica, Yeir Lapid che ha stretto un patto con gli Hezbollah sul gas nel Mediterraneo. Il governo ha valutato il prossimo patto coi sauditi più che l’aggressività dell’Iran coi suoi servi Gaza, Libano, Iraq, Siria, Yemen. Israele nel 2023 fino a novembre era tutto nel suo scontro super democratico, fifty-fifty: da una parte la riforma della giustizia sostenuta duramente dal governo di Netanyahu e dall’altra manifestazioni estreme, blocco di autostrade, ospedali, aeroporto. Tutti ciechi, ignari dei rischi. Adesso, potrebbe riaprire ferite gravi il voto di ieri, 8 a 7, dei giudici della Corte Suprema per cancellare la parte della riforma già votata, quella sulla “ragionevolezza”.
Ovvero, i giudici tornano a decidere con parere insindacabile “la ragionevolezza” di una legge, senza un parametro come la costituzione. Questo ripristino può creare scontro politico rinnovato. Vedremo: è un fuoco in un cespuglio, ma c’è la guerra. Il 7 di ottobre ha cambiato tutto: il Paese non è ancora pronto a spaccarsi di nuovo, come i media o i politici. I soldati combattono insieme. A suo tempo quando piloti e riserve contro la legge minacciarono di non presentarsi a combattere, Hamas guardava.
Ora tutte le riserve hanno un messaggio: combattere insieme. Il 7 di ottobre è stato uno tsunami: stupri, decapitazioni dei bambini… e le sfibranti trattative sui rapiti, la sofferenza delle famiglie. Le centinaia di migliaia di sfollati, l’incertezza del fronte nord con gli Hezbollah, e persino una guerra globale con l’Iran all’orizzonte. Le domande bruciano: perché gli avvertimenti non sono stati ascoltati dalla sicurezza, dai politici? Dov’era l’esercito? Perché gli elicotteri non hanno sparato? E come mai l’ONU non ha condannato? Perché Putin aizza il Consiglio di Sicurezza? Intanto si è consolidato il rapporto fra Israele e Biden, grande amico: pretende aiuto umanitario, ma insiste sul diritto all’autodifesa… Israele ha pazienza nonostante 170 soldati siano morti in battaglia, ogni mattina la radio annuncia caduti la cui perdita per questa piccola società è un disastro. Ragazzi e ragazze feriti in guerra, come i sopravvissuti dei kibbutz, vogliono combattere e vincere per tornare alla vita: destra e sinistra, religiosi e laici.
Sarà forte nel 2024 il tema delle responsabilità del Governo, e così deve essere, non per la Corte Suprema, ma con una commissione d’inchiesta e le elezioni. Persino le famiglie dei rapiti, che vogliono subito lo scambio, alla fine vogliono combattere. Il New York Times ci ha messo tre mesi ad accettare che gli stupri omicidi erano un’arma di massa. Forse però questo segnala una fase di verità sull’obiettivo della guerra: Hamas deve essere sconfitto, contro i terroristi e i movimenti integralisti islamici, ovunque. Il 2024 sarà ancora un anno di guerra per tutti.
Antisemitismo genocida, il ritorno del «mostro». Quegli slogan di odio nel cuore dell’Occidente
Il Giornale, 30 dicembre 2023
Gina Semetich era sopravvissuta al campo di concentramento di Terezin, là era stata trascinata dalla Cecoslovacchia invasa dai nazisti. Adesso, a 91 anni, in Israele, a Kissufim, quattro chilometri da Gaza, i nazisti l’hanno trovata di nuovo, trascinata, picchiata, buttata per terra, uccisa. Perché era ebrea. I sopravvissuti che nel mondo hanno visto questa scena hanno capito che era tornata la Shoah. Diversa, come sempre è la storia, ma come nella loro vita precedente, i bambini sono stati ammazzati e fatti a pezzi (i nazisti li sbattevano nel muro, Hamas gli ha tagliato la testa), le donne in cinte sono state sventrate, i giovani e le giovani violentati e uccisi, all’improvviso, in un pogrom.
Nell’Essex la polacca Fran di 85 anni dice a un giornale che lei non si sente più sicura. Ha paura. Come lei tutti i sopravvissuti che hanno bisogno solo di abbracci. Tutti gli ebrei del mondo hanno dentro la memoria di una fuga, di una guerra, di un miracolo: c’è sempre in famiglia un avo, un nonno, una madre, vittime dell’antisemitismo. Ma dopo la Seconda guerra mondiale, il mondo gli aveva giurato “Never Again”: Exodus era arrivata in porto, il legittimo sogno di decolonizzazione del Medio Oriente in cui ci fosse posto anche per lo Stato Ebraico mai abbandonato, era stato la prima legittima affermazione di una promessa dopo Auschwitz. E adesso? Molte terribili storie, senza mai dimenticare quella Ucraina, marcano questo 2023, ma nessuna è minacciosa, dopo la strage di Be’eri o Kfar Aza, al grido di “Yehud yehud”, come l’inseguimento degli ebrei nelle vie di New York, di Londra, di Parigi, di Milano… Questo è stato l’anno del ritorno dell’antisemitismo genocida, il mostro che ha devastato la Terra solo 75 anni fa, e che lo farà di nuovo se non si compirà una rivoluzione per ora non all’orizzonte.
Un famoso sindaco italiano qualche giorno fa in tv diceva che era stato a una manifestazione che era certo, filopalestinese come lui, ma certo non antisemita, era solo antisionista. Niente più essere più ingenuo, o truffaldino. L’antisionismo odierno e antisemita, perché è genocida, vuole la distruzione di Israele, e degli ebrei di tutto il mondo. E lo dimostra in ciò che fa e dice. Nelle botte, negli assassini, nelle minacce, nella teorizzazione degli ebrei come male assoluta, quella dell’antisemitismo contemporaneo dopo quello religioso ed etnico.
Mentre l’antisemitismo subito dopo l’attacco di Hamas si moltiplicava del 400 per cento, su Facebook occupava i post col 193 per cento in più, in Francia gli ebrei venivano attaccati per strada 1040 volte. I suoi cori di strada nel mondo dicono: “Fuck the jews”, “A morte Israele”, “Hamas Hamas uccidi gli ebrei”, “Ci mangiamo gli ebrei”, “Aprite i confini uccidiamo gli ebrei”, “Fuori i sionisti da Roma”, “Rivedrete Hitler all’Inferno”, ”Loro hanno le armi noi abbiamo Allah”.
Il motto più significativo è quello “dal fiume al mare la Palestina sarà libera”: ma si è verificato che la folla non sa da che fiume a che mare, è un’indicazione di genocidio metafisico, ma il sangue degli ebrei non lo è, e si è visto. Chi marcia o fa comizi, non vuole uno Stato palestinese accanto a Israele, ma la distruzione di tutto ciò che sia ebraico, in Israele come a Roma, come a Parigi. Università prestigiose, teatri, organizzazioni culturali, musicali, artistiche, espellono, terrorizzano, vilificano gli israeliani e gli ebrei. Ci hanno costretto a sorridere quando le tre direttrici dell’Ivy League fra le urla dei campus a caccia di ebrei si sono esibite nel loro: “Il genocidio dipende dal contesto”. Ma non fa ridere che all’Onu, dopo aver conosciuto le atrocità mai viste nemmeno con l’Isis, Guterres se ne esca dicendo: “Non nasce nel vuoto”. Era già successo che Israele annegasse nel sangue, per esempio della Seconda Intifada senza un cenno di compassione.
Ma adesso siamo più avanti. Anche la Kristalnacht ebbe luogo nel novembre del 1938, e ancora non c’era la guerra, né le deportazioni. Ma “From the river to the sea” parla chiaro: “Globalize the Intifada”. Non è il sionismo che crea il nuovo l’antisemitismo e con esso l’odio per l’occidente; esso è solo il nuovo veicolo dell’antisemitismo che ha già distrutto l’Europa e si sta estendendo dai kibbutz sul confine di Gaza all’affermazione violenta del movimento woke, dell’assertività mussulmana, chiama guerra di liberazione il terrorismo, cerca alleanze (Iran, Russia…) che destrutturino il mondo contemporaneo da religione a religione, da razza a razza, da sesso a sesso. Investe la conversazione di sinistra, distrugge la religione dei diritti umani.
Il rifiuto di capire che uccidere 1500 ebrei facendo a pezzi i bambini e le donne urlando “Yehud yehud” è antisemitismo, è pari alla rinuncia del principio di decenza per cui il mondo occidentale cercava, dopo aver ucciso 6 milioni di ebrei, di riscattarsi con “Never Again”. Ma adesso, non ci possiamo più credere. Non sono le piazze di ragazzi ignoranti o di immigrati furiosi che hanno la responsabilità della svolta attuale, e che la rendono pericolosa. Sono le anime gentili degli intellettuali e delle istituzioni. L’antisemitismo ha avuto una radice di odio religioso, poi etnico, e coi passaggi teorici legati al nazismo e poi col comunismo leader del mondo arabo, e infine con l’integralismo islamico contro l’impresa nazionale ebraica, si è trasformato in odio teorico, che ha invaso i media e le istituzioni.
Tutti gli slogan di invenzione sovietica, poi trasferiti nella cultura woke, contro il colonialismo, l’imperialismo, il capitalismo, persino la supremazia bianca per cui gli ebrei sono diventati bianchissimi, persino l’odio lgtbq per il Paese in cui si rifugiano tutti i gay arabi… tutto si è rovesciato su Israele. Le maggiori istituzioni, specie l’ONU sono diventate la sentina dell’odio antiebraico mondiale: ogni mese il Consiglio di Sicurezza fa una finta “riunione sul medio Oriente” contro Israele, l’anno scorso l’assemblea generale ha passato 15 risoluzioni contro Israele, e 13 sul resto del mondo, Iran, Turchia, Siria,Russia… Bernard Lewis, ricorda come la strage di 800 palestinesi perpetrata da cristiani libanesi a Sabra e Chatila nello stesso tempo in cui 20mila persone furono uccise a Hama da Assad padre, fu l’unica strage di cui si parlò perché la presenza militare di Israele in zona consentiva di biasimare gli ebrei. Sharon fu assolto da un tribunale internazionale. Nella difficile guerra in corso, Israele, dopo il 7 ottobre deve liberare sé stessa e il mondo a liberarsi da Hamas, batterlo sopra e sottoterra mentre usa i civili come scudi umani rispettando i diritti umani. Israele difende la sua esistenza cosa che a differenza di qualsiasi altro stato, non gli viene riconosciuto.
“Never Again”, cioè, lo deve dire Israele stessa; nessuno glielo potrà impedire. Quello che il nuovo antisemitismo ignora è che è la prima volta in cui annichilire gli ebrei, con pogrom, stupro, sterminio, reclusione, non è più possibile. Per questo Israele deve purtroppo combattere: il mondo deve capire che non capiterà mai più che si lascino uccidere in silenzio. Pensarlo, immaginare che non debbano difendersi perché segnati da qualche colpa originaria, è antisemitismo: quindi, per esempio, è segno di doppio standard, ovvero di antisemitismo, chiedere un cessate il fuoco che riproponga la minaccia di Hamas. Non lo si chiederebbe a nessuno. Se si vuole essere degni di dire “Never Again” non ci sono scorciatoie.
Lo scoglio Anp fra Israele e Usa. Il futuro di Gaza.
Il Giornale, 29 dicembre 2023
Israele ha imparato in questi tre mesi che ogni considerazione sui Palestinesi può essere fatale. Ogni ipotesi ottimista può trasformarsi in una tragedia. Le tregue fra una guerra con AHamas e l’altra hanno lasciato che si costruisse il mostruoso progetto del 7 di ottobre: Israele immaginava ogni volta di avere inferto un colpo a Hamas, e invece essa con denaro, senso pratico, aiuto internazionale costruiva le gallerie della guerra più sanguinosa. È la prima volta, se sono vere le voci di ieri, che il Gabinetto di Guerra ha messo all’ordine del giorno il tema del domani di Gaza.
La discussione è probabilmente legata al ritorno del Ministro per gli Affari Strategici Ron Dermer da una maratona di incontri alla Casa Bianca e dal prossimo arrivo del Consigliere per la Sicurezza Nazionale americano Jake Sullivan: è il secondo tema nell’ordine di urgenze che gli USA propongono Il primo è l’aiuto umanitario e la tregua ambedue connessi alla fragile possibilità di un accordo sugli ostaggi. Israele chiede soprattutto tempo: vuole cancellare Hamas in una guerra di necessità. E in realtà mai, nonostante molti giornali pretendano che esista un disaccordo con gli USA, Biden ha chiesto un cessate il fuoco, come l’ONU. Tuttavia, sempre viene richiesto che Israele fornisca più aiuto umanitario, e Israele lo fa, mal ripagata dal fatto che i camion cadono nelle mani dei Hamas, o si perdono nella confusione di Gaza. Ma in secondo luogo, Biden insiste molto sul futuro: l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) per lui deve diventare un partner nella gestione della Striscia, eventualmente coadiuvata da altri Stati e istituzioni. Sullo sfondo ci sarebbe il traguardo “due Stati per due popoli”: anche Biden aspira al Premio Nobel. Ma l’orizzonte è tempestoso: l’ANP è ormai preda di Hamas, tiene per Sinwar, adora Mohammed Deif. Fatah agonizza. Il famoso segretario del Comitato Centrale Jibril Rajoub ha detto il 26 novembre come la pensa il popolo: “Ciò che è accaduto il 7 ottobre è un evento senza precedenti della guerra di difesa epica e piena di eroismo condotta per 75 anni”. E ha aggiunto: “Una simile esplosione, ma molto più violenta, verrà dall’West Bank”.
Abu Mazen non ha mai condannato. Un giornale di Betlemme l’8 ottobre ha pubblicato con didascalia la foto di un topo morto: “Israele è il ratto schiacciato dai palestinesi”. Il PCPSR (Palestinian Center for Policy and Survey Research) ha registrato che il 72 per cento dei Palestinesi giustifica Hamas, il 63 crede solo nella lotta armata, il 10 per cento pensa che Hamas abbia commesso crimini di guerra, e 60 per cento vuole che Hamas seguiti a governare Gaza. Solo il 7 per cento pensa che Mahmoud Abbas, che dal 2005 non fa elezioni perché Hamas le vincerebbe di sicuro, dovrebbe avere il potere. Dall’West Bank, da Ramallah, Shkem, Betlemme, Jenin, a Tulkarem, Kalkilia, Nablus, Hevron, tutti i giorni escono attacchi terroristi rilevanti, 128 dal 7 di novembre. Con orgoglio gli uomini di Fatah rivendicano la loro parte di guerra di shahid, Abu Mazen prosegue col “pay for slay”, gli stipendi a tutti i terroristi in carcere, anche quelli della “Nakba”. I canali tv di Abbas hanno mostrato i funerali dei membri di Fatah che hanno partecipato all’attacco, e la foto dice “Sono saliti in cielo da martiri” e l’ANP ha chiamato a “aumentare gli attacchi in ogni aerea”.
È pericoloso per le città, i paesi, le campagne; è l’educazione identica a quella di Hamas dalla nascita, che invita a uccidere gli ebrei in quanto ebrei, e che ha ammassato con aiuto internazionale armi in ogni casa, e conta sulla polizia palestinese, armata, allenata. Nata dagli accordi di Oslo in collaborazione con Israele, di fatto politicizzata. La rete ideologica Hamas Fatah è comune, il progetto di riqualificazione dell’ANP per il grande progetto di pace cui americani e israeliani accennano, dovrà cominciare dall’asilo, in cui si insegna che gli ebrei non sono esseri umani.
Lite tra Iran e Hamas. Erdogan: "Bibi Hitler"
Il Giornale, 28 dicembre 2023
Avranno molto da dirsi il presidente iraniano Ibraim Rantisi e la sua controparte turca, Recep Tayyp Erdogan, quando si incontreranno il 4 di gennaio ad Ankara. Tutti e due evidentemente pensano che sia il momento giusto per parlare della guerra: ne hanno una in comune nonostante siano uno sciita e l’altro sunnita, quella contro Israele. Abbracciare Hamas, per loro è un’abitudine. Il tema fissato per il 4 è tipico da “asse della resistenza”: Erdogan non ne fa ufficialmente parte, conta sempre su chi spera di recuperarlo. Fino a poco tempo fa giocava sul crinale di una doppia appartenenza al mondo occidentale e alla Fratellanza Musulmana di cui è uno dei maggiori esponenti mondiali; ma la Turchia fa parte nella Nato. Hamas gli è sempre piaciuto, lo ha ospitato e aiutato, ha molte foto con i suoi leader, non ha mai condannato il grande pogrom antisemita del 7 ottobre. Poi ieri ha superato sé stesso: “Non c’è differenza fra le azioni di Netanyahu e quelle di Hitler”.
Netanyahu gli ha risposto ricordandogli il suo genocidio di Curdi e il record di giornalisti dissidenti in prigione. Ma non servirà: che Israele sia come la Germania di Hitler Erdogan l’aveva già detto nel 2014. Solo nel luglio avanzato ad Ankara ha tenuto una riunione con Ismail Haniyeh e con Abu Mazen, insieme. Cioè, 6 settimane prima del 7 ottobre i due discutevano con Erdogan: non è stato ancora notato. Ma a rivendicare ieri, e forse incautamente, la firma stessa della carneficina, è stato il generale della Guardia Rivoluzionaria, Ramadan Sharif. In una dichiarazione riportata da Al Jazeera Teheran fa sapere che il massacro è stata una risposta all’assassinio del grande leader Qassem Suleimani, compiuto, sembra, da emissari americani.
Questo dopo che due giorni fa il generale iraniano che soprintende alla Siria, cioè alla strategia dal confine di Israele e alle armi a Hezbollah e altri “proxy”, è stato assassinato. Ma Hamas ha con rispetto smentito la dichiarazione, anche se è evidente che il 7 ottobre è il primo grande passo pubblico di distruzione di Israele che l’Iran ha compiuto dopo anni di costruzione di un potere inter-sunnita-sciita, grande stratega appunto Suleimani. Ne fanno parte il Libano, i palestinesi, lo Yemen, la Siria, l’Iraq, si conta anche su amici discreti tipo il Qatar, e su un grande sfondo antioccidentale che infatti non ha condannato Hamas (la Russia e la Cina).
Hamas è ovvio, rivendica di aver agito da sola, per la moschea di Al Aqsa, “contro l’occupazione”. Ma è noto che l’Iran gli fornisca il 93 per cento del budget, che le armi iraniane sono ovunque a Gaza, che Hamas stesso ha più volte ringraziato dopo l’attacco. La guerra è la bandiera della dichiarazione di Khomeini: “Noi sosterremo e assisteremo ogni gruppo che combatte il regime sionista”; e di Khamenei: “La questione palestinese non è geopolitica, è un credo, una questione di fede”.
Questo mette l’Iran in testa a una coalizione che rompe lo storico screzio fra sunniti e sciiti in nome di una battaglia sacra, e ne consacra la leadership. Erdogan si entusiasma nell’odio antisemita perché sente che quel fronte è forte e deciso: gli Houthi mettono a rischio il commercio internazionale, in Siria e in Iraq milizie sciite divengono parte della macchina di predominio e provocazione antioccidentale, in India vediamo attacchi terroristici contro l’ambasciata di Israele… C’è molta fantasia strategica mentre Israele combatte una vera guerra di liberazione e sul territorio europeo e americano cresce una giungla di antisemitismo.
L’Iran ha destabilizzato le aree di antica influenza egiziana e Saudita, i leader cauti non si sentono abbastanza sostenuti da un’America che non osa dare un nome alla guerra che l’Iran ormai alla vigilia del potere atomico, ha dichiarato all’Occidente. Una guerra dura, che affronti il pericolo che il mondo corre, e prenda le misure necessarie per difenderlo.
Con gli Ufficiali della 14esima Brigata: "Conflitto diabolico ma stiamo vincendo"
Il Giornale, 27 dicembre 2023
Giallo è il colore di questa guerra. La polvere è alta anche nelle prime giornate di fango. Le nuvole nere e i bum sul nord della Striscia segnalano la battaglia. Ancora, dalle rovine partono fantasmi di missili che si avventano su Sderot. I tank, i nagmash, i namer, i veicoli corazzati sono in fila per la revisione, un numero enorme: siamo nella base di Tze’elim. Una città di tende e capanni di cemento da cui si entra e si esce a combattere. Qui incontriamo i soldati che devono fornire, in giornate di coraggio e di lutto (in due giorni ne sono caduti 18) la risposta a quella che il New York Times ha appena definito “una guerra diversa da qualsiasi altra combattuta fino ad oggi”. Da Tze Elim la si combatte nel nord, a Gaza città, a Jabalia: qui le prime fortezze del terrore sono state quasi spianate e conquistate.
Eppure, i soldati continuano a essere sorpresi da agguati improvvisi, nelle trappole esplosive, ormai dall’inizio della guerra 160 sono stati uccisi. Eppure, lo spirito è alto da 70 giorni. La Striscia è costruita solo la guerra di distruzione contro Israele, vicoli, edifici, scuole, ospedali, appartamenti, un’incredibile rete di gallerie dove tutto è esplosioni e spari, e ogni abitante per paura o fede è uno shahid. Per battere Hamas, perché Israele possa esistere, da Tze Elim le unità dei miluim, le riserve, escono ogni giorno per combattere, senza tornare al lavoro, alla famiglia: Asaf, un colonnello di 51 anni, che a casa dirige un ufficio di robotica giapponese, moglie medico e tre figli, qui dirige la guerra: è il comandante delle operazioni. Tutto è nelle sue mani: sotto una tenda con tecnologia super raffinata, coordina, secondo le decisioni strategiche, esercito di terra, marina, ingegneri, informazioni, e yalom (che vuol dire “diamante” e sa fare tutto, come entrare in una galleria). Lui ordina di andare avanti, indietro, “adesso!” “Stop!”, cambiate strada, distruggete, evitate. Dal 7 di ottobre ha questo gigantesco incarico. Esce da una tenda come di malavoglia; è un eroe moderno, un patriota tecnologico carico di responsabilità e di ironia: “Io guido la guerra dall’alto” sorride.
È lui che muove la Brigata 14 delle riserve, la mitica, che ha salvato Israele durante la guerra del Kippur scavalcando lo Stretto di Suez agli ordini di Sharon e che per prima è entrata a Gaza dopo le atrocità. “Da qui dirigo la guerra della fanteria, dell’artiglieria, gli dico dove andare, dove evitare, cosa fare. Faccio levare in volo i droni, per vedere bene gli obiettivi, le armi, i terroristi… se ce n’è necessità e non ci sono cittadini innocenti, muovo l’aviazione a preparare il terreno, ma la richiamo indietro se improvvisamente dei bambini appaiono sulla strada o nelle case…”. Capita spesso? “Dopo tre mesi, meno. Ma la scelta resta: non violare le leggi internazionale, salvaguardando la vita dei miei. Allontano da un obiettivo, dico di spostarsi, di aspettare, di considerare che da quella finestra possono sparare. Faccio muovere avanti al momento giusto”. Asaf si irrita: “Non è vero che il 7 siamo arrivati tardi. Tardi esprime una percezione, ma qui un esercito intero si è mosso a fronte si un caos inaspettato coi carri armati, gli aerei, siamo arrivati nel minor tempo possibile. In difesa. E quando finalmente siamo andati all’attacco… tutto ha funzionato”. Ma le tante perdite, la guerra lenta, Sinwar latita… “Stiamo vincendo la guerra più difficile: i risultati sono sempre maggiori, molte gallerie scoperte, i rifugi dei terroristi conosciuti, i covi di armi rivelati e distrutti. Ogni giorno ne sappiamo di più, facciamo passi importanti. Se lei aspetta che Sinwar esca a mani alzate, non so, ma penso che senta i nostri tank sopra la testa. Calma, Tempo. DI questo abbiamo bisogno. Combattiamo bene. Lasciateci fare. Tempo. Distruggeremo il nemico di tutti”. Tornato da poco da un’operazione, il maggiore Yehuda, ingegnere industriale, 43 anni, della 14 brigata, anche lui da 70 giorni quasi non ha visto moglie e quattro figli. Ha combattuto prima kibbutz per kibbutz contro i terroristi. È stato anche lui settimane senza levarsi le scarpe? “Ci si fa l’abitudine”, magro alto, l’ingegnere è sorridente. È soddisfatto di sé e dei suoi compagni, che ci girano intorno anche loro appena tornati e già pronti a rientrare. “Nei primi giorni di guerra una quantità di volontari si è precipitata da noi carica di pentole dolci e cioccolata… non facevamo che mangiare”. La notte si riposa sempre pronti a uscire in 15 in una tenda. Dei compagni perduti Yehuda non vuole parlare: “troppo fresco”. “Deve capire che siamo tutti comunque decisi a combattere fino alla vittoria: quattro giorni prima del 7 ottobre con moglie e figli, siamo venuti a fare “biking” a Be’eri. Se venivamo quattro giorni dopo, saremmo stati macellati”. “Io sono un Kasha” spiega il maggiore, ed è una cosa seria “In prima fila camminano alcuni soldati aprendo la strada, poi subito dopo, a piedi, arrivo io”. Yehuda cammina solo sulle rovine delle strade sventrate, deve indicare al tank che segue dove è nascosto il pericolo da abbattere e l’obiettivo da combattere. Ha paura? “Dopo, semmai. Là stai ben concentrato su che cosa fare” Ci sono finestre in cui si nascondono i cecchini, bocche delle gallerie da cui ci si può aspettare di tutto, porte, vicoli: “Devo scovare i terroristi, evitare i civili, scovare i covi da cui si possono sparare i proiettili anti tank e decidere di colpire. Vado avanti piano. Certo, se sparassimo sulla gente faremmo prima. Ma cerchiamo di non colpire innocenti”. Però da tutto il mondo si dice che lo facciate “Purtroppo può capitare. Ma è la struttura stessa di questa guerra che è preparata in modo diabolico: la mia unità ha appena trovato sotto due letti dei bambini missili RPG, capirei che li tenessero in casa, ma nella camera dei bambini”. Yehuda non incontra molti gazani: invitata coi volantini a scendere al sud, in genere la gente l’ha fatto “E se vediamo individui in movimento o sono terroristi o loro amici”. Yehuda da vent’anni viene nelle riserve con un amico, Dror, la sua sicurezza, l’incarnazione della solidarietà che qui si respira fra i soldati: “Mentre cammino ci parliamo con gli auricolari: mi avverte di ogni rischio, gli chiedo di proteggermi su un fianco, di dirmi cosa c’è qua, là, ed è sempre con me. Il mio angelo personale. Mi fido di lui ad occhi chiusi. Se sospetto una trappola, subito agisce”. È amicizia consolidata dalla sensazione di stare facendo qualcosa di indispensabile, la respiri fra i soldati che sono là, e solo là vogliono essere. Te lo ripetono, si scocciano quando chiedi se hanno nostalgia, o paura… certo, e allora? Salviamo il Paese, siamo noi il muro di difesa. Lasciateci fare. Sanno qualcosa che nessun’altro sa. Responsabilità, eroismo? “Il mio sogno? Entrare in un palazzo e trovare la sorpresa di un gruppo di rapiti, vivi! Abbracciarli, difenderli, riportarli a casa”.
Un buon Natale da chi combatte contro il male
Il Giornale, 24 dicembre 2024
Buon Natale. L’augurio che ogni persona, a qualsiasi religione appartenga, può ricavare da questo saluto è: amore, rispetto, compassione. È facile. Basta guardare le pubblicità, i film per bambini. Dicono: i buoni sentimenti devono vincere. La società democratica è fatta per questo, intorno vi abbiamo costruito una morale che ha al suo centro i diritti umani. Ci abbiamo messo un impegno particolare costruendo l’Unione Europea oltre all’ONU, da quando, con la fine della Seconda Guerra Mondiale, il mondo occidentale si è impegnato per una seconda occasione di riscatto della storia umana, dopo il nazismo. E più avanti, ha ripreso la strada con la fine del comunismo.
Purtroppo, però il mio augurio odierno si accompagna a una constatazione: dobbiamo di nuovo, ancora una volta, concentrarci per salvare il mondo perché, dopo il 7 di ottobre, di nuovo abbiamo in mano solo i cocci di un cammino globale verso il bene. Quel giorno si è compiuta la rottura dell’idea che comunque, con fratture e falli temporanei, si sia tuttavia su una strada di miglioramento globale, che i conflitti possano essere gestiti con trattative o scontri contenibili, che le diverse etiche, religioni possano trovare un punto di accordo. Ciò che si è visto a Sderot, a Be eri, a Kfar Azza… è gigantesco; può essere capito solo recuperando la categoria dell’esistenza del male, e. quindi impegnandoci poi a combattere.
Il mondo ha visto quello che, esaltati da una ideologia omicida, esseri umani hanno fatto e possono fare ad altri esseri umani. L’avevamo già visto col nazismo, in Asia coi genocidi comunisti, poi il terrorismo islamico di Al Qaeda e dell’Isis ci hanno rieducato all’orrore insieme all’aggressione russa all’Ucraina. Ma qui è stato peggio, è stato uno ad uno, bambino per bambino, madre per madre, con immensa soddisfazione degli assassini. Purché fosse ebreo.
E subito, è seguita l’ondata mondiale di antisemitismo che indica la pericolosità globale, nel mondo dell’Islam estremo e dei suoi alleati, del fascino del male. Non voglio nel giorno di Natale ripercorrere la memoria degli stupri, dell’incenerimento, delle decapitazioni. La scena distrutta dei kibbutz nei colori, negli oggetti, negli ambienti domestici di estrema civiltà… esprime la fallimentare ipotesi che basti porgere la mano perché venga stretta. Il più atroce errore, portatore di altri disastri, è quello di disconoscere la necessità di battere un nemico ideologico pronto a tutto pur di eliminarti, e cercarne l’appeasement.
Così fanno quelli che chiedendo la pace senza aggettivi: il Papa manda Krajeewski a Betlemme, certo è pieno di buona volontà. Ma è difficile abbandonare i cliché pacifisti in nome di una visione che separi il bene dal male, e che aiuti a organizzare spiritualmente la lotta per quello che è. Ma proprio per difendere i Cristiani è l’ora di farlo. Modestamente, vorrei dedicare questo Natale, da Gerusalemme, a un bambino sugli 8-10 anni che in un footage filmato dagli assassini, corre su un prato verde inseguito dai grossi figuri mascherati e armati.
È più stupefatto che terrorizzato: si legge nel suo alzare le piccole braccia e piegarsi per terra ormai vinto, che finora ha conosciuto solo dolcezza. Forse si è chiesto se fosse tutto un gioco, finché lo si vede aggredito a botte mortali in testa.
Gli eroi silenziosi che salveranno Israele
Il Giornale, 23 dicembre 2023
Si chiama Iris Haim. È la madre che ha perduto il figlio nel modo più atroce, Yotam, un ostaggio rapito da Kfar Aza il 7 ottobre; per sbaglio, scambiato per terrorista, è stato ucciso dai soldati, dopo essere sfuggito a Hamas, mentre cercava di farsi riconoscere dai soldati, insieme a altri due ragazzi. Sventolavano una bandiera bianca, ma non è servito. A Gaza, la confusione della guerra, le trappole perverse, i travestimenti di Hamas, hanno giocato un effetto mortale: e il batterista coi capelli rossi, insieme a Alon Shamriz e a Samar Talaka è stato ucciso.
La sua mamma, dal 7 ottobre fra le famiglie dei rapiti con dolcezza e senza risparmio stavolta, si è rivolta così ai soldati del diciassettesimo battaglione della Brigata Bislamach: “Sono la mamma di Yotam, voglio dirvi che vi voglio tanto bene, quello che è accaduto non è colpa vostra, la colpa è solo di Hamas che il loro nome sia eraso dalla storia; non esitate se vedete un terrorista, tutti abbiamo bisogno di voi, venite ad abbracciarmi”. Iris ha lasciato tutti senza parole, in un Paese in cui oggi, tuttavia, si richiede miracoli da ciascuno: se la maggioranza in una situazione difficile cerca il riparo, l’eroe o l’eroina invece si espone.
Così Iris, invece di polemizzare come hanno fatto in molti (il Capo di Stato maggiore ha ammonito che non si spara a chi ha le mani in alto!) ha preferito perdonare l’errore: ai ventenni che in divisa sfidano la morte che esce dai cunicoli o si avvicina travestita, ha suggerito di difendersi per il bene di tutti, nonostante l’atroce dolore per il figlio. Iris ha costruito così un ponte fra la battaglia straziante delle famiglie dei rapiti e il sacrificio terribile dei soldati: indispensabile, e per niente ovvio. Proclamare “beato il popolo che non ha bisogno di eroe” significa privare il popolo di una grande risorsa, a volte indispensabile. Israele in particolare dal 7 di settembre, ha bisogno di eroi per risorgere da quelle ceneri: a loro è affidata il recupero della forza, dell’onore stesso. Dal 7 di ottobre le storie del valore civile e militare sono un’enciclopedia.
Se proviamo a scegliere le donne risplendono: per esempio, il 7 di prima mattina la bella Amit Mann di 22 anni, infermiera, si è fatta strada mentre le sparavano fra i feriti e i cadaveri fino all’ambulatorio, e là ha preso cura di tutti quelli che si sono trascinati da lei, finché al telefono ha detto ai suoi “siate forti sono entrati i terroristi”; è stata uccisa col dottore. Gli arabi israeliani, specie i beduini, sono corsi in tanti ad aiutare: Awad Darawshe, paramedico, corso alla festa Nova, ha curato le orribili ferite dei ragazzi uno dopo l’altro mentre Hamas faceva strage, è stato ucciso mentre fasciava un ragazzo; il tassista Yussef Alzianda, beduino, che aveva portato una dozzina di ragazzi alla festa, per fuggire ne caricava trenta per volta e tornava ogni volta per una spoletta di salvataggio.
È sopravvissuto; Or Ben Yehuda, una bella ragazza madre di tre bambini, comandante di un tank, si è bittata a combattere al kibbutz Sufa e con i suoi dodici soldati e li ha uccisi e messi in fuga salvando la gente, mentre il suo collega Avi Kolelashvili, di 24 anni, tentando lo stesso tipo di attacco, invece è caduto. Al Kibbutz Kfar Aza, il comandante dei Golani Tomer Greenberg, ha combattuto senza ordini salvando decine di persone, e poi ha portato in salvo due piccolissimi gemelli ritrovati fra i loro genitori, ambedue morti per terra. Greenberg, al comando del tredicesimo battaglione Golani dentro Gaza, cercando di salvare un soldato caduto in un’imboscata è stato ucciso da Hamas.
A ogni funerale dei soldati uccisi i loro colleghi raccontano nei particolari, uno ad uno, che la fine di questi ventenni è quasi sempre legata alla scelta di lanciarsi al salvataggio dei compagni. Ma dentro casa il sangue freddo non è diverso: Rachel Edri di Ofakim, un’anziana signora, per ventiquattro ore, come in un film dell’orrore, ha servito cibo, raccontato storie, cantato canzoni frenando i terroristi, finché è arrivato l’esercito che ha perduto nello scontro due uomini. Israele risuona di episodi stupefacenti, che sanno di un’epopea antica e nuovissima, antica e in costruzione. Achille scelse una vita breve ma valorosa piuttosto che lunga e inane. Le sue imprese si leggono da millenni.