Berlino 20 dopo - Al KeDeWe, amai la caduta del muro
martedì 10 novembre 2009 Il Giornale 2 commenti

Quando “Epoca” diretto da Roberto Briglia mi spedì a coprire la caduta del muro di Berlino non bastò subito il passaggio delle Trabant, piccoli dinosauri a due pistoni ansimanti verso la libertà, per creare in me una sensazione di tenerezza, di giubilo politico e umano. Erano tedeschi. Cadeva il comunismo, e io avevo nei geni la passione per la libertà, quindi ero felice fino negli imi precordi; nel corso degli anni avevo incontrato tanti refusenik, ero stata una fan attiva di Natan Sharansky, avevo fatto un film su Ida Nudel nei ghiacci del Gulag insieme a Giovanni Minoli; ma avevo coltivato verso l’est della Germania una antipatia personale: da ragazza comunista avevo fatto un viaggio in delegazione nella Germania comunista e avevo capito, avevo respirato l’orrido clima di repressione e di ovattato spionaggio che faceva suonare il telefono in camera per assicurarsi che tu non fossi andata a fare una passeggiata da sola, che non parlassi con qualcuno che non era stato programmato, che ti accontentassi delle balle sulla felicità del cittadino comunista universale e dei regalini che si trovavano sul comodino. Mi accorsi, facendo qualche domanda, che la Shoah per loro non era mai esistita, era rimossa, cancellata, era tutta colpa della Germania Ovest, capitalista, imperialista, insomma nazista.
Dunque, giungendo a Berlino, dopo aver seguito il picconaggio del Muro alla luce delle fotoelettriche e essermi munita dei pezzi di muro di ordinanza, certo, ero contenta, ma piena di interrogativi. Ero affascinata e come ipnotizzata dallo spettacolo della storia che mi si sciorinava davanti agli occhi, dalla libertà in marcia, con quelle masse bibliche in movimento, quelle file di teste bionde e jeans marmorizzati dei giovani dell’est, tutti con l’orecchino anche quello segnale di aspirazione all’emancipazione capitalistica; ero solidale con le teorie di poveri che finalmente approdavano nei Paesi delle meraviglie e vi camminavano come sollevandosi dal suolo, tutti con dei cappotti grigi di lana a piccoli bitorzoli. Avevano in tasca i cento marchi di benvenuto che si davano a tutti, circa settantamila lire: era la libertà, sì, la riconoscevo, e io ero certo entusiasta per loro.
Ma sentivo mia quella libertà? Era la mia libertà quella dei tedeschi? Oltre a Berlino, mi aggirai parecchio nei centri dove si erano riversati attraverso le frontiere ungheresi, polacche, ceche, con carrozzine piene di pentole e coperte, i soldi nella biancheria intima, una disperata tensione verso la libertà, famiglie intere con i vecchi infreddoliti che aspettavano in coda di essere sistemati e coppie di giovani che si baciavano e si abbracciavano senza tregua. Sugli alberi lungo le strade che portavano ai centri di raccolta, dozzine di offerte di lavoro: “A Stoccarda cerchiamo fabbri. Forniamo anche l’alloggio”. Gli intellettuali di Berlino mi rispondevano che era bello che cadesse il comunismo, ma che l’unificazione poteva aspettare... Io guardavo, e non riuscivo a volgere il mio sguardo interamente al futuro.
Chi siete oggi, mi domandavo, la caduta del comunismo garantisce oggi il vostro spirito, la farraginosa elaborazione di questi anni e il recupero post bellico verranno confermate dalla caduta del Muro? Non mi sono mai data risposte trionfaliste, non credo nei simboli eterni, per un muro che cade ne sorgono altri dieci e così è stato nel mondo contemporaneo, ormai fuori dei sogni globalistici, lontano dall’idea che di per sé sia buona la scomparsa dei confini: USA e Messico, Marocco, Belfast, India e Pakistan, Tailandia e Malesia, Arabia Saudita e Yemen, Iraq e Kuwait, Spagna, Nord e Sud Corea, Israele e Autonomia Palestinese…
Ma un elemento universale mi travolse sotto forma di aspirazione infantile: nessuno di noi occidentali sa davvero cosa sia la brama di un bambino di dieci anni rivolta al bello e al nuovo, nessuno sa in realtà quale sia il valore della merce se non ha visto una schiera di ragazzini entrare per la prima volta in un grande magazzino capitalista (in questo caso il KaDeWe) e toccare per la prima volta un videogioco, o avventarsi con gli occhi estatici e impauriti sui balocchi esposti, o chiedere di mettere su “Papa don’t preach” di Madonna, o azionare un sintetizzatore che rifà una batteria. Non abbiamo mai visto una bambina guardare le mollettine colorate per la prima volta. Non abbiamo visto le labbra semiaperte dei piccoli quando guardano per la prima volta le centinaia di cioccolatini, le praline, gli arancini, esposti dentro una vetrina. E sentire dentro il brivido del loro desiderio che diventa subito volontà: forse un giorno potrò avere tutto questo.
Alla fine, se torno con la mente a quei giorni, vedo in quei ragazzini la loro essenza, quella della società liberale e capitalista. Non basta per la parola merce la definizione del vocabolario “qualunque bene mobile in quanto oggetto commerciabile”. Bisogna aggiungere da qualche parte le parole libertà, progresso, aspirazione... Così, al KeDeWe, amai la caduta del muro.
mercoledì 11 novembre 2009 09:33:05
E' proprio così, Fiamma, ho vissuto le stesse cose quando a Roma sono arrivati gli "Americani". Non si può spiegare ai ragazzi d'oggi cosa significò vedere il pane bianco (con la farina bianca), noi che avevamo conosciuto solo il pane nero, fatto con crusca, segale, ceci... e non so cos'altro ci fosse dentro; e poi, la carne in scatola, latte in polvere, cioccolata, le caramelle col "buco"; non si possono descrivere con le parole queste cose, perché l'interlocutore bisognerebbe che avesse vissuto, prima, le stesse privazioni dalle cose più semplici e quotidiane della vita, per almeno un quarto della sua esistenza.I giocattoli, poi, non ne parliamo; tutto fatto a mano. Per noi maschietti, la strada era il nostro "giocattolo"; i giochi, fantastici, epici, unici che i bambini praticavano erano l'essenza della socilità, dell'altruismo, della competizione, del divertimento, delle...ferite; le femminucce, invece, di tangibile, avevano qualcosa che le mamme ricavavano dai loro abiti smessi; quindi, le bambole erano costruite dalle mamme. Con la paglia e la segatura, modellavano il corpo della bambola che era cucito intorno ad una vecchia calza...e così via.Nessuno, se non c'è passato per queste privazioni, può rendersi conto di cosa ha privato il comunismo alla gioventù; come gli ha distrutto qualsiasi aspirazione al sogno, a l'ideale di libertà individuale, al piacere di vivere "in famiglia", con gli amici, dove si vuole e con chi si vuole.Quando, da giovanetto, vedevo le masse di lavoratori con le bandiere dell'Unione Sovietica, mi domandavo:" Ma come mai a questa povera gente non gli hanno spiegato che cos'è il comunismo; come vivono i loro fratelli lavoratori in Russia, cosa non fanno, cosa non mangiano, dove non vanno, perchè non parlano?"
Bruno Monferrà , Roma, Italia
mercoledì 11 novembre 2009 00:06:04
Bello stralcio di vita vissuta, e ottimo giornalismo. Però, Fiamma, non ricadere nella sciattezza italica del non controllare la correttezza dei termini che impieghiamo. I nostri avversari ne approfittano per prenderci in giro. KADEWE e non KE...così come KAGEBE' e non KE... ricordalo!Ti voglio troppo bene! Buon lavoro!