Il Giornale
L'errore degli ebrei: non sapersi difendere neppure dai nazisti
Abituati da sempre a cercare l'appoggio dei sovrani dei vari Paesi "accettarono" i ghetti e i lager. E a volte collaborarono con i carnefici
Quanto è problematica, irritante, provocatoria la storia ebraica, quanto ogni considerazione ci rimanda poi a problemi complessi cui gli storici non trovano mai una risposta soddisfacente. Ad esempio, perché gli ebrei non capirono che si avvicinava la mostruosa mannaia della Shoah? Perché si adeguarono (anche se non bisogna dimenticare che negli stessi anni nell'Yishuv ebraico di Palestina i guerrieri sionisti si battevano contro gli arabi per la loro Terra) a una realtà impossibile, a volte sistemandosi nei ghetti mortiferi, talora addirittura collaborando con i carnefici nelle deportazioni? Lo spiega in un affollatissimo libretto Yosef Hayim Yerushalmi, scomparso nel 2009 dopo aver donato al mondo alcuni fra i migliori studi sulla cultura ebraica. Ora la Giuntina ha avuto l'intelligenza di pubblicare questo saggio che, come spiega nella bella introduzione David Bidussa, racconta come gli ebrei, «per ricevere protezione cercarono alleanze verticali» e, abituati a ottenerle, non capirono nulla di ciò che stava per accadere nei territori occupati dai nazisti. Da sempre, sino ai tempi della Shoah, pensavano che «il re», o chi per esso, li avrebbe salvati, almeno dallo sterminio di massa. [...]
Obama copia JFK e Reagan per disinnescare il nucleare
Il Presidente a Berlino propone: via un terzo degli arsenali. Fa il verso ai due giganti che fecero la storia con una frase, in ben altri tempi. Ma lui parla troppo e sbaglia obiettivi
Sia Kennedy che Reagan dissero quattro parole a testa alla Porta di Brandeburgo, uno nel 1963, l’altro nel 1987. John disse: “Ich Bin Ein Berliner”, due anni dopo che il muro fra il mondo comunista e quello democratico era stato eretto. Voleva dire che il muro era il maggiore segnale del fallimento del comunismo e aveva ragione. Voleva riaffermare che gli Stati Uniti erano completamente, assolutamente anticomunisti e che avrebbero combattuto per i sudditi del comunismo come fossero stati loro cittadini. Ronald Reagan, dopo che tutti i consiglieri e i diplomatici glielo avevano caldamente sconsigliato, disse invece: “Tear down this wall”. Tira giù questo muro, se pensi davvero alla giustizia e alla libertà, signor Gorbaciov. C’era abbastanza decisione, ispirazione e insieme anche severità (fu Reagan a promuovere il decisivo emendamento Jackson and Vanick che aprì le porte dell’URSS) come si usa fra gente sincera, nella formula semplice usata dal presidente americano nel 1987, quella di chi sente che la storia preme, che ci siamo, e che non c’è bisogno di argomentare le proprie ragioni se si ha ragione. C’era poco da spiegare, molto da fare.[...]
Cosi la follia islamista crea i suoi terroristi fra di noi (e li uccide)
Il ragazzo ligure è figlio della nostra cultura zoppicante che sceglie la fuga più trasgressiva. Un furore etico che non lascia scampo
È tragica ed enigmatica la notizia che il Giornale ha ricevuto in queste ore. Un ragazzo ligure di 20 anni avrebbe perso la vita combattendo nelle file dei ribelli anti Assad in Siria, ovvero si sarebbe unito alla guerriglia sunnita legata all’islam più belligerante, affascinato da quella che a lui è parsa come la guerra in cui giocarsi l’esistenza. Non è certo il solo fra i nostri ragazzi che sia stato travolto dalla jihad, è invece uno dei tanti figli della nostra zoppicante cultura che sceglie la fuga più trasgressiva che riesce a inventarsi: quella di una immaginaria purezza che lo invola e lo assolve da tutte le cose del nostro mondo, dal consumismo, dalla promiscuità sessuale o semplicemente dalle ragazze ammiccanti e infide, dal vizio (come l’alcool, per esempio) e lo purifica in un fuoco che gli farà cambiare il mondo conquistandolo alla vera fede, alla redenzione. Compito magnifico.[...]
Erdogan senza freni: urticanti sulla folla
La vittoria di Damasco è la vittoria di Teheran
La Siria è il centro dello scontro tra gli ayatollah e l'Occidente
Un win-win game è molto comune in occidente, se ne parla quando tratti un affare, un accordo, un compromesso, di cui alla fine tutti sono contenti. L’ottimo commentatore di cose islamiche Harold Rhode parlando della Turchia spiega che Erdogan non cerca il compromesso con i dimostranti come avverrebbe da noi in circostanze analoghe, la sua cultura gli impone di cercare sempre la vittoria schiacciante, e così farà anche sulle folle che gli mandano il chiarissimo messaggio di non sopportare più la sua prepotenza, i giornalisti e i militari in galera, i bar chiusi, la reintroduzione del costume islamico più antiquato. In realtà, tutte le grandi questioni in gioco in questi giorni in Medio Oriente hanno questo segno: nessun compromesso in vista, anche se noi occidentali ne cerchiamo la traccia con la lente di ingrandimento perché la nostra cultura ce lo suggerisce.[...]
Assad sta vincendo e noi lo corteggiamo pure
Il rais guadagna terreno. E rivela: la Banca mondiale vuole fare affari con me
Al tempo della Guerra Fredda due grandi schieramenti attraversavano i confini geografici: l’una e l’altra parte combattevano accanitamente quella che sentivano come la battaglia più importante per le sorti del mondo. Oggi intorno alla questione siriana e in genere islamico-mediorentale una sola parte combatte con decisione, ed è quella dei cattivi: infatti sta vincendo. Siamo sempre stati convinti che alla fine vincano i buoni, ci hanno abituato così i film americani. Non è più vero.
I bad guys stanno vincendo e non con le armi che piacciono a noi, le parole, non con la prossima conferenza di Ginevra, non con i discorsi di Obama o i balbettamenti dell’UE: vincono intimidendo, bruciando, scannando, esplodendo. Una prova ne è la tracotante dichiarazione di Assad al quotidiano libanese Al Akhbar secondo la quale “i Paesi occidentali”, dice lui, gli propongono sotto il tavolo grandi business nel campo delle costruzioni e dell’estrazione del petrolio e del gas, dato che ce ne dovrebbe essere parecchio lungo le coste. “Persino la Banca Mondiale” -ha detto Assad- “che si muove eseguendo ordini americani, mi ha proposto un generoso affare: 21 miliardi in prestito a tassi agevolati, e ha espresso il desiderio di finanziare i progetti di ricostruzione”. [...]
È un errore tornare indietro dalle guerre
Quando cade un soldato si chiede il rientro delle missioni. La verità è che manca la vicinanza a quegli uomini
La guerra è un argomento facile: si sa bene che è insopportabile, che colpisce a caso e con cattiveria, è irrazionale. Il nostro ragzzo ucciso due giorni fa avrebbe dovuto tornare a casa nell'ambito del progressivo sgombero previsto per gran parte delle truppe Isaf Nato entro il gennaio del 2014. La guerra è brutta, l'istinto più naturale è quella di voltarle le spalle specie quando uno dei nostri muore non difendendo la sua casa, la sua famiglia, ma una casa e una famiglia lontanissime, mentre su di lui e i suoi compagni si affollano insensate accuse di desiderio di dominio. Tanto più l'istinto di andarsene è prepotente quando la guerra non va tanto bene, quando si deforma rispetto ai tuoi progetti. E in Afghanistan ce n'è stato di che: i talebani seguitano a rappresentare un nemico per Karzai anche quando ci parlerebbe, egli a sua volta non avrebbe certo retto senza il deciso sostegno occidentale. Le frazioni etniche e religiose del Paese, ben più variegate di quelle dei Pashtun che rapprentano la forza centrale e l'alleanza del nord dei Tagiki, gli Uzbeki, i Hazari, beneficiari dell'intervento Nato hanno molti nemici.[...]
Mandare un bimbo a uccidere. La nuova strategia dell'orrore
I talebani si vantano pubblicamente che a scagliare l’ordigno sia stato un ragazzino. Ma non è vero che non amino i loro figli: pensano che sia giusto farne degli assassini
Ci tocca anche di venire a sapere dai comunicati, nel dolore, che i talebani sono molto fieri che sia stato un bambino di undici anni a scagliare l’ordigno che ha ucciso il nostro Giuseppe De Rosa. L’orrore per l’uso dei bambini si unisce alla consapevolezza che De Rosa era là proprio per aiutare quel ragazzino. E noi che facciamo dei bambini una religione rabbrividiamo di fronte a tanto orrore. E’ una degna aspirazione, per gli islamisti estremi, siano sunniti o sciiti, spingere un bambino a uccidere e a morire in nome di Allah. Attenzione: non c’è solo crudeltà qui: c’è del metodo, e quanto. Il bambino, cioè, è amato, e veramente, dalla mamma e dalla società (generalizzo, si capisce) anche (non diciamo soltanto) nella misura in cui infligge danno all’avversario, perché l’avversario è il male stesso. No, il bambino che va a sparare o salta per aria con una cintura esplosiva non è disarmato, o negletto. L’amore che gli dedica la società islamista estrema ci deve insegnare quanto può essere profondo il pericolo, e la diversità. E ha anche un doppio uso.[...]
La morale degli sciacalli di Damasco
La tragedia che si trasforma in farsa non è una novità. Ed ecco una storia di sciacalli. La Siria, tutta contenta che il suo nemico Erdogan, primo ministro turco, si trovi nei pasticci a causa delle grandi manifestazioni che ieri sera hanno di nuovo occupato le piazze di Istanbul, fa una sua mossetta distraendosi per un secondo dalla sepoltura di tutti gli assassinati. Dall’inferno di sangue in cui nello scontro con Assad sono stati uccisi più di 80mila cittadini, il suo Ministero degli Esteri consiglia, che, date le dimostrazioni in Turchia, i turisti siriani (me li vedo, tutti coi pantaloncini corti e gli occhiali da sole per una vacanzina dall’inferno) non vadano in Turchia.[...]
Armi ai siriani. L'idea suicida dell'Occidente
L'Europa toglie l'embargo ai rivoltosi islamisti e Mosca dà ad Assad missili e aerei: è un boomerang
Una regola fissa in guerra è che fuoco chiama fuoco, quando si spara si sparerebbe, quando ci sono molti morti e feriti si cerca più sangue, le armi sono un magnete per nuove invenzioni belliche, e ciascuno degli attori approfitta per crearsi spazio mentre pretende di giuocare per la pace. Finché la realizzazione plastica dell’inferno su questa terra non conduce allo shock e alla rottura. Ci stiamo forse arrivando.[...]