Firenze: presentazione del mio nuovo libro "Jewish Lives Matter"
Salone del libro di Torino presentazione di "Jewish Lives Matter"
Cari amici, vi aspetto venerdì 15 alle 15.45 al Salone del libro di Torino (Sala Londra - Centro congressi) per la presentazione di "Jewish Lives Matter", insieme a Gianni Vernetti e Domenico Quirico. Servirà il Green Pass e ricordatevi di arrivare con largo anticipo.
L'antifascismo corrotto dalla sinistra
VIDEO La storia di Ron Arad
La scomparsa del giovane soldato israeliano Ron Arad (nella foto) 35 anni fa in Libano è una ferita ancora aperta di cui ha parlato ancora recentemente il Premier Naftali Bennett. Fiamma Nirenstein racconta la sua storia in esclusiva per Informazione Corretta
Ecco il video:
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"Jewish Lives Matter" il mio nuovo libro
Miei cari,
esce oggi "Jewish Lives Matter. Diritti umani e antisemitismo", pubblicato da Giuntina. Spero che questo mio nuovo libro riesca a interrompere la catena di pregiudizi che oggi corrompe il pensiero divenuto la religione del nostro tempo, quello che pone al centro i diritti umani. Il biasimo, di fatto antisemita, dello Stato d’Israele trasformato nel discorso pubblico in Stato di apartheid,colonialista, imperialista, persecutore di minoranze, non ha nulla a che vedere con i diritti umani, al contrario interrompe il circolo del pensiero democratico e lo travolge come ha sempre fatto ogni movimento antisemita, mettendo a rischio tutti.
Questi attacchi non sono certo un esempio di “legittima critica”, che invece ci piace sempre, e nel libro spiego perché. Chi mi legge sa che sono tanti anni che rifletto sulla persecuzione ideologica degli ebrei e dello Stato degli Ebrei, ma adesso, dopo la miniguerra con Gaza, ho dovuto scrivere di getto questo libro, e rispondere anche a dei miei tormenti interiori, che immagino siano anche i vostri: perché l’antisemitismo si è annidato nel pensiero “intersezionale”?
E che cosa dobbiamo fare contro questo guaio, che capita proprio a noi, persone sempre impegnate per i diritti e la democrazia?
Lo trovate in libreria e qui:
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Il Medio Oriente visto da Gerusalemme
Firenze: cerimonia d’intitolazione Giardino Borgo Allegri ad Alberto Nirenstein e a Wanda Lattes
Lungo il novecento di Wanda e Alberto
Corriere Fiorentino, 18 settembre 2021
di Franco Camarlinghi
Una coppia che rispecchia in maniera esemplare il secolo scorso Il giardino di Wanda e Alberto Vissero la Storia che lascia il segno, quella della ferocia nazista, e toccò loro fare i conti anche con il comunismo, come se non fosse bastato quello che avevano passato fino ad allora Lungo il Novecento Le tragedie del popolo ebraico, la lotta per la libertà, la separazione forzata. Poi un tempo diverso, protagonisti a Firenze di Franco CamartInghl Ifiorentini sono dei criticoni per carattere. Soprattutto quelli, quasi tutti, che non hanno un grande avvenire dietro le spalle (come definì il suo passato Vittorio Gassman): quando invecchiano si lamentano in particolare della loro città e delle delusioni che ha dato loro. Anche il sottoscritto fa parte della categoria di quelli che il grande avvenire alle spalle se lo sognano e che, se capita, non si risparmiano nell'esercitare il mestiere della critica alla Firenze attuale e a quella di un tempo trascorso. Questi giorni, però, inducono a un po' di ottimismo: si tratta della memoria di Alberto Nirenstein e di Wanda Lattes, ai quali viene dedicato un giardino, un angolo prezioso della vecchia Firenze a due passi da Santa Croce: uniti prima nella vita e ora nel ricordo. Le vite di Wanda e Alberto rispecchiano in maniera esemplare il secolo scorso, le aspirazioni, le conquiste di vita e di cultura, ma in primo luogo le tragedie a cui l'Europa fu sottoposta con innanzi a ogni altra quella del popolo ebraico, dell'Olocausto. Wanda, fiorentina di nascita, visse il destino terribile delle famiglie ebraiche distrutte dalla ferocia nazista, ma non si arrese mai e giovanissima combatté nella resistenza fiorentina contro l'occupazione tedesca e la ferocia fascista. Alberto era riuscito appena in tempo, prima dell'invasione della Polonia da parte di Hitler, a rientrare in Palestina dove era emigrato. La sua famiglia rimasta in Polonia fu distrutta e lui venne, con la Brigata ebraica, a combattere per la nostra libertà: a Firenze incontrò Wanda e a Firenze rimase, divenendone poi un cittadino illustre. Di storia, di quella che lascia il segno, Alberto e Wanda ne avevano vissuto e fatta abbastanza già alla fine della guerra e partecipavano alla ricostruzione dell'Italia e dell'Europa.
Costruivano una grande famiglia che, alla fine, con le tre loro figlie sarebbe stata-come una mano con le sue cinque dita (è il titolo di un bellissimo libro che tutti insieme scrissero qualche anno fa): ma la storia non si fermò. Alla fine degli anni '40 Alberto tornò a Varsavia per recuperare i documenti che un gruppo di intellettuali e altri cittadini rinchiusi nel ghetto di Varsavia avevano raccolto e poi nascosto sotto le macerie e che raccontavano la vita quotidiana di 450.000 ebrei, di cui sopravvissero solo poche diecine.
Doveva restare pochi giorni e rientrare a Firenze: tornò dopo quattro anni e la sua famiglia non seppe niente di lui in tutto quel tempo. Così, tanto per ricordare ai più giovani che cosa è stato il mondo non molto tempo fa: ad Alberto, a Wanda tocco fare i conti anche con il comunismo, come se non gli fosse bastato quello che avevano vissuto fino ad allora. Poi, finalmente, venne un tempo diverso, quello di diventare protagonisti della vita culturale e sociale di Firenze. Conobbi la famiglia Nirenstein alla fine degli anni '6o, in ogni senso una famiglia che dava l'idea di essere speciale e infatti lo era e tale appariva a tutti quelli che avevano la fortuna di frequentarla. Wanda era la giornalista più nota della città e anche se a quel tempo molti di noi giovani di sinistra eravamo avversi alla Nazione, giudicavamo l'importanza di un avvenimento dalla sua presenza o assenza. Aveva fatto una grande *** scuola di giornalismo soprattutto con Romano Bilenchi al Nuovo Corriere e per lei il suo mestiere era una missione, come si sarebbe visto poi con la collaborazione al Corriere della Sera. II modo veramente speciale con cui partecipò alla fondazione e alla crescita del Corriere Fiorentino, dimostrano che quella missione lei la vedeva in particolare legata a Firenze, alla sua storia artistica e culturale, a quello che ancora, in età avanzata, poteva fare per la sua città. Di Alberto sapevamo meno, ma una cosa sapevamo e sarebbe bastato quello a riconoscerlo come cittadino illustre della città dove era arrivato in armi e in cui era restato come intellettuale e scrittore in stretto e quotidiano rapporto con Israele. Alberto era riuscito a trovare e a poter lavorare sui documenti del ghetto di Varsavia: gli erano costati quattro anni nella Polonia stalinista, ma Einaudi nel 1958 pubblicò Ricorda cosa ti ha fatto Amalek, un libro che ancora oggi non dovrebbe mancare in ogni casa dove si voglia capire il passato per vivere nel presente. Amalek, feroce persecutore degli ebrei in fuga dall'Egitto, gliene aveva fatte abbastanza anche ad Alberto e a Wanda, ma infine dette il titolo ad un volume che si ristampa ancora oggi. Torno indietro nei decenni di consuetudine con l'ultimo piano di via Cocchi 45 e mi rendo conto di quanto significativa era l'atmosfera che si respirava in quella casa. C'era la dedizione alle questioni che riguardavano Firenze da parte di Wanda che non avevano mai, però, quel sapore di provincialismo e di retorica che opprime ancora oggi Firenze. Alberto rappresentava come pochi altri un'apertura verso una vicenda europea che pochi altri popoli come gli ebrei polacchi possono far capire; rappresentava poi un legame con Israele e con la tradizione socialista di quel paese così centrale negli equilibri del mondo. Insomma, entrare in via Cocchi significava abbandonare il conformismo fiorentino, ritrovare la radice cosmopolita di Firenze, capire la ricchezza culturale dell'ebraismo, imparare ad amare Israele.
Tutto questo era del resto visibile nella vita sociale che Wanda sapeva organizzare in maniera semplice ed elegante Cerimonia • Lunedl 20 settembre alle 1111 Comune dl Firenze intitolerà il Giardino dl Borgo Allegri a Wanda Lattes (1922-2018), partigiana combattente, una delle prime giomallste della storia italiana, sempre in prima fila nella difesa della cultura e Alberto Nirenstein (1916-2007), tra i primissimi storici della Shoah. .Presenti: il sindaco Dario Nardella, le figlie Fiamma, Susanna e Simona insieme ai nipoti; Ernesto Galli della Loggia, Daniel Vogelmann in rappresentanza della Comunità Ebraica Fiorentina, Paolo Ermini, Franco Camarlinghi e Maurizio Degl'Innocenti, presidente della Fondazione Turati dove sono state depositate le carte LattesNirenstein con la corrispondenza dei primi anni 50 nella sua casa: il meglio della cultura fiorentina e non solo si riuniva nel suo soggiorno e non per passare il tempo e basta. Non sarebbe possibile far intendere le cose dette se non si parlasse di ciò che inoltre faceva così ricca di intelligenza e di fascino la famiglia di Wanda e Alberto- Fiamma, Susanna e Simona che tutte, del resto, hanno continuato e continuano a essere, come i loro genitori, colte, influenti, internazionali e alla fine ancora fiorentine. Conviene concludere questo ricordo con la scelta felice del Comune di Firenze di dedicare ad Alberto e a Wanda il giardino di Borgo Allegri, perché si tratta di un luogo che meglio di tanti altri può rappresentare un omaggio di popolo a due persone che lo meritano per tanti motivi oltre quelli che ho cercato di descrivere. Per chi è nato e vissuto da quelle parti, ma anche per Wanda e Alberto che amavano quella parte di Firenze, «Borgallegri» era la via più popolare di Santa Croce ed è bello pensare che uno spazio di quella via carica di storia, i fiorentini l'abbiano dedicato a due loro concittadini ebrei che la storia l'hanno vissuta e fatta.
La sinistra cieca con i terroristi
Israele, la «serra» dei terroristi suicidi che l'Occidente non ha voluto vedere E la lezione più vera: la jihad non tratta
Il Giornale, 11 settembre 2021
Nel settembre del 2001, mentre gli jihadisti di al Qaeda sequestravano gli aerei dell'American Airlines e dell'United Airlines che alle 7,59 dell'11 di settembre avrebbero dato fuoco al mondo sfracellando le Twin Towers, Israele era già in un bagno di sangue terrorista. Nessuno voleva elaborare la questione, pallide spiegazioni territoriali fornivano facili parametri al pensiero strategico occidentale. A Gilo, dove io vivevo e lavoravo, le giornate erano ritmate dagli scoppi dei missili che l'Intifada sparava da Betlemme su Gerusalemme. Intorno alla mezzanotte dell'11, due poliziotti furono uccisi a colpi di pistola in faccia; nei due giorni precedenti una decina di civili di ogni genere e età, da uno studente di 19 anni, a una maestra d'asilo di 24 anni a un medico di 47, più un centinaio di feriti, si unirono al parterre di vittime che avrebbero raggiunto il numero di circa 1500, più o meno la metà delle vittime delle Twin Towers.
Israele fu una sorta di serra sperimentale del terrorismo suicida: questo rimase incompreso, mal interpretato e quindi ignorato dall'Occidente, e oggi, dopo il penoso e stravolto ritiro americano dall'Afghanistan, è ancora più evidente che questo rifiuto a capire sopravvive come un pericoloso fantasma. L'equivoco sul terrorismo anti-israeliano potrebbe risultare mortale per il mondo intero.
L'undici di settembre si compì a seguito dell'incomprensione e nella disattenzione del mondo per tutta una serie di evidenti episodi che ne segnavano la preparazione, sia in Medio Oriente che in Europa che negli USA; i suoi frutti e il suo seguito fino alla presa del potere dell'Afghanistan da parte dei talebani seguitano ad essere coperti dalla patina dell'equivoco. Appare davvero strano, ma è vero: dopo l'11 di settembre, si discusse dicendo anche che era colpa degli americani; che era possibile parlare coi terroristi; che le loro aspirazioni religiose e sociali sono trattabili, la loro visione della donna, dei dissidenti, degli infedeli... parte di una cultura diversa ma legittima. Lo si ripete oggi sui talebani, e su Hamas lo si è detto un milione di volte. Israele che prima negli anni della fondazione, poi via via attraverso gli anni, aveva subito attentati a migliaia come quello delle Olimpiadi di Monaco del 1972, assalti ai bambini nelle scuole, eccidi di vecchi sugli autobus, era già da tempo e resta una lampada accesa sulla necessità di capire, studiare per combattere il terrorismo, pena il conseguente pericolo per il mondo intero. Bibi Netanyahu nel 1995 in un suo libro sul terrorismo diceva agli USA: se non vi accorgete di quello che vi sta accadendo, presto vi ritroverete il World Trade Center spianato dal terrorismo. Una profezia? No, solo, una visione chiara della natura ideologica e politica, e non territoriale o sociale, del terrore.
La storia di Israele prima e dopo l'11 di settembre, fa piazza pulita dell'idea che si possa placare l'appetito della Jihad proponendo scambi territoriali, finanziamenti e miglioramenti sociali appetibili, accesso alla tecnologia, e, (obiettivo cui Bush guardò come alla soluzione di tutti i mali) che la democrazia, la libertà, siano il nascosto obiettivo di ogni uomo. E che una volta realizzati lo redimeranno. Ma l'Uomo è differenziato e specifico, spesso tribale. Non è che le culture fondamentaliste islamiche abbiano delle difficoltà ad apprezzare la libertà. La disprezzano. Esiste un bene superiore che viene realizzato tramite la sharia, e le leadership hanno il compito supremo, quindi, di farla osservare. Gli uomini non devono essere felici, devono applicare la legge divina e la democrazia non è la strada. Il costante ritorno all'Intifada, al terrorismo capillare, al rifiuto di riconoscere Israele o di rispondere finalmente positivamente alle profferte di pace, ripetute fino alla nausea, dalla leadership israeliana di destra o di sinistra è una risposta ideologico-religiosa all'imperativo di cacciare gli infedeli da terre islamiche. La Sharia, come deve affermare la sua preponderanza rispetto all'Occidente distruggendo le Twin Towers, così ha necessità per affermarsi di combattere il nemico che proditoriamente occupa la Ummah, la comunità islamica.
Ogni centimetro di terra un tempo occupata da quest'ultima, è sua perr sempre. Quella terra che gli è stata data dal Cielo, si deve ascoltare la promessa, non c'è trattativa che tenga. L'assassinio di Anwar Sadat nell'81 è parte di quella vicenda: Sadat aveva osato accettare l'esistenza di Israele e stringerci una pace. Abdel Rahman, compagno di Ayman al Zawahiri, è lo sceicco dell'attacco al World Trade Center, lo stesso che dal carcere stilò la fatwa di assassinio, e lo stesso che l'ha stilata per l'attacco delle Twin Tower. Aveva combattuto in Afghanistan, e morì in carcere nel 2017. Bin Laden, succedendogli, porta con sé tutta la rabbia dei palestinesi anti-accordo di pace, tutta la vittoria Afghana contro i sovietici, tutta la grandiosa speranza dell'attacco agli USA. E il nesso indelebile, tipico del suo dottorato in teologia, della parola jihad, che vuol dire lotta, e che nonostante tutti gli sforzi nostrani di trattativa, è pur sempre stabilita secondo la legge santa. I jihadisti attaccano per riprendersi territori o per allargare la forza della Sharia, e niente può costringerli a cambiare la santità della loro scelta. Bernard Lewis ha avvertito di questo molte volte.
Hamas è stata la prima a congratularsi con i Talebani per il riconquistato potere in Afghanistan. I palestinesi, hanno festeggiato. Ismail Haniyeh il 17 agosto ha detto che questo segna "un nuovo standard per la resistenza contro Israele", ovvero dimostra chiaramente che la pazienza paga e che la "resistenza" di lunga durata può smantellare lo Stato d'Israele. Osama bin Laden a suo tempo disegnava la vittoriosa operazione delle Twin Towers come guerra contro "i Sionisti e i Crociati". Dopo quell'attacco, nelle città palestinesi dell'Autonomia, non solo a Gaza i palestinesi scesi in strada, festeggiavano con mortaretti e dolci. Yasser Arafat, comprendendo che questo avrebbe gettato nel caos i suoi rapporti con gli Stati Uniti, frenò i moti di piazza e dichiarò con grande disinvoltura, dato che l'Intifada era in pieno svolgimento, di condannare il terrorismo. Restò tuttavia solido e ripetuto il rifiuto di modificare l'aspirazione jihadista fondamentale dei palestinesi. Quando Israele ha lasciato il Libano nel 2000, mentre gli Hezbollah dichiaravano vittoria perchè "Israele è debole come una tela di ragno", Abu Ala, famoso leader palestinese, spiegava che "Tutti, qui, hanno visto il ritiro come una sconfitta strategica di Israele". Ovvero, come disse lui stesso, come un' esortazione a "uccidere gli israeliani, e a conquistare territorio". Si tratta di jihad, e questo è il punto:questa guerra, inclusa quella palestinese, non ha niente a che fare con circostanze politiche. E figlia di un'aspirazione ideologica fondamentale, e quindi irrinunciabile, ampiamente maggioritaria, certificata dalla ininterrotta vittoria di Hamas dal 2006 nell'opinione pubblica palestinese. Per questo Abu Mazen rimane lontano dalle elezioni che non si svolgono da allora. I palestinesi hanno sempre potuto contare sul senso di colpa che ha impedito all'Europa e anche agli USA di identificare la componente jihadista nel conflitto israelo-palestinese, di vedere che Hamas, nonostante il suo comportamento totalitario e razzista con le donne, i cristiani, i dissidenti, e anche l'Autonomia Palestinese, col suo sostegno per il terrore e il suo rifiuto di ogni accordo possibile,fanno parte dell'esercito jihadista.
Per la jihad, i cui protagonisti sono sia sunniti che sciiti, solo la mukawama, o resistenza, può smantellare l'alleanza occidentale che domina il mondo e occupa le terre islamiche, incluso lo Stato d'Israele. "I talibani" -ha detto Musa Abu Marzuk membro importante della direzione di Hamas- "hanno rifiutato le mezze soluzioni proposte dall'America. Essi non sono stati ingannati dagli slogan di democrazia o elezioni o false promesse. E' una lezione per tutti i popoli oppressi". E anche l'Autorità Palestinese, come cita il giornalista palestinese Khaled Abu Toameh dice sul ritorno talebano che "Israele deve assorbire la lezione, la protezione esterna non porta pace e sicurezza. L'occupazione israeliana di terra palestinese non durerà e finirà".
Quando Netanyahu descriveva come letale la spirale terroristica, aveva ben presente la carta geografica del medio oriente e del terrorismo islamico che scaturiva sia dall'Iran sciita con gli hezbollah e da svariati gruppi sunniti,fra cui quello salafita dell'Arabia Saudita, da cui si originò Bin laden. La scia di sangue è lunga, fra i più agghiaccianti attentati quelli dei terroristi suicidi in Libano alle baracche dei soldati americani, 241 morti e a quella ai soldati francesi, 58 morti. Era il 23 ottobre dell'83. Si disse che avevano come sfondo la guerra con Israele, ma la scelta strategica è quella della Sharia che proibisce all'infedele di permanere sulle terre islamiche. Prima e dopo, fino a quelli di New York, di Gerusalemme, di Londra, di Parigi, fino alle stragi antisemite in Francia e in America gli attentati sono tutti illuminati dal lampo gelido del 9-11. Il mondo cambiò, come tutti dicono e scrivono, la "lunga guerra" al terrore formò una grande coalizione intorno agli americani, i talebani vennero cacciati, al Qaeda fu semidistrutta, e Bin Laden fu ucciso, Obama dichiarò vittoria, la gente cantava per le strade. Ma il bandolo della matassa non era stato afferrato. Il terrore dell'Isis, gli attentati nel mondo, i talebani, l'odio per l'Occidente e Israele non si sono modificati. Non potevano modificarsi perché la trama jihadista è paziente. Per smontarla va vista per quello che è, un progetto ideologico-religioso mondiale. Israele combatte bene la sua battaglia, e cerca la sua via di pace con gli Accordi di Abramo: un riconoscimento rispettoso delle altrui culture, per altro sostenute da prospettive vantaggiose. La via d'uscita è, almeno in parte, qui. Per il resto, la jihad iraniana sciita e quella sunnita lavorano sott'acqua e non impallidisce il loro sogno.