Il Giornale
Gaza, attenti agli abbagli
domenica 24 giugno 2007 Il Giornale 0 commenti
Arrivano gli ospiti: a Sharm el Sheikh domani in un summit al limite fra l’emergenza e l’incosistenza, il padrone di casa Hosni Mubarak si incontra con re Hussein di Giordania, altro leader del fronte moderato, con Abu Mazen, ormai Presidente della Cisgiordania, Fatahstan, da quando Gaza è nelle mani di Hamas, e Ehud Olmert, primo ministro israliano. Un summit d’emergenza, increscioso, pieno di problemi per tutti data la vittoria di Hamas a Gaza; incosistente, perché questa è la seconda grande crisi cucinata a Teheran e non nei Paesi Arabi, dopo quella del Libano dell’agosto 2006. Ognuno dei partecipanti sente che la circostanza è fatale. L’Egitto di Mubarak, che ieri ha lanciato una sua personale condanna definitiva contro Hamas, sente che il confine del Sinai con Gaza è ormai bollente perché i suoi Fratelli Mussulmani e Al Qaeda si aggiustano alla nuova battaglia per il Cairo; Abdullah ha nel sangue i geni della lotta che suo padre dovette affrontare contro i palestinesi di Arafat fino al Settembre Nero del 70, sa bene che i suoi cittadini sono per più del 70 per cento palestinesi, e che il terrorismo religioso internazionale gli ha già portato gli attentati di Amman; Abu Mazen, sconfitto a Gaza, gioca tutte le sue carte sull’aiuto internazionale e combatte nel bastione della West Bank l’ultima battaglia; Olmert, appena tornato da Washington, teme due guerre sul confine, Hamastan e Hezbollah, ma sulla scia della “visione dei due stati” di George Bush, intende appoggiare l’unico interlocutore all’orizzonte, Abu Mazen. Cosa può uscire fuori da Sharm? Certo una condanna di Hamas e il sostegno ad Abu Mazen. Ma, soprattutto, una consolazione di fronte a una situazione difficile politicamente e orribile dal punto di vista dei crimini cui abbiamo dovuto assistere, con tagli di testa, fucilazioni di donne, assalti agli ospedali. Abu Mazen può sanare la ferita politica e morale dei palestinesi? Gli Stati Arabi possono compiere azioni irrilevanti? Il prezzo anche solo per tentare è molto alto, e vorremmo porgere qualche sommessa raccomandazione alla nostra diplomazia europea: per favore, non cedete al solito vizio, non sorridete come se l’incontro fosse già in sè un risultato, come se fossimo di fronte a qualche adorato “processo di pace”. Non lo siamo; questo è il giorno dopo un altro sogno inutile, Hamas non solo non è mai stato, come qualcuno pensava, un possibile interlocutore, ma un’organizzazione malvagia e terrorista contro il suo stesso popolo. Numero due: concentratevi sull’indispensabile ruolo dell’Egitto nell’attuale crisi mediorentale. a Mubarak, che per il suo bene deve finalmente fermare il flusso delle armi dal Sinai a Gaza, suggerite di impegnarsi pubblicamente. Numero tre: spingete i partecipanti ad affrontare apertamente il tema Iran, così che Ahmadinejad avverta concretamente l’opposione araba moderata, perché dopo la seconda grande crisi che nasce nel Golfo Persico, la terza può comportare un’esplosione generale. Quattro: chiedete al re se pensa di rinfrescare, naturalmente d’accordo con Abu Mazen, una politica di responsabilità verso la West Bank; una confederazione oggi sarebbe una mano santa per i palestinesi e per tutto il mondo. Cinque: spiegate francamente a Abu Mazen che ci si aspetta da lui il disarmo delle milizie dei Tanzim, delle Brigate di Al Aqsa, degli altri gruppi illegali. Sì, sappiamo che l’ha già annunciato, e che già gli armati come Zacharia Zbedi da Jenin gli dicono che “ci saranno condizioni”. Bene: prima o poi anche Abu Mazen deve pur dare prova di esistere, e se non l’ha data combattendo contro Hamas, ora è la sua occasione di mostrarsi forte. Infine, e il numero sei è il più difficile fra tutti i suggerimenti, che gli europei cerchino di trattenere quel tic, quell’impulso vano per cui si fantastica che quante più concessioni Olmert porterà, quanto più grande sarà la borsa di denaro e lo smantellamento di check point con cui si presenterà, tanto meglio andranno le cose. Non è affatto così. Al contrario: i palestinesi hanno nel corso di questi anni goduto (forse sofferto) di una totale mancanza di richiesta di accountability; il flusso di denaro che li ha raggiunti è immenso; le occasioni avute per fondare lo Stato, molte. Adesso Olmert porterà circa mezzo miliardo di dollari in tasse che appartengono ai palestinesi, porterà la ripresa di contatti col governo di Fayyad se accetta le condizioni del Quartetto, porterà misure di libertà di movimento, l’interruzione della caccia ai terroristi operativi nella West Bank, l’accordo che gli americani forniscano armi a Abu Mazen. Beh, come consiglio numero sette, io consiglierei all’Europa di stupirci tutti e di frenare Olmert dicendogli: fai bene, ma verifica se Abu Mazen può a sua volta mantenere le promesse. E’ abbastanza forte? Lo vuole? Non dimenticare che alle elezioni scorse nelle città della West Bank, Hamas ha preso 30 seggi e Fatah soltanto 12. Ricordati che le armi fornite a Arafat dagli accordi Oslo, sono servite contro Israele. Ricordati che Fatah usa formule religiose per la sua lotta già dalla “Intifada delle Moschee”, che la sua laicità è parziale, che non ha mai detto chiaramente di rinunciare a distruggere Israele. Infine, non è affatto chiaro se la gente delusa dalla perdurante corruzione di Fatah, soggetta da anni a un lavaggio del cervello di stampo jihadista, sia pronta a seguire Abu Mazen. Occorre compiere piccoli passi, chiedere per ciascuno di essi una verifica da parte palestinese e dal fronte moderato: che finalmente si faccia vivo, difenda i palestinesi con realismo e consigli di concordia invece che infiammare gli animi all’odio, come sempre fanno i giornali, la tv, i film, i politici, gli intellettuali egiziani; capiscano che è il tempo di un fronte unito contro i vari Hamas, quali che siano. A Sharm el Scheikh non si andrà i costume da bagno, ma col velo.
La rivincita di Fatah
venerdì 22 giugno 2007 Il Giornale 0 commenti
La promessa di Abu Mazen di essere la risposta che il mondo cerca al disastro politico e umanitario di Hamas, giustifica l’enorme mobilitazione mondiale per aiutarlo a rafforzarsi? Vale il suo prossimo, incontro, domenica a Sharm el Sheich, certo promosso su ispirazione americana e europea, con Mubarak, con re Hussein, con Ehud Olmert? Vale la riapertura di credito totale cui si assiste in questi giorni, la pioggia di denaro che si prepara ad essere riversata su un Fatah screditato e battuto alle elezioni dal suo stesso popolo che lo ha accusato e lo accusa di corruzione e violenza? Cerchiamo qualche risposta in giro per Ramallah, la capitale della West Bank, la sede del governo di Abu Mazen. Cartelloni con le immagini benedicenti di Abu Mazen sovrapposte a quelle di Arafat, musica assordante dagli altoparlanti, un corteo di un paio di centinania di persone in testa al quale marciano giovani tanzim e attivisti con i capelli carichi di gommina, la kefia al collo, produttori instancabili di slogan in rima... in piazza Manar a Ramallah sembra quasi festa. I leoni di pietra devono essere stupiti, un clima così allegro in piena sciagura. Ma la gente va veloce per i suoi affari, e si assembla il rally pro Abu Mazen: “Credevo che fosse un corteo matrimoniale; un piccolo corteo” ridacchia un vecchio in galabja bianca e barba bianca, uno fra i pochi non rasati in tempo di guerra con Hamas. "Salutiamo Abu Mazen, oh Haniye go home"; "Quello vostro non è Islam, è strage organizzata"; "Oh Haniye o Mashal (i capi di Hamas ndr), stanotte vi risponderemo"; "Oh Abbas (Abu Mazen ndr) avanti, Gaza aspetta la liberazione". Marciano nelle strade intorno tornando a Manar gli attivisti dei due sessi, guidati da Ziad Abu Ein, alto e grosso, in giacca cravatta e baffi neri. Un mio amico giornalista palestinese, Khaled Abu Toameh, mi racconta sul posto che, il leader, oggi maggiorente di Fatah, nell’87 fu condannato per un attentato a Tiberiade e riconosciuto colpevole dell’assassinio di due israeliani. Poi è tornato libero con uno scambio, poi di nuovo dentro per altri crimini politici, poi di nuovo fuori in un altro scambio, adesso è un leader importante, circondato, e si vede mentre marcia con la cravatta e l’abito scuro in testa, da rispetto e riverenza. E’ un combattente, come molti altri leader della sua età, e per questo è diventato parte del gruppo dirigente. E’ uno rampante, mi dice l’amico, quelli cui oggi il mondo guarda sperando che riportino i palestinesi agli onori del mondo riaffermando la forza di Fatah dopo la perdita di Gaza. Lui conferma: “Siamo qui per rispondere alla chiamata del Presidente Abu Mazen contro i delinquenti di Hamas, per riprendere la battaglia per lo Stato Palestinese, per annunciare che anche a Gaza torneremo...”. Parla marciando sotto le bandiere della Autonomia “no, quelli di Hamas non sono la maggioranza anche nella West Bank, è la legge elettorale sbagliata che li ha fatti vincere le elezioni benchè avessero il 43 per cento soltanto. Noi siamo la legalità. Oggi, se andassimo a votare, vinceremmo noi che stiamo dalla parte della democrazia e del governo laico”. Fatah cerca di disegnare un’immagine rassicurante e forte per il popolo, e attraente per gli USA, l’Europa, Israele che hanno già dichiarato il loro grande speranzoso appoggio a Abu Mazen. Abu Mazen da parte sua è attivo come non mai e anche arrabbiato, denucia gli assassini che volevano ucciderlo, riunisce il nuovo governo, promette rifome, si impegna a smantellare tutte le milizie illegali. Ieri ha annunciato che i tanzim di Jenin e Nablus, persino quelli più duri come Zacaria Zbedi dovranno consegnare le armi. La gente sorride: “Fra il dire e il fare...a meno che non garantiscano a tutti un buon posto nella polizia di Stato, come è del resto possibile”. Da Gaza la sfida che giunge è quella dell’ordine, di cui i palestinesi sono affamati dopo decenni di corruzione della classe dirgente e di prepotenze delle milizie: la tv di Hamas manda in onda, e si vede in tutta la Cisgiordania, immagini pastorali, Gaza sul teleschermo sembra avere un paesaggio addirittura verde, strade in cui il traffico circola senza intoppi, la gente intervistata dice di sentirsi rassicurata e tranquilla senza i bulli miscredenti di Fatah. L’ordine regna a Gaza, le reti intrenazionali, noi abbiamo sentito Sky News, cominciano a suggerire che magari alla fine Gaza sarà più pulita, che deglutirà le sue lacrime di grande coccodrillo ancora sporco di sangue dopo aver sgozzato, fucilato sul posto, linciato, buttato dai piani alti un centinaio di persone per instaurare Hamastan, il regno dell’islamismo contro quello della corruzione. Crudeli che siano stati, e lo sono stati, tuttavia gli uomini del Fatah non sono giunti a tanto. I leader ci tengono a rimarcare la differenza: Naim Tubassi, il presidente dell’associazione stampa, vivace e pallido, con giacca e cravatta, trasmette la sua ansia con un eloquio preoccupato e veloce nel caldo della piazza: “Spero, spero che l’Europa e il mondo capiscano che solo Fatah può garantire la ragionevolezza, la ripresa del processo di pace; che Abu Mazen ora è più forte, è più determinato di prima perché ha capito cose che nessuno poteva immaginare, perché ha ottenuto il sostegno di tutti quelli che non vogliono l’Iran in casa...No, non mi fraintenda, noi useremo solo mezzi legali...Si, lo so, Fatah è accusata di corruzione, di prepotenza delle milizie. Ma ecco, stiamo smobilitando tutto ciò che non è legale...siamo contro il terrorismo...Riforme importanti bloccheranno la corruzione, cambieremo la classe dirigente”. Ci spera, ci crede, si vede che è sincero. Ma due squadre di persone interpellate ci appaiono significative. Fra gli attivisti un giovane alto dice chiaro e tondo: “Vogliamo Dahlan”. Dahlan? Proprio lui che è fuggito e non ha difeso Gaza? Che vive in un hotel a cinque stelle? “Si, lui: un ricambio, ma interno. Niente cambiamenti alla cieca. Dahlan è fuggito proprio perché la sua importanza lo faceva odiare troppo, lo condannava a morte...”. Dahlan, con la sua giacca da Fatah boss, la sua cravatta da Fatah regimental, i soldi, le armi, quarantenne che ha a che fare con il terrorismo ma che sa parlare con gli occidentali. Come Barghouti. Ha perso un round, può vincere lo scontro, dice il sostenitore. E semmai, che venga a stare a Ramallah; Gaza per un pò può cuocersi nel suo brodo. Certo i leader non parlano così: spiegano la laicità e la affidabilità democratica di Fatah. Ma la gente è chiara: dobbiamo rimettere in equilibrio Fatah, per il bene dei palestinesi, pensano alcuni; Fatah è quello che è, pensano, ma se gli aiuti del mondo saranno sufficienti, adesso per un pò vivremo meglio che con Hamas alla giugulare. Ma non sarà un guaio che si consideri Fatah collaborazionista di Israele e degli USA? La risposta è sorprendente: “No, che ci importa chi è lo sponsor ormai, dobbiamo salvarci e battere Hamas”. L’altro ambito di persone che abbiamo chiamato “squadra” è del tutto diverso. A voce bassa, ci dice quella che a noi pare una inquietante verità: “E’ un errore” suggerisce in buon inglese un uomo sui quaranta, appena tornato dagli USA a Ramallah “fare questa manifestazione, sollevare questo polverone, la gente non è con loro, dove vanno, cosa vogliono? Chi credono di incantare? Fatah non cambierà, se andrà alle elezioni Fatah può perdere anche nella West Bank come ha già perduto. Abu Mazen cerca di ottenere tutto il consenso palestinese nazionalista e l’aiuto internazionale, in cambio della solita vecchia politica stantia che al popolo non piace. Cosa voterei oggi? Hamas”. Ma Abu Mazen compie l’operazione contraria: vivacità, democrazia, laicismo, ordine e riforme, queste sono le sue parole d’ordine. “Il suo messaggio” dice l’americano “è che Fatah è la salvezza contro l’integralismo islamico, e suggerisce 'aiutateci, mandateci soldi e armi altrimenti è peggio anche per voi'... almeno, però, santo cielo, che per una volta gli chiedano i conti”.
Fini: «Teheran è la madre di tutti i pericoli»
mercoledì 20 giugno 2007 Il Giornale 0 commenti
Il leader di An a Gerusalemme: «Israele si aspetta dall’Europa scelte chiare. Non credo a un patto tra D’Alema e la Siria»
Sullo sfondo dello Stato d’Israele investito dal terremoto della nuova situazione a Gaza, mentre Olmert si incontra a Washington con Bush alla ricerca di qualche prospettiva per una situazione impossibile, Gianfranco Fini in visita a Gerusalemme non si tira indietro: «Ho incontrato sia il ministro degli Esteri Tzipi Livni sia il capo dell’opposizione Benjamin Netanyahu. C’è un punto importante su cui i due convergono e io sono d’accordo con loro. Ciò che è accaduto in questi giorni a Gaza con la vittoria di Hamas non è un problema che riguarda solo Israele. Se si vuole trovare la chiave di volta del pericolo di questo integralismo così aggressivo, non la si deve cercare in Cisgiordania, ma bisogna con lucidità spingere lo sguardo fino a Teheran. Le fila della destabilizzazione sono nelle mani dell’Iran, e questo richiede un’attenzione particolare da parte della comunità internazionale». Insomma, sia da Netanyahu sia dalla Livni, Fini ha raccolto un messaggio che da tempo viene lanciato da Israele verso l’Unione Europea. Fini la traduce in una sua aperta convinzione personale: «L’Italia è con la Germania il partner economico europeo più importante per l’Iran: dobbiamo sentirci impegnati a esercitare forti pressioni anche se può costarci dei sacrifici. Putroppo non ho molti segnali dal governo. Ma è urgente che l’Iran avverta una decisa pressione internazionale. Perché altrimenti manca davvero poco, forse 18 mesi appena, secondo gli esperti, perché la bomba atomica sia confezionata e pronta nelle mani di qualcuno che ripete continuamente la sua intenzione di distruggere Israele. E in secondo luogo per frenare l’attività iraniana sullo scenario dell’integralismo islamico rampante». Fini, poi, sceglie una linea di cauta e persino scettica speranza nell’immaginare che Abu Mazen sia la persona destinata a riportare il rapporto con i palestinesi alla normalità, ma vuole sperare insieme al resto del mondo che questo sia possibile: «Io penso che l’Europa e l’Italia debbano aiutare la Cisgiordania di Abu Mazen pretendendo delle precise contropartite in termini di affidabilità economica e di impegno per la pace». Fini ha anche piantato una foresta in memoria di un suo caro amico medico, Alberto Clivati, che fu il primo uomo di destra a visitare il museo dell’Olocausto, Yad Vashem, e aprì alla sua parte politica una complessa strada di amicizia con Israele. «Insieme a Straw sono stato il solo a precisare che non di “muro” si deve parlare, ma di barriera di difesa e sono stato fra coloro che ha lavorato perché Hamas fosse inserito nella lista europea dei gruppi terroristi». Insomma, un incontro avvenuto in un’intesa completa? «Ho solo voluto tuttavia precisare che secondo me la notizia uscita su Ha’aretz su D’Alema, che a sentire il giornale israeliano ha barattato la buona salute dei nostri soldati nell’Unifil con un consistente appoggio internazionale ad Assad, non risponde a realtà. Ho conosciuto Assad, immagino che, visto l’ostracismo americano e internazionale, possa aver chiesto aiuto a D’Alema e che D’Alema possa avere suggerito che l’aiuto verrà quando Assad garantirà la fine dei rifornimenti ai Hezbollah e il luogo a procedere per il tribunale sull’assassinio di Rafik Hariri. Non ce lo vedo D’Alema ad agire diversamente».
L'autodistruzione dei palestinesi
domenica 17 giugno 2007 Il Giornale 0 commenti
I palestinesi sono di nuovo riusciti ad autodistruggersi, a rendere impossibile la soddisfazione delle loro richieste: così è stato per 60 anni di rifiuto ad ogni soluzione di compromesso, così è di nuovo oggi con l’avvento al potere dell’integralismo islamico a Gaza, con la debolezza del nuovo governo di Fatah. Il terrore di Arafat era di morire nell’irrilevanza, ieri la sua casa è stata saccheggiata a Gaza da giovani mascherati che non sanno quasi nulla del rais ma tutto sul compito storico di distruggere Israele per restituire la terra all’Ummah dei credenti, e di battere i non credenti e gli apostati in tutto il mondo, con l’aiuto di Dio e dell’Iran, che adesso può contare su due confini con Israele, in Libano e a Gaza. Tentiamo, forti solo di un pessimismo che in questi anni si è sempre provato sensato, di rispondere alle domande poste più frequentemente in questi giorni. Hamas ha vinto del tutto? Perché così rapidamente? Hamas ha vinto in modo devastante, la radicalità dell’evento si è mostrata tutta quando Hamas - dopo aver giustiziato, terrorizzato, messo in fuga i concittadini che con grandi bagagli cercano di fuggire dal passaggio di Erez verso Israele a migliaia - ha innalzato la bandiera verde dell’Islam sugli uffici di Fatah al posto della bandiera palestinese. La fuga verso l’Egitto di tutti i capi di Fatah, persino di Mahmoud Dahlan, ha privato di ordini i 40mila armati di Abu Mazen di stanza a Gaza. Hamas ha distrutto il nemico rapidamente con enorme spargimento di sangue, omicidi che hanno coinvolto donne e bambini, fucilazioni a sangue freddo, bombardamenti di ospedali e moschee, e Fatah, che ha anch’essa defenestrato e ucciso a sangue freddo, pure è stata debole nella risposta. La gente non era con lei, Abu Mazen non aveva saputo in questi mesi convincere che le sue bande corrotte e crudeli avrebbero portato qualcosa di buono ai palestinesi, anche se i suoi toni moderati promettevano un domani migliore e la pace con Israele. Il declino di Fatah iniziò con la morte di Arafat nel 2004. Hamas vinse le elezioni nel gennaio 2006 perché i leader di Fatah si erano comportati come una banda di potere violenta e disonesta, e perché la linea dell’integralismo islamico rampante era sempre più eccitante, e forte di alleanze e aiuti internazionali. Lo sgombero israeliano da Gaza ha esaltato Hamas. Le masse palestinesi si sono guardate bene dal correre in aiuto di un potere che considerano una mela marcia, quello di Abu Mazen. Molti leader di Hamas ora dichiarano l’intenzione di sciogliere l’Olp secolare e peccaminoso.
Anche nella West Bank Hamas può vincere? Certamente la forza di Fatah in quelle zone e la presenza dell’esercito israeliano nelle vicinanze delle città rendono molto meno facile il compito di Hamas; Israele è paradossalmente l’unica forza della causa nazionale palestinese oggi. Ma la popolarità di Hamas è in crescita anche nella West Bank, dove vinse le elezioni in molte città. La gente disgustata da Fatah potrebbe scegliere Hamas o cedergli in una guerra che già in queste ore a Nablus e a Ramallah sta facendo morti e feriti.
Che cosa significa, che i palestinesi hanno concluso per sempre la loro marcia verso lo Stato indipendente? Al momento l’appuntamento sembra rimandato. Oggi abbiamo di fatto al sud un mini Stato terrorista e integralista collegato all’Iran, che è il grande sponsor economico e ideologico (benché sciita) di tutta l’operazione, e una fragile entità nazionalista impegnata in lotte interne nella West Bank. Difficile immaginare seri colloqui, anche se Abu Mazen resterà l’interlocutore di Israele.
Qual è il disegno di Hamas? Il suo piano va oltre Israele. Hamas si sente oggi cruciale nello scontro fra quello che reputa il vero Islam e il mondo occidentale peccatore. Khaled Mashaal intende inaugurare la seconda era della storia palestinese dopo quella di Arafat, un’era in cui l’Islam conquisterà il mondo, forte di un’alleanza momentanea formata da sunniti e sciiti contro l’Occidente. Mashaal, il vero capo di Hamas, da Damasco è in costante contatto con la Siria, gli iraniani, gli Hezbollah. Anche Al Qaida giuoca nella West Bank un grande ruolo, come ripetono gli egiziani. E, al vertice che l’Arabia Saudita promosse alla Mecca a febbraio fra Fatah e Hamas, di fatto Hamas uscì avendo imposto al cosiddetto fronte moderato la sua politica: ottenne denaro e accordi senza rinunciare né ai suoi piani né alla pioggia di kassam su Israele. Mashaal vuole distruggere ogni residuo di atteggiamento occidentale e democratico fra i palestinesi, fare del suo popolo, forte di una grande alleanza, un mini Iran sunnita devoto alla distruzione di Israele e al predominio messianico sul mondo ebraico e cristiano, che disprezza.
Ci sarà presto una guerra? Non è detto: può darsi che Mashaal ora intenda costruire bene la sua forza militare a Gaza e conquistare la West Bank sull’onda della paura e del rispetto indotti nei cittadini di Ramallah, Betlemme ecc., e della sfiducia nella forza imbelle di Fatah. Hamas probabilmente sta anche calcolando come evitare che Egitto e Giordania non si trasformino in nemici attivi.
Cosa faranno i Paesi Arabi nella nuova situazione? I Paesi Arabi moderati sono tutt’altro che contenti. Gli egiziani sanno che i loro Fratelli Musulmani sono eccitati dalla nuova situazione... È una vittoria dell’«asse del male». E quindi i moderati finalmente agiranno? L’Egitto chiuderà alle armi e ai terroristi il cosiddetto «sentiero di Filadelfia» fra Gaza e Egitto, attraverso il quale passano tutte le risorse belliche di Hamas? È possibile che l’Egitto si occupi di Gaza e la Giordania della West Bank. Che si riapra una prospettiva di confederazione palestinese (di Fatah) giordana. Si può opinare che i Paesi arabi ora si decidano a impegnarsi per disinnescare la bomba Hamas. Per trovare una soluzione fra le due parti, bloccare il terrorismo rampante e un’esplosione generale, la Lega Araba, con Egitto e Giordania in prima fila, potrebbero decidersi a fare qualcosa; Mubarak dovrebbe bloccare l’afflusso di armi in Egitto. Bisognerà anche guardare a che cosa farà la Siria, che teme il processo per l’asassinio di Rafik Hariri, è legata a doppio filo all’Iran, è la porta di passaggio del terrorismo in Irak. Israele interverrà nelle faccende Palestinesi? Se ne terrà fuori più a lungo che può, anche se ambedue le parti, sia Hamas per galvanizzare i palestinesi intorno a sé, sia Fatah per stabilire uno scudo di fronte all’integralismo islamico, cercheranno di coinvolgerla. È probabile un’ondata di attacchi terroristi. Potremo certo vedere una politica israeliana nettamente diversa verso l’una e l’altra parte, può darsi che Israele riesca a fare accordi chiari con Abu Mazen: George Bush, nell’incontro di domani a Washington con Ehud Olmert, glielo chiederà. Gli chiederà anche di fornire come sempre a Gaza elettricità, latte, medicine, aiuto medico... e di seguitare nonostante tutto a sostenere Abu Mazen, aprire check point, versare i fondi delle tasse... Olmert lo farà, in cambio di un forte impegno americano sull’Iran, il vero grande problema di tutti in Medio Oriente e nel mondo.
Cosa possiamo sperare? Speriamo che ora l’Europa non si rimetta a dire che bisogna parlare con Hamas, dato che proprio il suo atteggiamento disponibile, tentennante, impaurito, ha portato insieme ad altri fattori al disastro attuale. Sarebbe bello anche che non si seguitasse razzisticamente a ignorare le atrocità commesse in questi giorni negli scontri fra i palestinesi, come se fosse legittimo ammazzarsi fra arabi. Una forza di pace può aiutare? Solo se è disposta a prendere le armi contro Hamas che ha già dichiarato la sua radicale ostilità all’idea. Se si guarda all’Unifil, ormai gli Hezbollah sono riarmati di tutto punto e pronti alla guerra: una forza di pace ha ed avrà sempre difficoltà a fronteggiare una forza terrorista e senza scrupoli. E Hamas lo è.
Quando smascherai il passato di Waldheim
venerdì 15 giugno 2007 Il Giornale 0 commenti
L’ufficio viennese del cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal era piccolo, disordinato, carte dappertutto. Di Kurt Waldheim, allora misterioso presidente austriaco in odore di passato nazista, Simon, che mi aveva concesso svariate interviste, parlava, certo, come di un personaggio con un passato controverso; tuttavia Wiesenthal aveva dichiarato pubblicamente che il presidente non era stato nazista, né un criminale di guerra. Silvana Origlia però, non era d’accordo. La giovane, una donna intensa dai capelli ricci e scuri, esperta di antisemitismo, intenta a una personale lotta col passato nazista dell’Austria, già dall’83 lavorava con Wiesenthal, che adorava, e aveva in mano le prove. La incontrai nell’ufficio mentre classificava le carte dei nazisti cui Simon dava la caccia, era il lavoro del suo cuore e della sua vita, le accuse che più tardi le sono piovute addosso di aver tradito Wiesenthal l’hanno ferita come pugnalate, ancora di più del fatto di restare senza lavoro e senza gli antichi amici. Con mio stupore scoprii subito che parlava bene italiano. Presto diventammo amiche, e dopo molte imprese giornalistiche comuni, Silvana mi dette appuntamento fuori dall’ufficio perché oltre alla devozione per Wiesenthal, più forte in lei era una passione per la giustizia che non poteva essere tacitata. Silvana di nascosto mi mostrò una lettera e tre documenti diretti a Wiesenthal dallo storico inglese Gerald Fleming a causa delle quali, dopo molte verifiche e expertise promosse dalla direzione del mio giornale, potei pubblicare nell’ottobre dell’87 su Epoca un indizio decisivo su Waldheim. La commissione di sei storici incaricati nell’88 di stabilire le responsabilità dell’allora nono Presidente austriaco che pure aveva, si disse, un atteggiamento molto morbido verso l’ex segretario dell’Onu, dovette dichiarare che, persino se non aveva le prove che Waldheim avesse «personalmente» commesso crimini di guerra, pure «era stato in diretta prossimità con azioni criminali». Fu certamente grazie al coraggio di Silvana Origlia, e all’accuratezza con cui Alberto Statera e Nini Briglia, allora direttori di Epoca , verificarono con noi le prove che portammo loro, che fu fatta luce sulla figura di Kurt Waldheim, morto ieri a Vienna a 88 anni dopo un cursus honorum sfacciato e controverso, carico delle ombre della sua appartenenza e del suo ruolo nell’esercito tedesco. Era difficile pensare che Waldheim non sapesse delle atrocità commesse dal suo comandante, il generale Lohr che fu condannato a morte e impiccato per crimini di guerra nel 1947. È di quel periodo la deportazione da Salonicco di 40mila ebrei, e la negazione di Waldheim di qualsiasi conoscenza del fatto risultava già molto debole. Si parlò allora anche delle prove della partecipazione organizzativa di Waldheim alla deportazione dalla stazione di Atene di migliaia di soldati italiani. Insieme con Silvana ci eravamo avventurate in parecchie storie di cui si trova traccia su Epoca e più tardi sull’Espresso; ci infiltrammo presso un boss neonazista, Burger, che viveva in una casetta bianca nel verde austriaco e che ci offrì panna e bomboloni descrivendoci le sue sinistre gesta. Scovammo in un ospizio per vecchi il boia di Marzabotto Walter Reder in mezzo alla neve, e i cani lupi ci rincorsero. Waldheim l’avevamo già conosciuto insieme in una nostra pazzesca incursione dentro il Palazzo Hofburg, senza permesso, per un’intervista alla vigilia di una sua famosa e controversa visita al Papa, nel 1987. Waldheim, solo nelle sale dorate, ci ricevette e ci parlò, cerimonioso e melanconico; i nostri sospetti su di lui si rafforzarono anche per il tono delle sue risposte. Dopo qualche mese, ecco la lettere di Fleming, che provano con tre documenti allegati un ruolo serio durante il servizio militare e un crimine di guerra. Dal ’72 all’82, Waldheim, dopo U Thant, era diventato segretario generale delle Nazioni Unite; durante il suo mandato le più estreme risoluzioni antiisraeliane furono votate; svariate strutture fisse dedicate alla causa palestinese furono istituzionalizzate in misura sporporzionata rispetto a qualsiasi altra nuova struttura; soprattutto la infame risoluzione «sionismo eguale razzismo» nel novembre del ’75... Molti parlavano di un ricatto in corso che inchiodava Waldheim alla politica filoaraba. Quando Kurt Waldheim diventò presidente, Wiesenthal fu più volte richiesto di dare il suo autorevole parere sull’individuo e di specificare se si trattava di un criminale nazista o no, ma si tirò indietro. «Per caso - racconta Silvana - senza intenzione, mi trovai per le mani la lettera di Fleming che diceva: “Caro signor Wiesenthal, oggi le invio alcuni reperti che ho trovato compiendo un’indagine sul ruolo del comandante della Prinz Eugen, si tratta solo di frammenti... riguardanti le comunicazioni tra l’IC AO (O3) del Gruppo armata E (ne faceva parte Waldheim ndr) e dell’IC/AO/03 presso il comandante supremo sudest... non c’è bisogno che io le dia ulteriori chiarimenti... dalle carte risulta con la massima chiarezza che in base all’ordine del Führer è stato praticato l’assassinio (sottolineato in rosso). Che queste carte non si trovino solo in mio possesso, io lo temo. Per quanto mi riguarda, però, non ho nessuna intenzione di renderle pubbliche”». Waldheim, si vede dai documenti, chiedeva di poter attuare la «sonderbehandlung» (fucilazione) di tre prigionieri tutti in divisa, un marinaio greco e due soldati britannici. Urgesi decisione, si chiudeva il dispaccio. Wiesenthal non volle parlare: probabilmente lo preoccupava prendere posizione contro un presidente del suo Paese e temeva forse una reazione antisemita dei suoi concittadini. Da vecchia star offesa, condannò più volte in pubblico il mio articolo e punì Silvana con un ostracismo che essa ha pagato per molti anni, anche se lo scopo del nostro lavoro non era stato certo quello di prendercela con lui, ma di denunciare Waldheim. A Roma giunsero molti giornalisti da tutto il mondo per sentire me e Silvana raccontare come tutti i sospetti puntatisi su Waldheim avevano trovato finalmente delle pezze d’appoggio.
Si sono fermati a Joan Baez
domenica 10 giugno 2007 Il Giornale 0 commenti
Chi partecipa dei beni morali e materiali dell’Occidente, certo ne ricava innumerevoli vantaggi, ma deve pur pagare qualche prezzo. Se il capo del governo italiano e George Bush usano soprattutto gli aggettivi «amichevole, condiviso, interessante» descrivendo il loro incontro, la piazza che chiama «criminale di guerra» il presidente americano non è contenta. E poiché è la stessa piazza che appartiene ad alcuni dei partiti della maggioranza, essa diserta quei partiti, e loro, domani reagiranno tentando di riconquistarla: i guai che si prospettano per il governo sono evidenti. Perché, se addirittura quella piazza è vuota perché i militanti dei partiti di estrema sinistra al governo si sentono rappresentati solo se vanno a marciare con Casarini, allora vuol dire che qualcosa è andato del tutto fuori controllo. Difficile beccarsi un abbraccio da Bush e contentare tutti quando il messaggio fondamentale del governo sulle cose israeliane, come su quelle irachene, come su quelle afghane è sempre stato sostanzialmente contro la politica americana. Ieri Piazza del Popolo era vuota e, mi si permetta, patetica. La denuncia dei guai di Cuba come causati dagli Stati Uniti, la causa palestinese rappresentata con la faccia di Arafat, la protesta contro Israele come «Stato di apartheid», i discorsi in piazza di una rappresentante di quell’Altra America alla Joan Baez che andava bene quando Giordano e Diliberto erano piccoli, erano simili alle lamentazioni capricciose di un bambino piccolo che grida contro una mamma cattiva che l’ha picchiato, gli ha tolto la libertà, lo ha torturato. Là per là, passeggiando fra la poca gente intervenuta, si sentiva definire dai leader imbarazzati la fallita manifestazione: «soltanto un presidio» o «una scelta simbolica». Ma era visibile in trasparenza il disappunto, e quindi l’inconciliabilità del vestito blu di Prodi e di D’Alema col popolo in blue jeans della maggioranza, che ha snobbato i suoi propri leader rifiutando la loro foglia di fico, ovvero l’invito in piazza del Popolo. Essa ieri non è riuscita a coprire una piazza romana, tantomeno ha potuto colmare il vuoto, il buio culturale davvero eccessivo e imbarazzante e soprattutto funzionale a una visione del mondo irrealistica e dannosa: quella che scrive sui cartelli (nel corteo) «Bush uguale Hitler», o suggerisce (nella piazza e ovunque) il nesso Bush-guerra come se si trattasse di una malattia mentale del presidente americano, o anche il frutto di una incontrollabile volontà di dominazione. Come se l’11 Settembre non ci fosse mai stato, come se Al Qaida, Hezbollah, Hamas, il ruolo dell’Iran e della Siria nell’alimentazione del terrorismo internazionale e nel promuovere la jihad mondiale non esistessero, non fossero mai esistiti. Il vuoto di Piazza del Popolo sotto il sole, sull’acciottolato e sotto l’obelisco, mentre pochi presenti che battevano il piede al ritmo dei «Folk a Bestia», segnalava che non esiste una politica estera decente capace di metterci in salvo di fronte alla minaccia del terrorismo e degli Shihab di Ahmadinejad, seguitando al contempo a dare lo spazio che è stato dato all’antiamericanismo in questi mesi di governo. Esiste una sfilza di scemenze puntate proprio sulla figura di Bush che sono un autentico asset, un patrimonio utile a chi poi stabilisce politiche irrazionali: dalla ripetizione dell’idea che il Presidente sia stupido, o primitivo, od ottuso, o fondamentalista, o schiavista, alla deprecazione della guerra come fosse una sua scelta perversa, a una pretesa di suo comportamento paranoide circa il pericolo terrorista, a una tendenza dittatoriale che porta all’unilateralismo, fino alle teorie della cospirazione che sono state ripetute ad nauseam. A una a una tutte le accuse fatte a Bush producono conseguenze irrazionali ma concrete sul piano politico. Per esempio, l’idea dell’unilateralismo rianima una esangue concezione dell’Onu come madre dei diritti umani e di sensate scelte in politica internazionale, mentre la sua pochezza e la sua partigianeria sono ormai comprovate. L’idea che Bush sia il padre di tutte le guerre, e non il terrorismo, nutre la concezione errata che una guerra non possa mai essere giusta e che una guerra di difesa, come quella di Israele per esempio, sia comunque sbagliata. La sottovalutazione del terrorismo, poi, conduce al nostro disimpegno, giustificabile solo se ci si racconta la balla che l’Iraq e l’Afghanistan siano contro la presenza occidentale oggi e che per i popoli iracheno o afghano la democrazia sia inattingibile. Ma soprattutto, un abbraccio a Bush contraddice la verità della sua figura umana, quella di un presidente forte e molto convinto delle sue idee, un combattente della libertà che solo tre giorni or sono abbiamo visto ascoltare, a uno a uno, i dissidenti di 25 Paesi autoritari, dall’Arabia Saudita alla Bielorussia. Non è un caso che alla Cnn il portavoce di Putin abbia chiesto, a seguito delle polemiche sullo scudo spaziale, che non si parli più di quell’emendamento firmato da Jackson Vanick che, negli anni 80, promosso da Reagan, fu il motore che accese la corsa delle rivoluzioni anticomuniste. Questo emendamento collegava il commercio americano con la libertà di movimento nei Paesi socialisti. Bush è un tipo capace di mettere in moto questo meccanismo anche oggi, subito; uno che marcerebbe per la libertà del popolo, che so, siriano, se fosse un semplice cittadino, e che abbraccia i dissidenti sudanesi e iraniani in pubblico. Da noi, dire che Bush è scemo quindi, è necessario a una politica che non mette mai in discussione i dittatori iraniano, siriano, cubano, burmese. Bush, lo fa. E le piazze che ieri ho visto a Roma non lo fanno, non l’hanno mai fatto e, soprattutto, non lo sanno.
Diritti e libertà, Bush allo scontro frontale: "Russia e Cina deragliano dalla democrazia"
venerdì 8 giugno 2007 Il Giornale 0 commenti
Il presidente Usa replica duramente alle minacce di Putin in caso di attuazione del piano anti-missili. Dalla Casa Bianca atto d'accusa ai Paesi dove c'è tirannia e un abbraccio ai dissidenti Praga - Cambia dunque, veramente, il panorama internazionale, si scalda il clima delle relazioni Stati Uniti-Russia e anche quello Usa-Cina. Il presidente George Bush, sulla strada per il G8, non ha temuto ieri di rispondere da Praga, occhi negli occhi, a Vladimir Putin, che minaccia di puntare i suoi missili sulle città europee se va avanti il programma di scudo spaziale, e ha detto, nel corso di un discorso intenso, molto programmatico perché puntato su uno dei suoi temi preferiti, «democrazia e sicurezza»: «Putin ha deragliato dal processo di riforme democratiche che aveva cominciato ad allargare il potere del popolo in Urss». E sulla Cina ha aggiunto che essa pretende di procedere sulla via della modernizzazione economica, senza tuttavia andare avanti sulla strada del cambiamento politico. Ha detto queste cose riaffermando tuttavia che al G8 oggi l’America ha intenzione di parlare con tutti gli interlocutori, e che si può benissimo proseguire nel dialogo e nella collaborazione pur discutendo i propri dissensi. Ma lo dice in un contesto così carico di significati rispetto alle sue maggiori motivazioni, alla stessa identità che ha conferito al suo mandato e ad una vigilia così importante come quella del G8, che il suo discorso rimanda, noi che siamo nella sala del ministero degli Esteri, il Palazzo Czernin in cui nel 1948 il primo ministro democratico Jan Mazaryk fu defenestrato dai comunisti, all’intervento da poco conclusosi (Bush non c’era) del famoso campione di scacchi Garry Kasparov. Ormai Kasparov è il capo della nuova opposizione post-sovietica e ha detto: «Putin minaccia la vita dei giovani, distrugge la libertà di opinione e di stampa con un aggressivo apparato di sicurezza che non esita di fronte a nulla... Ha seguito i suoi istinti, trasformando la Russia in uno Stato di polizia». Le parole di Bush, inoltre, sono state pronunciate in un’occasione unica, ovvero in quello che possiamo considerare un autentico rilancio da parte del presidente della sua campagna di democratizzazione come scopo morale primario e arma acuminata contro il terrorismo. Oltretutto Bush ha parlato di fronte ai dissidenti di 27 Paesi convenuti insieme, invitati dal presidente Vaclav Havel, ex dissidente lui stesso, da Natan Sharansky, ex prigioniero di coscienza in Urss e poi ministro in Israele, e da José Maria Aznar. Un’occasione storica mai verificatasi precedentemente con nessun presidente americano. «Porre fine alla tirannia è il fine più meritevole della nostra epoca». Bush ha di fatto così abbracciato i dissidenti di tutte le latitudini, dalla Cina alla Siria a Cuba. Da lunedì sono riuniti eroi della libertà che hanno subito la prigione, la tortura, l’esilio e la morte dei loro cari, pensatori come l’iracheno Kanan Makiya, o il cinese Juming Liu, o il libanese Eli Khoury, o l’egiziano Saed Edin Ibrahim, o il palestinese Issam Abu Issa, o il siriano Farid Ghadri. Durante la parte del discorso dedicata a loro, li ha chiamati affettuosamente per nome, ricordando l’incarcerazione e la persecuzione del siriano Mamoud Homsy, ex membro del Parlamento, o di Rabia Khadir, una piccola donna cui il regime cinese, a causa delle sue idee, ha incarcerato ambedue i figli. Bush non si è dimenticato nessuno, ha parlato della Bielorussia, di Burma e moltissimo della giustezza della guerra in Irak. I dissidenti, nei due giorni passati e nella giornata di oggi, hanno lavorato e lavorano a un programma comune con cui cercare di impegnare il mondo libero al suo fianco concretamente. Intanto George Bush era lì con una visita ad hoc e una risposta a tutti i sostenitori dell’appeasement e delle teorie della stabilità ad ogni costo: «Non avremo mai né pace né tranquillità a fronte di un fanatismo aggressivo che produce terrorismo e schiavitù e che può essere battuto solo con la democrazia. Essa non si conquista certo in un giorno, è complessa e difficile, e spesso sanguinosa. Ma non abbandoneremo mai i combattenti della libertà e dei diritti umani. Essi ci hanno al loro fianco», ha sostanzialmente detto George Bush, che così parte per il G8 reggendo nelle sue mani due questioni controverse, quella della democratizzazione e della lotta al terrorismo, e quella dello scudo missilistico a cui, sempre da Praga, ha invitato la Russia ad essere partner.
Praga riunisce i dissidenti di tutto il mondo
venerdì 8 giugno 2007 Il Giornale 0 commenti
Un dato certo su una costellazione molto composita: credono in se stessi ma sperano forte anche nell’intervento concreto degli Stati Uniti. Dell’Europa non parlano molto. Un secondo dato certo, solo eroi, con storie da brivido e da lacrime, ricche di una vita degna di questo nome. E magari non sarà beata la terra che ne ha bisogno, ma beato chi ha incontrato come me a Praga i dissidenti pervenuti da tutto il mondo per i due giorni della conferenza su “Democrazia e sicurezza” indetta da due eroi più un politico coraggioso: Vaclav Havel, che vinse alla testa del popolo cecoslovacco la rivoluzione democratica nel 1989, Nathan Sharansky, refusenik rinchiuso per un decennio nelle carceri sovietiche, e Josè Maria Aznar. La conferenza, dice Vera Golobesky, che è la responsabile degli affari esteri del centro Shalem di Gerusalemme dove siede Sharansky, deve essere una pietra di riferimento, un punto di partenza che non si può ignorare: uomini solitari e in pericolo di vita, promuovendo la democrazia a casa loro, dalla Siria alla Bielorussia, a Burma, a Cuba, all’Arabia Saudita, promuovono anche la nostra sicurezza. Sharansky l’ha scritto e Bush l’ha compreso: una democrazia non attacca un’altra democrazia. Loro fanno tanto per noi: vediamo cosa siamo in grado di fare per loro. Gli eroi intervenuti a Praga certamente, quando ieri sono tornati a casa o al loro esilio, hanno trovato condizioni di sicurezza ancora più delicate del solito. Il professore egiziano Saad Eddin Ibrahim, il più famoso fra i combattenti per i diritti umani nel mondo arabo, ha gli occhi brillanti e il sorriso sulle labbra: “Quando nel 2000 mi condannarono a sette anni e mi buttarono in carcere, ho deciso di sorridere sempre, per dimostrare ai tiranni che sono più forte di loro”. Farid Ghadri, giovane leader democratico siriano sicuro che sia giunto il tempo del cambio di regime degli Assad, sta per andare in visita addirittura in Israele, dove parlerà alla Knesset: "Gli israeliani non devono parlare con i dittatori come Assad o, a suo tempo, Arafat, i democratici sono per Israele, la via per la pace". Sa che Gerusalemme è una meta davvero pericolosa: “Ma c’è stata una volta in cui ho capito cos’era la tirannia araba: quando in Arabia Saudita il muezzin chiamò alla preghiera, e il corpo dei guardiani della fede mi picchiò duro per strada perché non mi ero affrettato a piegarmi”. Farid spiega che il vero eroe a cui bisogna guardare è il piccolo gentleman con giacca e cravatta nera che non parla inglese, un deputato siriano ora rifugiato in Libano, dove pure vive nell’insicurezza a causa degli Hezbollah, e che ha passato anni di galera per aver tenuto al Parlamento discorsi sui diritti umani. Homsy ha buon seguito personale a Damasco e Bush l’ha indicato ad esempio nel suo discorso pubblico con una dissidente cinese. Dice: “La Siria è essenziale, è il nodo fra Iran, Hezbollah, terrorismo in Iraq, pace in Israele”. Anche gli iraniani ripetono che dobbiamo muoverci, che lo si faccia per noi stessi se non per loro, perché Ahmadinejad prepara la bomba atomica: sembra un bambino Amir Abbas Fakhravar, perché ha cominciato giovanissimo, da capo degli studenti a essere arrestato e torturato. E’ stato cinque anni in carcere. “La rivoluzione è pronta, qualcuno però deve schioccare le dita, aiutare, dare il segnale del cambio di regime”. L'Iraq è il problema di tutti, perché suggerisce tutte le difficoltà della democrazia anche dopo il cambio di regime. Ma è pieno di coraggio anche un grande uomo come il deputato Mithal Alalussi, perseguitato a suo tempo da Saddam, i cui due figli sono stati uccisi sotto i suoi occhi dopo un viaggio in Israele: "Gli iracheni ce la stanno mettendo tutta e guai se gli americani li abbandonderanno. E comunque, l'Iran è la chiave - spiega Alalussi - se qualcuno non fa qualcosa, siamo finiti". Ognuno merita un romanzo: i bielorussi, i burmensi, i latino americani. L'estremismo micidiale che aiuta le dittature è il nemico comune. Nessuno, dice l’intellettuale dissidente più famoso, Walid Fares, deve provarci con i dissidenti libanesi dicendo che gli Hezbollah sono un partito legale, o con le elezioni legali di Hamas, che non sono frutto di democrazia, ma di sfruttamento cinico delle sue vie, che in Sudan le stragi sono frutto di scontri etnici. Tutti, per aiuto e giusto riconoscimento, guardano all’America, tutti chiedono di non trattare con i dittatori, tutti spiegano che sono loro il nuovo interlocutore storico per evitare anche la nostra rovina. Così ripetono anche i palestinesi Bassam Id, attivista dei diritti umani, e il bussinessman Issam Abu Issa. Deciso e duro, con la sua coda di cavallo e la sua vita internazionale, Eli Khouri, il giovane iniziatore della rivoluzione dei cedri, che vive tra Beirut e il mondo, spiega "l’sms è il primo strumento della rivoluzione democratica e anche un po’ di carta e una tipografia volenterosa, molto cuore e apertura mentale. Ma soprattutto, sostegno internazionale, quale che debba essere, costi il rischio che costa. E’ nel vostro interesse”
Io, ragazzina, ho combattuto
martedì 5 giugno 2007 Il Giornale 1 commento
Quando alle sette meno dieci il 5 di giugno 1967 la radio scandì «lenzuolo rosso», la parola d’ordine, e la Guerra dei Sei Giorni cominciò, mi trovavo al kibbutz Neot Mordechai in Alta Galilea, il Libano a sinistra, il Golan siriano a destra: ero una biondina di sinistra che la famiglia aveva spedito in Israele sperando tornasse un po’ più saggia. Nasser gridava ogni giorno la sua promessa di distruzione, ammassava truppe nel Sinai cacciando le forze Onu dopo aver chiuso il canale di Suez; dalla Siria si levavano Mig in volo sulle vigne in cui lavoravo in costume da bagno; noi volontari scavavamo trincee nel kibbutz, imparavamo il passo del leopardo sorreggendo un vecchio fucile. E mi sembrava un gioco. Niente era più lontano dell’idea della conquista dalla testa dei membri del kibbutz, dei cittadini di Kiriat Shmona che avevano incerottato le vetrine dei negozi per evitare che le bombe scaraventassero schegge taglienti. Si aspettava, mentre il rombo della minaccia di sterminio si faceva più forte. Quando la guerra scoppiò, oltre all’Egitto, la Siria e la Giordania, anche Sudan, Algeria, Irak, Mauritania, Yemen, si unirono alla compagnia. Le sirene suonarono, mi vestii ancora insaponata nella doccia, avevo il compito di portare i bambini nel rifugio, e lo feci per sei giorni. Alla quarta sirena già non correvo più, eseguivo i miei compiti, nel rifugio giocavamo e cantavamo. Lungo la strada orlata di eucalipti sul margine delle vigne, passavano i carri armati che si ammassavano al confine. I soldati erano come me, sessantottini, ragazzi, alcuni invitavano per scherzo noi ragazze che offrivamo loro da bere «Vieni a Damasco?»; solo uno mi fece un segnaccio con l’indice per dire che lui voleva andare a casa e non voleva la mia acqua. Quando Moshe Dayan, ministro della Difesa (Rabin era Capo di Stato Maggiore), parlò alla radio, chiesi che cosa dicesse (allora non sapevo l’ebraico) e qualcuno del kibbutz, pacifista anche lui, mi disse «Shtuiot», sciocchezze. Invece, era l’annuncio di una nuova epoca. Fino al 4 di giugno avevamo ascoltato alla radio l’annuncio dell’annichilimento d’Israele, stavolta sul serio; Nasser (e così gli altri Paesi Arabi, convinti dal 1948 di poter distruggere lo Stato ebraico, occidentale, democratico), mentre le sue strade si riempivano di caricature antisemite e di canzoni con il ritornello «sgozza sgozza», spiegò: «Intendiamo lanciare un assalto generale a Israele. Sarà guerra totale. Lo scopo basilare è la distruzione di Israele». Nasser ammassò nel Sinai 900 carri armati e130mila uomini, mentre Levi Eshkol, il premier israeliano, e Abba Eban, ministro degli Esteri, cercavano ogni via diplomatica per bloccare la guerra. Gli americani intimarono di non attaccare. Tirava aria di un secondo Olocausto. Nasser convinse anche re Hussein che non vi erano dubbi: Israele sarebbe morta. Contrariamente alla lectio dell’insistente scuola che vede nella guerra del 1967 un’aggressione israeliana e un’indebita appropriazione di territori altrui, Israele non ebbe altra scelta se non l’azione preventiva con cui distrusse a terra l’aviazione egiziana. Gli arabi avrebbero attaccato e distrutto, se Israele non avesse agito. Michael Oren, il più eminente studioso della Guerra dei Sei Giorni, dimostra che l’Egitto, la Giordania e la Siria avevano preparato dei piani di distruzione capillare dello Stato d’Israele. Amman aveva disegnato la deportazione e l’eliminazione della popolazione di intere città israeliane. E la presa di Gerusalemme, da 19 anni in mano giordana e chiusa nei luoghi di fede a cristiani ed ebrei, fu dovuta all’attacco che i giordani, alle dieci del 5 giugno, portarono a Gerusalemme ovest. Questo, nonostante Israele avesse chiesto direttamente a re Hussein di restare fuori dalla guerra. Anche la Siria attaccò subito. Israele fu costretta a combattere, anche se gli americani erano contrari e i francesi la tradirono: il risultato di quella guerra solitaria fu un allargamento territoriale frutto di autodifesa. E se oggi si suggerisce che la Ybris israeliana spinse a tenersi i territori, in realtà essi furono restituiti ogni volta che ve ne fu possibilità; la pace con l’Egitto nel ’77 costò il Sinai, con la Giordania nel ’94 l’Aravà. Con gli accordi di Oslo, Israele si ritirò nel ’95 da tutte le città israeliane e si sarebbe ritirata da quasi tutto il West Bank e persino da Gerusalemme se Arafat non avesse lanciato l’Intifada del terrore suicida. Dal Libano, che aveva occupato nel 1982, si ritirò senza contropartite nel 2000. Da Gaza nel 2005, unilateralmente. L’atteggiamento del mondo arabo invece è rimasto quello della conferenza di Khartum tenuta all’indomani della guerra: no alla trattativa, no all’accordo, no al riconoscimento di Israele. La Guerra dei Sei Giorni non ha creato un conflitto, che era già là dal 1948: il mito dei «territori» e dell’«occupazione » come causa scatenante di tutti i mali, ma tutti dimenticano il terrorismo e le guerre precedenti, ignorano volutamente che l’Urss giocò pesantemente sulla guerra dei Sei Giorni. Secondo il recente studio di Isabella Ginor e Gideon Remez, «i sovietici avevano preparato uno sbarco sulle spiagge di Israele e approntato l’attacco di bombardieri e di forze armate navali nuclearizzate». Il loro obiettivo era il reattore nucleare di Dimona, e il mezzo era la provocazione araba. Dopo l’imprevista vittoria di Israele, i sovietici furono quelli che all’Onu - scrive in un nuovo studio lo storico Joel Fish - imposero la condanna come condizione per qualsiasi cessate il fuoco. Da allora, le organizzazioni legate ai partiti dei lavoratori furono ipnotizzate da una campagna che dura tutt’oggi in maniera acritica e pretestuosa per disegnare Israele come aggressore e l’America come un burattinaio. In realtà l’Onu, combattuta, votò la risoluzione 242 che chiedeva a Israele di ritirarsi «da» e non «dai» territori in cambio della sicurezza. La Guerra dei Sei Giorni è stata l’inizio della consapevolezza araba del fatto che Israele non poteva essere spazzata via dalla mappa; è stata la definitiva territorializzazione, nel West Bank e a Gaza, dell’identità palestinese che non aveva mai avuto uno Stato proprio; anche per loro è stata un’opportunità storica; è stato l’inizio della discussione in Israele sulla importanza della profondità strategica del territorio, con la sinistra che la dichiarava nulla, e la destra che vi vedeva una indispensabile dimensione di salvezza, e della discussione fra Pace Adesso e Coloni. Alcuni vedono in questa guerra il momento in cui il fallimento del panarabismo arabo aprì la strada all’islamismo, altri lo identificano nella rivoluzione khomeinista e poi nella sconfitta russa in Afghanistan. Più di tutto, fu la fine del vissuto ebraico legato all’ansia per un incombente sterminio. Quando tornai a Firenze all’Università, dopo la guerra, i miei compagni studenti mi guardavano in modo diverso: non ero più la «loro» ebrea simbolo della lotta contro il nazifascismo, l’ebrea «ricurva» e sofferente della diaspora che piaceva a Natalia Ginzburg, quanto le dispiacevano i «sabre» forti e sfrontati. Non c’erano più pecore, non c’era più macello. Adesso c’era una democrazia che sapeva anche fare la guerra, un popolo bimillenario che voleva vivere nel presente. Ci misi anni a capire che ciò era accaduto sotto ai miei occhi.
Se Cambridge si scopre antisemita
venerdì 1 giugno 2007 Il Giornale 3 commenti
Ben prima di fondare nel 1948 lo Stato, gli ebrei fondarono l’Università: il Politecnico di Haifa nel 1924 e nel 1925, a Gerusalemme, la Hebrew University. Ambedue, con altri atenei israeliani, oggi si trovano nell’ambito dell’eccellenza. Ma questo non importa all’accademia inglese, accecata da un’ideologia di cui sarebbe andato fiero Sdanov. Il boicottaggio contro le università israeliane dell’associazione dei docenti universitari «lecturer» (Ucu, University and College Union) è un gesto di estremismo inaudito: i distinti docenti di Cambridge, secondo il voto di mercoledì, non andranno in Israele per studi e conferenze, non riceveranno professori e studenti israeliani, cancelleranno ogni programma di collaborazione con uno dei Paesi più ricchi di idee e di premi Nobel del mondo. L’Ucu rappresenta oltre 100mila docenti. Il voto è passato con 158 voti contro 99, in un’atmosfera di guerra e trionfo, con urla e accuse sanguinose («nazisti») agli studenti e ai professori israeliani che con un cartellone pregavano, gli illusi: «Parlate con l’accademia Israeliana». Intanto su Sderot piovevano i missili kassam, un bambino paralitico, colpito insieme ad altri due su un pulmino fra Sderot e Ashkelon, moriva all’ospedale; si sono levate urla di gioia per la mozione, come se sui professori si librasse lo spirito, come se il senso dell’impegno per i diritti stesse tutto nell’uccidere virtualmente, mettendone al bando la cultura, l’unico Stato democratico del Medio Oriente, come se la lotta per la libertà consistesse nel passaggio libero degli uomini di Hamas dai check point, nell’impedire a Israele di combattere l’attacco terroristico che non si ferma. Come se l’impegno trovasse valore nell’escludere dalla cultura europea gli ottimi studenti e professori dell’accademia di Gerusalemme e Tel Aviv, città a suo tempo bombardate da Saddam Hussein; come se fosse una medaglia al valore segregare l’università di Haifa, bombardata dagli hezbollah nella guerra di agosto; o Beer Sheba, città universitaria del Negev, nella zona di Sderot, la cui gente vive nel terrore dei missili di Hamas. Questo, anche dopo che Israele ha deciso, nonostante il bombardamento continuo, di non invadere Gaza ma di limitarsi a contrattacchi ai responsabili diretti e alle strutture. Ma che importa, la realtà di Israele è virtuale, non fattuale: Israele è oppressore anche se si limita a difendersi con la mano sinistra. E infatti in queste ore la Unison, il sindacato dei servizi pubblici del Regno Unito, sta considerando di votare nella conferenza annuale di metà giugno una proposta di boicottaggio generale a Israele. Bella impresa, unificante. La più grande federazione delle Trade Union sudafricane sta lanciando una campagna per il boicottaggio su tutti i beni israeliani e per rompere i rapporti diplomatici. Altre iniziative di boicottaggio si risvegliano in Europa, e ricordiamo che nel passato se ne sono avute anche negli atenei italiani. Pensiamoci un attimo: i docenti inglesi, che lamentano la violazione dei diritti civili da parte israeliana, se la sono mai presa con le università cinesi, dato che in quel Paese la pena di morte falcia i dissidenti, o che la Cina opprime il Tibet? Abbiamo mai sentito parlare di un boicottaggio contro l’università russa, dato che Putin ha liquidato migliaia di musulmani in Cecenia? I prof britannici hanno boicottato i siriani, che hanno soppresso le minoranze e che tengono in carcere l’opposizione? Come la mettiamo con le università di tutti i Paesi in cui le minoranze sono oppresse, torturate, incarcerate per le loro idee, in cui le donne sono segregate o picchiate, gli omosessuali soppressi, come nei territori palestinesi? Con i Paesi che opprimono le loro minoranze? Ce la si prende con un Paese dove niente di questo genere accade, i cui soldati si comportano in guerra secondo un codice morale certamente più severo, e alquanto, di quello dei soldati britannici o anche americani, che sparano solo se attaccati e per prevenire il prossimo attacco terrorista o missilistico. Perché gli accademici britannici non hanno boicottato l’Università di Nablus, An Naja, che organizzò una mostra fatta di pizza e sangue, con tanto di immagine esaltante del terrorista con maschera e cintura, sull’attentato della Pizzeria Sbarro di Gerusalemme, esplosa il 9 agosto del 2001, 15 morti, quasi tutti bambini, 130 feriti? Né è mai stata messa in mora l’università di Teheran dove i docenti e gli studenti vengono bollati da uno speciale comitato che controlla la fedeltà al regime attribuendo «stelle» che giunte a tre portano all’espulsione. Perché? Diciamolo una buona volta che si tratta dell’antisemitismo del nostro tempo, spinto avanti da una deprecabile condizione culturale in cui l’estremismo islamico più omicida è promosso a Londra, anche dal sindaco Ken Livingstone, a rango di cultura delle minoranze, in cui possono fiorire i terroristi come quelli del «tube» e degli autobus di Londonstan, in cui l’Europa perde l’anima. Uno studente arabo israeliano, Amal Hassan Shehadeh, dell’università di Bar Ilan, a Bournemouth dove si svolgeva la discussione, ha passato tutta la notte davanti all’edificio dell’assemblea cercando di spiegare a quei grandi combattenti dei diritti civili che il boicottaggio degli israeliani avrebbe incluso anche parecchi arabi. Ma quelli erano troppo intelligenti per capire.