Il Giornale
Pregiudizi e silenzi di Amnesty
sabato 26 maggio 2007 Il Giornale 0 commenti
Anche il Foreign Office inglese ha protestato per i pregiudizi contenuti nel nuovo rapporto annuale di Amnesty International per il 2006, appena presentato a Londra. Che peccato: forse è venuta l’ora di osservare con sguardo meno estatico di quello che il mondo ha fatto fino ad oggi una Ong che è diventata ben più politica che umanitaria. Amnesty è la bibbia dei diritti umani; se Amnesty condanna, è come se i Dieci Comandamenti ti venissero sbattuti sul viso, e di fronte al mondo. Ogni sanzione morale internazionale diventa possibile e anzi probabile. Le condanne comminate da quella che forse è la più famosa fra le Ong sono la pietra di paragone della religione del nostro tempo. Ma il fatto, con tutto il rispetto personale per coloro che lavorano sul campo anche in situazioni pericolose, è che la fiaccola della giustizia è passata nelle mani di un’ideologia e di gruppi politici che ne hanno per lo più fatto uno strumento politico e non umanitario; la storia dei diritti umani dal dopoguerra ha avuto la disgrazia di sposare lo schieramento «antimperialista», quello «anticolonialista», quello «anticapitalista» credendo di allearsi così a un mondo di oppressi. Ma ne hanno fatto le spese proprio uno sguardo chiaro e obiettivo sulle prepotenze dei dittatori appartenenti alla parte «antimperialista» del mondo. Il principio di responsabilità è stato diluito fino a sparire quando si parla di Terzo Mondo, mentre è stato esasperato e frainteso per l’Occidente e portato al calor bianco per gli Usa e Israele. La fine della Guerra Fredda non ha migliorato la situazione. L’Economist scrive dunque che una organizzazione che dedica più pagine agli abusi contro i diritti umani in Inghilterra o in America che alla Bielorussia o all’Arabia Saudita non può sfuggire a un dubbioso riesame del suo ruolo. Su Israele, naturalmente avviene la danza rituale più selvaggia. Con il rapporto annuale del 2006 presentato mercoledì scorso, Amnesty condanna Israele e gli Hezbollah parimenti, e li accusa, a causa dei civili uccisi da Israele durante la guerra dell’agosto scorso, di essere ambedue responsabili di crimini di guerra. Amnesty attacca Israele anche per l’alto numero di morti palestinesi, 650, sostiene in maniera opinabile, nel 2006. È una accusa inaccettabile dal punto di vista del metodo, della morale e delle conseguenze strategiche nel tempo della guerra asimmetrica. Nel numero delle persone uccise da Israele e che vengono per la maggior parte classificate «civili», in realtà, in un mondo di guerriglia senza divisa, si parla anche di militanti, e purtroppo di popolazione che serve di supporto logistico e strategico, di scudi umani che sia Hezbollah che Hamas usano normalmente come vantaggio strategico fisso. Nel documentatissimo rapporto di 50 pagine di «Intelligence and Terrorism Information Center for Special Studies» (CSS) si trova minuta descrizione, arricchita da molte foto, in cui si scoprirà la capillarità e la sofisticazione con cui quasi ogni casa, moschea, garage dei villaggi sudlibanesi sia stata trasformata da Nasrallah in una struttura adibita alla guerra e da cui i lanciarazzi sparavano contro Kiriat Shmone o Haifa, sui civili israeliani. Ogni statuto della legge internazionale che governa la condotta in guerra è qui stato violato. Hamas agisce sullo stesso modello. I villaggi sciiti sono stati una base operativa arruolata, per amore o per forza, quasi completamente, così che l’unità Nasr (1000 operativi regolari) e le riserve (3000 circa) non hanno mai combattuto soli, ma con lo scudo dei villaggi. L’organizzazione ha dunque violato tutte le regole ed è palesemente «criminale di guerra»; Israele può avere compiuto errori, magari anche occasionali crimini. Ma che c’entra con la sistematica, prescelta violazione delle forze terroriste? A Roma si direbbe che il linguaggio di Amnesty è una «pecionata» ma sarebbe un giudizio benevolo. La confusione è fatta apposta. Mentre Israele ha combattuto in un teatro di guerra in cui l’alternativa è fra il lasciare colpire la propria gente e difendersi in una situazione che Nasrallah ha descritto così in un discorso dopo la guerra: «Come potrebbero gli Hezbollah ritirarsi dalla regione a sud del Litani? Vorrebbe dire il ritiro dei cittadini di Aita che hanno combattuto ad Aita; di Bint Jebeil che hanno combattuto a Bint Jebel; di al Khiam, di al Taibe; di Meiss... tutti i giovani che hanno combattuto in prima linea sono di là...». In secondo luogo: nel rapporto sul 2006 Amnesty condanna Israele, in base ai parametri usati dall’Ngo monitor presieduto da Gerald Steinberg, molto di più di quanto non condanni l’Iran, il Sudan, la Libia, la Siria, l’Egitto. Violatori seriali, mentre Israele è una democrazia in cui libertà d’opinione, legge e ordine sono la regola. «È ridicolo - dice Steinberg - pensare che durante l’anno Amnesty ha emesso 48 pubblicazioni di “azione urgente” su Israele, mentre ne ha dedicate 35 all’Iran, 2 all’Arabia Saudita, 7 alla Siria». Ma Amnesty, che era nata per difendere i prigionieri, non ha mai richiesto la liberazione dei due soldati israeliani rapiti dagli Hezbollah. Su Israele sembra posseduto da una confusione concettuale per cui lo Stato ebraico si è macchiato di violazioni dei diritti umani, 42 volte, e, che so, il Sudan 15; crimini di guerra: 46. Il Sudan: 21... Se si guarda a tutti i Paesi islamici, la fanno in gran parte franca o vengono sanzionati in maniera molto blanda, mentre gli americani sono anche loro una vittima rituale. Amnesty per spiegare le sue fonti fa riferimento a «testimoni visivi» la cui oggettività è tutt’altro che certificata. I ricercatori di un think tank dell’Università di Londra e del Conflict Analiys Resource Center hanno raggiunto le stesse conclusioni esaminando, a Bogotà, uno studio di Amnesty sui conflitti in Colombia: «L’approccio di Amnesty e di Human Rights Watch... include scelte di fonti opache... non specifica le fonti, usa definizioni non chiare, parametri erratici di spiegazione».
Olmert il debole rafforza Hamas
mercoledì 23 maggio 2007 Il Giornale 0 commenti
È incredibile quanto sia stata abile Hamas nel suo gioco, quanto veloce la realizzazione del suo programma e quanto significativo esso sia non solo nel conflitto arabo israeliano, ma per le strategie della jihad mondiale. Adesso, l’Egitto trema all’idea che la Fratellanza Musulmana locale possa seguire il suo esempio e tentare atroci stragi fratricide come quelle dei giorni scorsi a Gaza. L’Arabia Saudita si mangia le mani per avere creduto di poterlo piegare ai suoi disegni con aiuti e credito diplomatico in cambio di un accordo fasullo come quello della Mecca del 17 febbraio. Abu Mazen è ridotto in un angolo: se resta nel governo seguita a servire una linea contraria alla sua; se abbandona, lascia l’Autonomia e anche l’Olp nelle mani di Khaled Mashaal. In ogni caso, in gioco c’è una dinamica «macro», quella di una forza ultrareligiosa sunnita ma anche legata all’Iran, che batte sul campo una forza laica musulmana e intanto attacca il nemico sionista. Che ispirazione, ad esempio, anche per il Libano degli Hezbollah e di Fatah al Islam e simili! La figura stessa di Arafat come padre e miniera ideologica della causa palestinese può essere destinata alla sostituzione completa. Khaled Mashaal si vive come il nuovo Arafat che rappresenta l’idealtipo palestinese al tempo della jihad globale, che costruirà una Palestina simile a un piccolo Iran sunnita, in cui non si sente musica, non si legge altro che il Corano, saltano per aria le librerie e le scuole cristiane. Il processo naturalmente è insanguinato, dato che gli uomini di Fatah sono ben armati e allenati e hanno una migliore disciplina. Anche il Fatah in questi giorni ha ucciso e ferito senza guardare in faccia nessuno. Ma, a detta di molti osservatori, Hamas, che oltre ai gruppi terroristi ha messo in piedi una Guardia rivoluzionaria di una decina di migliaia di miliziani sul modello iraniano, ha combattuto meglio. Ha vinto sul campo quasi ovunque salvo ogni tanto trovarsi di fronte qualche attacco di predicatori nelle moschee, qualche gruppo infuriato che li maledice per aver spezzato l’unità palestinese. È accaduto a Khaled Mashaal venerdì scorso, quando è andato a pregare in Moschea a Damasco, la sede da cui mette in atto le sue grandi strategie. Ma le centinaia di palestinesi feriti e le decine di uccisi per le strade dell’Autonomia, oltre alle risposte degli F16 israeliani sulle strutture e i personaggi reponsabili della pioggia di missili kassam su Sderot, Hamas non li considera un problema suo: li vede come una conseguenza della volontà di Dio in una strategia che deve eliminare gli infedeli e gli apostati e conquistare all’Islam non solo Israele, o la regione, ma il mondo. L’odio interno viene fomentato fino al parossismo: un maggiorente di Hamas urlava domenica alla piazza chiamando alle armi, che gli uomini di Fatah sono traditori, delinquenti, infedeli, che non desiderano altro che «andare a Tel Aviv» a divertirsi, forti dei documenti da vip forniti loro da Israele che li ha corrotti e comprati. L’Olp è arrivato al capolinea, pensa Mashaal e, oltre ad Abu Mazen, pianifica, devono tremare Moubarak e re Abdallah di Giordania, mentre i sauditi si piegheranno a non comandare i sunniti rivoluzionari ma ad accettare un condominio di comodo con Ahmadinejad. Nuova strategia, che al momento tiene in scacco anche Israele. Olmert non può entrare con l’esercito a Gaza e bloccare i missili kassam che si abbattono sulla popolazione disperata neanche dopo che ieri una donna di 32 anni è stata uccisa. Se entra, crea uno schieramento compatto di sostegno interno a Hamas e uno sbarramento di biasimo internazionale. Se non entra, la gente sarà sempre più convinta, e vieppiù dopo la commissione Winograd, della inettitudine di un governo che lascia che una città di venticinquemila abitanti venga bombardata poco prima del prime time della Tv, così che alle venti le case semidistrutte e l’auto della povera Shiri Friedman possano essere mostrati fumanti.
Recensione al libro di Carlo Panella "Fascismo Islamico"
venerdì 18 maggio 2007 Il Giornale 3 commenti
Il libro di Carlo Panella “Fascismo Islamico” edito da Rizzoli, è un volumetto così denso di contenuti e di passione da creare nel lettore la certezza, quando chiuderà l’ultima pagina, che da quel momento la sua visione del terrorismo e dell’Islam non sarà più la stessa. Il terrorismo musulmano e anche gli errori che compiamo nell’affrontarlo sia concettualmente che in pratica, sono il centro di un coraggioso lavoro che l’autore svolge da molti anni: Panella è un giudice spietato e dotto della natura irriducibile dell’insorgenza islamista e della nostra paura di prenderne atto. Abbiamo paura dell’Islam, dice Panella, perché da quel mondo "ci viene scaraventata contro una marea di violenza”. E l’uomo occidentale non sa come affrontarla, non è adatto, per struttura ed ignoranza, a capire il problema. E il rischio di questo rifiuto è semplicemente la nostra distruzione, perché è questo lo scopo dell’attuale millenarismo islamista alla Ahmadinejad. Non solo, dice Panella, l’uomo occidentale non vuole rendersi conto della violenza di morte che promana dal mondo islamico, ma rifiuta tutte quelle violenze diffuse e continue, che, bene in vista, impressionano la nostra fragile psiche che cerca sempre benevolenza, sorrisi e approvazione: “sguardi di donne velate, bambini imbottiti di candelotti di dinamite di cartapesta, apostati condannati a morte, cortei violenti contro vignette, perentorie richieste al pontefice di scusarsi”. Tanto repugnante, dice Panella, è l’idea di dover fronteggiare la verità che il mondo islamico è fascista, anzi, nazista; tanto pauroso il pensare che questa ideologia è diffusa “non solo tra i terroristi di Al Qaeda, ma anche e soprattutto in Iran, in Libano, in Palestina, in Siria, in Iraq e in tanti altri paesi musulmani”che preferiamo giocarci la pelle piuttosto che vedere, proprio come fece l’Europa alla vigilia dello scatenarsi della guerra nazista contro le democrazie. Eppure siamo proprio di fronte a “un movimento con un’ideologia antisemita e totalitaria, con largo consenso di massa”. E Panella ce lo dimostra citando intellettuali, clerici, leader politici che hanno trascinato l’Islam verso la deriva violenta: chi vuole imparare, vi troverà un vero manuale. Il significato di ciò che leggiamo, Panella ce lo spiaga con una citazione di Umberto Eco: esiste un criterio universalmente valido per riconoscere “il fascismo, per sapere che da là non verrà altro che “il fascismo”, ed è il culto della morte”. Eppure, dice l’autore, Eco che ha capito così bene pure non si avventura nella critica dei suoi amici “progressisti, democratici, pacifisti, che invece di attaccare i fascisti, attaccano chi li combatte, come George Bush, gli USA, Israele”. Alla sinistra che brancola lontano dalla verità, Panella dedica parecchia analisi; così come alla malevolenza antisemita verso Israele, all’odio antioccidentale di cui è fatto oggetto da parte del mondo islamico il Paese degli ebrei proprio in quanto ebrei. Panella strappa il lettore dal mito della speranza di una facile pace ottenibile con la cessione di terre, e anche dalla leggenda di uno iato concettuale fra panarabismo e Islam. Le due passioni ideologiche sono fasi diverse dell’unico sogno revanscista del mondo mussulmano, e della sua vocazione autoritaria. E’ coraggioso Panella nella sua esplicitazione di ciò che ciascuno sa e nessuno dice. La prova di questo coraggio e dell’originalità del pensiero dell’autore è contenuta proprio nell’atteggiamento opposto di chi guida la nostra politica. Javier Solana, l’uomo che, per l’Unione Europea è da anni fra quelli che hanno creato il guazzabuglio concettuale più fuorviante che si possa immaginare, propagandando risoluzioni del conflitto Medio Orientale che invece ne procrastineranno all’infinito qualsiasi possibilità di progresso. Solana, dopo la vittoria di Hamas e le sue iterate promesse di distruzioni di Israele, non trova niente di meglio da dire, concettualmente disarmato e distrutto, che “Hamas non può voler distruggere Israele”. Per Solana, “non può” perché sarebbe “un abuso della religione”. Ah no? La risposta alla stolta esclamazione di Solana, Panella la dipana nelle sue duecento pagine di storia e di politica da cui si erge paurosa la consistenza non solo di Hamas, ma soprattutto dell’Iran di Ahmadinejad nella sua determinazione a uccidere e a distruggere sia Israele che tutto ciò che essa rappresenta ai loro occhi, ovvero la democrazia e i costumi occidentali, veri e propri abomini agli occhi della religione. Molto vivo e convincente è il parallelo fra il nazismo di Hitler, la sua negazione da parte dei testimoni del tempo, l’enorme importanza dell’antisemitismo nel definire l’utopia conquistatrice della rivoluzione nazionalsocialista e gli stessi tratti evidenti e pure negati nella questione islamica. Ben ricostruita la minuta e radicata strategia Iraniana e l’invincibilità, di fronte alle armi della diplomazia e della ragione occidentale dell’impostazione apocalittica della rivoluzione Khomeinista. Panella rintraccia nella storia della reazione islamica la risposta al predominio del mondo occidentale vittorioso, la speranza di una riscossa spirituale, le terribili conseguenze pratiche e culturali dell’isolamento e della cultura vittimistico-trionfalistica. Il vuoto tragico di cultura e di libri, l’antagonismo invincibile fra sette e paesi, l’inferiorità codificata della donna, insomma, la tragedia dell’Islam viene descritta come un buio psicologico in cui si creano le premesse idoelogiche e psicologiche del terrorismo, che non sente ragioni nè vuole “parlare” con noi. Panella, nelle conclusioni della sua disperante disamina, cerca un punto di svolta e lo trova nella predicazione di Papa Benedetto XVI, nella sua puntualizzazione di un terreno di confronto, quello, dice Panella, del rapporto fra fede e ragione. Perché “l’Islam fondamentalista si basa sulla concezione di un Dio trascendente e incomprensibile”, quello della scelta jihadista e dei kamikaze, e di un antisemitismo cui la Chiesa a lungo non ha saputo di dire di no, e che la teologia della liberazione ha seguitato a praticare sotto forma di cieca critica allo Stato d’Israele.
Scontri e morti a Gaza, Hamas minaccia
venerdì 18 maggio 2007 Il Giornale 0 commenti
Quando sono entrati sulla sabbia di Gaza, oltre il confine, i carri armati israeliani l’hanno fatto di corsa, sollevando nuvole di polvere. Ma per ora di questo si tratta: polvere. Qualche centinaio di metri, e si sono fermati. Non c’è per ora un’autentica reazione israeliana ai missili kassam di Hamas su Sderot. Anche gli attacchi degli elicotteri contro le strutture militari di Hamas che hanno distrutto un edificio nel quartiere Rimal e hanno ucciso ieri mattina tre membri dei commando, non fermeranno l’escalation; i missili sono una funzione degli scontri fra Hamas e Fatah che anche essi possono acquietarsi ma non sparire. Perché questo avviene? Perché Israele non risponde se non parzialmente? Hamas è responsabile del sangue e delle distruzioni di queste giornate di orrore e architetto di uno snodo strategico inevitabile e machiavellico. Con uno schema semplificato, qui si misura da una parte l’impossibilità di un accordo funzionante fra Islam estremo e moderato e la maggior forza della parte islamista; e dall’altra, la difficoltà occidentale di fermare un’organizzazione senza regole e decisa a uccidere i suoi e gli altri in nome di un progetto «voluto da Dio». Alla Mecca Hamas e Fatah avevano siglato nel febbraio un accordo di non belligeranza: ma l’incompatibilità degli scopi delle due parti si è trasformata nella decisione di Hamas di prendere il sopravvento rispetto all’Olp che è sempre stata di Fatah; l’impegno di Hamas a fare dell’Autonomia Palestinese una parte dell’asse che intende distruggere Israele e l’Occidente antagonista per esso, dell’Islam, si è scontrata ontologicamente con lo scopo di Abu Mazen di stringere un accordo per ottenere territori dallo Stato ebraico col sostegno occidentale. La mallevadoria saudita è risultata molto debole di fronte all’impegno di Khaled Mashaal, il capo di Hamas a Damasco, verso l’Iran: Ahmadinejad spende centinania di milioni di dollari per tenere sulla griglia Israele e l’Occidente finanziando l’asse Hezbollah, Siria, Hamas. Gaza dall’uscita di Israele si è trasformata infatti in una roccaforte sullo stile del Libano del sud, traforata da gallerie che sono casematte, piena di tonnellate di tritolo, di missili terra aria e antitank, di terroristi importati. 6000 uomini fanno parte oggi di una milizia privata di Hamas, ben esercitata in campi situati qua e là in Medio Oriente, e presto il loro numero arriverà a 12mila. Mashaal pensa anche che il suo ruolo odierno è quello che fu un tempo di Arafat, che il suo pensiero e il suo ruolo di collegamento con la jihad mondiale siano la strada per la vittoria; Mashaal non farà nessun compromesso se non temporaneo, la religione e l’Iran non glielo permettono. In più, pensa che attaccare Israele con i kassam oltre a compiacere i suoi sponsor, trascinerà un debole nemico dentro una guerra molto promettente, simile a quella voluta da Nasrallah, che gli consegnerà la leadership di tutti i Palestinesi. D’altra parte, Olmert tentenna. Il governo, dopo le accuse della commissione Winograd, cammina su un filo. Se entri a Gaza, gli dicono, puoi fermare i missili, ma devi affrontare di fatto una nuova guerra in cui la parte avversa usa i civili, riacquista coesione a tue spese, magari porta a casa una «forza internazionale» come quella di cui parla D’Alema che certo non combatterà il terrorismo, mentre Hamas può riempire Israele di attacchi terroristi suicidi, come ha già minacciato ieri. Ieri durante l’ennesima sirena che ripeteva l’allarme: «Tzeva adom», colore rosso, fra le grida di disperazione, la gente impazzita che correva con le mani sulla testa, si è vista una madre che dietro un’auto si accovacciava sulla sua bambina per difenderla, e ragazzi che entravano dalle finestre sugli autobus che sgomberavano la folla a spese del miliardario Gaydamak. Il comune ha aperto liste cui si possono iscrivere quelli che «per motivi seri» non ce la fanno più a restare in città. Uno smacco morale evidente per Israele, una spinta a reagire quanto prima. Ma alcuni consiglieri militari dicono: colpiamo piuttosto obiettivi puntuali, creiamo dentro Gaza una situazione che spinga la popolazione a fermare la politica di Hamas, blocchiamo le infrastrutture civili, ma non impantaniamoci in una guerra. Altri insistono: ricordiamoci del Libano e agiamo conseguentemente a Gaza, se avessimo usato le truppe di terra gli Hezbollah oggi non sarebbero di nuovo armati e pronti per il sandwich nord-sud con Gaza, che nei loro disegni strangolerà Israele. Quello che si può notare è che l’umore palestinese è estremo, Hamas e Fatah hanno compiuto crimini spaventosi l’uno contro l’altro, siamo al punto che militanti di Hamas hanno ucciso cinque dei loro che erano tenuti in ostaggio da Fatah pur di uccidere i nemici. Anche Fatah ha giuocato la sua parte con grande ferocia. Però se si pensa che Mohammed Dahlan, il capo storico della fazione di Fatah a Gaza, non è in loco e ha presentato un certificato medico per un’operazione mentre la sua famiglia è al Cairo, è facile capire chi domina il campo.
D'Alema l'inossidabile antimperialista
giovedì 17 maggio 2007 Il Giornale 1 commento
Per me, un Ministro degli Esteri europeo oggi deve avere una missione prioritaria: essere uno scudo delle democrazie occidentali, promanare un messaggio di coraggio e di audacia concettuale di fronte al grande attacco terrorista mondiale, di autentica ricerca della pace contro il massimalismo, insomma, di innovazione perché la situazione mondiale è nuova. Un Ministro degli Esteri deve dare il senso di appartenere anima e corpo a una civiltà, a un pensiero, all'alleanza delle democrazie. La destra e la sinistra non c’entrano, c’entra la capacità innovativa di fronte all’eruzione di nuovi problemi internazionali. Ma D’Alema non è nato per questo, perché è un conservatore di sinistra. Un militante. Era davvero meglio che facesse il Presidente della Repubblica, un ruolo fatto per esplicitare buoni sentimenti, come sostenne Giuliano Ferrara con atteggiamento un po’ paradossale. Come Ministro degli Esteri ha un problema fondamentale: i suoi sentimenti «antimperialisti» sotto una sottile superficie bollono e quindi ben presto eruttano come lava. D’Alema aspetta sempre D’Alema all’angolo. Ha cercato di avere un buon rapporto con gli americani, si è inventato la formula dell’equivicinanza nel conflitto Medio Orientale (mentre è evidente che una democrazia che ha offerto tutto e ha ricevuto in cambio terrore, non può avere lo stesso atteggiamento verso un mondo autoritario, terrorista e teocratico); ha dedicato le sue migliori energie all’Unifil, sostenendo che avrebbero salvato il Libano e Israele dal riarmo degli Hezbollah; si è arrabbiato contro i due disgraziati comunisti che gli hanno mandato in crisi il governo sul rifinanziamento della missione in Afghanistan...Ma non ce l’ha fatta proprio a sostenere quella parte liberal clintoniana; il suo cuore e la sua mente appartengono al tempo e allo schieramento in cui gli Usa come Israele sono sinonimo di oppressione, prepotenza, imperialismo. Il rapporto con Condi Rice è saltato sulla vicenda Mastrogiacomo, sulla pretesa acquiescenza Usa che non c’era, sulla scelta italiana delle mediazioni movimentistiche. Senza scordarci, comunque, anche con le dovute cerimonie, l’Italia ha lasciato l’Irak come primo gesto di politica estera. In Libano, mentre continua l’assedio degli Hezbollah al governo di Seniora e a Israele, è noto che Nasrallah è già pronto con nuove armi iraniane, passate dal confine siriano, alla prossima guerra. L’Unifil è stata una delusione. E resterà indimenticabile l’immagine di D’Alema il 14 agosto a braccetto con gli Hezbollah in un corteo che ispeziona le rovine della guerra nel quartiere di Beirut che più che Libano è da tempo Nasrallahland. Per Israele, è stato un continuo rimprovero: ricordiamo solo la condanna per l’uso eccessivo della violenza durante la guerra in Libano, in cui gli Hezbollah attaccavano con i missili i civili di Haifa e di Kiriat Shmone e si facevano scudo dei loro civili (mai una parola italiana su questo pur cruciale tema che vanifica la convenzione di Ginevra); e l’affermazione irrazionale per cui la strage di Beit Hanoun (a Gaza, un edifico in cui per errore furono uccisi dei cittadini fra cui otto bambini) è non un caso, ma il «frutto di una politica, di una scelta sbagliata...c’è chi di fronte a questa scelta parla di un errore! Come un errore!», disse D’Alema. Il Ministro degli Esteri italiano crede nel suo retaggio ideale: seguita a pensare che gli Usa abbiano posto una sorta di veto sulla politica mediorientale; che sia per l’Irak che per le altre questioni dell’Islam questo vada contrastato; ed ha anche la convinzione, ormai obsoleta, che Israele resti il motore, alimentato dagli Usa, dei conflitti del Medio Oriente; e che il terrorismo, come ha detto più volte, non vada visto «in maniera semplificata». Sull’Iran siamo ambigui, su Hamas possibilisti, sull’Afghanistan perplessi e dubitosi, sull’Irak ci piace considerarlo un sintomo delle insufficienze di Bush, non diamo segno di sostenere in maniera consistente i dissidenti che vengono condannati, torturati, uccisi. La nostra lodevole battaglia contro la pena di morte dovrebbe tenerne più conto. In poche parole, D’Alema non ha un messaggio morale chiaro, non consegna alla gente nessuna arma concettuale perché insegnino ai propri figli a difendere la nostra vita e la nostra cultura, non spinge il mondo islamico a prendere responsabilità, non insegna a lottare contro il terrorismo per amore della libertà.
Noi abbiamo rischiato la vita in Libano, i politici che sbagliarono vadano a casa
sabato 12 maggio 2007 Il Giornale 0 commenti
«La tempesta della commissione Winograd ci voleva, chi ha sbagliato vada a casa, ci vogliono uomini nuovi alla testa del Paese per prepararlo alle nuove sfide», dice Tomer davanti al cappuccino. Da poco sposatosi a Roma con Dana (lei la mattina ha corso la maratona, al pomeriggio siamo andati al tempio maggiore), agente immobiliare, adesso vola alto sulle ondate che scuotono il mondo politico e militare in crisi. Tomer Bouhadana, il comandante dei riservisti che si è rifiutato di morire a Merkabe, vuole essere la nuova Israele adatta alla sfida di domani, vuole essere il post Winograd: spesso lo si vede alla tv e in iniziative pubbliche, pulito, semplice, antigovernativo quanto si può, e con lui emergono altri leader proprio dalle ceneri della guerra contro gli Hezbollah. Perché nel cuore della riarticolazione di Israele, i grandi offesi che oggi guidano la rivolta popolare dopo lo scoramento subito sono i «miluim», le riserve. Sul confine del Libano, li ricordo stufi e delusi, nei sacchi a pelo con l’arma per terra al fianco, giorni di attesa senza che ci si decidesse a mobilitarli davvero e poi nella notte a piedi o sui tank in Libano in battaglia. Dall’avvocato al verduraio, la riserva è la forza di Israele, salta in macchina alla chiamata dell’esercito, caccia i clienti, chiude bottega, molla la famiglia. Winograd ha denunciato che erano poco preparati a quella guerra, che il fucile era vecchio, tardiva la chiamata. Seduto davanti a me, al caffè, nella luce rosata di Tel Aviv, sorriso da Micky Mouse, viso liscio di trentaduenne, occhi napoletani ereditati da una famiglia di ebrei marocchini, è difficile, non fosse per quella cicatrice di entrata e uscita sul collo, ricordarlo sulla barella, vicino all’elicottero che sta per evacuarlo dal villaggio di Merkabe, in Libano. Così lo ha visto effigiato tutto il mondo: Tomer Bouhadana comandante della 91esima divisone, coperto dalla maschera ad ossigeno, l’intubatura, le fasce, la mano del medico che cerca di bloccare con le dita il flusso del sangue che esce dalla giugulare. Solo la forza di volontà e la pressione delle dita del dottore da campo «Itzich» lo trattenevano in questo mondo, Tomer alzava la mano facendo la V in segno di vittoria: «Cercavo di seguitare a respirare, il dolore era terribile, sentivo un immenso masso sul petto. La mattina alle cinque eravamo entrati a Merkabe protetti dal fuoco delle batterie. Dovevamo conquistare la strada fino alla Kasba; la notte l’avevamo trascorsa parlando di cosa sia un combattente, e molti sottolineavano la preparazione tecnica, le armi. Io dissi la mia: “fighter”, combattente, è soprattutto un tratto interiore, qualcosa che ti protegge dalla paura: anche un bambino che combatte il cancro in ospedale è un fighter». All’alba, in marcia verso la Kasba, l’imboscata attende il battaglione da un edifico isolato: spari e bombe feriscono Tomer e i suoi. «Non ho pensato che stavo morendo. Ho detto a Ofir, un medico, che i soldati dovevano prendere l’edificio numero 68, mandando avanti il tank». Pensai che Nasrallah non avrebbe dovuto vedere in fotografia un altro israeliano morente, e ho promesso con la mano che avremmo vinto». Ma poi non avete vinto, dico. «Noi ci battiamo corpo a corpo, loro combattono da lontano e nascosti; noi, in quella battaglia abbiamo ucciso dieci Hezbollah e loro tre dei nostri; noi parliamo in pubblico delle nostre crisi, a loro è proibito. Ha mai sentito un Hezbollah lamentarsi di Nasrallah? Mettiamo le cose nella giusta proporzione. E poi, la vittoria è una battaglia di coscienza; non svenendo ho segnalato la mia vittoria, anche se mi avevano operato alla gola da sveglio per evitare che io soffocassi. Adesso abbiamo una grande sfida da vincere, e ci voglio mettere la stessa energia». In politica? «Se serve». Ricordo che tutto il Paese è in piazza per chiedere le dimissioni di Olmert, ma che la forza del vecchio gruppo è la mancanza di ricambio. Tomer ci pensa: «Quando arriviamo al miluim (il servizio della riserva, ndr), in pace e in guerra, niente giochi, siamo un tutt’uno, il verduraio e il professore. L’ethos di cui abbiamo bisogno è con noi: il medico da campo, Israel Weiss, corre in prima linea anche se non è combattente». Un ufficiale è entrato da solo con un tank a Bint Jbel per salvare i suoi soldati. Il problema è coniugare l’essere uno per l’altro con un Paese capitalista e tecnocratico. La riposta sta sempre negli uomini, spero anche nel movimento che si è appena formato, per chiedere le dimissioni di Olmert. Forse Winograd ci ha salvato».
A Parigi l’amico di Israele
martedì 8 maggio 2007 Il Giornale 0 commenti
Israele è contenta dell’elezione di Sarkozy: il governo esprime la sua soddisfazione e Benjamin Netanyahu, capo dell’opposizione, scrive un’autentica elegia in lode del suo amico Nicolas. Si capisce, i toni restano quelli delle congratulazioni e degli auguri, ma la speranza è che un ruolo nuovo della Francia, il ponte con la Germania che si configura, la diversa predisposizione all’atlantismo, cambino davvero le carte sulla tavola mediorientale. Sarkozy ha detto chiaramente durante la guerra del Libano che gli hezbollah ne erano la causa; ha ripetuto che Israele ha diritto all’autodifesa; ha lodato lo sgombero di Gaza come premessa per una soluzione che prevedesse due Stati per due popoli e ha biasimato l’incapacità e la mancanza di volontà dei palestinesi di prevenire il terrorismo. La Francia di Chirac invece è stata l’epitome dell’ostilità anti israeliana, le sue opinioni sono giunte fino alla diffamazione e al paradosso. Chirac ha avuto verso la questione mediorientale un atteggiamento unilaterale, di antipatia viscerale per lo Stato ebraico: forse, ciò è in parte dovuto all’antiamericanismo di origine gaullista, un’interpretazione misera del diritto di primogenitura occidentale della Repubblica francese; in parte a un polveroso, insidioso quanto radicato antisemitismo piccolo borghese, in parte vichysta; in parte facile dono alle rumorose minoranze musulmane o omaggio alla cattiva coscienza colonialista; o ancora leziosa ambizione di essere una versione moderna della spada dell’islam nutrita però di interessi molto terragnoli, denaro, imbrogli, «oil for food». E la sinistra a sua volta si è abbandonata in questi anni a intemperanze eccessive contro Israele, da quando nel 1967 - durante la Guerra dei Sei Giorni - la Francia, che era molto più degli Stati Uniti l’ispirazione, l’amore occidentale di Israele, impose l’embargo sul piccolo Paese che combatteva per la vita; da quando De Gaulle puntò sul mondo arabo per creare un’alternativa egemonica agli Stati Uniti, da quando sulla sua scia Chirac si era fatto paladino prima di Saddam Hussein, poi di Arafat che, davvero, rappresentava la sua fonte ottimale per capire i problemi del Medio Oriente, la Francia era diventata per Israele la bandiera di un atteggiamento malato Sia Sarkozy che Ségolène Royal si sono accorti del paradosso dello scegliersi un nemico «sionista» nell’era della jihad, avevano identificato che nella politica di Chirac l’elemento nevrosi conduceva al rischio politico eccessivo, anche sul fronte interno, dato che gli immigrati hanno già dimostrato il loro potenziale di essere una bomba ideologica vagante: nessuno può dimenticare la scena di Chirac a spasso per la Città Vecchia che prende a spintoni un agente della sicurezza israeliano dislocato vicino a lui per difenderlo; né si può non percepire la bizzarria delle parole che Chirac pronunciò nel gennaio: dopo tutto non sarà un grande danno - disse - se l’Iran avrà una o due bombe atomiche; o quando pianificò di mandare degli inviati in Iran per chiedere che gli hezbollah, che peraltro non ha mai voluto riconoscere come organizzazione terrorista, risparmiassero i francesi presenti nella missione dell’Unifil e per annunciare che la Francia non avrebbe fatto pressione sull’Iran contro il nucleare. Sull’Iran, che oggi è certo il più importante argomento per Israele, Sarkozy ha un atteggiamento inequivoco, come è evidente la sua decisione di creare, pure da una posizione alta, di parità, un rapporto molto più amichevole con gli Usa. La visione arafattiana di Israele come nemico dell’umanità non appartiene affatto alla sua cultura e questo ne fa quanto meno un honest broker per il Medio Oriente, ciò che invece certo Chirac non era. Sarkozy più di Ségolène dà fiducia per una storia che potrebbe essere israeliana fatta di umili origini, di un nonno ebreo, di una carissima mamma, di una faccia dolce e anche proletaria da ungherese povero. Fece grande effetto la sua dichiarazione del marzo scorso, quando disse che era arrivato il momento «di dire alcune verità ai nostri amici arabi, ovvero che il diritto di Israele di vivere nella sicurezza non è negoziabile, e che il terrorismo è il loro vero nemico». In quell’occasione dichiarò anche la sua decisione di difendere «l’integrità del Libano, incluso il disarmo degli hezbollah». Ma l’entusiasmo non deve essere imprudente: si farà presto viva la tradizione del Quai d’Orsay che da quando nel 1893 convinsero un aspirante diplomatico ebreo a ritirare la sua candidatura, fino alla famosa esclamazione dell’ambasciatore francese a Londra «Questo piccolo paese di merda ci porterà tutti alla guerra», è sempre stata poco simpatetica verso gli ebrei, anche se per legge, dal 1920, tutti possono accedere al suo servizio. Di fatto il grande palazzo che siede sulla riva sinistra della Senna ha una tradizione filoaraba romantica, letteraria, pratica, che ha costruito svolte storiche da cui sarà difficile affrancarsi, dalla vendita dei Mirage alla Libia alla costruzione delle strutture nucleari di Ozirak per Saddam, al voto alle Nazioni Unite in cui Israele veniva accusato di commettere crimini di guerra nei territori occupati, al rifiuto di far atterrare gli aerei americani durante la guerra del Kippur, al grande ricevimento per Arafat all’Eliseo in pieno terrorismo... De Gaulle nelle sue memorie scriveva che la Francia era «una potenza musulmana» e che «nessuna situazione può godere di stabilità strategica, politica o economica a meno del supporto arabo». Sarà dura per Sarkozy, anche se davvero lo vorrà, cambiare la tradizione.
La malattia della pace
lunedì 7 maggio 2007 Il Giornale 0 commenti
Make no mistake, direbbe George Bush. Quello a cui stiamo assistendo in Israele, non è quella scena di contrizione, pena, vergogna, che vedete descritta anche sui giornali italiani con una certa soddisfazione. Non è la dichiarazione di fine della deterrenza israeliana, e quindi l’obituario dello Stato ebraico. Non è una contrizione rispetto al tema stesso della guerra, dell’esercito, dell’uso della forza. Qualcuno, come lo scrittore Meir Shalev che ha parlato in piazza Rabin a Tel Aviv la presenta così, ma si tratta di un’interpretazione su cui la sinistra israeliana, ormai da molti anni in crisi dato il pessimo uso fatto dai palestinesi di tutte le proposte israeliane di scambiare «land for peace», cerca di prendere un passaggio. Shalev può auspicare e forse aiutare a vincere una leadership che faccia aratri dell’acciaio della spada, come vuole la Bibbia; Hezbollah e Hamas useranno l’occasione per dimostrare di nuovo che le armi sono più interessanti. Di fatto il volume di critiche che il giudice Winograd ha recapitato nelle mani degli accusati e descritto loro, causandone il giusto, pubblico ludibrio con autentica escoriazione democratica, è un documento totalmente non ideologico. È un pratico, asciutto, per quanto orripilante, catalogo di tutti gli errori possibili che si possono fare in guerra, ma non ha nulla a che fare col pacifismo, non è una messa in scena di buoni sentimenti. Al contrario, semmai è un manuale per non perdere la prossima guerra. Ed è, senza remissione, il documento che un gruppo dirigente privo di modestia e di esperienza militare si merita per essersi fatto mettere nel sacco da una milizia sciita filoiraniana e terrorista bene armata, fornendo così all’Iran e ai suoi protetti, gli Hezbollah e anche Hamas, nuovi spunti di ispirazione, in uno scenario che sta acquistando la forma del fungo atomico. Nel rapporto si trovano tracce non tanto di una debolezza intrinseca, quanto di un accecamento ideologico e politico: è la certezza della classe dirigente che bisogna strizzare l’occhio al pacifismo per aver il successo politico che ha messo Israele in condizione di perdere la guerra. È l’improvviso risveglio da questo nirvana che fa onde tanto alte oggi. Non la ricerca di una leadership che cerchi accordi impossibili con nemici spietati. È per questo che in Israele non si incontra nessuno, o quasi, che sia favorevole a una permanenza di Olmert al governo, e ancor meno a quella di Peretz. Anche su Tzipi Livni, che piaceva all’opinione pubblica, vi è biasimo perché non si dimette. Ma se ogni israeliano, di destra e di sinistra, ha fiducia nel sistema che si è scelto, quello della democrazia rappresentativa, perché Yair Regev, il capo dei soldati delle riserve in rivolta, ormai tribuno della piazza, vuole così tanto cacciare Olmert e i suoi? Perché nessuno, sia chi fa la spesa allo Shuk di Mahanei Yehuda, tante volte saltato per aria per gli attentati terroristici, sia chi prende un caffè in Shderot Rothschild a Tel Aviv, sotto i grandi ficus benyamina dove l’aristocrazia intellettuale ashkenazita sosta in chiacchiere, è deciso a far dimettere Olmert? La risposta risiede nell’antropologia stessa del gruppo di Olmert dopo la scomparsa di Arik Sharon dalla scena: cinquanta-sessantenni borghesi, proiettati sulla speranza di un’Israele tutta high tech, finalmente normale, amanti del denaro e dei piaceri. Andava bene finché questo sogno è tramontato sul fallimento di Oslo, e poi dello sgombero da Gaza; l’ha spazzata via Ahmadinejad, e poi la scelta dei palestinesi di seguire Hamas, e poi le armi siriane che hanno di nuovo riempito le fortezze di Nasrallah nonostante la fiducia accordata all’Unifil... Questa classe dirigente è rischiosa, ormai, per la vita degli israeliani. Non le erano mancati i mezzi, l’esercito è tuttora dotato di uomini pieni di bravura e buona volontà, persino di giovani eroi; ma le riserve non si esercitavano se non sporadicamente. Lo si legge nel documento; e vi si spiega anche come per proteggere la vita dei suoi soldati Tzahal cercava semplicemente di tenersi lontano dagli Hezbollah e di non rispondere al fuoco mentre dal 2000, ovvero dal ritiro, gli Hezbollah seguitavano a sparare dentro Israele e costruivano la loro forza. Nel novembre del 2005 quando il Comando del Nord dette il permesso di distruggere una cellula di terroristi piazzatasi sul confine, il Capo di Stato Maggiore bloccò l’operazione. La mattina del 12 luglio, giorno del rapimento di Eldad e Goldwasser e dell’uccisione dei loro tre compagni, la ronda precedente alla loro tornò terrificata e raccontò che là fuori c’era l’inferno. Il comandante cercò di mantenere il ritmo: «business as usual», uscite e non sparate. Rispondere all’aggressività degli Hebzbollah è stato semplicemente proibito per anni, anche perché Sharon, dopo il trauma di Sabra e Chatila, si guardava bene dall’aprire un contenzioso. I piani, dice la commissione, per intraprendere un’operazione di terra contro gli Hezbollah, esistevano. Le informazioni di intelligence sullo stato delle forze della milizia terrorista erano precise. Ma nessuno le ha mai usate attivamente: la pace era obbligatoria. Adesso che è di moda ripetere quanto sia stata sconsiderata la scelta di un’operazione dall’aria, non si capisce ancora bene cosa si stia dicendo: la proposta del Capo di Stato maggiore, seguita ciecamente da Olmert e Peretz, piacque perché pareva garantire la salvaguardia delle vite dei soldati. E di per sé, non era perdente. Ma sia Dan Halutz che Olmert hanno rimosso scegliendola il fatto che un’operazione dall’aria risulta effettiva quando si sceglie di condurla senza tener conto del problema della guerra asimmetrica, l’uso dei civili come scudi umani. L’esercito non voleva certo bombardare a tappeto i villaggi, e non l’ha fatto, non lo farà. Per fortuna, diciamo noi. Dunque l’uso delle forze di terra era indispensabile. La malattia della classe dirigente israeliana dunque non è quella della guerra, ma semmai quella della pace. La cura indicata dalla commissione Winograd e dalla stessa società israeliana, quella che ha affrontato il terrorismo e le guerre senza fuggire e senza batter ciglio è molto più semplice e più complicata di quel che sembri a noi europei che strologhiamo sulla guerra senza conoscerla: cambiare classe dirigente e sopravvivere. Senza ridere e senza piangere.
La pace impossibile di Israele
martedì 1 maggio 2007 Il Giornale 0 commenti
È un terremoto del nono grado quello che ieri un gentile giudice in pensione con le orecchie a sventola di nome Eliahu Winograd (nella foto) insieme ai suoi quattro anziani compagni, ha causato in Medio Oriente con il suo rapporto di 218 pagine in cui la parola «fallimento», cheshel (tre consonanti in ebraico, caf, shin, dalet), è ripetuta 166 volte. Ma non hanno capito bene gli Hezbollah, che hanno trasmesso parola per parola, in traduzione simultanea, le espressioni di condanna per il Primo ministro Ehud Olmert (nella foto), il ministro della Difesa Amir Peretz e l’ex capo di Stato Maggiore (che si è dimesso già da tempo) Dan Halutz che Winograd ha pronunciato. Non possono capire, con la testa piena di retorica, di odio, di prepotenza, le parole nette, semplici, inequivocabili, senza giochetti, inganni, senza pietà o compiacenza, che non risparmiano accuse di inefficienza, di ignoranza, di irresponsabilità a coloro che siedono sui più alti scranni del potere... Mentre il vecchio giudice parlava piano, con stile pulito, senza aggettivi, mentre Olmert con gli occhi sempre più gonfi lo fissava rosso in viso, Al -Manar, la tv di Nasrallah, miserabilmente mandava in onda una palla da biliardo che butta giù una serie di birilli su cui sono effigiate le facce dei leader israeliani, la sigla del trionfale programma che certo ha avuto molti emuli in tutto il Medio Oriente. Israele si autocritica fino a sanguinare, che soddisfazione. Anzi: quale vittoria, hanno certo pensato i vicini di Israele. Nel mondo di quasi un miliardo di persone che circonda la minuscola democrazia mediorientale, 7 milioni abitanti, dalle case oltre il confine in cui criticare il potere equivale alla pena di morte, alla tortura, alla prigione, in un mondo in cui ancora oggi gli egiziani credono seriamente di avere vinto la guerra del 1973, e in cui di tutte le sconfitte si accusa la congiura ebraico-americana rifiutando riflessione e autocritica, gli Hezbollah invece di rallegrarsi tanto avrebbero forse dovuto domandarsi come mai pur di restare fedeli alla verità le istituzioni israeliane, per loro stessa decisione, si flagellano. E noi stessi possiamo chiedercelo con preoccupazione, certo, ma ricavando da questa vicenda soprattutto l’idea che la parola democrazia è coniugabile con democrazia, a differenza di quello che tanti pensano o pretendono di pensare. Il grande storico del Medio Oriente Bernard Lewis spiega bene come la rovina economica e culturale, il totale declino del mondo arabo è proprio nato dal rifiuto dell’Islam di cercare dentro di sé le risposte sulla sconfitta dall’Occidente dopo i primi sette secoli di grande dominazione: dogmatismo, vittimismo, trionfalismo, millenarismo religioso unito a selvaggi costumi di aggressione terrorista, questo è stato il risultato di secoli di negazione delle proprie difficoltà, mentre l’Occidente fioriva.
Adesso lo stato d’animo a Gerusalemme, a Tel Aviv, a Haifa, si capisce, è oltremodo eccitato e anche confuso: sono spietate le accuse a Olmert di non avere soppesato con ponderatezza cosa significava la guerra, di esservi entrato impulsivamente senza aver chiaro l’andamento e gli scopi della guerra, di aver ciecamente seguito le indicazioni di Dan Halutz di gestirla dall’aria senza aver studiato le alternative. È micidiale l’accusa a Peretz di aver occupato il suo ruolo da incompetente, senza neppure provarsi a capire. È definitiva l’accusa a Halutz di aver immaginato una vittoria dall’aria praticabile solo nella sua fantasia di ex capo dell’aviazione. Israele è già in piazza da queste ore per chiedere le dimissioni di questo governo, specialmente alla luce della possibilità di una nuova guerra, che non può essere affrontata da questa leadership.
Olmert e Peretz hanno fatto sapere che non intendono andarsene. Ma come potranno resistere alle accuse dei loro giudici, come ai genitori dei ragazzi uccisi in battaglia negli ultimi giorni e ai soldati delle riserve che troppo tardi sono stati mobilitati senza preparazione adeguata? Tzipi Livni, Bibi Netanyahu, Ehud Barak, altri politici non implicati o meno implicati (tutto il governo votò la guerra) nelle responsabilità di questa guerra, cominciano a prepararsi all’agone politico. Intanto l’esercito già da tempo ha dato il via a un lavoro di radicale revisione. Ma la commissione Winograd pone due problemi sostanziali: il primo è quello di decidere con i piedi di piombo, con piani precisi e consistenti quando è il momento di combattere. Il secondo è che il nemico fanatico e ben armato dall’Iran non deve essere più sottovalutato. Winograd insomma dice che in Israele era ormai viva l’illusione di poter vivere evitando ogni guerra nonostante il fallimento di Oslo e nonostante gli Hezbollah avessero seguitato a bombardare il Paese anche dopo il ritiro del 2000. È parso che pensare la pace fosse equivalente a farla, sostiene Winograd. Poi venne il 12 luglio lungo il fronte del Libano, i soldati rapiti, le katiusce, i kassam, i missili zilzal, e gli errori. Adesso, una democrazia forte e ferita cerca di pensare, mentre gli Hezbollah festeggiano.
Il bivio di Israele
giovedì 26 aprile 2007 Il Giornale 0 commenti
Non c’è fronte su cui Israele non sia drammaticamente impegnato in queste ore: oltre alla possibile incriminazione del Primo Ministro Ehud Olmert, ci sono atteggiamenti pratici da scegliere e di cui si discute freneticamente su due pilastri della vita di Israele. Sono due domande fatali, una sulla guerra, l’altra sulla convivenza con gli arabi, ma la loro dura realtà è così appesantita di significati da fare apparire ogni logica realistica impossibile. Il primo tema: ieri, dopo giorni da quando, vogliamo dirlo? era fuggito e aveva dato le dimissioni dalla Knesset, molte interviste dal Cairo e parecchie chiacchere fra cui la promessa di tornare, è stata diffusa la notizia che il deputato arabo israeliano di Nazareth Azmi Bishara, del partito laico Balad, è sospettato di tradimento e riciclaggio.Sembra possibile che Bishara abbia nientemeno che ricevuto denaro dagli hezbollah per consegnare informazioni durante la guerra dell’agosto scorso. Bishara dichiara di essere discriminato e perseguitato in quanto arabo, e dice alle tv arabe che tengono per lui con tutto il cuore, che durante la guerra del Libano si limitava a parlare al telefono con una amica di Beirut. Certo è che Bishara, filosofo e sociologo, negli anni ha risolto il dilemma di essere un arabo israeliano immerso nella democrazia israeliana fino al rango di deputato facendone l’uso più estremo, quello davvero impensabile in qualsiasi paese arabo, con una identificazione totale col nemico. E’ rimasta famosa una sua visita in Siria a Bashar Assad in settembre, in cui avvertiva Assad che “Israele potrebbe lanciare contro di voi un attacco preventivo per ristabilire la deterrenza e superare la sua crisi interna”; poi, in una visita agli Hezbollah, li lodava per “aver sollevato con la guerra lo spirito Arabo” e applaudiva le promesse di distruggere Israele. A Hamas aveva detto “non fate mai nessuna concessione a Israele” e di non escludere la possibilità di una “guerra regionale in cui Siria a Iran si uniranno contro Israele”. Adesso, mentre la magistratura rende pubblici i suoi micidiali sospetti contro Bishara, Israele si trova molto realisticamente di fronte a un attacco di opinione pubblica innanzitutto araba che presto si allargherà all’Europa, quella che ama dichiarare Israele razzista. La discussione, come no, metterà di nuovo in questione la democrazia israeliana stessa Il nodo arabo israeliano, sempre più problematico di fronte alla crescente guerra jihadista, verrà al pettine. Sarà capace Israele di non arrendersi alle provocazioni che non mancheranno? Non è facile, ma solo se gli arabi di Israele prenderanno responsabilità sugli obblighi che comporta essere israeliano forse si eviterà uno sdrucciolamento che può diventare guerra, e il loro Paese li sentirà sempre di più suoi. La seconda domanda fatale: entrare a Gaza o limitarsi a azioni puntuali per contenere Hamas e le altre organizzazioni terroriste dopo l’ultima pioggia di kassam? Il governo discute febbrilmente opinioni molto distanti l’una dall’altra, senza nessun nesso con la destra o la sinistra. Le dozzine di Kassam e proiettili di mortaio rivendicata da Hamas che martedì, nel 59esimo anniversario dell’indipendenza israeliana si sono rovesciati sul Negev Occidentale riflettono un fenomeno che da tempo lo Shabbach, i servizi segreti, prevede e teme: la hezbollizzazione della Gaza di Hamas. Il fuoco di sbarramento di martedì, è stato appurato, doveva servire, come nel caso di Regev e Goldwasser sul confine del Libano nell’estate scorsa, a rapire soldati israeliani, come Gilad Shait ancora in mano palestinese. La decisione di Hamas di percorrere questa strada derivava da motivi politici esterni (sfruttare la debolezza del governo Olmert) e interni (il ministro degli interni Hani Hawassmeh cerca di distruggere con una nuova guerra le divisioni interne e soprattutto il tentativo di Muhammed Dahlan, leader di Fatah, di costruire un suo esercito) e soprattutto è conseguente a una politica che ha fatto di Gaza una riserva di armi mai vista prima, con tonnellate di esplosivo nascoste, kassam e proiettili di varie dimensioni anche autoprodotti, missili antitank e terra aria, una città di tunnel, bunker, difficili da trovare e distruggere. Il traffico al confine con l’Egitto, quello che gli israeliani chiamavano lo Tzir Filadelfi e passato in mano egiziano, porta armi e uomini pericolosi a Gaza “Due furono gli errori fondamentali compiuti: lasciare lo Tzir agli Egiziani” è il commento del deputato del likud Yuval Steinitz, ex presidente della Comissione Esteri “e lasciare che una forza terrorista come Hamas partecipasse alle elezioni. Oggi, se non vogliamo trovarci di fronte a tentativi continui di rapimento e a una incessante pioggia di missili nel Sud di Israele e oltre, insomma a una guerra continua, dobbiamo reagire non con azioni mirate e piccoli interventi, ma occupando le zone di Gaza da cui si attacca”. Ma Olmert non è d’accordo: è impegnato in una grande manovra diplomatica con Abu Mazen tesa a dare legittimità a ambedue i leader. Anche se ciò che Abu Mazen ha promesso anche durante la sua visita in Italia, ovvero che l’aggressione di Hamas che non si ripeterà, è una pia speranza senza possibile fondamento. Le centinaia di kassam piovute su Israele in questi ultimi mesi non portavano la firma di Hamas solo per motivi di opportunità, ma senza l’approvazione e l’aiuto di Hamas, peraltro sempre ostentamente determinato a distruggere Israele, né la Jihad Islamica né altri gruppi avrebbero potuto agire. Dunque, Israele deve guardare in faccia la realtà e agire? O volgerà il viso soprattutto alla comunità internazionale che sia nel caso degli arabi israeliani che in quello di Gaza invita a mangiare il frutto dell’oblio in onore del politically correct? Nominalismo o realismo? Un dilemma cui certo l’Europa contribuirà poeticamente con parole di pace e fratellanza fra cui “responsabilità” non figura.