Fiamma Nirenstein Blog

Il Giornale

Chi gode dei crampi di Israele

sabato 20 gennaio 2007 Il Giornale 0 commenti

Un paio di dibattiti, qualche articolo e si capisce in fretta che i crampi di Israele danno una certa soddisfazione, una specie di punizione cosmica a un Paese spesso colpevolizzato e anche criminalizzato: il Capo di Stato Maggiore Dan Halutz si è dimesso, il grande esercito israeliano, Tzahal, chi l’avrebbe detto, ha mostrato con la Guerra contro gli Hezbollah una serie di falle. E non solo l’esercito, ma anche la leadership politica è in profonda crisi, e se ne chiedono le dimissioni. Ehud Olmert non gode più della fiducia che portò al potere Kadima con 29 seggi; il suo ministro della Difesa Amir Peretz, laburista, secondo i cittadini israeliani, deve volare via. Era il segretario del sindacato, dice la gente, doveva accettare un ministero sociale o economico. Ogni sua uscita, anche in questi giorni in cui si sceglie il nuovo Capo di Stato maggiore, appare impropria. Tzipi Livni, la ministra degli Esteri, un tempo pupilla di Sharon, è stata a sua volta molto ridimensionata. Come se non bastasse, Olmert sta per essere interrogato per l’eventuale favoreggiamento dell’acquisto da parte di suoi amici di una grande banca. E il presidente dello Stato di Israele Katzav è sospettato addirittura di stupro. Non c’è dunque dubbio alcuno che la classe dirigente israeliana sia in stato di sofferenza; qualcuno racconta che appoggiato a un muro alla Camera dei deputati Olmert mormorasse: «Mi uccidono». Di fatto la tv, i media tutti, molti politici fra cui il trenta per cento del suo stesso partito, il controllore dello Stato, il pubblico, la commissione Winograd che sta concludendo le sue indagini sulle responsabilità della guerra dello scorso agosto, chiedono che la presa di responsabilità non si fermi a Halutz.
La massa di pressione porterà presto a altre dimissioni. Vedremo senz’altro rotolare la testa di Peretz, e probabilmente anche quella di Olmert. E se non sarà lui a scegliere la strada del ritiro dalla scena, le primarie del suo partito ve lo costringeranno. Per Tzipi Livni, è difficile prevedere: dipende molto da quanto risulterà fruttuosa la sua politica della mano tesa verso i palestinesi, che ieri ha portato alferimento a Abu Mazen di cento milioni di dollari.
Che cosa tuttavia significa questo crisi? Se l’opinione pubblica europea si immagina forse che Israele sia davvero «un albero ammarcito» come ha detto il presidente dell’Iran Ahmadinejad in uno dei suoi tanti discorsi genocidi che condannano a morte gli ebrei, se immagina una crisi di ripiegamento dopo una sconfitta, un segnale strutturale di sofferenza e di ripiegamento morale della classe dirigente israeliana che potrebbe portare a conclusioni fatali... bene, è molto difficile per chi conosce bene la situazione immaginare che si tratti di questo.
Questo gruppo dirigente, compreso il capo di Stato maggiore, possono essere denominati «la squadra dello Sgombero di Sharon». È infatti sull’ipotesi che lo sgombero di Gaza avrebbe portato a un’apertura di dialogo con i palestinesi e a una loro presa di responsabilità su una porzione di territorio fino allo Stato palestinese, che erroneamente si forma questo gruppo. Difatti la prima grande operazione militare di Halutz fu lo sgombero di Gaza dell’agosto 2006, portata a compimento con «determinazione e sensibilità» come recitava lo slogan dell’esercito, senza feriti o morti nonostante la situazione esplosiva. Il secondo passo del governo fu promettere un largo disimpegno anche dal West Bank, e già si studiavano le mappe quando alcuni fattori determinanti portarono un cambiamento sul campo: Hamas distrusse le sinagoghe e le serre rimaste in piedi a Gaza, piazzò i missili kassam di cui cominciava a fare largo uso, e sulla piattaforma della negazione dell’esistenza dello Stato di Israele lanciò una fase di aggressività che si innestò su altri processi importanti. È infatti allora che Ahmadinejad, già dal dicembre del 2005, lancia la sua politica nucleare esplicitamente dedicata alla distruzione di Israele, mentre i suoi alleati più vicini, gli sciiti estremisti islamici Hezbollah, al servizio anche della Siria che cura il loro rifornimento di missili a lungo e breve raggio, preparano la prossima guerra. L’interesse della Siria nel controllo del Libano si arma del desiderio Iraniano di farne la prossimaa islamica. Insomma, intorno a un gruppo dirigente israeliano formato per la pace quasi esclusivamente da civili, come Olmert, Livni e Peretz, si crea una situazione completamente nuova. La sorpresa di Israele è bruciante, ma soprattutto è fatale perché cade sulla frontiera di un problema mondiale. E non solo Israele ma il mondo intero ancora non ha trovato nessuna risposta convincente a eserciti e armamenti terroristi destinati a un uso integralista islamico.
In secondo luogo, la guerra con gli hezbollah non è stata vinta dal generale Halutz proprio perché mancava la capacità strategica di affrontare la novità del conflitto asimmetrico. L’insuccesso è stato grave: non sapere bloccare la novità dei missili di breve gittata e non riportare a casa i soldati rapiti. Ma guardando più a fondo, i lanciamissili dei proiettili a lunga gittata sono stati tutti distrutti, gli hezbollah hanno perso 500-700 uomini, più di tutti quelli perduti negli ultimi vent’anni; la determinazione nel rispondere in maniera immediata e diretta del governo israeliano ha restaurato un elemento di deterrenza che Nasrallah, il capo degli hezbollah, ha denunciato quando ha detto: «Avessi conosciuto la reazione israeliana, non avrei rapito i loro soldati». Tuttavia, ci sono stati una serie di gravi errori, il più importante quello di puntare sull’aviazione. Ma sullo sfondo di questo errore, soprattutto c’è stato quello costruito nel profondo di questo gruppo dirigente: l’illusione, costruitasi durante i falliti accordi di Oslo, che la guerra non si sarebbe ripresentata. L’esercito era declinato, le riserve non erano preparate, i rifornimenti e le armi erano debolmente usate, e l’uso strategico dei missili a breve gittata non era stata valutata.
Ma con la guerra Israele ha imparato cose molto importanti, e le dimissioni severe e cariche di senso di responsabilità di Dan Halutz, eroe di guerra e anche però dello sgombero, mette in moto la macchina delle responsabilità, della revisione della catena del comando e della ristrutturazione delle strutture di difesa (si è già in fase di costruzione di un sistema di difesa antiaerea per i kassam)istino delle esercitazioni intensive. Ma c’è la classe dirigente per il ricambio?
La democrazia nata e formatasi in una guerra imposta in tutti questi anni ha formato una quantità di quadri specializzati che sono al contempo accademici e militari. Basta prenderne due contrapposti, e oggi messi da parte, ma probabilmente di nuovo presto in giuoco per capire di che cosa si parla. In una foto del 9 maggio 1972 si vedono insieme in tuta bianca, travestiti da tecnici, ritti sull’ala di un aereo Sabena, Ehud Barak, Binyamin Netanyahu, Danny Yatom. Sono impegnati nel salvataggio di cento ostaggi rapiti in un sequestro aereo... Ehud Barak allora colonnello, più tardi è stato capo di Stato maggiore, poi il Primo ministro che tentò il tutto per tutto a Camp David con Arafat, e si trovò di fronte a un rifiuto. Netanyahu, conservatore, anch’egli nella «Sayeret Mathal», l’unità speciale che ha fatto cose impossibili, uomo di destra mentre Barak è di sinistra, è stato a sua volta primo ministro. Danny Yatom, laburista, poi capo del Mossad nel 1996, correrà anche lui per la leadership. Altri nomi di grande spessore come Yuval Steinitz, accademico, ex presidente della Commissione esteri, o Shaul Mofaz, ex capo di Stato maggiore e ex ministro della Difesa, o Avi Dichter, accademico, ex capo dei servizi degli Interni, lo Shin Beth, o i vecchi Shimon Peres e Fuad Ben Eliezer... e ancora tanti altri sono là a formare la solita classe dirigente israeliana, proprio quella che ha fatto fiorire il deserto e ha vinto tutte le guerre. E anche l’esercito si prepara di bel nuovo: e chi è stato al fronte durante la guerra e ha parlato con ufficiali e soldati, sa che sognarsi che la demotivazione prenda possesso del cuore degli israeliani, è fuori luogo. Una democrazia in guerra non può cadere preda della depressione.

Il nuovo esercito imparerà dai troppi errori della guerra

venerdì 19 gennaio 2007 Il Giornale 0 commenti

Un capo di Stato maggiore, il Ramat Kal, come si dice con un acronimo, nell’immaginazione collettiva della società israeliana è più di un primo ministro: i soldati di leva affrontano la possibilità di morire sulla sabbia di Gaza o in un bosco del Libano misurando quanto ne valga la pena sul suo modo di parlare, di sorridere, di guardare negli occhi, di camminare, di essere cool e giusto al contempo. Dan Haluz sapeva stare fra i suoi ragazzi con autorevolezza e cameratismo. Ma ieri si è dimesso, e la società israeliana trattiene il respiro. Olmert ha espresso il suo rincrescimento, e in realtà, dopo tante critiche e attacchi, ora che il 58enne Dan Halutz ha deciso di andarsene con poche parole e nel rispetto dei tempi di un’ordinata successione, molti parlano della sua calma, della sua sincerità e purezza d’animo con un respiro di sollievo. Le grandi pulizie sono cominciate, Israele può ricominciare a lavorare sodo per il prossimo match. Halutz era un gran tipo, come si conviene a un aviatore di prima classe, crema della crema dell’esercito: che era stato capo delle schiere degli F16 e 15m, i delicatissimi uccelli che devono sapere discernere fra la prevenzione del terrorismo e la punizione collettiva guardando dalle nuvole e oltre. Era capace di fermare un’operazione in grande stile perché una donna palestinese stava attraversando una strada vicina all’obiettivo, ma anche di rispondere a un reporter «una vibrazione nelle ali del mio F16» quando quello gli chiese che effetto faceva il bum dell’esplosivo lanciato su una casa di Gaza durante un’operazione di eliminazione mirata. Aveva compiuto grandi operazioni (come l’eliminazione dello sceicco Yassin) e qualche guaio serio, quando oltre che all’obiettivo ci sono andati di mezzo dei civili. Durante la guerra, l’abbiamo incontrato cento volte sul campo in prima linea fra le katiushe che piovevano, ma il coraggio non gli è bastato a vincere la guerra. Dan Halutz non ha perso contro gli hezbollah, ma non ha vinto: non ne ha fermato i missili, non ha distrutto la forza di Nasrallah, né il suo rapporto con la Siria e l’Iran. Così, dopo tro mesi e mezzo di angoscia sostenuta con classe, si è dimesso. Israele è sottosopra. Halutz se n’è andato poche settimane prima del rapporto della commissione Vinograd, che mette sotto processo per la guerra sia militari che politici. Può portare alla frana di Ehud Olmert, il suo governo e la sua politica. È certo, come già si sente alle tv arabe, un’occasione di festa per Ahmadinejad, gli Hezbollah, Hamas. Annuisce all’osservazione e si accarezza la barba rispondendoci il generale delle Riserve Yaacov Amidror, che guida la commissione militare di indagine sui servizi segreti prima e dopo la guerra. È l’inizio di un terremoto? «La commissione di indagine concluderà il suo lavoro, e allora anche i leader del governo dovranno saper essere esempio di senso di leadership, come ha fatto il capo di Stato maggiore». Generale, le dimissioni di Halutz mandano ai vostri nemici in fondo un messaggio di confusione, di senso di sconfitta... Si rende conto della caduta di immagine dell’esercito israeliano? «I nostri nemici dopo un giorno di soddisfazione, sapranno riconoscere nelle dimissioni di Halutz il segnale della volontà assoluta di rimediare ai guasti e approntare di nuovo un esercito formidabile. È quello che faremo e che già stiamo facendo». Per arrivare, in Israele, alle dimissioni del Ramat Kal, i suoi errori devono davvero essere stati grandi. «Intanto, il motore primo di queste dimissioni è il fatto che la democrazia si esamina, si critica, si mette in discussione e permette il ricambio, anche in maniera brusca. I leader devono pagare per i loro fallimenti, totali o parziali, la democrazia impone che chi non colpisce l’obiettivo, paghi». Quella del Libano è stata una guerra perduta? «No, gli hezbollah hanno subito anche un duro smacco, ma abbiamo mancato alcuni obiettivi basilari. I missili, come ha visto, hanno seguitato a cadere su Israele fino all’ultimo giorno di guerra, e gli hezbollah non sono stati distrutti. Gli errori che hanno causato questo risultato? Il primo è stato quello di non aver capito che si doveva mobilitare subito gli uomini delle riserve; il secondo quello di non aver usato la fanteria per una penetrazione massiccia, di terra, del sud del Libano. Halutz si è fidato dell’aviazione, ha voluto evitare l’impantanamento delle truppe, e ha sbagliato». Immagino che il prossimo Ramat Kal non apparterrà all’Aviazione. I due candidati, adesso, sono Moshe Kaplinsky, il vice di Halutz, e Gabriel Ashkenazi, oggi direttore del ministero della Difesa. Uno dunque più interno e vicino a Olmert, l’altro al ministro della difesa Peretz, e più distante da Halutz. «Ambedue sono ottimi soldati, ambedue appartengono ai Golani, le nostre migliori divisioni di terra; ritengo che per il capo di Stato maggiore sia utile il suo rapporto operativo con le forze di terra». È stato sorpreso che Halutz abbia deciso di dimettersi dopo quattro mesi e mezzo, visto che varie volte aveva detto che non ne aveva intenzione? «No: la commissione ha quasi finito il lavoro, e anche tutta la progettazione del prossimo budget della difesa è stata terminata in questi giorni. Halutz ci ha lavorato alacremente, ha presentato i suoi risultati, lascia un tavolo ben ripulito dalle scorie del passato, un invito a lavorare ventre a terra per costruire un esercito molto migliorato, guarito. Ha dato con le sue dimissioni un magnifico esempio di responsabilità». Il prezzo è un terremoto. «Il risultato sarà l’opposto di un terremoto. Vede: la guerra di agosto da una parte è stata una disgrazia come tutte le guerre, dall’altra è stata una fortuna. Ci ha permesso di focalizzare quali danni ci aveva portato l’illusione del processo di pace, di guardare in faccia l’operatività dei nostri nemici, e l’assurdo clima di relax in cui ci eravamo messi, con la diminuzione della spesa per la difesa, il declino del lavoro di training delle riserve, la discesa dell’accuratezza della preparazione in tanti campi legati all’esercito. Halutz con le sue dimissioni chiude questa era e resta quel collega intelligente e coraggioso che ho sempre ammirato». Non servirà proprio un grande pilota al comando, se l’Iran non frenerà sul nucleare? «Le ricordo che fu Raful, Raphael Eitan, allora a distruggere il reattore di Osirac in Irak» Non pagate un prezzo troppo grande mentre tutti prevedono una prossima guerra molto vicina? «Anche Churchill si dimise in piena prima guerra mondiale, dopo i Dardanelli. In democrazia si paga, ci si dimette, si migliora, si vince la prossima battaglia». Ma la gente riacquisterà la fiducia nell’esercito? «Ho partecipato ora alle procedure di arruolamento delle leve: i giovani chiedono sempre di più di far parte di unità operative e speciali. E la gente, durante la guerra, nei bunker al caldo e nella paura dei missili, ci chiedeva di andare avanti, non di fermarci».

Religione anti Usa

martedì 16 gennaio 2007 Il Giornale 0 commenti

Non è davvero il caso per il governo di trattare con noncuranza o, peggio ancora, con disprezzo, l’accusa di antiamericanismo che Berlusconi gli ha mosso. L’antiamericanismo non è, in Italia, un’influenza, poche linee di febbre che si trattano con un’aspirina, ma una delle malattie più gravi del nostro secolo e del secolo passato, e il nostro paese ne è affetto storicamente, con gravi risultati identitari e politici. In secondo luogo: una sinistra debole e in crisi come quella odierna, sempre alla ricerca di punti di convergenza e di contatto con una base volatile e sfuggente, rischia continuamente di farne uso strumentale per cementare alleanze e per catturare consensi. In terzo luogo: l’antiamericanismo è diventato una malattia molto popolare specie quando si coniuga col virus dell’antisemitismo travestito da antisraelismo, di cui la sinistra italiana è campione. Spesso questa contaminazione si incentra su teorie cospirative che si sentono ripetere così spesso, per cui gli ebrei in America controllano la stampa, le banche, il Pentagono, le università e suggeriscono all’orecchio di George Bush (i neoconservatori, potenti guerrafondai) la politica internazionale e realizzano così una fantasia degna dei Protocolli dei Savi di Sion: l’America imperialista e colonialista ha portato la guerra in Irak e in genere in Medio Oriente per ispirazione ebraica, ovvero israeliana. Guerra è l’odiata parola chiave che costituisce il distintivo dell’immaginazione europea sugli Usa, la reiterata condanna dello scontro contro un terrorismo pure in piena mobilitazione, l’arma più a buon mercato per mobilitare la nostra affaticata coscienza europea. Il governo può agevolmente chiedere, come del resto ha già fatto alzando le spalle di fronte alle accuse di antiamericanismo, “Cosa c’entriamo noi ? Le nostre critiche sono puntuali, non generali. E semmai, non abbiamo forse il diritto di criticare la politica di George Bush e restare buoni amici degli Usa? Non abbiamo diritto di scegliere una politica diversa? Che colpa ha il governo se la piazza e l’opinione pubblica no-global vogliono chiamare Bush “nazista” ?”. Dopotutto il ministro degli Estero D’Alema afferma mentre l’America agisce contro le Corti islamiche in Somalia che “l’Italia si oppone a interventi unilaterali che possono aggravare la situazione di un’area instabile”. L’Italia aiuta Ugo Chavez a cercare un seggio al Consiglio di Sicurezza dell’Onu… “che c’entra l’antiamericanismo? “E’ una risposta solo apparentemente legittima, di fatto è insincera. Intanto, il mosaico è grande: l’andare a braccetto con gli Hezbollah a Beirut, suggerire che essere un gruppo terrorista non è la caratteristica principale di Hamas, incontrare Bashar Assad o Ahmadinejad come ha fatto Prodi nonostante la loro sponsorizzazione del terrorismo, condannare a a ogni occasione Israele, la tormentosa insistente sottolineatura degli errori americani in Irak, persino il tormentone della condanna alla sentenza di Saddam Hussein, il rifiuto di D’Alema, (da Doha) del piano di Bush, la prosopopea morale con cui la linea del ritiro delle nostre truppe è stata gestita, hanno il fine di comunicare una sostanziale opposizione, un distacco che confina con il disgusto proprio perché l’oggetto del dissenso, intendo l’oggetto di base, ha un fortissimo contenuto morale: la guerra, intesa come anima di quello che invece è il Paese che ha soprattutto due contenuti centrali. La democrazia, la modernità. Nel 2003 un’indagine condotta dalla Comunità europea e celata a lungo rivelava che gli Usa e Israele erano considerati dagli europei la più grande minaccia per la pace. Il governo deve dunque sapere che corrispondenza trova nell’opinione pubblica quando il 12 gennaio condanna il bombardamento delle basi di Al Qaeda; non può ignorare di avere fra le sue componenti una forza che quando Berlusconi andò nel marzo 2006 a parlare al Senato americano trovò la cosa “uno schifo” e dichiarò che le strette di mano intercorse a Washington grondavano sangue. Il governo promana un messaggio che solo la fantasia può allocare esclusivamente sul terreno della critica politica, o della critica a George Bush. Certo, è molto più semplice dire “Odio George Bush” e conservare il simulacro della cosiddetta “altra America”, quella che è invece cara a tutti, Kennedy, Bob Dylan, Martin Luther King: così è stato a lungo più facile dire “odio Sharon” invece di dire “odio Israele”. Ma la verità è che l’antiamericanismo è un’ossessione europea, la sua potenza e il suo senso di identità sono oggetto di disprezzo e di invidia nello stesso tempo; gli americani del discorso popolare sono prepotenti, materialisti, sciocchi, avidi di dollari e incapaci di pulsioni che non siano petrolifere. Questi sono i contenuti che gli italiani rischiano di fare propri se i messaggi vengono gestiti alla leggera o con cinismo, e lo si può facilmente verificare al bar e nei posti di lavoro e allo stadio; indicare gli Usa come una nazione che viola sistematicamente i diritti umani, o la legalità internazionale, mentre si ignorano, che so, la guerra russa in Cecenia, l’oppressione cinese in Tibet, le persecuzioni genocide in Darfur, o spendere tutte le proprie preoccupazioni per i diritti degli iracheni violati dall’”invasione” americana, mentre ai tempi di Saddam gli stessi che ora si sbracciano a difenderli contro gli Usa, li ignoravano… ci priva del senso della giustizia e del nostro migliore amico nella guerra contro il terrorismo che minaccia anche noi. L’antiamericanismo, se praticato e cavalcato, è molto rischioso per noi: ha la sua base storica sia nel fascismo (Mussolini odiava le plutocrazie americane idiote e interessate) che nel comunismo (Togliatti: “L’America non conosce altro Dio che il dollaro”) e in parte del cattolicesimo (ha sempre tacciato gli Usa di materialismo), è una religione diffusa, abbracciata da intellettuali e giornalisti, che ha ancora dentro di noi il pessimo retaggio della sostanziale indifferenza di queste ideologie, così potenti nella nostra storia nazionale, verso la democrazia.

L'unica strada giusta è quella di Bush

venerdì 12 gennaio 2007 Il Giornale 0 commenti

Nathan Sharansky, il 58enne dirigente russo che quando uscì dalle carceri sovietiche trovò in Israele un destino di ministro e oggi di direttore del Centro Strategico dell’Istituto Shalem, è uno degli eroei preferiti di George Bush. E la correzione di linea annunciata dal presidente americano ieri è in qualche modo una correzione della linea Sharansky. Fu Bush stesso a spiegare che aveva trattto la sua ispirazione sulla democratizzazione del Medio Oriente dal libro di Sharansky In difesa della democrazia . Il 16 dicembre scorso, proprio nei giorni in cui la memoria irachena era al centro della politica americana, Bush ha conferito a Sharansky la Medaglia del Presidente, un’altissima onorificenza per chi si distingua nel campo della lotta per la libertà e la democrazia. “Mia figlia Rachel, che è venuta con me alla Casa Bianca – ci racconta Sharansky nel suo nuovo ufficio a Gerusalemme – mi ha detto che è rimasta colpita dall’atmosfera di sincerità, di totale mancanza di quel cinismo politico per cui i premi vengono conferiti a seconda della convenienza politca. Il premio conferito a me, alla mia storia e alla mia teoria era evidentemente parte della sua battaglia per costruire una nazione”.

Il presidente Bush ha parlato dei suoi errori in Irak e poi subito ha annunciato l’invio di migliaia di soldati. Non si sente confermato nelle sue teorie a parole e poi sconfessato dal clima generale di fallimento?
Complessivamente credo che il presidente abbia riconfermato la sua convinzione che un mondo sicuro può essere garantito solo dalla democrazia. Bush conferma la sua fiducia nel potere della libertà. Quando parla di errori, non c’è un fallimento concettuale: la democrazia resta lo scopo centrale e l’esperienza cambia le modalità. Occorre controllare il territorio, ma altrettanto importante è che chieda con puntigliosa determinazione alla leadership irachena di impegnarsi. La suddivisione delle responsabilità dona dignità all’interlocutore iracheno.

Non le sembra che l’idea di veder vincere la democrazia sia in Iraq sia tra i palestinesi sia fallita?
Io ho criticato fin dal primo momento le elezioni fatte così, il fideismo con cui sono state considerate. Il voto ha un senso solo quando una società ha sviluppato istanze di libertà, quando il trialismo e i fondamentalismo non determinano il gioco. Nei paesi dove vince la paura la gente ragiona col “pensiero doppio”. Ricordo che subito prima della guerra, la Cnn intervistò una donna irachena che disse: “Darò volentieri tutti i miei figli per Saddam” E il giornalista commentò: “E’ difficile capire questa mentalità, ma questo è il sentimento popolare”. La verità la sappiamo: non ci fu la minima resistenza all’ingresso delle truppe Usa e la gente andò a votare con entusiasmo. Quella donna aveva mentito per paura.

E allora perché questo desiderio di democrazia non ha prevalso?
Perché, ed’è lo stesso errore che facciamo noi con i palestinesi, è mancato il profondo lavoro di promozione di una leadership che desse alla gente speranza, sicurezza. Non bastava, come hanno fatto gli americani, contare all’inizio su un gruppo secolare sostanzialmente sciita, bisognava subito cogliere il buono di sciiti, sunniti, curdi e mettersi in relazione con i religiosi di ogni parte. I leader patriottici, quale che sia la loro appartenenza, sono stati trascurati, e si è creato così lo spazio per l’ingresso della fronda terrorista iraniana.

Che oggi potrebbe essere favorita dal fatto che Saddam Hussein, sunnita,, è stato giustiziato
Questo, se la leadership sciita diventa un fantoccio dell’Iran, e quella sannita dell’Arabia Saudita. La presenza iraniana è diventata letale, e io sono d’accordo con Bush che ritiene l’Iran e la Siria un asse malefico di cui prendersi cura.

Un attimo: lei è un campione dei diritti umani non si è scandalizzato per l’esecuzione di Saddam?
E’ certo preferibile che la pena di morte non esista, ma bisogna riconoscere come positivo che il processo sia stato gestito in una logica e secondo la legge irachena, che uno dei dittatori più feroci abbia trovato in seno al suo stesso popolo il giudizio inappellabile che l’ha condannato. Io sono fiero del fatto che Israele una volta sola abbia condannato a morte un suo prigioniero, ed era Adolf Eichmann, colpevole di genocidio. L’uomo non si deve sostituire a Dio nemmeno con perdonare crimini troppo grandi.

Ma il rischio non è quello di farne un eroe?
Quando le bombe umane facevano centinaia di morti alla settimana, non rispondevamo ad Arafat per questa stessa paura, quella di farne un eroe. Non è andata così. Quando è morto, l’unico che l’ha commemorato come tale, è stato Chirac. I suoi hanno subito cominciato la lotta interna senza guardarsi indietro.


Gaza fu consegnata nel l’illusione di promuovere la democrazia, e invece ha promosso la vittoria di Hamas che si è potuto vantare di aver cacciato gli ebrei col terrorismo.
Ma anche di essere onesto di fronte alla corruzione di Al Fatah. Tuttavia, la sua proposizione di onestà, non aveva un carattere civile, ma religioso. Hamas propone il fondamentalismo islamico, e dunque la Svaria. Non dona ai suoi una prospettiva di pace, ma di furia integralista. E’ il paradiso quello che promette e quindi sono tanto più pericolosi in questa guerra, che vede implicato l’Iran, che in quella a suo tempo con l’Urss: essa odiava l’Occidente, ma voleva realizzare il paradiso in questo mondo, non in quello a venire.

E Abu Mazen? E’ un candidato per lo sviluppo democratico e quindi per la pace?
Non è un candidato per la pace, perché non ha mai dato prova ai suoi di gestire programmi, finanze, cultura, lotta al terrorismo, in maniera da favorire il suo popolo. Ha mai promesso di smantellare i campi profughi? Ha parlato di libera economia ? Fuori di qui, per esempio a Madrid, si cerca di costruire in laboratorio un bambino che invece deve nascere nelle leadership locali…
Abu Mazen rappresenta solo il desiderio dell’Occidente di porre fine a questa storia.

La situazione mediorientale si è molto complicata, l’instabilità è aumentata con la discesa in campo di Hezbollah, di Hamas , dei siriani e soprattutto degli iraniani. Forse il Medio Oriente non ha voglia di democrazia?
Ogni uomo è fatto per una vita fuori della paura, e quindi nella libertà. Magari non ama l’Occidente, ma ama la vita normale. Le forme in cui realizza questi scopi possono essere variegate, ma l’unica strada giusta resta quella intrapresa da Bush. Non si deve discendere dal cielo con la democrazia, ma realizzarla dal basso con l’aiuto e la pazienza, e intanto combattere senza tregua il terrore.

Una lezione esemplare per i satrapi

domenica 31 dicembre 2006 Il Giornale 1 commento

La vista di Saddam Hussein col cappio al collo, l'ultima paura, quella che non potrà mai essere narrata, negli occhi quando il boia gli spiega la procedura che lo attende, è estrema per l'occhio occidentale; guardarla sullo schermo televisivo, oltre alla sensazione di assistere a un evento storico ci ha dato anche il sospetto non peregrino che la maggioranza di noi occidentali spiasse l'attimo privato della dipartita di un uomo, oltre che di un dittatore. Lo spettacolo dell'esecuzione pubblica ormai è fortunatamente in disuso presso tutti i popoli occidentali, presso quasi tutti è stata eliminata la pena di morte, e questo per ottimi e profondi motivi. Con questo, vogliamo anche affermare che di sicuro, chiunque obbietti all'esecuzione della condanna dal punto di vista della sacralità della vita per motivi di etica religiosa o laica, non può che avere ragione. Eppure questo non ci esime, a meno che non ci si consideri in prima persona ambasciatori del Cielo, dall'osservazione del Medio Oriente e di come l’esecuzione di Saddam Hussein interagisce con le sue dinamiche.
Cercando di schematizzare al massimo, quattro ci sembrano i punti essenziali. Il primo: Nuri el Maliki, il primo ministro iracheno, ha detto una profonda verità quando ha affermato che la condanna di Saddam costituisce una «forte lezione» ai suoi colleghi e ai suoi seguaci, e ha ragione anche quando dice che non bisogna mancare di rispetto alle centinaia di migliaia di vittime della sua dittatura discutendo la scelta del tribunale. Tradotto in politica, è la prima volta che un dittatore arabo ritenuto intoccabile, grondante sangue violenza e guerre, ha subìto una condanna eseguita da un tribunale regolare, quali che possano essere stati i limiti nell'applicazione della legge, così fresca e esercitata in clima controverso.
Tuttavia, avvocati, giudici, guardie, emanazione della novella democrazia che gli iracheni hanno dimostrato disperatamente in mezzo agli attentati di volere, hanno pagato anche con la vita per aver voluto sottoporre alla giustizia pubblica il loro dittatore. Il mondo mediorientale che guarda, adesso sa che fino in fondo, senza scherzi e senza trucchi, un dittatore che uccide, minaccia, taglieggia, trascina il suo popolo in una continua aggressione verso l'esterno, può anche pagare con la vita. Si può essere certi che durante la giornata di ieri parecchi brividi sono corsi lungo le schiene di rais che comunque, anche se la guerra in Irak è stata tanto vituperata, dai tempi dell'intervento americano discutono la democrazia; fra loro alcuni intraprendono riforme (come Mubarak) altri si avventurano in proposte di pace (molto meno credibile, Bashar Assad di Siria). Altri, come Ahmadinejad e i leader di Hamas e degli Hezbollah, preparano una guerra dura. Ma tutti adesso sanno che non si scherza.
Bisogna figurarsi cosa sarebbe accaduto se Saddam fosse stato graziato, o la sua pena fosse stata commutata, ambedue peraltro soluzioni molto difficili a norma della legge irachena: il mondo arabo avrebbe visto in questo un segnale di enorme, ridicola debolezza sia della già molto provata democrazia irachena, che dell'idea della democrazia stessa in Medio Oriente (che pure deve essere riletta correggendo gli errori e le ingenuità dell'Occidente), come anche dei regimi islamici moderati, degli Usa e dell'Occidente in generale. Le risate di scherno avrebbero dato forza a un'ulteriore spallata terroristica contro queste entità.
In secondo luogo: molti temono adesso una recrudescenza del terrorismo. Non è escluso, naturalmente. Non che i rischi di crescita del terrorismo, tuttavia, adesso fossero trascurabili. Rischi impellenti, come quello di un ulteriore impegno iraniano, e rischi straordinari. Per esempio mi dice uno fra i più autorevoli osservatori del Medio Oriente, Uri Lubrani, israeliano di origine iraniana, capo di un prestigioso quanto segreto ufficio al ministero degli Esteri, che non è mai sparita la preoccupazione che Saddam potesse trovare una via di fuga fra le rovine del terremoto iraniano, negli scontri fra sciiti e sunniti. «Era una possibilità verificata come reale, e la temevamo più di ogni altra - ci dice Lubrani -: Saddam non si trovava a Sant'Elena».
In quel caso il bagno di sangue non avrebbe avuto confini: Saddam avrebbe allora rimesso in funzione la più pericolosa fra le sue macchine di potere, ovvero l'ambizione che lo aveva portato a perseguire la bomba atomica, a lanciare 35 missili contro Israele durante la prima guerra del Golfo, a armarsi di armi chimiche e biologiche verificate dalle missioni dell'Onu in fasi successive, a invadere il Kuwait, a minacciare l'Arabia Saudita, a fare una guerra con milioni di morti contro l'Iran, a gasare i curdi nell'88, a ordinare stragi continue e immani di sciiti, a pagare 25mila dollari alla famiglia di ogni terrorista suicida palestinese che portasse sangue ebraico come trofeo, a fare di Bagdad un centro del terrore mondiale. Non bisogna nella pietà, che pure ha tutti i diritti di esprimersi, dimenticare chi fosse Saddam: uno dei personaggi che porta la responsabilità dello stato pietoso del Medio Oriente odierno. La sua scomparsa può, sì, senz'altro creare un periodo di ulteriore terrore; eppure dobbiamo deciderci a smontare l'idea che l'aggressività sia causata prevalentemente dai nostri errori, da quelli americani o israeliani, e a identificare nella enorme insorgenza jihadista del nostro tempo il vero responsabile.
Terzo punto: il regime iraniano ha rilasciato una delle poche dichiarazioni di soddisfazione per l'esecuzione. Non ci si poteva aspettare niente di diverso, dal tempo della guerra Iran-Irak, sanguinosa e orrenda, ogni iraniano odia con sentimento personale il dittatore iracheno. Tuttavia, le ragioni della gioia di Ahmadinejad in prospettiva sono alquanto conturbanti: il presidente iraniano infatti ha già fatto del suo meglio, e con successo, per giuocare il ruolo del grande agitatore contro la democrazia irachena con esportazione di armi e uomini, ha spinto la parte sciita sul fronte antiamericano e antioccidentale come parte del suo disegno egemonico. Di certo vede la scomparsa di Saddam dalla scena come un ulteriore spazio per la sua strategia. Questo ci mostra come nel Medio Oriente tutto si leghi ormai in un nodo gordiano. L'Iran, se non sapremo finalmente comunicare a Ahmadinejad che non gode di impunità, può diventare il beneficiario di una mossa che dovrebbe creare più spazio per la giustizia. Se la morte di un uomo è sempre una tragedia, che almeno quella di un dittatore sia un segno di giustizia.

La debolezza di Israele

giovedì 28 dicembre 2006 Il Giornale 0 commenti

Poche immagini, poche battute di un dibattito mandato in onda dalla tv palestinese, e i cittadini israeliani che guardavano martedì sera la tv sono rimasti senza parole. Da una parte il portavoce di Hamas, Ramzi Hamed, dall’altra Jibril Rajoub, un duro, ex capo della sicurezza nazionale, Fatah fino alla cima dei capelli.
Riconoscere o non riconoscere Israele? Ramzi è nettissimo: il regime sionista deve solo essere distrutto, si può, al più, fare una tregua di cinque anni e poi riprendere la guerra totale. Ed ecco Jibril Rajoub che, sorpresa, non chiede di riconoscere Israele: chiede di prenderla meno di petto, swhaie swhaie, piano piano. Bisogna guadagnare tempo e territorio, tanto Israele è già defunto. «Prima Ramallah, poi Gerusalemme est, poi tutta Gerusalemme, poi Haifa e Acco... È solo questione di tempo, la nostra tecnica è più conveniente, abbiate pazienza». E questa, dice giustamente, è oggi la tesi più di moda in Medio Oriente.
Il presidente iraniano Ahmadinejad ha inventato così tanti modi di dichiarare Israele già defunto; gli hezbollah e la Siria non gli sono secondi. Tutti sono uniti da pratici patti di collaborazione stretti a Damasco o a Teheran, firmati dalle parti a partire dall’agosto scorso; i patti si occupano dei temi più svariati, dall’educazione islamista a patti militari di reciproco impegno senza precedenti, come quello fra Siria e Iran.
Al Qaida ha il suo piano, venti anni in sette stadi per creare la patria della guerra islamica in Medio Oriente: il califfato generale sarà stabilito già nel 2013 con l’aiuto della Cina. In Qatar dal 22 al 24 dicembre si è svolto la sesta conferenza islamo-arabo nazionalista, di cui uno degli organizzatori principali è stato Yusuf Qaradaqi, un clerico egiziano che vive in Qatar e che è forse il numero uno dei Fratelli Mussulmani. È un teorico notevole, perché ha intuito che la strada delle elezioni era vincente per l’islamismo; alla conferenza erano presenti dirigenti di hamas e degli hezbollah,

un altro asse strategico completo per questo nuovo campo nazional-islamista, con molte benedizioni degli intellettuali e giornalisti. Anche i loro piani sono di conquista, in una parola, di guerra.
Ovunque si volga lo sguardo, si vedono non solo parole ma un accumulo intensivo di armi, con Ahmadinejad che prepara le strutture atomiche, Hezbollah che sfida la democrazia libanese, e risistema tutti i missili nuovi ricevuti su camion siriani (secondo informazioni dei servizi israeliani) dall’Iran, Hamas che ha collezionato una quantità di armi senza precedenti importata tramite la via di Filadelfia, il confine fra Gaza e l’Egitto, con l’aiuto dei compagni, soprattutto Hezbollah e i loro referenti.
La colomba della pace poveretta dunque, si aggira fradicia nel cielo mediorientale senza sapere dove posare le piume. Eppure, bisogna accendere un canale supplementare della nostra mente: quello delle trattative, degli incontri della pace. Se torniamo al mondo israeliano, nello stesso giorno in cui il cittadino di Tel Aviv o Gerusalemme si grattava la testa per cercare di capire se, infine, c’è una differenza fra Fatah e Hamas, la sua perplessità era già stata esercitata dai baci letteralmente travolgenti che Ehud Olmert aveva dato a Abu Mazen la sera di sabato incontrandolo per la prima volta durante il suo mandato: a cena gli aveva promesso la liberazione di decine, forse centinaia di prigionieri, la rimozione di 27 posti di blocco, 100 milioni di dollari, aiuti pratici per organizzarsi e anche per armarsi.
La volontà di provarci è seria, e può sembrare persino un po’ disperata. Dopo che martedì un missile kassam ha ridotto due ragazzi di Sderot in fin di vita, Olmert ha confermato la prosecuzione del cessate il fuoco, non potendosi tuttavia esimere dal promettere alle famiglie disperate della cittadina che ormai vivono nell’incubo di perseguire chiunque cerchi di sparare i kassam. Sembra un tentativo di guadagnare tempo a favore del consolidamento eventuale di Abu Mazen, incrociando le dita che non la pensi come Jibril Rajoub; o, semplicemente, una campagna per mostrare che Israele resiste quanto può nell’idea della pace. Mentre sa che prima o poi sarà costretta alla guerra.
Anche con il presidente siriano Bashar Assad che dice di voler parlare con Israele, la linea della «democrazia della disperazione» sta prendendo un po’ di spazio. I servizi segreti dell’esercito dicono che è ben intenzionato, il Mossad dice di non sbilanciarsi. Se Assad volesse lanciare un segnale, potrebbe semplicemente segnalare che non gradisce di esser l’ospite preferito di qualsiasi organizzazione terrorista voglia risiedere a Damasco, da Hamas alla Jihad Islamica agli hezbollah. Ma non lo fa, perché un’apertura di credito israeliana lo sfilerebbe momentaneamente dall’asse del male su cui Assad rischia il potere della casata. Questo mostra che alla fine sarà troppo difficile per Assad staccarsi dall’Iran e dal resto della compagnia. Eppure Tzipi Livni, la ministra degli Esteri israeliana, ha cominciato a sussurrare che bisogna verificare senza troppo rumore.
È una scena nebbiosa e un po’ patetica quella della mobilitazione occidentale per salvare la colomba intirizzita, o per fingere che stia benino: le espressioni di soddisfazione per l’accordo aggiunto all’Onu sulla risoluzione del consiglio di sicurezza del 23 dicembre per sanzioni all’Iran sotto la pressione massiccia del rischio di una defezione russa, riguardano in realtà il parto di un topolino di fronte alla montagna del pericolo nucleare. Il consesso internazionale alla fine congela i beni di qualche compagnia coinvolta ed «esercita vigilanza» su 12 membri del programma nucleare quando saranno in viaggio! Possiamo considerare questa una vittoria almeno morale, un segno di unità? Appare di più come il simulacro di un potere di imporre la pace ormai andato perduto nello scontro con la dura volontà estremista. Il guaio è che dai tentativi di pace mal riusciti, il Medio Oriente ne sa qualcosa, nasce sempre la guerra. Oggi, l’appeacement israeliano che non risponde ai missili, può creare una situazione in cui la sensazione che Israele sia debole travolga anche Abu Mazen. In generale, la debolezza dell’Occidente, può distruggere ogni possibilità per l’Islam moderato di prendere il potere.

Ecco come vivono i cristiani sotto l'Autorità palestinese

domenica 24 dicembre 2006 Il Giornale 1 commento

La piazza della Mangiatoia di Betlemme, quieta nel freddo della vigilia di Natale a sera, non è invasa dai turisti, non è travolta da un afflato mistico; da 90mila pellegrini al mese nel 2000, l’anno scorso ne vennero solo 2500, e quest’anno la cittadina se ne sta accucciata, come una persona ferita, concentrata su stessa, chiusa al suo ingresso principale dal massiccio recinto di difesa degli israeliani, e dentro tormentata da un destino che si fa sempre più difficile soprattutto per i cristiani, che un tempo erano i padroni della cittadina e oggi non lo sono più.

Betlemme alla memoria della nascita del Cristo, dovrebbe secondo una logica normale,gioire, festeggiare, ma ha visto tanti di quelli eventi seguiti da traumi e delusioni, e oggi è in una delle sue peggiori avventure, quella del dopo la vittoria di Hamas. La cittadina ha vissuto il Natale in cui proponendosi come un nuovo Messia, Arafat scese dal cielo sul suo elicottero, fra la folla festante, di ritorno dall’esilio; e tutti sperarono in una nuova era e venne la Seconda Intifada; quello dell’eccitazione della ricostruzione legata all’avvento del Terzo Millennio, che con la pace avrebbe dovuto portare benessere alla gente della patria di Gesù; Betlemme ha vissuto invece i giorni dei Tanzim asserragliati dentro la Chiesa della natività, le ronde e i carri armati; quelli degli spari da Beit Jalla delle Brigate di Al Aqsa nelle case del quartiere Gerusalemitano di Gilo;quelli della visita di Giovanni Paolo II quando la Moschea all’improvviso durante il discorso del Papa intonò a gran voce dal minareto le sue preghiere.

Non era un episodio sporadico. I cristiani del posto sono diminuiti verticalmente: dall’85 per cento nel 1948 nel 2006 sono calati al 12 per cento. Da sempre la chiamata del muezzin dalla Grande Moschea in Piazza si è scontrata con il suono delle campane; ma nel corso degli anni sempre di più la battaglia si è fatta largo dalle parole ai fatti. Non mancano le accuse agli israeliani che hanno si fatto serrato la città con la barriera che blocca l’entrata della città da Gerusalemme (che dalle altre parti tuttavia è aperta), i lavoratori abituati ad andare a Gerusalemme, le famiglie che ai posti di blocco specie in questi giorni in cui Israele ha promesso facilitazioni per tutti, trovano invece i soliti problemi a entrare e a uscire; ma Betlemme ha comunque ha dato il 40 per cento dei terroristi suicidi all’Intifada delle Moschee, seconda solo a Jenin, ha sempre avuto fra i suoi cittadini forti capi di Hamas e anche della Jihad Islamica, e una dura e numerosa postazione di Tanzim che occupò la Chiesa della Natività e che ingaggiò la guerra con morti e feriti di Beit Jalla, conducendola dalle finestre delle case dei cristiani contro la loro volontà.

Del problema di Israele tutti quanti ti parlano liberamente, ognuno si lamenta dei blocchi e le limitazioni. Ma solo a mezza voce i cristiani ti rivelano quella che è tuttavia la verità più recente e eclatante: essi lasciano la città di Gesù a un ritmo tale che presto forse la mangiatoia dove è nato, resterà in compagnia dei Francescani e dei Padri Greci Ortodossi che hanno cura della Chiesa, e poco più.

La forza sempre più dilagante del fondamentalismo islamico all’interno dei movimenti Palestinesi pone un grande problema per tutti i cristiani, le cui famiglie sono ormai sottoposte a espropriazioni di terre e di beni sotto varie forme, incluse quelle delle minacce che costringono a spostarsi e a vendere negozi e affari avviati da decine, a volte centinaia di anni; i cristiani sono anche tormentati dai fastidi alle loro donne, un tempo liete di mostrare la loro emancipazione sociale e nel mondo del lavoro anche sfoggiando un normale abbigliamento occidentale; i blue jeans, la gonna e i tacchi, sono costume comune. A volte i fastidi sono arrivati volte a vere aggressioni sessuali.

La questione non riguarda solo Betlemme, ma tutto l’West Bank e Gaza: dice Justus Weiner, uno studioso del Jerusalem Center for Public Affair che con infinita pazienza è riuscito a raccogliere le confidenze di centinaia di cristiani, tutte sistemate in classificatori e trascritte a mano, che dal 20 per cento di Cristiani fra i palestinesi dopo la guerra, il numero si è ridotto a l’1,7 per cento. Solo fra gli arabi che vivono dentro i confini di Israele la popolazione cristiana è aumentata, anche se molti si lamentano di una disparità di condizioni, da 34mila nel 1948 a 130mila nel 2005.

A Betlemme il senso dell’assedio islamico è appena nascosto sotto la festività natalizie: in un albergo di lusso dove pure l’albero di Natale orna la hall dell’Hotel, nelle camere viene indicata la direzione della Mecca; alcuni i negozi che vendono bambinelli e presepi di legno nella piazza hanno le saracinesche dipinte di verde Islam. Fra i tanti episodi che raccogliamo in giro, dal Daily Mail leggiamo che Geoge Rabie, 22 anni, guidatore di taxi del sobborgo cristiano di Beit Jalla, fiero di essere cristiano, si è trovato circondato e maltrattato da una piccola gang di estremisti islamici provenienti da Hevron che avevano visto che George teneva un crocifisso appeso sullo specchietto. “E’ un tipo di razzismo che speriementiamo giorno giorno in molte circostanze” dice “poichè siamo una minoranza siamo un obiettivo facile”.

Jeriez Moussa Amaro, 27 anni, artigiano dell’alluminio, cinque anni fa ha avuto le sue due sorelle Rada di 24 anni e Dunya di 18, trucidate da un gruppo che, poichè la due ragazze conducevano una vita in stle occidentale, rivendicando il doppio omicidio proclamarono: “vogliamo ripulire la Palestina dalle prostitute”.

Le donne cristiane, oggetto di disprezzo, sono spesso anche costrette a sposare dei mussulmani e naturalmente a convertirsi. Le chiese sono state a volte razziate, talora date alle fiamme, i preti che non mantengono il silenzio minacciati.

Quasi tutti i cristiani con cui si parla, compreso George o i padroni degli alberghi cristiani, vogliono vendere le loro proprietà e trovare in qualche modo la strada di uscita dall’incubo. Nei passati sei anni, queste sono le cifre che riuscianmo a trovare, si dice che siano stati chiusi 50 ristoranti, 28 hotel, e 240 negozi di souvenir. Amir Qumsieh, il general manager della stazione telvisiva di betlemme Al mahed-Nativity dice sconsolato: “Ci stiamo sciogliendo, mi sto trasferendo negli USA, un cristiano non ha futuro qui”.

Quelli più minacciati di tutti, dice il dottor Weiner, sono i mussulmani che si convertono al cristianesimo: essi soffrono qualsiasi tipo di persecuzioni da parte dei loro excorreligionari e sono costretti a nascondersi e a emigrare. “Molti rappresentanti di Hamas hanno dichiarato prima delle elezioni che se avessero vinto i cristiani avrebbero dovuto finalmente pagare la Giza, cioè la tassa che secondo la tradzione islamica i dhimmi, ovvero i non mussulmani, devono contribuire al potere islamico se vivono sul suo territorio” dice Weiner. Si parla anche di conversioni forzate all’Islam.

La situazione è molto peggiorata sia dopo la vignetta incriminata su Maometto, dopo la quale le esplosioni islamiste si manifestarono anche nei territori palestinesi, sia,e soprattutto, dopo il recente discorso del Papa sulla cultura islamica. Monsignor Sabbah, il patriarca latino di Gerusalemme ha detto mercoledì nel suo consueto indirizzo di Natale che Betlemme è diventata “città di conflitto e morte” come risultato della continua violenza e intabilità nella regione e a causa delle misure antiterroriste di Israele. “Quest’anno torna di nuovo il Natale ha luogo nelle stesse circostanze di morte e frustrazione con il muro e i checkpoint sul terreno e nei nostri cuori”. Sabbah, che non ha mancato occasione per accusare gli israeliani di ogni e qualsiasi male della comunità cristiana, forse dovrebbe finalmente, dopo tanti cambiamenti sul terreno, a intonare un nuovo motivo.

Medio Oriente: i rischi che non si vogliono vedere

venerdì 22 dicembre 2006 Il Giornale 0 commenti

Gerusalemme è piena di sole quando la mattina Massimo D’Alema la lascia sul convoglio di auto dirette a Ramallah. Il serpente di auto del consolato italiano fa la sua strada fra le pietre nel deserto della Giudea; D’Alema è arrivato dal Libano la sera avanti; prima di dirigersi alla Mukata si ferma a salutare il Nunzio Apostolico. Le suore fanno il caffè sulla valle della Geenna.
Poi, il viaggio in un panorama accidentato. Pietre, giallo, e l’eco sia degli spari fratricidi dei palestinesi che dei missili kassam su Sderot. L’aria del West Bank vibra del dramma storico della spaccatura per cui si fronteggiano due forze che possono squassare il mondo musulmano e il mondo intero, l’integralismo islamico che vuole distruggere Israele e combattere l’Occidente, e l’ala laica moderata di Abu Mazen.
D’Alema, che appare stanco e pallido, probabilmente sente di muoversi in acque limacciose; quando ha incontrato Fuad Siniora martedì, avranno certo parlato francamente del rischio Hezbollah; quindi il ministro non ignora che l’Islam estremo sta spingendo la democrazia del Libano sull’orlo dell’abisso, che il governo libanese è minacciato, che gli uomini di Nasrallah intendono far dimettere Siniora per stabilire un governo khomeinista e legato alla Siria; il leader druso Jumblatt lo ripete sempre, l’assassinio del giovane Gemayel è solo un comma di quello di Rafik Hariri. È roba siriana e iraniana. Sa, D’Alema, che Abu Mazen, che lo sta aspettando con la giacca blu a Mukata, probabilmente non dorme da giorni, inseguito da rapporti di scontri interni fra fazioni, di sparatorie, morti, feriti, di assalti alle sedi di questo e di quello, assordato dall’eco del suo stesso discorso in cui tre giorni or sono minacciava le elezioni anticipate. D’Alema sa che Hamas ormai ha una milizia di diecimila uomini armati di bel nuovo, che Ismail Haniyeh ha portato a casa dalla sua visita a Teheran l’impegno di 250milioni di dollari, e che da Gaza nelle ultime 24 ore sono stati sparati su Sderot, in Israele, 10 missili kassam. Khaled Mashal proprio ieri spiegava che servono a spingere di nuovo a una guerra comune di Fatah e Hamas contro il nemico israeliano. La tregua palestinese va un po’ meglio, ma potrebbe invece cedere quella di Israele con i Palestinesi, se i kassam ne sono il prezzo.
Dunque, perché, se sa tutto questo, D’Alema non parla? Perché non dà un segno chiaro della consapevolezza dell’Italia di trovarsi in un agone in cui si aggirano nemici terribili e inaspettati? Il dramma mediorientale, i suoi sviluppi più recenti, la minaccia jihadista, restano il convitato di pietra del viaggio di D’Alema. Quando con Abu Mazen parla nella larga sala a un passo dalla tomba di Arafat sepolto nel cortile, i due danno ai giornalisti solo buone notizie, come fossimo al komsomol: probabilmente, dice Abu Mazen, l’incontro con Olmert si terrà prima della fine dell’anno; probabilmente, aggiunge il ministro degli Esteri italiano, se le cose andranno bene, si potrebbe arrivare a proclamare uno Stato palestinese entro il 2007, anche perché Israele ha capito che il tempo dell’unilateralità è finito, e cerca un interlocutore, anzi, l’ha trovato in Abu Mazen. Se Abu Mazen ce la farà; se Siniora ce la farà.
D’Alema è estremamente ottimista: Abu Mazen vince, conduce trattative con Israele, una forza internazionale si dispiega a Gaza, si fa la pace. Ma si legge in trasparenza nelle loro parole la realtà: riprende il lavoro sisifico della costruzione di un governo di coalizione fra Hamas e Fatah, che negli ultimi sei mesi è fallito sistematicamente su scogli essenziali, con le accuse mortali di Hamas a Fatah di essere un partito di kafir, miscredenti; quanto alle possibili elezioni che ieri sembravano imminenti, già appaiono sempre più volatili nella paura che alla fine Abu Mazen le perda a fronte della grandezza montante dell’integralismo islamico.
Anche Egitto, Giordania, Arabia Saudita, tutti i Paesi del Golfo sono contrari a uno show down, perché sullo sfondo appare un rafforzamento di Damasco e di Teheran tramite una vittoria di Hamas, e non il contrario.
In una parola, l’attuale sforzo italiano di pace può essere meritorio, ma lo sfondo politico che lo rende realizzabile è assente; per esempio ieri un altro uomo di sinistra in visita in Israele, John Kerry, reduce dal Cairo pur ottimista, ha scelto parlando alla stampa di evocare lo shock, la grande sorpresa del dramma mediorientale in atto, in cui l’integralismo islamico è protagonista. Eppure, ha detto Kerry, la grande paura di un nuovo scenario di orrore può di fatto creare una finestra di opportunità per un’alleanza fra tutte le parti a favore del dialogo, Islam moderato in primis. Dallo scontro con questo nuovo nemico di tutti può sgorgare la pace.
La scelta di D’Alema invece è quella di smussare il dramma, di spingerlo da parte, di appoggiare Siniora incontrando però amichevolmente anche Nabil Berri, l’amico dei siriani e degli hezbollah; di stare, sì, con Abu Mazen, ma senza una parola di biasimo per Hamas, nonostante i giornalisti (cui sono state concesse solo tre domande; e se lo schedule diplomatico ha le sue esigenze, pure la gravità del soggetto avrebbe dovuto suggerire una diversa disponibilità alla discussione) gli abbiano chiesto ieri di riconsiderare l’incauto giudizio che ne fece, ai suoi occhi, una forza di governo che poteva diventare un interlocutore.
D’Alema, che dal Libano ha vantato la capacità dei nostri soldati nell’Unifil, ha in questo ragione perché si tratta di soldati valorosi, allenati, colti, che tutti rispettano; pure non può ignorare per esempio che la prima pagina del Jerusalem Post proprio di ieri, cui forse avrà dato un’occhiata in macchina, dava a nove colonne la notizia che secondo l’intelligence dell’esercito israeliano gli Hezbollah «sono ritornati di nuovo alla loro piena forza di combattimento», perché la Siria è riuscita a far entrare «quasi su base giornaliera, camion di missili e armamenti avanzati». Ci riguarda questo? Oppure abbiamo incontrato problemi più grandi di noi?
Questo stato di cose pone l’Italia di fronte a problemi di sostanza, perché se adesso e ancora forse per quattro-cinque mesi, per gli Hezbollah può essere importante mantenere un equilibrio che consenta loro di riabilitare all’interno la propria immagine dopo la guerra, pure più avanti interessi strategici più generali ne governeranno le mosse. E questi interessi, come il fuoco in un pagliaio, daranno fuoco al fronte fra Israele e Hezbollah. È lo stesso fuoco che seguiterà a minacciare Abu Mazen persino se incontrerà Olmert, e persino se una forza italiana verrà dispiegata a Gaza. È la jihad globale, signor ministro degli Esteri. Noi ci stiamo facendo i conti?
Non sarebbe sensato e lungimirante creare finalmente nella nostra politica, nel nostro discorso internazionale, uno spazio per questo problema?

Un accordo tra Abu Mazen e Hamas renderebbe impossibile la pace

martedì 19 dicembre 2006 Il Giornale 0 commenti

Da mezzogiorno di ieri, la fragile tregua stabilita poche ore prima fra Hamas e Fatah è svanita fra il rinnovarsi degli spari, dei morti e dei feriti. Il mondo, vedendo Blair in visita da Abu Mazen e sentendo quest'ultimo invitare Olmert a parlare, cerca di aggrapparsi ancora alla speranza. Ma dove può fermarsi lo scontro in atto tra le due fazioni storiche dei palestinesi e a che cosa può portare nel conflitto con Israele? Bisogna, per capire, accettare di mettere in giuoco il nostro stesso assetto mentale rispetto al conflitto mediorientale: niente è più ciò che era nel Medio Oriente, nessuno schema antiquato regge alla dura sfida della realtà odierna. Quindi, se non vogliamo che le opinioni dell'Europa e dell'Italia in particolare risultino irrilevanti rispetto alla ricerca della pace, è indispensabile rinnovare il nostro pensiero. Un'organizzazione che si sente dipendente solo dagli ordini divini, Hamas, è arrivata al potere. Con questo ha a che fare Abu Mazen e il mondo. Per esempio, lo spiega un importante rappresentante di Fatah, Sofian Abu Zaide, ex ministro per i prigionieri, proprio ieri rapito e rilasciato nel giro di poche ore a Gaza: «Con Hamas nel passato abbiamo già avuto scontri terribili: qualcuno ricorderà che Arafat fece imprigionare alcune centinaia dei suoi militanti. Ma non è mai accaduto che i suoi uomini abbiano ammazzato a sangue freddo tre bambini perché figli di uno dei nostri; né che, come è accaduto domenica notte, da un campo profughi sia stato trascinato a morire un quarantenne sconosciuto in mezzo alla sua famiglia. Non è mai accaduto prima che si sia arrivati a sparare a un primo ministro, né che siano state assediate le abitazioni del Presidente, e nemmeno di personaggi come Mohammed Dahlan... Lo sfondo di tutto questo è l'accusa fatale che Hamas fa a noi, i laici nazionalisti di Fatah, di essere non traditori, come hanno detto in passato, o incapaci nella lotta contro il nemico comune. L'accusa oggi è quella di essere kafir, miscredente, un rinnegato rispetto all'Islam». Di fatto, questa è la novità che, per esempio, è tanto temuta in Egitto dal potere vigente: che gli integralisti islamici prendano il potere, e lo gestiscano secondo regole che ritengono promanare direttamente da Dio e di cui essi pensano di essere i diretti interlocutori. Una tale fede nel campo palestinese dominato un tempo da nazionalisti laici, è nuova. Dice Abu Zaide, in sostanza, che per Ismail Haniyeh, il ministro in carica dall'anno scorso, e per i suoi, e ancor più per Khaled Masha'al che sedendo a Damasco ha direttamente a che fare con i capi della jihad internazionale, contano, più dei bisogni dei palestinesi, gli ordini di Ahmadinejad. L'orizzonte dello Stato palestinese è molto secondario rispetto a quello dell'Ummah dei credenti. Ogni compromesso rispetto all'idea di condividere quella che per loro è terra islamica con gli ebrei e con l'Occidente in generale, è semplicemente inconcepibile. Il gioco di squadra con l'Iran è ritenuto da Hamas una garanzia e anche un dovere. Hamas non ha nessun interesse, se non nell'immediato, finché non sia sicuro di tenere in pugno tutti i palestinesi, alla democrazia in quanto tale. Tuttavia in base alle regole democratiche istituite con le elezioni, Hamas ha conquistato il governo: finché Hamas pensa che questo le dia una buona carta per ricevere eventuali finanziamenti dal mondo la democrazia serve. Ma Abu Mazen ha deciso di andare a vedere questo giuoco: una volta stabilito che la priorità di Hamas è la vittoria di Dio e non dei palestinesi, ha proposto di andare alle elezioni e quindi di fermare una collaborazione di fatto inesistente. Di fatto, le sue proposte per un governo di coalizione sono tutte fallite. Ma Abu Mazen intende andare veramente alle urne? Non gli sarà facile nei fatti, perché Hamas non vuole, e forse anche lui non lo desidera. Le elezioni potrebbero dare a Hamas una vittoria che gli darebbe la Presidenza oltre al Primo ministro: il potere totale. Quello che col suo giuoco pericoloso Abu Mazen cerca di fare nell'immediato è piuttosto segnalarsi come leader che può restituire legittimità internazionale e quindi benessere ai palestinesi, e riproporli come interlocutori per l'Occidente. Ma Hamas non ci sta, e dopo aver respinto il governo di coalizione, lo accusa di golpe se andrà alle urne. Il governo gli è sempre più caro. Ormai sul terreno ci sono i ben 250 milioni di dollari promessi a Haniyeh per i prossimi sei mesi, e soprattutto c'è la percezione di aver trovato nell'Iran uno Stato guida che promette di distruggere Israele, il suo «retroterra strategico», come ha detto. Bisogna anche considerare che per Hamas la vittoria democratica che esso ha tanto esaltato quando si è trattato di proporsi al mondo come legittimo indirizzo per ricevere i fondi internazionali, non è che un momento di passaggio verso la vittoria dell'Islam, e non ha valore di per sé Hamas nel rifiutare le condizioni del Quartetto (riconoscere Israele e i patti conclusi con esso, rinunciare al terrorismo) non fa altro che il suo mestiere di parte integralista islamica: ogni proposta di hudna temporanea non è che un trucco per ottenere che l'«Entità sionista» lo lasci riprendere fiato e armarsi fino ai denti per lo scontro finale. Alla fine, di fatto, né Abu Mazen né Haniyeh hanno interesse a spararsi nelle strade fino a sfinirsi, ma la via d'uscita è difficile; quello che potrebbe accadere è stato segnalato ieri dal missile kassam che Hamas ha trovato il tempo di sparare contro un kibbutz del Negev occidentale da Gaza. Se si alzerà il livello dello scontro con Israele, Tzahal compirà azioni per fermare gli attacchi e l'unità palestinese si ricostruirà nell'escalation contro Israele. Israele si aspetta una crescita del terrorismo nei prossimi giorni. Intanto, in uno stadio intermedio, ci si può aspettare che le due parti decidano di consolidare il loro potere l'una a Gaza (Hamas) e l'altra nel West Bank (Fatah), tenendo in ostaggio gli uomini delle forze avverse che vivono di qua e di là. Hamas può puntare a fare di Gaza una repubblica islamica ripulita dai kafir di Fatah, e il West Bank può essere la mano palestinese che intrattiene rapporti con l'Occidente e parla con Israele, ricevendone in cambio aiuti e armi. Le elezioni, che nessuno vuole veramente, saranno rimandate. La speranza europea, americana e israeliana in Abu Mazen troverà terribili ostacoli sulla sua strada, tanti quanti ne pone l'integralismo islamico in tutto il mondo. La democrazia che tutti seguitano a evocare sarà ancora a lungo lo scenario controverso della minaccia dei Kalashnikov. Insomma: affrontare la questione israelo-palestinese oggi non ha più a che fare solo con le intenzioni e la buona volontà delle due parti.

E' l'Iran il test dell'amicizia italiana per Israele

venerdì 15 dicembre 2006 Il Giornale 0 commenti

È rinfrescante che Ehud Olmert abbia trovato sorrisi in Europa sia durante la visita ad Angela Merkel che quando ha visto Romano Prodi; ottimo, certo, che il primo ministro italiano da cui sono per lo più pervenute condanne e critiche per la politica di Israele trovi la forza di pronunciare una frase importante che ne riconosce la legittimità come Stato ebraico. Anche se a molti può essere sembrata lapalissiana, di fatto l'affermazione di Prodi nega il diritto al ritorno dei profughi palestinesi, massa di manovra emarginata cinicamente dalla leadership palestinese per un auspicato conflitto finale. Escludere il diritto al ritorno significa opporsi alla distruzione di Israele tramite la demografia. Olmert, dunque, ha portato a casa questa affermazione come un trofeo d'amicizia europea e ha detto ai giornalisti che ha ottenuto quasi tutto quello che si era prefissato. Si può capire che si sia sentito soddisfatto, perché Israele non è abituato a essere vezzeggiato dall'Europa, ma piuttosto offeso e diffamato. Durante la presidenza italiana della Comunità Europea non sono mancati episodi, anche paradossali, di pregiudizio verso lo Stato Ebraico, come l'indagine che chiedeva quale fosse il Paese più pericoloso del mondo, i cui risultati indicarono «Israele». Acqua passata, vista la cordialità fra i due Capi di Stato. Ma se si guarda da vicino al risultato del colloquio, la materia di riflessione non manca e verrebbe subito da dire che Israele, in cambio degli abbracci affettuosi con cui ha gratificato Prodi, dovrebbe forse in futuro, se intende perseguire la pace, esigere un prezzo più alto. Infatti, quegli abbracci sono una patente molto spendibile per acquisire statura morale nel mondo occidentale e buone carte nella politica estera mondiale. Prima di dare il permesso a un conoscente, pur se cordiale, di dire «il mio migliore amico è ebreo», la cosa va certificata e soppesata, perché il futuro sarà giudice di questo investimento. Se ci chiediamo dunque come possiamo valutare l'investimento di Olmert su Prodi, e quindi la disponibilità del nostro governo a essere davvero amico di Israele, la chiave di lettura oggi è una sola, il rapporto con l'Iran e con le sue trame. Ogni intenzione di pace si misura su un'articolata azione per fermare l'Iran, perché Ahmadinejad ormai ha intrapreso una politica regionale onnicomprensiva di cui sono pedine, oltre agli hezbollah, il Libano, la Siria, anche i palestinesi di Hamas. Prima di parlare di pace con Abu Mazen, ad esempio, come insiste l'Italia, è dovere di ciascuno sapere che l'Iran tramite Hamas, costruisce ostacoli insormontabili sulla via della pace, dato che è col denaro iraniano che Hamas arma le milizie e l'ideologia che tengono in scacco Abu Mazen stesso. Ieri il Primo ministro Ismail Haniye è stato fermato al valico di Rafah proveniente da Teheran con una valigia contenente 35 milioni di dollari, la prima tranche dei 250 milioni con cui Teheran finanzia la politica di schieramento di Hamas. La pace che Prodi auspica, non può quindi avanzare se il mondo non costringe l'Iran a lasciare la presa. L'Iran nega la Shoah come strumento per legittimare la distruzione di Israele, sta costruendo l'arma atomica e nel frattempo finanzia numerose organizzazioni terroriste. Lo scopo del viaggio di Olmert era far capire all'Europa e a Prodi in particolare che l'aggressione di Ahmadinejad al mondo occidentale è già in atto. Il premier israeliano ha chiesto, secondo fonti locali, che l'Italia segua l'esempio degli Usa e limiti il suo lucroso commercio con l'Iran, che è invece oggi sostenuto come tutti gli scambi a rischio con i Paesi instabili: noi commerciamo con l'Iran per otto miliardi di dollari (quattro, invece, la Germania, secondo dati israeliani). Sarebbe stato un segnale forte che oltre all'ovvio rifiuto verso la Conferenza di negazione della Shoah, fosse stato messo sul tavolo un gesto di concreta disapprovazione. Invece, per quanto emerge senza avere assistito alle riunioni dei premier, il fatto che Prodi abbia affermato che «l'Iran è un'entità regionale importante da cui non si può prescindere»; che abbia ribadito che l'Italia, quando sarà a gennaio nel consiglio di sicurezza, si occuperà delle sanzioni, ma solo mirate a evitare la costruzione degli impianti nucleari; che abbia di nuovo riproposto di parlare con la Siria, principale retrovia di tutte le operazioni terroristiche... di fatto significa che per ora non intende agire nel contesto proposto da Olmert, proponendo una visione di un Iran «importante» che sconcerta e comporta una intollerabile equivalenza morale, come se le minacce di distruzione di massa unite alla negazione della Shoah fossero vane flatus vocis. È questo che l'Italia pensa? Sarebbe una sottovalutazione molto pericolosa. Se poi Olmert e Prodi abbiano preferito di comune accordo glissare sul fallimento della missione Unifil per lasciare la porta aperta a un ruolo dell'Italia a Gaza, non è dato sapere. Ma non è onesto da parte dell'Italia, che ha dei valorosi soldati in Libano privi purtroppo degli ordini giusti per contrastare il riarmo degli hezbollah che minacciano proprio quel governo Siniora che siamo andati a difendere; né prudente da parte di Olmert, che non saprà chi ringraziare se gli hezbollah riprenderanno a sparare i loro missili. Infine: la sinistra ha un grande problema con Israele, un problema morale basilare, perché l'ha usato cinicamente come merce di scambio per stabilire rapporti e alleanze, ha promosso menzogne e antisemitismo. Tuttavia però nel suo seno si combattono anime diverse di cui una sta compiendo un percorso difficile e anche valoroso. Olmert non ha capito che un abbraccio di Prodi è un premio troppo piccolo e forse anche un ostacolo sulla strada della revisione in atto nella sinistra.

 

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