Il Giornale
Una giornata sul confine libanese dove Hezbollah prepara la guerra
da Kiriat Shimona - C’è molto silenzio sul confine israeliano col Libano, sopra Kiriat Shmona e sotto Metulla, dove nei giorni della guerra il concerto dei kasam e dei katiuscia ci assordava. C’è aria pura e greggi sul verde dove si svolgevano le battaglie sanguinose che seguivamo da lontano sulla traccia dei carri armati, del fumo, delle colonne di ragazzi in divisa che si avviavano a combattere con gli hezbollah di notte. Ma si avverte in quel silenzio il vibrare di una guerra che verrà, e che avrà gli occhi di Ahmadinejad oltre a quelli di Nasrallah. I servizi segreti israeliani continuano a certificare il riarmo completo degli Hezbollah, Walid Jumblatt, il capo dei drusi che teme un colpo di mano di Nasrallah ispirato dall’Iran, ha chiaramente detto che in certi casi il traffico di armi tra Siria ed Hezbollah è stato facilitato dall’esercito libanese, che l’Unifil protegge. Negli avamposti militari al confine lo si verifica nei racconti dei soldati, come il comandante Yaacov Oz, e nelle valutazioni di un ufficiale che non può essere citato per nome. Il giorno dell’Indipendenza, 59 anni dalla nascita dello Stato d’Israele, è una data molto celebrata, piena di movimento e di suoni. Si balla, si canta, i bambini corrono gridando nei prati della Galilea, nel deserto del Negev, sulle terrazze di Tel Aviv e di Haifa, e nei boschi di Gerusalemme. Al confine di Israele con il Libano le gite nei boschi appena ripiantati, dopo che i missili degli Hezbollah hanno bruciato gli alberi più antichi del Paese, sono pieni di gente. «È una sconfitta degli Hezbollah il fatto che la gente di Kiriat Shmona, bersagliata dai katiuscia che hanno portato distruzione e morte, sia qua a festeggiare», dice l’ufficiale. Fa impressione constatare che i monti, che erano diventati neri, ora sono verdi, che il traffico è di nuovo intenso. I vertici militari responsabili, il capo di stato maggiore Dan Haluz che, come fosse invulnerabile, concedeva improvvisate conferenze stampa in mezzo ai boschi incendiati dai kassam, Udi Adam, capo del Comando Nord, e Gal Hirsh, colonnello della 91esima divisione, sono tutti spariti nella profonda epurazione dell’esercito, non ancora conclusa: «Per esitazioni, per errori militari e del governo, e anche per illusioni pacifiste, abbiamo condotto la guerra con quello stesso ritegno che dal 2000, quando ci ritirammo, ci ha impedito di reagire alle loro incursioni, ai rapimenti, all’accumulo di missili di cui eravamo consapevoli». L’ufficiale cammina con noi sul piazzale del kibbutz Kfar Giladi, dove 13 soldati della riserva sono stati uccisi da un kassam che è ancora là, fra i segni che ricordano la posizione di ciascuno quando la morte l’ha colto mentre mangiava, chiacchierava o giocava a scacchi col vicino aspettando gli ordini. «Però Hezbollah non ha vinto, è decimato, ha tirato 3.000 missili sulle città per uccidere solo 40 civili, le loro armi sono state in gran parte distrutte, la risoluzione e la forza dell’Onu li costringe a stare lontano dal confine. Sono tutti punti a nostro favore». Sì, ma adesso secondo tutti gli osservatori sono di nuovo pronti. «Ma dopo la nostra risposta dell’estate scorsa sanno, come lo sa la Siria, che scherzi non ne possono fare, che gli israeliani non resteranno ad aspettare attentati e rapimenti». Eppure i due soldati rapiti, Regev e Goldwasser, sono ancora in mano loro, la deterrenza gioca fino a un certo punto dove la jihad detta legge, come dimostrano i kassam sparati proprio ieri da Hamas dentro Israele. L’Iran non rinuncia al fronte caldo creatosi a nord di Israele, gli hezbollah sono agli ordini dell’avventuriero Ahmadinejad. La faccia tonda e abbronzata del capitano Yaakov Oz, gli occhi neri, il sorriso timido sono quelli di un 25enne, ma lui si sente padre dei suoi cento «Golani», i più terragnoli, energici, popolari ragazzi da combattimento di Israele, quelli che subiscono più perdite, la cui dedizione ha creato una leggenda. «Loro le vogliono bene?». Bene? Ride anche il soldato che ci accompagna, Yaniv, 21 anni. «Boh, lo chieda a loro. Io cerco di non lasciarli mai soli, di guidarli e ascoltarli; e se devo, li punisco». Per cosa li punisce con più determinazione? «Non perdono la menzogna. Ma non capita spesso». Uscendo dai camminamenti di cemento della Gisrà Rehes Ramim adesso, a differenza di prima e durante la guerra, ci possiamo affacciare su una terrazza che guarda i villaggi di Ataybeh, Markabe, Telkabe, roccaforti teatro di sanguinose battaglie, si vede anche Hule in lontananza e la base Olesh dell’Onu. «Dalle finestre socchiuse dei villaggi davanti a noi, siamo osservati anche adesso da paesani legati a Hezbollah e spesso dagli Hezbollah stessi. In questi villaggi si nascondevano uomini missili e lanciamissili. Oggi non posso dirlo; ma sulle alture qui intorno, pastori incaricati di osservarci compiono giri e si danno il cambio prendendo nota di movimenti e caratteristiche del nostro esercito. L’Unifil tiene il confine più tranquillo di prima, i suoi uomini hanno frequenti colloqui con gli abitanti di qui che, come dicevo, sono in contatto con gli Hezbollah. Ma l’atmosfera pastorale che lei vede è un proscenio verde dietro il quale c’è un gran lavorio di riarmo e di ricostruzione, anche se gli avamposti da cui ci sparavano, le bandiere gialle sul confine, i cartelloni in cui ci mostravano la testa mozzata di un nostro compagno, i soliti manifestanti portati in autobus da Beirut, il lancio di pietre contro di noi, tutto questo è sospeso». Sia Yaacov che Yaniv durante la guerra sono andati in missione notturna il 2 agosto a Markabe, e tre loro compagni, Omri Elamakayes di 19 anni, Daniel Shiran di 20, e Igor di 24, sono stati uccisi in battaglia accanto a loro. «Ci aspettava un agguato». Avevate paura entrando? Yaniv dice: «C’è l’adrenalina che aiuta. Combattendo di casa in casa, uccidemmo sette Hezbollah. Abbiamo combattuto per recuperare i nostri amici, uno di loro era il medico da campo. Quando li hanno caricati sull’ambulanza dopo uno scontro duro, non sapevamo ancora che erano morti. Ce l’hanno detto al campo. Certo che eravamo amici, si dorme, si mangia, si combatte insieme, si torna a casa insieme nel fine settimana». «Paura?». Yaacov riflette: «Io ho molto rispetto degli Hezbollah come combattenti, li conosco come le mie tasche, anche perché studio storia del Medio Oriente all’università. Per questo so che Hezbollah non si arrende, si prepara, aspetta la prima occasione per tornare a cercare di uccidere gli ebrei. Però adesso sa che possiamo dargli una lezione da cui non si risolleverà. Anche loro si preparano bene. E noi errori ne abbiamo fatto molti, ma li studiamo, lavoriamo, siamo in mezzo a una vera rivoluzione». Ma la paura, quella che si prova quando si entra di notte a Markabe? Avrebbe potuto toccare a voi. «Ovvio. Con tutto il dispiacere, non sono mica pazzo, ma sono pronto a morire per il Paese. È normale. Non so come suona a un’italiana», sorride timido.
Al Qaida in Palestina
Al Qaida a Gaza può alienare le simpatie europee, mette in difficoltà gli amici che sostengono il teorema «land for peace» come risolutivo, specie quando si vede il suo nesso ideologico con Hamas. Così, Ismail Hanje pochi giorni fa alla radio italiana dichiarava che Hamas non ha né ha mai avuto niente a che fare con Al Qaida. Ma questo non è vero. Hamas in particolare ha nessi ideologici e pratici molto seri con l’organizzazione di Bin Laden, ambedue unite dallo scopo di distruggere lo Stato degli Ebrei ma impegnate intanto nella guerra jihadista contro l’Occidente. Non si può non preoccuparsene e darne conto mentre trepidiamo per la sorte del collega della Bbc Alan Johnston, il giornalista rapito il 12 marzo a Gaza e di cui un messaggio delle Brigate Jihad e Tawheed rivendica l’uccisione come vendetta per il gran numero di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane (dopo, aggiungiamo noi, regolari accusa, difesa, sentenza) e come atto di forza per chiedere di liberarli. Johnston, è un giornalista quarantatreenne che vive da tre anni a Gaza e che racconta con molta passione la vita dei palestinesi. Aveva ottimi rapporti con loro. Che l’organizzazione rivendichi la sua uccisione testimonia l’appeal dello stile Bin Laden: indiscriminato odio antioccidentale. Il nome con cui il volantino è firmato, è noto in Irak come organizzazione terrorista qaidista.
A Gaza ultimamente c’è uno stile Bin Laden che è addirittura di moda (copricapi e braghe stile Bin Laden), e che è aumentato verticalmente da quando nell’estate di due anni fa apertosi il confine fra Gaza e l’Egitto, sono penetrati armi e terroristi e il nesso con gli uomini dei vari attentati di Sharm El Sheik e di Taba, tutti «qaidisti», ha creato proselitismo. Lo stesso stile della reazione fobica e religiosa (con la distruzione delle sinagoghe) e antioccidentale (distruzione delle serre) del dopo sgombero, è stata giudicata dagli esperti una scelta elettorale di Hamas, ma anche un prodotto di importazione.
Oggi, ci sono giovani a Gaza che si rifanno a Abu Mussa al Zarqawi, il vice di Bin Laden ucciso l’anno scorso in Irak, minacciano regolarmente di assassinio Abu Mazen, pare abbiano costruito tunnel e portato esplosivi e armi sofisticate non solo contro gli israeliani, ma contro quella che hanno dichiarato gestione fantoccio, filoamericana dell’Autonomia. Abbas da Bin Laden e da Aiman Al Zawairi era stato descritto come un collaborazionista, le milizie Jundallah nel 2005 prima del ritiro da Gaza si erano preparate allo scontro e avevano anche attaccato e ferito in proprio quattro soldati israeliani a Rafah. Ma le prime presenze si segnalano già nel 2000. Nel settembre 2003 un ventisettenne in uscita verso l’Afghanistan arrestato aveva rivelato un gruppo di giovani palestinesi che erano stati indottrinati, poi arruolati in loco e poi mandati a allenarsi in Afghanistan. La presenza di Al Qaida è stata segnalata nei campi profughi palestinesi in Libano; nel 2000 fu sventato il piano di far saltare il ponte di Allenby e di attaccare pellegrini cristiani; nel 2002 salta per aria l’Hotel Paradise in Kenya, pieno di turisti israeliani (ne muoiono 13) e un missile quasi colpisce un volo El Al; nel 2003 due terroristi inglesi di origine pakistana fecero saltare il bar Mike Place di Tel Aviv. Nel marzo Hamas distribuiva gli scritti del mentore palestinese di Bin Laden, Abdullah Azzam e nel 2004 Hamas distribuiva un Cd con terroristi ceceni e Bin Laden in copertina, in cui si spiegava la guerra santa per l’Islam.
Salman al Auda, un chierico teorico del terrorismo suicida, è maestro sia di Hamas che di Al Qaida. Nell’agosto dello sgombero appare un sito di Al Qaida intitolata «Dalla vetta della gobba del cammello» e spiega che «i sionisti sono un obiettivo da colpire». Il 9 agosto la democrazia viene dichiarata sullo stesso sito fuori della prospettiva islamica. Se si viene al giorno d’oggi, internet café e negozi di musica nell’Autonomia rischiano di brutto: ultimamente ne sono stati distrutti due e anche una libreria, Bible society, che appartiene a protestanti americani. La firma Al Qaida è presente non solo a livello di armi e nascondigli, ma anche a livello sociale, dove la base islamista estrema di Hamas, oggi allargata alquanto da una rete televisiva che predica già l’avvento della terza Intifada e la distruzione di Israele, è pronta al messaggio.
L’annuncio, speriamo del tutto falso dell’assassinio di Johnston, è avvenuto nel giorno del secondo incontro fra Abu Mazen e Ehud Olmert. Certo, non è un buon viatico. E comunque, la prospettiva di una Gaza «qaidizzata» da cui con un volo di pochi minuti un aereo pilotato da un terrorista suicida possa arrivare a Tel Aviv, è fra le più cupe da immaginarsi, e va prevenuta.
I messaggi del mullah Santoro
Marchio d’infamia per i prof dissidenti in Iran
In gennaio, nel corso di un’offensiva contro le teste calde democratiche delle Università, Mohammed Mehdi Zahedi, il ministro della Scienza, Ricerca e Tecnologia agli studenti dell’Università di Ahvaz annunciò che i postgraduati sarebbero stati segnati con una stella accanto ai loro nomi per motivi disciplinari. E aggiunse: «Allora, dovranno stare attenti che questo non si ripeta, o avranno dei problemi».
Un Paese come l’Iran khomeinista, e adesso ancora più estremo data la gestione di Amadinejad, non deve spiegare di quali problemi si tratta: gli arresti, le botte, le detenzioni per chi non è o non è ritenuto fedele al regime sono comuni e spaventose, a volte gestite dalle Guardie Rivoluzionarie, a volte dalle strutture repressive dello Stato. Il sistema delle stelle è diffuso da quando, raccontavamo, all’università di Amir Kabir, conosciuto come il vecchio Politecnico, Ahmadinejad, chiamatovi da una petizione firmata da 16mila universitari, cercò di domare la folla accademica. Ma gli studenti accolsero il presidente tenendo alla rovescia le sue foto e gridandogli «abbasso il dittatore». Da allora, è stata una pioggia di stelle, sono state chiuse organizzazioni studentesche come quella di Bu Ali Sina, sono stati ammoniti direttori di bollettini come quello dell’università di Shahrud, nella stessa università 11 studenti sono stati ammoniti, altri sospesi all’università Azad, altri a quella di Shiraz. Ma le università, rifugio dell’opposizone moderna, che cinque anni e mezzo fa con grandi sacrifici dettero vita a manifestazioni contro il regime finite nella repressione e nel sangue, seguitano ad essere la punta di un’opposizione crescente contro il Presidente. Il fatto che adesso il regime abbia deciso di stellare anche i professori ci parla di una insicurezza per altro già avvertita alla liberazione dei marinai britannici. «Anche in quella occasione - ci racconta Menashe Amir, un iraniano che vive in Israele e tramite il suo programma alla radio parla tutti i giorni con Teheran - la critica della gente è arrivata fino sui giornali che dicevano: “Se volevi compiere un atto di misericordia liberando gli inglesi, perché non lo hai fatto prima dell’ultimatum di Tony Blair? Forse, invece, hai avuto paura? E se avevano violato le acque territoriali perché non li hai processati? E se non le hanno violate, perché li hai rapiti creando il gran pasticcio?”». Un paio di settimane or sono il fratello di Alì Larjani (il capo della missione che negozia la questione nucleare), Mohammed Javad Larjani, che insegna fisica all’università, ha detto che «il presidente appare molto stanco, dovrebbe prendersi una vacanza» e il suo commento è stato ripreso da un membro del Parlamento, Khosh Chehreh, che ha ripetuto: «L’ho incontrato il 21 di marzo, l’ho visto molto stanco». Battute che richiedono molto coraggio. Come ieri ha richiesto coraggio per il Parlamento, racconta Amir, avviare l’orologio d’estate contro l’opinione del Presidente. Anche i commenti sul discorso tenuto sul nucleare sono delusi: «Non c’era niente di nuovo, e allora perché quella grande festa?» dicono gli iraniani.
La critica striscia, ma non è capace di produrre un cambiamento di regime, oberata di persecuzioni e minacce. L’unica strada è quella del cambio di regime, che è anche la sola per bloccare la costruzione delle strutture di arricchimento atomico. «Intanto - dice Amir - spingiamo perché la commissione per i diritti umani dell’Onu difenda gli studenti e i professori, e cerchiamo di finanziare il loro movimento».
Comincia nella stessa università dove il 16 dicembre dell’anno scorso Mahmoud Ahmadinejad, il presidente iraniano, fu fischiato, insultato, sfottuto dagli studenti, la persecuzione organizzata anche dei professori. Infatti da ora in poi anche loro verranno esaminati nel loro comportamento da una commissione che se non li troverà confacenti nel pensiero e nelle azioni alle norme islamiche della Repubblica, li marcherà prima con una stella, poi con due, poi con tre.La prima stella serve da ammonimento o a non rinnovo dell’incarico nel caso non si sia assunti con contratto a tempo indeterminato, la seconda comporterà la riduzione dei mezzi a disposizione per studi e ricerche, la terza porterà al licenziamento o al prepensionamento. Per gli studenti di molte università questa procedura è già in voga da tempo (anche se le punizioni sono ovviamente altre, fino all’espulsione): «stellato» si dice in slang giovanile per indicare uno studente indipendente e critico e quindi già marchiato. In gennaio, nel corso di un’offensiva contro le teste calde democratiche delle Università, Mohammed Mehdi Zahedi, il ministro della Scienza, Ricerca e Tecnologia agli studenti dell’Università di Ahvaz annunciò che i postgraduati sarebbero stati segnati con una stella accanto ai loro nomi per motivi disciplinari. E aggiunse: «Allora, dovranno stare attenti che questo non si ripeta, o avranno dei problemi». Un Paese come l’Iran khomeinista, e adesso ancora più estremo data la gestione di Amadinejad, non deve spiegare di quali problemi si tratta: gli arresti, le botte, le detenzioni per chi non è o non è ritenuto fedele al regime sono comuni e spaventose, a volte gestite dalle Guardie Rivoluzionarie, a volte dalle strutture repressive dello Stato. Il sistema delle stelle è diffuso da quando, raccontavamo, all’università di Amir Kabir, conosciuto come il vecchio Politecnico, Ahmadinejad, chiamatovi da una petizione firmata da 16mila universitari, cercò di domare la folla accademica. Ma gli studenti accolsero il presidente tenendo alla rovescia le sue foto e gridandogli «abbasso il dittatore». Da allora, è stata una pioggia di stelle, sono state chiuse organizzazioni studentesche come quella di Bu Ali Sina, sono stati ammoniti direttori di bollettini come quello dell’università di Shahrud, nella stessa università 11 studenti sono stati ammoniti, altri sospesi all’università Azad, altri a quella di Shiraz. Ma le università, rifugio dell’opposizone moderna, che cinque anni e mezzo fa con grandi sacrifici dettero vita a manifestazioni contro il regime finite nella repressione e nel sangue, seguitano ad essere la punta di un’opposizione crescente contro il Presidente. Il fatto che adesso il regime abbia deciso di stellare anche i professori ci parla di una insicurezza per altro già avvertita alla liberazione dei marinai britannici. «Anche in quella occasione - ci racconta Menashe Amir, un iraniano che vive in Israele e tramite il suo programma alla radio parla tutti i giorni con Teheran - la critica della gente è arrivata fino sui giornali che dicevano: “Se volevi compiere un atto di misericordia liberando gli inglesi, perché non lo hai fatto prima dell’ultimatum di Tony Blair? Forse, invece, hai avuto paura? E se avevano violato le acque territoriali perché non li hai processati? E se non le hanno violate, perché li hai rapiti creando il gran pasticcio?”». Un paio di settimane or sono il fratello di Alì Larjani (il capo della missione che negozia la questione nucleare), Mohammed Javad Larjani, che insegna fisica all’università, ha detto che «il presidente appare molto stanco, dovrebbe prendersi una vacanza» e il suo commento è stato ripreso da un membro del Parlamento, Khosh Chehreh, che ha ripetuto: «L’ho incontrato il 21 di marzo, l’ho visto molto stanco». Battute che richiedono molto coraggio. Come ieri ha richiesto coraggio per il Parlamento, racconta Amir, avviare l’orologio d’estate contro l’opinione del Presidente. Anche i commenti sul discorso tenuto sul nucleare sono delusi: «Non c’era niente di nuovo, e allora perché quella grande festa?» dicono gli iraniani. La critica striscia, ma non è capace di produrre un cambiamento di regime, oberata di persecuzioni e minacce. L’unica strada è quella del cambio di regime, che è anche la sola per bloccare la costruzione delle strutture di arricchimento atomico. «Intanto - dice Amir - spingiamo perché la commissione per i diritti umani dell’Onu difenda gli studenti e i professori, e cerchiamo di finanziare il loro movimento».
I visionari della pace
Portata a casa l’umiliazione dell’Occidente ottenuta con il rapimento e la liberazione-regalo per gli amici inglesi, Ahmadinejad torna alle cose serie: a Natanz, ha annunciato ieri, siamo in grado di produrre carburante nucleare «su scala industriale», ovvero abbiamo espanso il programma vietato dall’Onu con due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. «Entriamo nella fase della produzione di massa», ha comunicato il presidente iraniano, senza specificare il numero delle centrifughe che entrano in azione. Si parla di 3000 approntate a Natanz, un bel po’ di più delle 164 di cui si sapeva fino ad oggi, molto meno delle decine di migliaia atte a produrre la bomba atomica, cosa che secondo Amos Yadlin, capo dei servizi militari israeliani, non si realizzerà prima del 2010. La spalla nella parte del buono, il consueto Ali Larjani, capo negoziatore nucleare, ha detto che ora, forte delle sue centrifughe nuove, l’Iran potrà negoziare faccia a faccia con l’Occidente.
Domenica Hassan Nasrallah aveva annunciato che finché il Libano non è in grado di difendersi da solo, egli terrà gli Hezbollah in armi per difendere il Paese «contro gli attacchi di Israele». È la reazione dura a un incontro fra Nabih Berri, il presidente filosiriano del Parlamento, che tiene per la riforma che consentirebbe all’opposizione (ovvero agli Hezbollah) il diritto di veto, e Saad Hariri, che rappresenta all’incontro la coalizione governativa guidata da Fuad Seniora, e dice di no alle dimissioni e alle concessioni. L’incontro fallisce. Nasrallah quindi nel suo discorso dice che il Paese non è garantito e che Hezbollah lo difenderà. Già dal primo dicembre, il Segretario generale del movimento sciita ha lanciato manifestazioni e scontri di piazza per far dimettere Seniora minacciando una guerra civile come quella che ebbe luogo dal ’75 al ’90.
Attenzione: qui viene lo snodo. La settimana scorsa sembrava imminente una conferenza sponsorizzata dall’Arabia Saudita fra i leader libanesi antagonisti. Anzi, era stata annunciata. I sauditi vi avrebbero, sembrava, rinnovato i fasti dell’incontro della Mecca in cui avevano messo d’accordo Fatah (Abu Mazen) e Hamas per un governo di coalizione. Ma d’un tratto, Fuad Seniora, il Primo ministro antisiriano e antiraniano, nonostante le sue molte prudenze nei confronti degli Hezbollah, ha detto che per lui non va bene: il Paese deve trovare le sue soluzioni prima di andare dall’Arabia Saudita.
Che cosa è successo? Non aveva tutto da guadagnare Seniora da quella stessa Arabia Saudita moderata che aveva appena ripresentato a Ryad il suo «piano di pace» che gli americani, con qualche variazione, vedono come un possibile terreno di pacificazione fra Israele e i Palestinesi e di affermazione di quella coalizione sunnita moderata che deve costituire una diga contro l’egemonia sciita iraniana?
Secondo noi, il punto è che il prudente Seniora ha temuto proprio il bis di quello che era successo fra i palestinesi: i sauditi si sono infatti accorti alla Mecca che Hamas non poteva essere strappato all’Iran, che strappargli Hamas avrebbe molto irritato Teheran, che l’Iran ha una forte determinazione e potenza militare con cui trovare un terreno di dialogo. Così, il re Abdullah ha consentito un accordo in cui Hamas ha vinto conservando la condanna a morte dello Stato d’Israele e la scelta del terrorismo e imponendo queste condizioni a Abu Mazen, che pure la pensa diversamente. A Ryad poi, la proposta saudita di fatto proponeva non un accordo di pace, ma un terreno impossibile per Israele negando la risoluzione 242 dell’Onu con la richiesta del rientro nei confini del ’67, e riproponendo l’impossibile ritorno dei quasi 5 milioni di profughi. La proposta è stata accompagnata a Ryad da una minaccia di guerra inaspettata anche da Condy Rice che chiedeva modifiche senza ottenerle. A queste minacce si è unita la cancellazione di una cena di gala del re Abdullah alla Casa Bianca, che avrebbe dovuto aver luogo in questi giorni. È evidente che è intenzione dei sauditi occuparsi soprattutto dei propri rapporti con l’Iran, molto di più che non della pace. Un fronte moderato direttamente antagonista all’Iran come quello che sognano gli americani non sembra prendere dunque forma. L’appeasement si propone anche sul fronte arabo interno e, intanto, sarà una coincidenza?, una grande vendita di armi americane ai Sauditi e ad altri alleati del Golfo per ora non va avanti.
Nel frattempo, mentre Nancy Pelosi si è avventurata temerariamente in casa di Assad di Siria (che aveva fatto sapere che la proposta di Olmert per un incontro fra Israele e gli Stati Arabi non gli interessa) la Francia ha fatto circolare la bozza di un documento da presentare al Consiglio di Sicurezza che esprima preoccupazione e condanna per il passaggio illegale di armi attraverso il confine siriano-libanese. Di nuovo gli arsenali degli Hezbollah sono pieni di missili iraniani e occorre, dicono i francesi, autorizzare una nuova missione di verifica. L’Unifil non ha fermato gli Hezbollah, il Libano è a rischio, la Siria aiuta Nasrallah, gli iraniani lo ritengono un’arma strategica fondamentale.
Chi dunque immagina coalizioni di moderati, prospettive di pace all’orizzonte, chi immagina che i sunniti saranno il bastione dell’Occidente, che il loro piano di pace sia flessibile, che i Siriani cerchino la pace, che Hamas sarà Fatah e diventerà possibilista, che l’Iran tratterà sul nucleare e anche che Al Qaida sarà così gentile da tenere la testa bassa ancora per un po’, che la prossima conferenza di Sharm el Sheikh sull’Irak convinca l’Iran e la Siria a starsene fuori... devono tutti fare i conti con la forza saliente con cui il Medio Oriente ha a che fare oggi, la ventata jihadista cui anche i regimi sunniti devono pagare pegno e in cui l’Iran giuoca un ruolo indispensabile. Fin quando l’Arabia Saudita non deciderà di giocarsela in maniera più diretta considerando il pericolo iraniano incombente su tutto il Medio Oriente. Per noi, unendo i puntini, si vedono attentati e rapimenti su un fronte allargato, a meno che non lo si contenga con sanzioni, severità, decisione.
Guerra dei marinai senza vincitori
Solo i media lo hanno assecondato nella sua interpretazione del Buono. Se certo c’è da rallegrarsi assai del ritorno dei soldati britannici alle loro famiglie dato quella che abbiamo imparato possa essere la sorte dei rapiti caduti in mano di fanatici religiosi, tuttavia episodi come quello appena conclusosi collocano l’Inghilterra in quella zona di understatement che non aiuta la guerra al terrorismo; Blair, certo «calmo e deciso», come si è complimentato da solo, pure ha saputo contrapporre a una impresentabile prepotenza, all’ennesimo sgarro di un personaggio pericoloso per il genere umano, poco più della tradizionale flemma britannica; un leader in prossima uscita non vuole mai concludere il mandato in modo imprudente, anche se un giorno dovrà forse accorgersi di aver mancato alla chiamata della storia. Blair poteva almeno parlare chiaro, almeno dopo la liberazione dei suoi uomini. Oltretutto la sua linea, quella della fermezza sulle concessioni, non regge data la liberazione di Jalal Sarafi, il «diplomatico» arrestato in Irak. E il fatto che l’Inghilterra non abbia chiesto scusa, ma abbia tuttavia promesso (se è vero) di evitare violazioni, è controverso, ma se l’ha fatto, questo è per Ahmadinejad, che divulga senza tregua una visione di un Occidente corrotto, flebile, vigliacco che sarà stroncato dall’Islam, un premio simbolico micidiale.
Anche i soldati inglesi giustamente compiaciuti di essere vivi, così proni, sorridenti e oranti, sinceramente grati a Ahmadinejad come può esserlo un bravo ragazzo inglese verso il suo salvatore, rivelavano col loro atteggiamento, col linguaggio del corpo, le parole in libertà, che mancava loro persino il training psicologico per comprendere almeno che un soldato occidentale ha oggi dei terribili nemici.
Quanto all’Iran, ha fatto il passo più lungo della gamba. Ahmadinejad ha lasciato, o ha comandato, che le Guardie Rivoluzionarie, a lui fedeli il giorno prima del voto al Consiglio di Sicurezza del 24 maggio, rapissero i quindici marinai nella acque dello Shatt el Arab. Per il presidente è stata una maniera di mettere in rapporto la determinazione a costruire il potere nucleare iraniano con la sua tempestosa, capricciosa e incontenibile determinazione a giuocare il ruolo del bullo del quartiere, quello che sullo scenario internazionale passa con uno spintone e non chiede il permesso a nessuno. Le Guardie, di cui fanno parte le unità Quds (Gerusalemme), dispongono di decine di migliaia di suicidi, gestiscono un vero esercito armato molto modernamente: le Unità agiscono in Irak e altrove in concerto con gli hezbollah e Hamas, volevano vendicarsi per l’operazione americana in Irak che a gennaio ridusse ai minimi termini il loro network cui appartengono anche i sei iraniani catturati a Irbil dagli americani. E, in secondo luogo, aiutavano così Ahmadinejad in un momento di gravi difficoltà interne; Rahim Safavi, capo delle Guardie, personalmente danneggiato dalla prima risoluzione dell’Onu 1737 che ne congela gli affari, inviso a Ali Larjani come a Hashemi Rafshanjani, non prevedeva di dovere concludere il rapimento così in fretta, ma pensava invece di stabilizzare la sua posizione anche rispetto all’Irak e al resto delle grandi operazioni in cui le Brigate Quds hanno le mani.
Ma mentre il mondo si schiera tutto contro i rapitori, più che la paura dell’Onu (su quello tutta la leadership è compatta: «faremo il nucleare comunque») gioca la consapevolezza che ormai agiscono sanzioni nascoste molto serie: più di cinquanta fra le banche e le istituzioni finanziarie più importanti del mondo hanno bloccato i loro rapporti con l’Iran impazzito di Ahmadinejad. Fra queste la Swiss Bank Ubs, la Germany Commerzbank, l’Hsbc di Londra. Molti grandi progetti sono a rischio, come quello con l’India per un grande piano di condotte di gas. L’industria petrolifera e del gas iraniane, ormai vecchie e distrutte, non trovano finanziamenti per il rinnovamento indispensabile. Se Ahmadinejad ha la mentalità messianica e l’assetto strategico della jihad e vuole sacrificare tutto alla venuta del Mahdi, non è lo stesso per chi teme, in Iran, che la politica del presidente stia per far franare il regime. E Khamenei non vuole, anche lui per fede messianica, che Ahmadinejad distrugga ciò che Khomeini ha costruito: il più grande e potente regime islamista sciita in fase di espansione strategica.Chi ha vinto fra Iran e Inghilterra? La risposta è: nessuno dei due. È stata solo una battaglia in una guerra in pieno svolgimento. Ahmadinejad non ha affatto convinto col suo show di graziosità piccolo borghesi che hanno celato per qualche minuto il consueto ghigno, con i regalini, i sorrisi. Si intravedeva in trasparenza la retromarcia in politica interna e lo svarione in politica internazionale.
Solo i media lo hanno assecondato nella sua interpretazione del Buono. Se certo c’è da rallegrarsi assai del ritorno dei soldati britannici alle loro famiglie dato quella che abbiamo imparato possa essere la sorte dei rapiti caduti in mano di fanatici religiosi, tuttavia episodi come quello appena conclusosi collocano l’Inghilterra in quella zona di understatement che non aiuta la guerra al terrorismo; Blair, certo «calmo e deciso», come si è complimentato da solo, pure ha saputo contrapporre a una impresentabile prepotenza, all’ennesimo sgarro di un personaggio pericoloso per il genere umano, poco più della tradizionale flemma britannica; un leader in prossima uscita non vuole mai concludere il mandato in modo imprudente, anche se un giorno dovrà forse accorgersi di aver mancato alla chiamata della storia. Blair poteva almeno parlare chiaro, almeno dopo la liberazione dei suoi uomini. Oltretutto la sua linea, quella della fermezza sulle concessioni, non regge data la liberazione di Jalal Sarafi, il «diplomatico» arrestato in Irak. E il fatto che l’Inghilterra non abbia chiesto scusa, ma abbia tuttavia promesso (se è vero) di evitare violazioni, è controverso, ma se l’ha fatto, questo è per Ahmadinejad, che divulga senza tregua una visione di un Occidente corrotto, flebile, vigliacco che sarà stroncato dall’Islam, un premio simbolico micidiale.
Anche i soldati inglesi giustamente compiaciuti di essere vivi, così proni, sorridenti e oranti, sinceramente grati a Ahmadinejad come può esserlo un bravo ragazzo inglese verso il suo salvatore, rivelavano col loro atteggiamento, col linguaggio del corpo, le parole in libertà, che mancava loro persino il training psicologico per comprendere almeno che un soldato occidentale ha oggi dei terribili nemici.
Quanto all’Iran, ha fatto il passo più lungo della gamba. Ahmadinejad ha lasciato, o ha comandato, che le Guardie Rivoluzionarie, a lui fedeli il giorno prima del voto al Consiglio di Sicurezza del 24 maggio, rapissero i quindici marinai nella acque dello Shatt el Arab. Per il presidente è stata una maniera di mettere in rapporto la determinazione a costruire il potere nucleare iraniano con la sua tempestosa, capricciosa e incontenibile determinazione a giuocare il ruolo del bullo del quartiere, quello che sullo scenario internazionale passa con uno spintone e non chiede il permesso a nessuno. Le Guardie, di cui fanno parte le unità Quds (Gerusalemme), dispongono di decine di migliaia di suicidi, gestiscono un vero esercito armato molto modernamente: le Unità agiscono in Irak e altrove in concerto con gli hezbollah e Hamas, volevano vendicarsi per l’operazione americana in Irak che a gennaio ridusse ai minimi termini il loro network cui appartengono anche i sei iraniani catturati a Irbil dagli americani. E, in secondo luogo, aiutavano così Ahmadinejad in un momento di gravi difficoltà interne; Rahim Safavi, capo delle Guardie, personalmente danneggiato dalla prima risoluzione dell’Onu 1737 che ne congela gli affari, inviso a Ali Larjani come a Hashemi Rafshanjani, non prevedeva di dovere concludere il rapimento così in fretta, ma pensava invece di stabilizzare la sua posizione anche rispetto all’Irak e al resto delle grandi operazioni in cui le Brigate Quds hanno le mani.
Ma mentre il mondo si schiera tutto contro i rapitori, più che la paura dell’Onu (su quello tutta la leadership è compatta: «faremo il nucleare comunque») gioca la consapevolezza che ormai agiscono sanzioni nascoste molto serie: più di cinquanta fra le banche e le istituzioni finanziarie più importanti del mondo hanno bloccato i loro rapporti con l’Iran impazzito di Ahmadinejad. Fra queste la Swiss Bank Ubs, la Germany Commerzbank, l’Hsbc di Londra. Molti grandi progetti sono a rischio, come quello con l’India per un grande piano di condotte di gas. L’industria petrolifera e del gas iraniane, ormai vecchie e distrutte, non trovano finanziamenti per il rinnovamento indispensabile. Se Ahmadinejad ha la mentalità messianica e l’assetto strategico della jihad e vuole sacrificare tutto alla venuta del Mahdi, non è lo stesso per chi teme, in Iran, che la politica del presidente stia per far franare il regime. E Khamenei non vuole, anche lui per fede messianica, che Ahmadinejad distrugga ciò che Khomeini ha costruito: il più grande e potente regime islamista sciita in fase di espansione strategica.
Trappola saudita
La Rice chiede a Israele di fare la prima mossa: forse Olmert accetterà a livello simbolico, dicono voci bene informate. Solo ieri ha fatto sgomberare l’insediamento di Homesh in Cisgiordania. Ma che possa portare il Paese, senza la contropartita del riconoscimento e della cessazione del terrore, ad abbandonare porzioni vaste di territorio per vederle diventare riserve del terrore come Gaza non sembra realistico.
Al vertice della Lega Araba, grande sponsor per il diritto al ritorno dei profughi palestinesi è stato Walid Muhallem, ministro degli Esteri siriano. Un po’ di polverone sull’altra grande questione in discussione, il Libano, e quindi sul ruolo della Siria. Il Libano è in bilico a causa dell’offensiva di Hezbollah e Damasco, che protegge i suoi interessi e quelli dell’Iran, usa e arma la mina vagante della guerriglia sciita. Ieri il premier libanese Fuad Siniora e il presidente Emile Lahoud, molto amico dei siriani, e quindi di Hezbollah, non si sono rivolti la parola. Anche il mondo arabo sente il lavorio filoiraniano di Damasco come una spina nel fianco. Al di là di Israele e dei palestinesi, ci sono grandi interessi interni da salvaguardare.
Gli appuntamenti bisettimanali che hanno fissato, su insistenza della Rice, Olmert e Abu Mazen fanno parte di un’operazione di make up più che di pace. Teheran esegue il proprio, mentre gioca come un gatto col topo e promette di liberare, magnanimo, la soldatessa rapita assieme agli altri 14 marinai britannici nel Golfo Persico. Di certo, i protagonisti del momento sono l’Arabia Saudita e l’Iran e non noi, che non abbiamo proposte né coraggio. L’Occidente è fuori controllo e da noi ha i colori della confusione sull’Afghanistan, che presto sarà un nuovo Irak.
L'insostenibile leggerezza antiamericana
Finanziamenti pericolosi
Naturalmente, lo scopo di fondo del Quartetto è quello di aiutare la pace in Medio Oriente, e quindi questo è il metro del giudizio complessivo. Mi sembra scapestrato e poco responsabile precipitarsi a pensare che l’accordo fra Hamas e Fatah vada oltre l’indubbio buon risultato di far diminuire lo scontro sanguinoso fra le due fazioni. Per ora non sono di quest’idea né gli Usa né l’Ue nel suo complesso, che dicono una cosa molto semplice: se il governo Abu Mazen-Hanyeh ha buone intenzioni, può accettare la richiesta del Quartetto di riconoscere lo Stato di Israele e cessare dal terrorismo. La Russia e la Norvegia (che ha già mandato il suo viceministro degli Esteri a incontrare Hanyeh) che non fanno parte dell’Unione Europea, fanno da battistrada, Italia, Spagna e Irlanda, che invece ne sono parte, cercano di tirare verso la riqualificazione del governo con Hamas. Ma a Hamas si volle dar credito quando vinse le elezioni nel dicembre del 2005, ed esso ha scelto tuttavia la via di uno stretto rapporto con Ahmadinejad, della feroce reiterata intenzione di distruggere Israele in base a principi religiosi, di fare di Gaza una rampa di lancio di missili kassam. Le linee antioccidentali estremiste e antisemite della sua carta di fondazione (basta darle un’occhiata su Internet per verificare quanto sto dicendo) sono identiche, Gaza liberata invece che in esperimento di indipendenza e responsabilità è divenuta una casamatta di missili e esplosivi, oltre che una caserma di milizie pronte alla guerra.
Il governo di Abu Mazen con Hamas nasce di fatto con la conferenza della Mecca di metà febbraio: qui i sauditi cercano, con un accordo compensato con ricchi finanziamenti, di riconquistare un po’ di egemonia sunnita a fronte dell’Iran che stringe accordi anche con Hamas, secondo le dichiarazioni orgogliose dei leader stessi dell’organizzazione integralista, e che tramite gli Hezbollah e la Siria domina le politiche mediorentali. I Sauditi sanno bene che il Quartetto richiede che il nuovo governo riconosca l’esistenza di Israele, ma Abu Mazen sente che Khaled Mashaal e Ismail Hanyeh, i capi di Hamas, sono più risoluti, più forti, più sostenuti dalla popolazione, e con molto sforzo trova lo spazio per i suoi ministri e per qualche frase ambigua che lascia intatta la linea del non riconoscimento. Intanto i sauditi lanciano, parlando con Israele, un’altra offensiva egemonica, quella della proposta di Beirut nel 2002. Arafat non vi andò perché era assediato alla Mukata, gli attentati terroristici impazzavano, e vi andarono invece Farouk Kaddumi e Sakher Habash, consigliere di Arafat, che approvarono il piano saudita perché conteneva la clausola del ritorno dei profughi, oggi 4milioni e 300mila persone, oltre alla promessa di riconoscere Israele se si fosse ritirato nei confini del ’67. «Uno Stato non accanto ma al posto di Israele» disse Kaddumi e Habash aggiunse che «il diritto al ritorno è il nostro trionfo perché significa la distruzione di Israele».
La formazione del governo di coalizione si è accompagnata al rilancio del piano saudita di cui si sta per discutere al summit arabo di Riad, e che Israele vorrebbe accettare purché fosse cambiato il punto del diritto al ritorno. Ma Hamas e Fatah su questo sono ben uniti, come Abu Mazen ha ribadito: al palato europeo questo appare meno estremista del proclama di Hanyeh nel giorno dell’insediamento di volere usare «qualsiasi forma di resistenza», ovvero, il terrorismo. Ma ambedue le intenzioni, quale che sia la ambigua posizione di Abu Mazen sul terrore, sono estremiste e distruttive per qualsiasi prospettiva di pace. In pratica, i due partner perseguono con strategia diverse lo stesso fine, quale che sia l’hudna (la tregua) che, poco realisticamente, potrebbe essere proclamata. I sauditi non avranno bisogno di cambiare il loro piano. Oltretutto i Paesi arabi come Siria e Libano dove vivono profughi palestinesi, conservati e moltiplicatisi senza cittadinanza al contrario di tutti gli altri profughi del mondo in una sorta di infelice riserva belligerante e sofferente (oltretutto fra Israele e Paesi arabi c’è stato un autentico scambio di popolazione, 700mila ebrei dai Paesi arabi, 700mila palestinesi verso i Paesi arabi) forse preferirebbero vederli sistemati altrove.
Dunque, governo palestinese e conferenza dei ministri degli Esteri della Lega Araba a Riad nel prossimo fine settimana nascono uno all’ombra dell’altro, ambedue con l’intenzione di creare fate morgane che non cambiano la sostanza delle cose; è chiaro che Israele non può accettare, e l’ha già detto, un piano che contiene la promessa della sua distruzione, anche se Abu Mazen chiede di parlare con lui e non con Hamas, che è più potente.
Israele, è stato titolato da molti giornali, rifiuta di collaborare con i palestinesi? La verità è che i palestinesi hanno rifiutato le basilari e modeste condizioni del Quartetto per potere riprendere un rapporto normale, e hanno scelto di nuovo di promettere morte a Israele. Quanto alla necessità dei palestinesi di essere aiutati a sopravvivere, essa ha tutto il nostro rispetto: ma se guardiamo le cifre dichiarate dall’ex ministro delle Finanze dell’Autonomia Samitr Abu Aisha, sembra che l’aiuto straniero dall’estero sia raddoppiato nel 2006: oltre ai 426 milioni di dollari dell’Unrwa, 720 milioni sarebbero stati donati direttamente ad Abu Mazen, mentre l’anno precedente sarebbero stati donati solo 350 milioni dollari. Quanto a Hamas, ha avuto i suoi donors per centinaia di milioni. Forse sono una goccia nel mare del bisogno di strutture e infrastrutture palestinesi, ma data la fioritura di armi a Gaza, certo la destinazione dei finanziamenti richiede un esame attento.
L'Europa corre un grande pericolo: piegarsi all'integralismo dell'Islam
Professore, l’Arabia Saudita, che il 7 febbraio ha ottenuto l’accordo della Mecca fra Hamas e Fatah, è oggi il leader di un fronte con i Paesi del Golfo, l’Egitto e la Giordania che sembra deciso a contenere il potere di Ahmadinejad. È un’iniziativa di Paesi moderati contro l’estremismo islamico? O un capitolo della guerra fra sciiti e sunniti?
«Ciò che è legato all’Arabia Saudita non è di per sé “moderato”, anche se nel tempo breve può calmare la situazione. Ma l’Arabia Saudita è la culla e la custode del wahabismo, ovvero quel movimento religioso che nacque nel XVIII secolo quando l’Islam vide avanzare in Europa la Russia e l’Austria, gli ottomani seguitavano a ritirarsi e la Francia, l’Inghilterra, i Paesi Bassi creavano grandi imperi in Asia. Molti Paesi arabi si chiesero: “Perché l’Occidente ha migliori navi, migliori armi, migliori governi?”. Ebbero luogo riforme e modernizzazioni. Ma il wahabismo dette la risposta opposta: “Perdiamo perché abbiamo tradito il vero Islam, e dobbiamo ritrovarlo. Da allora questo movimento, che fonda madrasse da Amburgo a Chicago e diffonde intolleranza fra i cittadini musulmani del mondo, attacca soprattutto all’interno: agli infedeli spetta un trattamento stabilito dal Corano, ma per l’apostata è peggio. È condannato a morte. E gli sciiti, per i wahabiti, rappresentano i rinnegati per eccellenza. Gli sciiti di oggi, capeggiati da Ahmadinejad, sono di enorme disturbo per i Paesi sunniti».
Che cosa determina oggi la politica in Medio Oriente?
«La dinamica dei Paesi locali, che pesano ormai sull’Europa più di quanto l’Europa conti in Medio Oriente. Scusi, non vede che la Siria pesa di più in Francia di quanto la Francia pesi in Siria? E quindi sono ripartite le vecchie tendenze: espansionismo e guerra interna. In un primo tempo, gli arabi conquistarono l’Africa del nord, la Spagna, l’Italia meridionale... e furono poi ricacciati indietro; più tardi, i turchi conquistarono Costantinopoli, per due volte raggiunsero Vienna. Ora, siamo alla terza fase: metodo nuovo, diverso approccio».
Che vuole dire? Che l’attuale immigrazione è una nuova invasione?
«Non certo consciamente, non da parte degli immigrati in quanto tali. Ma comincia ad avere quell’effetto, a causa dell’estremismo islamico, e chi l’ha notato ha saputo mettere a frutto l’immigrazione per i suoi fini. Bin Laden è stato molto franco ed eloquente: “I sovietici e gli americani ci hanno a lungo tenuto in scacco. Ma dopo che in Afghanistan abbiamo distrutto l’impero sovietico, ci sarà facile avere a che fare con gli Usa”».
Gli islamici credono di poter vincere?
«Certamente. Nel frattempo, è tornato lo scontro interno. L’Iran è in rotta con gli Stati arabi sunniti. E i sauditi, il Bahrain, il Kuwait, vedono in questo un pericolo mortale. Laddove esistono rilevanti minoranze sciite, un pericolo mortale minaccia i regimi».
I palestinesi del Fatah quando si scontrano con Hamas gridano “sciiti” per offendere il nemico interno, ma là sono tutti sunniti, eppure stanno con l’Iran. In Egitto non ci sono sciiti...
«Fra i palestinesi conta chi è con loro contro Israele, il tema sciita è molto estraneo, è interessante che adesso lo usino come un’arma. Con i sauditi, siamo alla situazione in cui si trovò Sadat quando decise di fare la pace con Israele. Sadat aveva ereditato la presenza dei “consiglieri” inviati da Mosca e capì che per i sovietici l’Egitto era una colonia. Le loro aree militari erano vietate agli egiziani, spadroneggiavano a destra e a manca. Una delle tante volte in cui mi trovavo in Egitto, il proprietario di un negozio si lamentò con me: “Gli americani, gli inglesi e i francesi non vengono più”. “Ma avete i russi”, replicai. Lui sputò e disse: “I russi non comprano neppure un pacchetto di sigarette né te ne offrirebbero mai una”. Sadat comprese che era meglio un male minore e cioè fare la pace con Israele piuttosto che tenersi i russi a casa. Il pericolo sciita può convincere i sauditi a cercare la pace».
La pace vera? Firmata?
«Una pace come quella con l’Egitto: fredda».
E i palestinesi potrebbero rientrare in questo processo? I loro legami con l’Iran e con Hezbollah, da quando Hamas è al potere, sembrano più vincolanti della sunna.
«I palestinesi faranno la pace quando avranno deciso di riconoscere che Israele esiste. Fino a ora hanno sempre sperato che qualcuno, qualcosa, potesse togliere Israele dalla carta geografica».
Ahmadinejad userà la bomba nucleare se e quando l’avrà?
«La userà: la sua visione è diretta e precisa, il suo desiderio di apocalisse è genuino e non teme deterrenti».
Perché usa soprattutto gli ebrei e Israele come obiettivo del suo odio?
«Perché la storia dimostra che l’Europa non ama gli ebrei; quanto agli arabi, è evidente che Israele è un’esca».
Lei pensa che l’Europa potrebbe abbandonare Israele?
«L’Europa non difende se stessa, non vedo perché dovrebbe darsi la pena di difendere Israele. La combinazione di politically correct e di multiculturalismo, unito agli interessi economici, ha creato quella che viene descritta, anche quando si parla del Dipartimento di Stato, come la “politica dell’inchino preventivo”.
Quanto è seria la determinazione degli islamici?
«Bisogna guardare alla storia: quando fu costruita la Cupola della Roccia sorse sopra un sito santo per le religioni giudaica e cristiana. La scritta dice “Dio è uno, non ha pari, non genera, non è generato”. Una sfida aperta alla cristianità, cui si unì il fatto che per la prima volta il califfo Abd al Malek batté monete d’oro come i romani e i bizantini. Era un modo di comunicare la preminenza della sua religione, tutte le altre erano false, incomplete o superate».
Ma oltre all’Islam dominatore c’è quello riformato e illuminato.
«Ma mi preoccupa l’atteggiamento europeo, che invita, inchinandosi, all’estremismo. Come dice il poeta siriano Saadek al Azam, o avremo un’Europa islamizzata o un Islam europeizzato. I moderati vanno incoraggiati, ci sono ma temono di mostrarsi. La mia grande speranza sono le donne, che essendo la maggioranza possono essere decisive».
Professore, mi sembra molto preoccupato per il Medio Oriente.
«No, è il Medio Occidente che mi preoccupa di più».
E l’Irak?
«Forse, come diceva un mio amico iracheno, avremmo dovuto cominciare in ordine alfabetico».
È questo l’errore degli Usa?
«Scherzavo. Errori ce ne sono stati tanti, ma essere ancora là a combattere il terrorismo è indispensabile: non è certo una situazione come quella del Vietnam, in cui si possa fare le valigie e andarsene. Non mi risulta che allora un gran numero di vietnamiti si fossero stabiliti nelle capitali europee e in America per fare prevalere la loro fede nel mondo».
Ma in Vietnam la guerra fu persa.
«Non furono i vietnamiti a vincerla, fu Jane Fonda. Ed è lo stesso identico pericolo che l’Occidente corre oggi. Essere vinti da se stessi».