Il Giornale
Il vulcano della Farnesina
La politica estera oggi è un campo magnetico in attività permanente, un vulcano in eruzione, una forza che contrariamente a tutte le convinzioni della politica del passato e anche dei media che l’hanno relegata in secondo piano per decenni, è capace di portare la gente in piazza e di far cadere governi. L’Italia deve attrezzarsi a questa nuova evenienza, nata con la guerra terrorista contro l’Occidente, con la continua esplosione di bombe e di guerre, con la feroce contrapposizione di idee che suscitano passioni, mettono in campo menzogne e pregiudizi. Il provincialismo è ormai vietato, lo zig zag non paga, l’ignoranza è proibita. La politica estera è ormai l’anima di un Paese, e certo non è un caso se dopo una tanto cocente discussione sulla finanziaria, pure il Paese fronteggia una crisi in politica estera: essa infatti, oggi, è quella cui va il compito di realizzare sia i principi che gli interessi primari del Paese; espone la nostra visione del mondo, ed è per questo che l’attuale crisi è molto significativa e molto impegnativo è il modo in cui ne usciremo. Per un nuovo governo, non sono in ballo soltanto le scelte di Follini o di Casini, e tantomeno il governo di Romano Prodi è caduto solo a causa di due estremisti pazzoidi. Niente affatto. Dietro di loro c’era una piazza, un’incertezza concettuale di fondo, un’egemonia culturale e politica di un gruppo intellettuale ancora fortissimo in Italia, quello dell’antiamericanismo. La scelta di cultura e di appartenenza legata alla politica estera vibra nell’aria come tema fondamentale del nostro tempo da ben prima che questo governo nascesse: la micidiale ondata di odio antioccidentale islamista, la formazione e la messa in campo di autentici eserciti terroristi, l’odio per Israele, la questione irachena e quella afgana, la questione iraniana, dopo il primo voto che aveva messo la maggioranza in scacco sulla politica internazionale sono di nuovo e saranno ancora e ancora un tema centrale su cui misureremo le nostre scelte politiche. La presenza di basi militari come a Vicenza, un altro ritiro o invio delle nostre truppe per aiutare nella lotta al terrorismo, la revisione di ruoli, lo schieramento all’ONU, il ripensamento di organismi internazionali come la NATO, un ulteriore passo sulla questione iraniana, saranno per anni il necessario catalizzatore, dall’aula parlamentare alla piazza, della domanda basilare: qual’è la nostra politica estera, quale la nostra disponibilità a far parte del campo occidentale, o di qua, o di là? Non ci saranno sconti, non si tratterà di sfumature. Ho sentito con le mie orecchie, in un dibattito alla trasmissione di Giuliano Ferrara “Otto e mezzo”, il capo dei Comunisti Italiani ripetere sinceramente stupito che in ogni caso la nostra Costituzione ci vieta la guerra, meglio morti che belligeranti, meglio sparire che difendersi. E’ una concezione del mondo sincera e che mette in piazza decine di migliaia di persone che ritengono Bush una bestia umana e Israele un paese di apartheid. Il pacifismo è parte integrante di questa visione del mondo, che ritiene la guerra, qualsiasi guerra, estranea all’idea stessa di democrazia. La guerra è odiosa, ma la difesa è sacrosanta ed è anzi evidente parte di un pensiero democratico, che mette al centro i bisogni del cittadini: sembra tanto semplice. Alexis de Tocqueville dice, se si consente di riassumerne un pensiero, che, quando un Paese democratico deve difendersi dai nemici, proprio a causa delle sue caratteristiche democratiche non lo fa volentieri, non lo fa bene, ma poi è in grado di disporre di magnifiche e differenziate risorse, molto più di un nemico che non possieda l’arma della democrazia; organizzandole, mobilitandole, migliora e vince.
Ma difendersi, perchè questo è il tema, richiede una sincerità di intenti, una politica di alleanze e una chiarezza ideale enorme di fronte alle attuali sfide della politica internazionale. Non basta certo, anche se è necessario, il desiderio di non apparire inaffidabili di fronte agli Stati Uniti, e di far parte di uno schieramento onorevole e anche conveniente. Quello che occorre è costruire la convinzione, l’ integrità e chiarezza di intenti. Insomma, una cultura della politica internazionale. E’ urgente.
Prendiamo gli ultimi eventi: l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, la IAEA, ha riportato giovedì cattivi risultati per quanto riguarda la preparazione delle strutture atomiche in Iran: essa non è stato sospesa, secondo le richieste della Commissione di Sicurezza, nei 60 giorni concessi e anzi Teheran ha espanso gli sforzi fino a costruire 1000 centrifughe e portando circa 9 tonnellate di provviste di alimentazione gassosa nelle strutture di Natanz per attuare l’arricchimento. Gli ufficiali iraniani hanno informato che essi espanderanno le centrifughe e raggiungeranno la cifra di 3000 in maggio. Il reattore di Arak e gli impianti di produzione di acqua pesante sono sempre in costruzione, contro la risoluzione del Consiglio di Sicurezza. La IAEA si dichiara “incapace... di verificare ulteriormente i passati progressi del programma iraniano”, ma il presidente Ahamdinejad ha dichiarato che “è preferibile per l’Iran fermare qualsiasi altra attività per i prossimi dieci anni e concentrarsi sul nucleare”. Cosa abbiamo intenzione di fare di fronte a questa sfida? Il problema include visione e interessi; l’Italia (seconda in questo solo alla Germania che investe cinque miliardi e mezzo di dollari nelle garanzie per il commercio con l’Iran) ne investe, leggiamo, quattro e mezzo.
Altre decisioni molto importanti riguardano il nostro atteggiamento verso la questione libanese, sempre minacciata dalla scalata al potere degli hezbollah e del loro riarmo, che sembra essere stato completato nonostante la presenza dell’UNIFIL. Se non stiamo scherzando nel nostro intento di favorire la pace, si tratta o di rafforzare la missione con l’intento di intervenire sul riarmo veloce e certo fatale degli hezbollah, o di denunciare la nostra sconfitta e trarne le conseguenze. La Siria, che propone a Israele incontri di pace, pure incrementa in questi giorni la presenza militare sul confine israeliano e stringe rapporti sempre più solidi con l’Iran di Ahmadinejad, mentre seguita a ospitare a Damasco la gran parte delle organizzazioni terroristiche che agiscono poi in Iraq e in Israele. Anche là si tratta di fronteggiare questa essenziale problematica di politica estera. Così, anche con la nuova sfida del prossimo governo di coalizione palestinese: Hamas nell’accettare di collaborare con Fatah ha riannunciato la sua intenzione di non riconoscere Israele. Questo, mentre nuovi attacchi di terrorismo cercano di raggiungere i cittadini dello Stato ebraico e mentre si accumulano a Gaza missili terra-aria e armi procurate dalle varie organizzazioni terroriste. Che fare? Fingere che i peggiori elementi radicali siano stati battuti? Oppure tener duro spingendo perchè il Quartetto tenga le sue posizioni? Sarà dura per qualsiasi governo prendere queste decisioni e tante altre, sarà una sfida quotidiana su cui può infrangersi qualsiasi accordo fragile, qualsiasi compromesso. E non si creda: anche il campo filo occidentale deve pensare, elaborare, sostenere con profondità e senza nessun secondo fine le sue posizioni. Prima ancora di essere amici degli Stati Uniti, occorre essere amici di se stessi, di una propria integra politica estera.
Una Disneyland di guerra nel deserto israeliano
da Tzelim, deserto del Negev
Un miraggio tremolante nella prima luce dell’alba: case, moschee, alti edifici e il basso profilo di una casbah. Color ocra e bianco sul giallo del deserto. Una musica araba esce dagli altoparlanti, la memoria evoca scene di battaglia, agguati. Ma la città non è vera, è vuota e schematica, anche se grande e supertecnologica. Reale e astratta allo stesso tempo nel bel mezzo del deserto del Negev, presso la base militare di Tzelim. È tutta percorsa da fibre ottiche e da cavi sotterranei, punteggiata da sofisticati congegni celati ogni pochi metri. Questa città, ancora non completata, è la struttura in cui l’esercito israeliano, ferito dalla guerra del Libano, criticato da ogni parte e determinato a rinverdire il suo mito, si mette alla prova.
Quattro minareti di altrettante moschee, edifici, piazze, il campo profughi, i negozi, i garage sotto le case, a volte moderne e a volte piccoli cubi con una terrazza piatta sul tetto. «Una Disneyland di guerra che non ha pari nel mondo», spiega Arik Morè, il giovane comandante della base. Ogni settimana si esercitano non meno di milleduecento soldati e, quando la parte tecnologica sarà completata, il numero crescerà. Lo scopo è migliorare l’efficienza dell’esercito partendo dall’analisi degli errori nella guerra libanese. E il primo errore era stato quello di non aver svolto esercitazioni regolari e di non aver condotto manovre integrate. Ora si cerca di rimediare, per essere pronti a tutto. Le strutture riproducono fedelmente vari tipi di centri abitati: da un parte Bint Jbel, la cittadina del sud del Libano costata tante perdite a Tsahal, dall’altra Gaza; e più in là ancora c’è Ramallah.
Viaggiamo di notte per raggiungere il sito, mentre alcuni elicotteri volteggiano nel cielo trasportando i soldati che hanno simulato evacuazioni di feriti e sgomberi. Il rombo dei velivoli riempie l’aria, alcuni carrarmati circondano la città. Una squadra si succede all’altra, riconosciamo il berretto rosso dei paracadutisti, quello viola dei Givati, quello color terra dei Golani, che ieri gongolavano perché il loro generale Gabi Ashkenazi sarà il nuovo capo di Stato Maggiore. Mentre sorge il sole, un gruppo di uomini si allontana, con gli M16 a tracolla, la divisa e la faccia coperte di polvere e sudore nonostante il freddo intenso della notte del deserto, e un altro arriva. Il telefonino e il caffè caldo, in bilico in un contenitore di metallo arrugginito, su una collinetta sono i re dell’intervallo. «Ciao mamma, tutto bene, non ti preoccupare, bello qui, non ti posso dire quello che facciamo, ora devo andare. Piantala con questa storia del freddo, ciao, saluta papà».
Un battaglione va, uno viene. Molte ragazze col mitra e la faccia mimetizzata, giocano la parte del nemico. Arik, dopo che ci siamo arrampicati su un minareto spiega: «450 costruzioni. Quei buchi irregolari che vedete nei muri rappresentano i passaggi che pratichiamo da edificio a edificio, li abbiamo fatti in anticipo per praticità. La città potrebbe avere circa cinquantamila abitanti. I civili è difficile simularli, ma riproduciamo la presenza non militare in tutte le sue capacità, dal terrorista al cittadino, dal giornalista al negoziante... In genere, mentre si esercitano seicento uomini delle forze blu, le nostre, se ne esercitano anche 350 delle forze rosse, il nemico». Arik spiega che ancora non è tutto pronto, ma che ogni stanza della cittadina sarà dotata di una telecamera, così da consentire la rilettura di ogni azione.
Alcuni soldati che si avviano verso una casa in cui è stato identificato un terrorista. Corrono verso la collinetta, sfondano la porta ed entrano sparando, il fumo intenso impedisce di vedere bene. Il terrorista si rifugia al piano superiore, si accende una battaglia alla fine della quale i soldati blu hanno un ferito e sono riusciti a catturare il ricercato. È uno scontro che trascina nel caos della guerra, con assalti, spari, ordini continui e precisi urlati da ogni parte. Ogni gesto è ripreso dalle telecamere: più tardi si saprà quali errori e quali azioni corrette hanno compiuto i militari.
«Presto quasi ciascun soldato sarà munito di un congegno simile a un gps che sorveglierà ogni movimento. Si saprà da dove parte uno sparo, dove è diretto e che cosa ha causato...». Il generale Uzi Moskovitz, direttore del progetto, ci incontra sul campo sotto una tenda. «La base era progettata da otto anni e abbiamo cominciato a costruirla due anni fa. Ma dopo lo scontro con Hezbollah abbiamo deciso di accelerare e modificare il lavoro, e di dare il via a esercitazioni integrate che comprendano tutte quante le forze sul campo, compresa l’aviazione - spiega Moskovitz -. La dimensione, la somiglianza col campo reale, la possibilità di raccolta di dati e di analisi sono senza precedenti nel mondo. Presto avremo anche un software che ci consentirà di ruotare il progetto e di vederlo in trasparenza sullo schermo. Abbiamo incrementato il lavoro per correggere e risolvere i nostri problemi. In Libano, uno dei più seri riguardava proprio la mancanza di addestramento, di abitudine allo scontro...».
Arik da lontano fa vedere che le esercitazioni cominciano a due chilometri da qui. Il gruppo che arriva da lontano, deve infiltrarsi nella città, dove scattano diverse azioni contemporanee. Si simulano rapimenti, esplosioni, risposte ad attività terroristiche e alle armi anticarro, la distruzione dei missili Kassam. Alla fine, gli analisti valuteranno i risultati e daranno il loro giudizio.
Il generale è soddisfatto. Ma al di là dei problemi tecnici, non è forse la confusione che nasce dalla guerra asimmetrica, l’indecisione di ufficiali cresciuti nell’idea che «il problema non è militare ma politico», o che la pace sia dietro l’angolo, non è la mancanza di motivazione dei giovani e delle riserve il problema vero? «No! - risponde sonoramente il generale -. Per capire parli con loro. Discutono e criticano come si fa in democrazia? È giusto così. Ma poi, quando devono agire, niente più chiacchiere: sanno qual è il loro dovere, questi ragazzi, e ne sono contenti. Ne prenda uno a caso». Ne scelgo due: un sergente delle forze blu, Effi, con le labbra strette e la faccia stanca, che in Libano ha visto morire i suoi compagni. «Certo questa non è la realtà terribile dello scontro vero, ma è molto emozionante lo stesso impegnarsi a imparare cose nuove - racconta -. Nessuno è così pazzo da amare la guerra. Ma è bellissimo imparare ad aiutare te stesso mentre aiuti il tuo Paese». Rotem, una biondina di diciannove anni, delle forze rosse, racconta che ha sparato col laser e che è consapevole di non essere forte come i ragazzi, ma sa dare filo da torcere. Si sente fortunata di partecipare a queste esercitazioni. Le ragazze della sua età in Italia, o in America, studiano, ballano, fanno shopping... «Che discorsi, ognuno è nato nel proprio Paese e qui serve il mio aiuto. E dà molta soddisfazione sentirsi utili».
L'assedio di Olmert fra Hamas e hezbollah
Abu Mazen, aiutaci tu. «Ci parleremo ancora e ancora, e le nostre squadre staranno in contatto fisso, giorno per giorno». È quasi un’invocazione salvifica quella di Ehud Olmert verso un panorama scoraggiante e aggressivo che il Primo ministro israeliano cerca di riempire con una quantità di buone intenzioni. Lo incontriamo nel gelido lusso della stessa sala dell’albergo in cui solo lunedì era con Condoleezza Rice e Abu Mazen. Stavolta, l’esame è quello della stampa estera. Appare pallido e stanco, dardeggia un sorriso troppo gentile per lui. Il corrispondente di Al Jazeera spara una provocazione: «Lei ha detto a Abu Mazen durante l’incontro a tre: “Mi hai tradito con l’accordo della Mecca”: Abu Mazen infatti ha accettato di formare un governo di coalizione il cui programma non accenna affatto a riconoscere Israele, né a cessare dal terrorismo. “Perché non si decide - dice il giornalista - a accettare che il governo eletto dei palestinesi ha un partito di maggioranza, Hamas, che seguiterà a dettare le sue condizioni col consenso popolare? Parli col governo, dunque!».
Olmert è un tipo che ama le provocazioni e si capisce che sotto l’apparente rassegnazione c’è una passione per cui gli dispiace che gli si chieda di parlare con un gruppo che condanna a morte Israele nella pratica e nella teoria; ma, soprattutto, deve salvare la sua linea politica che cammina su un filo sospeso a mille metri d’altezza. Deve avere a che fare con Abu Mazen scartando, in uno slalom impossibile, Hamas, che tuttavia è ormai partner del Fatah. Difficile. «Non ho mai chiamato Abu Mazen “traditore”. Non taglierò i contatti con Abu Mazen, anzi, lavoreremo insieme, costruiremo. Parlare con Hamas, invece, mai. Ismail Haniyeh e Khaled Mashaal non hanno nessuna intenzione di trattare con Israele. Ma Abu Mazen è diverso, riconosce che esistiamo e si è pronunciato pubblicamente contro il terrorismo. Quindi, possiamo lavorare insieme». Olmert appare fragile, quando appoggia la sua strategia sul rapporto con un leader fragile che Hamas è deciso a usare come passepartout verso il mondo. Vuole accettarlo, ma non sdoganarlo al mondo. La sua buona volontà è insistente: lo scopo, dice, è marciare verso la creazione di uno Stato palestinese, che viva «in pace e sicurezza» a fianco del suo Paese. Si dice ancora fedele all’idea di ritirarsi dal West Bank nonostante Gaza, ma è costretto ad aggiungere che «alcune circostanze non hanno facilitato l’ulteriore sgombero. Missili kassam e terroristi suicidi, di cui l’ultimo bloccato ieri a Tel Aviv con la cintura di tritolo, sono una realtà.
Il cessate il fuoco fissato a novembre non è mai stato violato da noi, mentre le loro violazioni sono continue, terroristi, rapimenti e missili kassam». E allora in che spera Olmert? Nell’attesa, nel tessere, nella solidarietà internazionale. Così anche per l’Iran: l’Iran di Ahmadinejad è seriamente minaccioso, molto minaccioso, nessun Paese dell’Onu dovrebbe parlare con uno Stato che minaccia di morte un altro Paese della stessa organizzazione che non gli ha fatto niente. Ma le centrali atomiche sono meno avanti di quel che Ahmadinejad vorrebbe far credere, anche se più di quanto non si vorrebbe. Dunque, di nuovo, dialogo: oggi, dice, scade il termine concesso dalle Nazioni Unite per cessare dalla preparazione delle istallazioni nucleari, subito dopo si tratterà di rendere le sanzioni più importanti e operative sul piano economico e politico. Azioni militari? Dovrebbe risultare efficace lo sforzo diplomatico, se tutti lavoreranno di concerto.
Gli hezbollah, dice Olmert, ancora molto forti, sono tuttavia meno pericolosi da quando l’esercito libanese e l’Unifil sono sul confine del Libano, anche se continuano i rifornimenti iraniani di armi e denaro. Solo sulla Siria una dichiarazione precisa: se volesse davvero la pace avrebbe già cacciato via da Damasco i gruppi terroristici là di stanza. In realtà Assad pretende di essere devoto alla pace per proteggersi dalle accuse di aver ucciso Rafik Hariri. Olmert appare assediato, in definitiva, dalla jihad di Hamas e dagli hezbollah, ma alla ricerca di un’offerta. Abu Mazen contro Hamas, e l’Onu contro Ahmadinejad. Quanto di più insicuro.
L'illusione del dialogo
«Almeno ci siamo visti» ha detto Condoleezza Rice «speriamo di rivederci presto». Insomma, non è andata, e c’è da chiedersi cosa sarebbe successo se fin dal primo momento invece di fare politica alla vecchia maniera, ovvero illudendoci di spremere stabilità e pace da una situazione antitetica a questo concetto, gli Usa e l’Europa avessero detto a Abu Mazen, abolendo il buonismo speranzoso: è il tuo turno, non limitarti a puntare su un governo di coalizione con Hamas, da cui non otterrai altro che dispiaceri, dichiara la tua responsabilità, esponi l’idea che per ottenere uno Stato e il benessere si deve riconoscere Israele e rinunciare al terrore. Invece abbiamo preferito credere che fare il tifo per un governo di coalizione che calmasse le due fazioni che spargevano il loro proprio sangue nelle piazze di Gaza e della Cisgiordania, fosse di per sé garanzia; che un blocco in cui Abu Mazen sedesse insieme a Ismail Hanje, il primo ministro di Hamas, avrebbe finalmente predisposto il partito integralista islamico a comportarsi come un potere occidentale. E ancora ce lo aspettiamo.
Ci è di nuovo piaciuto sperare, mentre Condoleezza Rice arrivava in Medio Oriente. Gli Usa si sono ripresentati sempre alla ricerca di un successo mediorientale nella nebbia irachena, ma hanno usato una bussola di poco prezzo. Si è sperato che potesse ricominciare da qui la solita canzone: creazione di uno Stato palestinese, terra in cambio di pace sulla base del riconoscimento da parte della nuova coalizione Hamas-Fatah, ancora in fase di formazione, delle tre condizioni poste dal Quartetto. Riconoscimento dell’esistenza di Israele, lotta al terrorismo, riconoscimento degli accordi finora firmati fra palestinesi e israeliani. Adesso, esattamente come accadde all’indomani della vittoria di Hamas alle elezioni del gennaio 2006, si creerà di nuovo un clima di gentile possibilismo, che lascerà poi posto alla disdetta e allo stupore che seguì quando l’Europa si rese conto, in un mese, che Hamas non aveva nessuna intenzione di abbandonare il suo credo solo perché era arrivata al governo, e che dopo la distruzione dei templi e delle serre nella Striscia sgomberata, la nuova Gaza si armava fino ai denti nella prospettiva di una guerra con Israele.
Ieri, di fronte all’ennesima richiesta americana e israeliana di riprendere a parlare sulla base del riconoscimento delle condizioni del Quartetto, rifulgeva la verità accecante che la buona volontà di Abu Mazen non basta. Lui ripeteva di aver fatto quello che poteva, e che oltre non aveva potuto andare, e che chiedeva di dargli comunque fiducia. Una contraddizione in termini: perché se Abu Mazen alla Mecca è stato di fatto strumentalizzato da Hamas, non si vede proprio perché oggi le cose dovrebbero andare diversamente.
Alla Mecca l’accordo siglato, se lo si legge bene, altro non è che la messa in musica di due punti fondamentali dell’interesse di Hamas: il primo, smettere di spargere sangue in una guerra fratricida, e non è detto, nelle prossime settimane in cui si finalizzerà il governo, che possa funzionare; il secondo, disporre con la presenza di Abu Mazen e dei ministri del Fatah, di un gruppo dirigente che possa ricevere fondi dall’Europa e la legittimazione internazionale dopo il disastro del periodo Hamas.
Ma a legittimare Israele o cessare dal terrore, chi ci ha mai pensato? Khaled Mashal sul quotidiano Al Hayyat del 7 di febbraio ha dichiarato che questo tema non è mai neppure stato menzionato nella discussione della Mecca, e che la base dell’incontro tanto sudato è stato il “Documento di Accordo Nazionale” ovvero il “Documento dei Prigionieri” che si impegna a delineare uno stadio della lotta, quello della liberazione della Cisgiordania e l’istituzione dello Stato palestinese; solo, però, come premessa allo stadio successivo, quello del “diritto al ritorno” di milioni di palestinesi, che di fatto oblitera lo Stato ebraico.
Mashal spiegava anche che da ora in avanti «deve essere adottato un nuovo linguaggio politico che sia condiviso da tutte le fazioni... è una questione di esigenza nazionale». Un linguaggio buono anche per Fatah. Ma deve restare l’intenzione strategica, ripetuta come ha già fatto ieri Ismail Hanje nel commento all’incontro trilaterale: anche l’epos popolare, insomma, non deve allontanarsi dall’idea della riconquista di tutta la terra su cui sorge Israele.
Anche uomini del Fatah come Azam al Ahmed hanno confermato che la questione del riconoscimento di Israele non è mai entrata nella discussione della Mecca, e che né Hamas né per altro il Fatah sono stati richiesti di procedervi. Quanto al “rispetto” degli impegni presi dai precedenti governi, che si trova negli accordi, al Ahmed stesso ha spiegato che il PLO, l’ombrello che raccoglie tutte le organizzazioni palestinesi, può conservare i suoi obblighi, ma le varie organizzazioni possono invece conservare ciascuno la sua ideologia. Così, si crea la confusione per cui Abu Mazen potrebbe nel futuro trattare con Israele a nome dell’Olp, mentre Hamas, partner di maggioranza, di fatto non solo potrebbe conservare intero il suo disaccordo, ma anche agire con le sue armi, che tutti conosciamo, per distruggere gli accordi stessi.
Di nuovo, come ai tempi degli accordi di Oslo, si può ipotizzare realisticamente che una volta che fossero avviati da Abu Mazen su Gerusalemme e sui profughi, Hamas con l’aiuto anche di gruppi del Fatah come i tanzim e le Brigate di Al Aqsa, sarebbero pronti a lanciare una guerra come quella del 2001, per distruggerli. Ora Condoleezza ha dichiarato un “aspettiamo e vediamo” rispetto al governo che deve sorgere. Data la situazione di generale mobilitazione dell’islamismo mondiale, i contributi iraniani di decine di milioni di dollari a Hamas, l’impegno saudita per strapparli ad Ahmadinejad; Bashar Assad che si è appena recato in visita a Teheran e lancia proclami di comune guerra con il presidente iraniano; la mesta relazione dei servizi segreti dell’esercito israeliano che ieri hanno riportato che gli hezbollah sono già riarmati come lo erano prima della guerra (oh Unifil, dove sei tu?)... niente lascia immaginare un quadro di stabilizzazione in cui Hamas possa addivenire a quella tanto agognata “normalizzazione” che il mondo sogna. Fare una politica di pace fra Israele e i palestinesi non significa sognarla: guaio più grande non potremmo fare, sul piano locale e mondiale, che aiutare il governo a predominio di Hamas, fingendo di credere che parliamo con Abu Mazen.
I lavori sulla spianata
Di nuovo la spianata delle Moschee Al Aqsa e di Omar arde di presagi di scontri fatali, di giochi politici interni al mondo paletsinese e arabo, di nuovo la supposizione che Israele voglia impossessarsene o danneggiarla rischia di insanguinare il mondo. Lo spunto è quello della ricostruzione di un ponte che porta dal Muro del Pianto fino alla porta di Mugrabi, cento metri più in alto, e sostituire una passerella pericolante. Le manifestazioni hanno già raggiunto il Kashmir, dove venerdì si è svolta una violenta marcia per “salvare la moschea di Al Aqsa” minacciata dal “potere sionista”. L’eccitazione può diventare simile a quella causata dalle vignette su Maometto, e stavolta poichè lo spunto politico è legato a un simbolo religioso molto controverso e concreto, alla terza moschea nella scala dei luoghi sacri mussulmani (prima vengono la Kaasba alla mecca e la Moschea del Profeta a Medina) e mette in giuoco l’odio antisraeliano, sta diventando un’altra accusa del sangue. Il segnale più duro l’ha dato il discorso del capo del movimento islamico degli arabi israeliani Sceicco Raed Salah quando venerdì ha chiamato all’Intifada per “salvare” la Moschea e ha aggiunto che “la storia di Israele è inzuppata di sangue, gli ebrei vogliono ricostruire il loro tempio mentre il nostro sangue è sui loro abiti,sulle loro soglie, nel loro cibo e nella loro acqua”.
Qualsiasi cosa dica,quando gli inviati del governo Turco invitati da Ehud Olmert per verificare le accuse giungeranno davanti all’orrida passerella simile a una lunga pagoda vietnamita la spianata delle Moschee, troveranno quello che chiunque può constatare andando a vedere di persona: non c’è verità nelle accuse volte a Israele. Le Moschee, bellissime, se ne stanno sulla spianata tranquille, vuote di turisti perchè l’WAQF, che sotto il governo congiunto di giordani e palestinesi controlla i monumenti islamici e ne gestisce la conservazione e il management,ha deciso che solo i musulmani che vanno a pregare possono entrare, se non in casi particolari e selezionati (due settimane or sono sono entrata insieme a un gruppetto di giornalisti stranieri). Il ponte è del tutto fuori della Moschea, posa su territorio israliano, la causa della sua ricostruzione è legata a uno smottamento causato dalla neve che mette a rischio il Muro del Pianto, uno delle mura perimetrali, e non toccherà in niente la Spianata. Quello che però è evidente è che gli israeliani non rinunciano a mettere il naso, sia pure solo sulla parte di loro giurisdizione (fu Israele, comunque, a stabilire anche dopo che nel 67 Gerusalemme fu conquistata che l’WAQF avrebbe seguitato a essere la padrona di casa sui luoghi sacri) nella zona in cui, insieme al Muro del pianto, risiedono le maggiori aemorie archoelogiche di tutta la storia ebraica, dal regono di david fino alla cinquista romana e alla disctruzione del secondo Tempiuo, sotto e intorno la Spoianata delle Moschee.
Il piano di ristrutturazione del ponte avrebbe forse dovuto essere presentato al pubblico in maniera più articolata e ragionata, ed è per questo che il sindaco di Gerusalemme ha sospeso i lavori temporanemanente quando tutti hanno capito che la tempesta stava arrivando, ma anche se il piano fosse stato discusso per un anno, gli islamisti ne avrebbero fatto una scusa per scontri fatali in ogni caso, certo unificanti dopo gli scontri Fatah-Hamas. La passeggiata di Ariel Sharon nel 2001, autorizzata dall’WAQF, è stata fatta passare alla storia palestinese come una vicenda di violazione mortale che ha portato all’Intifada dei terroristi suicidi; l’apertura di un tunnel sotterraneo preesistente da parte di Netanyahu nel 1996 fu una causa di rivoluzione micidiale, con morti e feriti a decine da ambedue le parti. Adesso ecco un’altra storia fatale che non esiste.
Qual’è dunque la verità? “La verità “dice il professor Dore Gold ex ambasciatore di Israele all’ONU e capo dell’Jerusalem Center for Public Affairs autore di un nuovo libro su Gerusalemme “è che, dopo un lungo periodo in cui era pacifico anche per i mussulmani che le Moschee sorgessero dove un tempo sorgeva il Tempio degli Ebrei distrutto dai romani nel 70 dopo cristo ( ne troviamo ampia traccia nei loro scritti, e persino in un libro di Haj Amin al Husseini, il mufti che odiava gli ebrei tanto da diventare grande amico di Hitler) è stata infiltrata nella mente islamica la convinzione che quello sia un luogo di esclusiva appartenza mussulmana “dai tempi” così scrivono e dicono “della creazione del mondo, di Adamo ed Eva” e che la presenza ebraica stata inventata ai danni dell’Islam”. “La negazione dell’esistenza del Primo e del Secondo Tempio, oltre a essere ridicola”dice furioso il famoso archeologo Dani Barkay”è parte di una autentica degenerazione culturale post moderna, dove i fatti non contano ed è vero ciò che mi fa comodo. L’importanza di Gerusalemme, il fatto stesso che Cristo sia nato e sia stato crocifisso a Gerusalemme, che Mohammed abbia pregato epr un periodo volto a Gerusalemme, è legato al preminete potere temporale e spirituali deli ebrei e dei loro Templi. Pe me si tratta di un negazionismo ancora peggiore di quello di chi nega l’Olocausto, perchè non ci sono testimoni vivi nè fotografie, ne film a colpire la fantasie del pubblico, ma solo la follia della ripetizione della negazione di fatti noti e comprovati. Essa serve solo a delegittimare la presenza ebraica in Israele e a Gerusalemme”.La verità dei fatti ogni studioso e anche ogni persona di buon senso la sa, basata su testimonianze sia storiche (da Flavio Giuseppe allo storico greco Strabone, vissuti ambedue al tempo della distruzione del tempio, a una quantità di testimonianze che confermano le descrizioni bibliche) che di ritrovamenti archeologici. Se Arafat avesse visitato l’arco di Tito, in cui sono scolpiti le tragiche figure degli ebrei che portano a spalla candelabri e altri oggetti asportati dal Grande Tempio ebraico di Gerusalemme e marciano incatenati a Roma nel corteo trionfale dopo la conquista del tempio, forse avrebbe evitato la famosa figuraccia, quando, a Camp David, disse a Clinton che “il Tempio degli ebrei, tutti lo sanno, era un mito”. Clinton per la prima volta perse il sua proverbiale bonomia e lo apostrofò di fronte a tutti:”La diffido dal ripetere una simile stupidaggine, perfavore” disse sostanzialmente.
Sul Monte del Tempio (Ha ha Bait per gli ebrei, Haram el Sharif per gli arabi, ovvero Nobile Santuario)in genere identificato col Monte Moriah, il figlio di David re Salomone costruì il Primo tempio circa tremila anni fa, demolito poi da Nabucodonosor di Babilonia nel 586 a C. A Babilonia in un esilio già enormememtne pieno di quella nostaglia che destò, fra gli altri, la sensibilità di Giuseppe Verdi (“Va pensiero”..) gli ebrei tornarono a Gerusalemme e ricostruirono il tempio nel 535 che fu poi esteso dai re Seleucidi, gli Asmonei e poi nel primo secolo dopo Cristo da Erode Primo, che ne fece una delle meravilgie del mondo, oggetto di pellegrinaggi testimoniati in ogni dove. Gesù vi fece il suo bar mitzva e il suo pellegrinaggio con Maria e Giuseppe, e ancora si vedono gli scalini da cui salì al Tempio e le botteghe da cui cacciò i mercanti. Flavio Giuseppe racconta che il “Tempio era incredibile”, magnifico di marmi e di legni profumati, il Santo dei Santi in mezzo al terrapieno circondato da immense mura, intorno un porticato monumentale, più grande dell’Acropoli di Atene. La Bibbia descrive minutamente i luoghi, gli ornamenti, i riti. Erode fece costruire il terrapieno che oggi sostiene la spianata delle Moschee e di cui un fianco è oggi il Muro del Pianto, e nel cui ventre sono contenute probabilmente rovine che non si possono vedere se non in piccola parte camminando nelle gallerie che costeggiano il perimetro sotto terra. Dopo la grande distruzione romana e un periodo di abbandono e di ricostruzioni parziali durante le dominazioni bizantina, persiana, ummayyade, Abasside, dei Crociati etc, con la conquista mussulmana nel 638, poco più tardi la bellissima Qubbat al Sakra fu costruita su pianta ottagonale,un santuario e non una moschea, ricca di mosaici, vetrate, tappeti, colori affascinanti e sacre memorie del Profeta, che vi volò dalla Mecca sul suo cavallo Al Buraj. Nel ‘94 la cupola d’oro fu restaurata a spese dei giordani con i palestinesi padroni di casa della Spianata. La Moschea di Al Aksaa che sembra una grande basilica, fu costruita nel 1035, ornata di bellissimi doni di tutto il mondo mussulmano. La bellezza della grande terrazza è imponente, e si capisce bene l’amore dell’Islam per quello che essi ritengono uno dei loro loro luoghi santi fondamentali. Quello che non si capisce è il tentativo di obliterazione totale della presenza ebraica che pure grida la sua potentissima storia, dato che proprio là, sotto le belle moschee, il silenzio e il vuoto mistico del Santo dei santi,gridava il suo messaggio monoteista al mondo per la prima volta. Gli scavi archeologiic ebraici si concentrano tutti fuori del perimetro delle Moschee, mentre tonnellate di ogni tipo di rifiuti, in cui gli archeologi proclamano la indispensabile testimonianza e quindi, oggi, il disastro, sono stati scavati con ruspe e gettati a mucchi mentre l’WAQF ha compiuto i suoi scavi per costruire una terza moschea sotterranea, le “stalle di Salomone”. E’ pesante e sorprendente il silenzio degli organismi internazionali, che dovrebbero imporre con la loro autorevolezza una cooperazione archeologica che consenta alla cultura mondiale di accedere a tutte le possibili verità archeologiche e storiche.
Se Toaff fa il vampiro con gli ebrei
La politica estera non è un dettaglio
La politica estera non è, anche se a prima vista può sembrarlo, emendabile o negoziabile. Il governo non si illuda. È l’osso duro dell’anima, è una visione del mondo, è un ammiccamento che include o esclude da un universo morale che ti rende degno o indegno; è un vistoso veicolo di potere politico, su di essa si organizzano manifestazioni di massa che non costano niente anche a forze che la storia ha da tempo messo in crisi; sulla sua base ci si sente buoni e si distribuiscono facili accuse di aggressività e perfidia; si sanano i propri sensi di colpa verso il Terzo Mondo, si fanno litigate insanabili anche con vecchi amici.
Su Bush si schiuma, su Israele si fuma. Politica estera vuol dire dare libero adito a pensieri miserrimi come quelli che si figurano il Presidente degli Stati Uniti alla stregua di un cretino e i neoconservatori americani come cospiratori ebrei; questa politica estera lascia che affiori alla mente e sugli schermi televisivi l’idea che gli americani abbiano esploso da soli le Twin Towers o che Israele uccida apposta donne e bambini palestinesi, o che Hamas una volta al potere mostrerà una nuova ragionevolezza riconoscendo Israele, o che gli Hezbollah siano soprattutto una forza politica con cui trattare.
Politica estera può voler dire accucciarsi al calduccio della propria invidia verso Paesi con ideali e identità più saldi del nostro; rispolverare l’inconfessato desiderio di violenza rivoluzionaria; infischiarsene delle carceri di Cuba e dei dittatori che violano tutti i diritti umani in Paesi per cui un tempo sognavamo benessere e autodeterminazione; politica estera vuol dire ostentare scandalo al suono della parola «guerra» e con questo richiedere un applauso.
Dunque, al prossimo appuntamento col rifinanziamento della missione in Afghanistan, probabilmente non ci sarà altro da fare che constatare la potenza della politica estera come scelta culturale e politica irrinunciabile per la sinistra radicale, e allora sarà tempo di decisioni.
Ha ragione Francesco Rutelli quando dice: «La sinistra radicale ha passato il segno». Ma seguiterà a passarlo perché buona parte del consenso che raccoglie si basa sulla diffamazione degli Usa e di Israele, sulla convinzione che gli americani incarnino una politica imperialista e coloniale di dominazione del mondo. La sua base non la perdonerebbe mai se tradisse questi punti fermi.
L’antiamericanismo è un albero con radici assai profonde in Italia, da Mussolini a Bertinotti con in mezzo una schiera fittissima e variegata da Andreotti a Bettino Craxi, ha avuto ed ha molti alfieri. Cambiarla comporterebbe la volontà sia di scardinare i propri convincimenti ideologici che il proprio assetto conoscitivo della realtà internazionale, rendendoli molto più complessi di quello odierno. Si tratterebbe di attribuire la gravità necessaria all’attacco del terrorismo della Jihad armata, alla sua campagna d’odio che ha cambiato la cultura mondiale e che di fatto costringe quasi in tutte le parti del globo a tipologie diverse di scontro, che in alcuni casi sono una vera e propria guerra. E le guerre possono essere più o meno ben condotte, più o meno funestate dall’uccisione di civili sempre presenti nella guerra asimmetrica; può essere che gli Usa talvolta abbiano sottovalutato la forza dei nuovi eserciti terroristi. Ma, certo, non potevano evitare il combattimento come non potremo evitarlo noi una volta attaccati. E l’attacco contro tutto l’Occidente è già in buona parte attivo come si vede dalla proliferazione del terrorismo.
Questo può riconoscerlo la sinistra radicale? Pare improbabile, così come pare impossibile che questa sinistra riesca a mettere l’Iran al centro del rischio mondiale e della guerra terrorista, come è del tutto ragionevole fare; non ce la vedo a collocare il rapporto con gli Stati Uniti nel quadro di una indispensabile alleanza democratica e antiterrorista come è invece indispensabile oggi.
Se questo non avverrà perché mai l’ultrasinistra dovrebbe accettare il rifinanziamento della missione in Afghanistan? Quando si giungerà a quel voto le contraddizioni in seno al governo devono essere lasciate affiorare in tutta la loro importanza per due motivi. Il primo, idee balorde come quelle dell’ultrasinistra in politica estera non devono essere parte di una alleanza di governo che si rispetti. Non siamo in Venezuela qui. Gli «Hezbollah abbraccetto» devono restare un disgraziato episodio, anche per il bene di una sinistra moderna.
E, in secondo luogo, perché la missione in Afghanistan non sembra avere nessuna chance di svanire nell’aria con una crisi politica. La sua ragionevolezza costringerà qualsiasi governo a rifinanziarla quanto prima.
I kamikaze palestinesi tornano a colpire Israele
È un attacco terrorista molto particolare e carico di pessimi pronostici quello che ieri ha riempito di orrore e di sangue la cittadina di vacanze di Eilat, dove il mare e il cielo di un blu assurdo si incontrano col giallo del deserto del Negev. Alle nove e mezzo di mattina in una panetteria situata al sud della città in una zona di acquisti è entrato un ragazzo giovane e di strano aspetto, la giacca scura rigonfia e abbottonata in una giornata in cui tutti indossavano soltanto la maglietta. Prima che i giovani padroni del negozi potessero rendersene conto, era fatta: un boato, il sangue, le grida. Tre morti oltre al terrorista suicida, Mohammed al Saqsaq, 21 anni, della cittadina di Beith Lahia a Gaza, erano stati ormai smembrati, colpevoli soltanto di essere andati a comprare il pane. Al Saqsaq era stato trasportato ai margini di Eilat da un colonnello delle Riserve che, dandogli un passaggio, si era insospettivo per il suo atteggiamento e la giacca chiusa. Il colonnello ha avvisato la polizia: è possibile che il terrorista si sia fatto esplodere quando ha udito le sirene delle forze dell’ordine. L’attacco è stato rivendicato soprattutto dalla Jihad islamica, una organizzazione piccola, radicata sia a Gaza e in Cisgiordania e con sede a Damasco, completamente legata all’Iran, ai suoi fondi, ai suoi ordini. Ma anche le Brigate di Al Aqsa, ovvero la mano terrorista del Fatah l’ha fatta sua, oltre a un’altra nuova organizzazione, «L’esercito dei credenti». Un segnale di unità che potremmo chiamare laico-religiosa intesa che vuole dare un’indicazione ai palestinesi in guerra fra di loro. Dice: uccidiamo gli israeliani invece di proseguire la guerra fra di noi.
Quello di ieri è un attacco che segna la ripresa dopo nove mesi dell’uso del terrorismo suicida, nove morti a Tel Aviv: Ehud Olmert, il primo ministro israeliano, ha detto: «Ci eravamo illusi ormai che ci fosse una certa quiete». Il nuovo attacco forse segna davvero la fine della tadiah, una sorta di tregua parziale che se non ha impedito il lancio dei kassam da Gaza e la risposta israeliana, pure ha trattenuto le parti in causa da una guerra più larga. Adesso sia Avi Dichter, il ministro degli
interni ex capo dei servizi segreti, lo Shin Beth, che il ministro della Difesa Amir Peretz dichiarano che i terroristi non troveranno rifugio in una tregua che non esiste, e che quindi la guerra può allargarsi.
In secondo luogo, la rivendicazione del portavoce della Jihad islamica, con la maschera nera e il mitra, ha spiegato le sue intenzioni: «Ci siamo tirati indietro per dare a Hamas e Fatah la possibilità di trovare un accordo. Visto che non hanno raggiunto niente a livello governativo - ha aggiunto letteralmente - ci siamo votati di nuovo alle operazioni di martirio». Ovvero: per rispondere alle loro stragi interne (si calcolano fino a 60 uccisi) la Jihad propone un’ulteriore escalation, a spese di Israele: fermare il sangue dei contendenti col sangue innocente delle vittime del terrorismo. Può darsi che funzioni. Qualche giorno fa anche Abu Mazen in un comizio invitò i palestinesi a puntare i fucili non l’uno contro l’altro ma tutti contro il «nemico sionista». Anche il portavoce di Hamas considera come un fatto «naturale» attaccare i civili israeliani.
Mohammed al Saqsaq è entrato, così sembra, dall’Egitto: ciò significa che da Gaza ha potuto passare nel Sinai; là ha potuto viaggiare, certo in auto, lungo il confine israelo-egiziano fino a trovare l’ingresso. Era quasi certamente armato e accompagnato. E chi è stato in Egitto sa che il regime può essere molto determinato quando si tratta di controllare ingressi e strade. Qui non lo è stato.
Infine, il suicida viene da una famiglia militante, e pare che, fatto inusuale, avesse avvertito due giorni prima la madre e il fratello Naim. La madre, senza una lacrima e affaccendata nella tenda di onore che sempre si prepara per i parenti e gli amici dello shahid, fra cui bambini certo indottrinati con l’esempio di Mohammed al Saqsaq, si è detta fiera e desiderosa che tutti i suoi figli diventino «martiri», e ha rivelato che il figlio le aveva confidato quello che voleva fare.
Sui sentieri della parte egiziana del Sinai che costeggia Israele in questi ultimi tempi hanno tentato la fortuna verso Israele col loro carico di tritolo un centinaio di terroristi in un anno. Sono strade percorse da Al Qaida, da vari fornitori di armi e di uomini di varie provenienze che con l’aiuto iraniano promuovono la trasformazione di Gaza in una fortezza sullo stile di Hezbollah: è la solita orchestra terroristica internazionale, ormai tentacolare e ricca, che ieri ha messo nel carniere due poveri panettieri e un lavoratore nella città di vacanze di Eilat.
Attenti, la Shoah può ripetersi anche domani
Questo Giorno della Memoria ha un titolo brutale nella sua concretezza, non è fatto solo di dolore, di stupore, di storia: si chiama «Gli ebrei sono di nuovo minacciati di sterminio», e punta un faro accecante su Mahmoud Ahmadinejad, presidente dell’Iran. Lo conferma anche la risoluzione votata ieri a larghissima maggioranza dall’Onu, che isola il regime degli ayatollah, condannando la negazione della Shoah, oggi la sua principale arma ideologica e strategica.
La memoria della Shoah fino ad oggi non ha avuto la capacità di evitare il ripetersi di altri genocidi, il motto «never again», «mai più» che diventò la bandiera del mondo democratico uscito dalla seconda guerra mondiale, non ha funzionato. L’Onu, basato sulla Carta dei Diritti dell’Uomo, che doveva essere lo scudo di difesa contro ogni discriminazione, ha fatto invece da amplificatore di dinamiche perverse che hanno semmai offerto rifugio all’antisemitismo e al fanatismo ideologico. Basta guardarsi intorno per vedere che dalla Cambogia al Darfur, si sono potuti e si possono sterminare uomini donne bambini innocenti senza che nessuno alzi un dito, per pavidità e o convenienza politica. Oggi persino gli ebrei, dopo quello che hanno attraversato nel passato e che sembrava anatema a qualsiasi ulteriore discriminazione e persecuzione, sono di nuovo soggetti a molteplici promesse di sterminio, quelle potentissime e ben attrezzate dell’Iran e degli Hezbollah, quella sempre meglio armata di Hamas, quella di Al Qaida e, nel sottofondo, quella di tutto l’antisemitismo anti israeliano delle chatting classes che dicono sulle riviste alla moda, nelle accademie e nei salotti: «Israele è stata un errore». Secondo un gruppo di studio di Yad va Shem, il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, ci sono nel mondo 46 punti caldi dove sono in corso o ci si possono aspettare esplosioni di odio genocida: Zimbabwe, Burma, Congo, in Macedonia dove per ora il fuoco è stato spento dall’Europa e la Nato, a Sumatra, in Indonesia...
Dice il professor Yehuda Bauer, direttore di Yad va Shem, che ogni popolo è genocida in potenza, ma che la massa d’odio bene armata e presto dotata di bomba atomica della jihad ha precedenti solo nel nazismo. E aggiunge Nathan Sharansky, l’ex dissidente sovietico in seguito ministro in Israele, che oggi l’opinione europea per cui Israele deve sparire, è più larga di quella che nel 1939 era a favore del programma nazista di espellere gli ebrei dal Vecchio Continente. Il fatto che la maggior parte degli ebrei sia oggi raccolta in una piccola area circondata da nemici, suscita la fantasia realistica di poter condurre a un fine concreto il più lungo odio del mondo, e più volte infatti l’Iran ripete che spazzerà via Israele con un solo colpo, che per l’Iran e per il mondo musulmano, così grandi, vale comunque la pena. Ahmadinejad, il cui fine ultimo è far giungere su questa terra il Dodicesimo Imam, il Mahdi, per portare il mondo alla redenzione, non è affatto pazzo nonostante la sua convinzione messianica: l’antisemitismo totale è una chiave egemonica molto efficace per gli sciiti e i sunniti tutti.
Non c’è bambino musulmano che non venga allevato nell’idea che gli ebrei sono «cani e scimmie»: basta accendere una qualsiasi tv orientale. La piccola Basmallah, in Iran, lo ripete all’intervistatore, che la loda entusiasta; le strade di Gaza mostrano, filmati dalla Bbc, bambini che ripetono che gli ebrei sono mostri assetati di sangue e che vogliono farsi martiri della guerra per distruggere Israele; a un dibattito televisivo in Bahrein famosi intellettuali dibattono perché «il tradimento sia parte della natura di quella razza», in Egitto, in Siria, in Libano, le tv mandano in onda serial in cui la teoria della cospirazione e quella del sangue vengono plasticamente rappresentate per decine di puntate, con ebrei che tagliano il collo ai bambini per ricavare sangue per le azzime di Pasqua, e Theodoro Herzl che raccoglie soldi nei bordelli; I Protocolli dei Savi di Sion sono ovunque best seller. Ahmadinejad non si limita alla propaganda: il Daily Telegraph ha riportato ieri che un accordo con la Corea del Nord gli consentirà di sperimentare la bomba atomica entro un anno; l’acquisto di missili antiaerei russi Tor M-1 dimostra che il Paese degli ayatollah si prepara alla guerra, mentre pare sia completato il riarmo degli hezbollah e l’esercito privato di Hamas, ambedue organizzazioni impegnate a distruggere lo Stato d’Israele.
Una schiera di intellettuali e politici occidentali partecipa alla propaganda di delegittimazione: il sindaco di Londra Ken Livingstone, dice che Israele non deve esistere; Steve Walt e John Mersheimer, due professori di Yale, firmano uno studio per cui la lobby ebraica guida la politica estera americana; Jostein Gaarder l’autore di Il segreto di Sofia, vuole vedere Israele sparire; i politici europei non si peritano di affermare che Hezbollah e Hamas non sono realtà terroriste anche se da soli si dichiarano antisemiti militanti (rimando alla Carta di Hamas)...
Nel Giorno della Memoria di quest’anno le riunioni e i discorsi forse hanno qualche significato in più rispetto al consueto reciproco certificato di buona condotta che i vari partecipanti alle cerimonie attribuiscono l’una all’altra: le ragioni sono due. Quella della discussione sulla proibizione della negazione della Shoah, e le affermazioni del presidente Giorgio Napolitano sull’identificazione di parte dell’antisemitismo contemporaneo con l’antisionismo. Su questo, chi per anni ha sudato a dimostrare l’evidenza del teorema, non può che sentirsi un po’ meno solo.
Quanto al negazionismo, le discussioni sulla libertà di opinione sembrano inutili: non di opinioni sulla Shoah si tratta, non si chiede se fu bella o brutta, ma se avvenne. E mai evento storico fu più provato, i testimoni sono ancora, grazie al Cielo, con noi; le foto, i documenti, non si limitano a parlare, gridano: il negazionismo, specie quello delle scuole chiamate «madrasse», è una forma di incitamento; una bugia, non un’opinione. Oggi è l’arma strategica che minaccia tutto l’Occidente, strumento di una guerra non solo contro gli ebrei.
Se vogliamo davvero dunque dire «mai più», se la Memoria deve sopravvivere e guidarci, il compito è duro. La strada è quella della politica e della diplomazia al momento; e domani, non sappiamo. Comunque, è semplice: si tratta di combattere Ahmadinejad e i suoi.
Katzav, il sogno di Israele diventato vergogna
Scandalo, stato di choc, disgusto, è dir poco quando si parla dell’angoscia di Israele da quando ieri l’Avvocato dello Stato Dani Masus ha prospettato l’incriminazione del presidente della Repubblica Moshe Katsav addirittura per stupro oltre che per molestie sessuali con abuso di potere nel posto di lavoro, frode nell’acquisto col denaro pubblico di doni privati, ostruzione della giustizia. È da luglio che i giornali corrono dietro a Aleph, la prima delle impiegate della Presidenza che ha accusato Moshe Katzav di malcomportamento sessuale, e dopo di lei se ne sono aggiunte ben altre nove, fra cui una segretaria che lavorava al ministero del Turismo quando nel 1998-99 Katsav siedeva in quel ruolo, che l’ha accusato di averla proprio stuprata. Delle dieci che sono andate alla polizia, quattro sono state ritenute credibili. Gli avvocati del Presidente dicono che egli combatterà fino all’ultimo, che il pubblico non deve giudicare prima di sapere bene che cosa dicono le accuse, che si ignora se le donne di cui non si conosce l’identità siano credibili, e che il Presidente combatterà fino all’ultimo per provare che tutte le accuse contro di lui sono una fabbricazione malvagia. Gli avvocati del presidente David Lib’ai, un ex ministro principe del foro, ha ripetuto ieri che ancora l’avvocato dello Stato Mazouz non ha deciso fino in fondo se incriminare il presidente, e che potrebbe ancora ricredersi. Ma data l’accuratezza della lunga indagine di Mazouz, l’insistenza con cui per ben sei volte gli inquirenti sono tornati a interrogare l’accusato nella casa presidenziale nel centro di Gerusalemme del presidente, sempre più triste e sola via via che i mesi passavano, Katzav che domani parlerà, ha un bel dire: la gente, laCamera dei Deputati, si aspettano quasi disperatamente che finalmente, dopo aver resistito sulla sua sedia per più di sei mesi da quando si è aperta la vicenda, il presidente si decida a dimettersi così da permettere alla giustizia di compiere il suo corso. Se questo non dovesse accadere, occorrono novanta firme dei 120 membri del Parlamento per dimettere il presidente. Ma tutti, e specialmente la gente d’Israele, si aspetta che l’uomo sgomberi il posto di rappresentanza così importante per un Paese sempre attaccato, sempre controverso, spesso in guerra con nemici che fra l’altro in queste ore trasmettono con tono sprezzante e satirico le notizie su Katsav. «Vorrei chiedergli nel nome dei miei figli di dimettersi quanto prima, che smetta di riempire la nostra vita con tutta questa oscenità, con queste volgarità senza senso» mi dice al telefono un’amica che ha quattro figli di cui due nell’esercito. Questa richiesta risuona nei mercati, nelle scuole, nelle strade. Tutti si guardano l’un l’altro e dicono: «Che vergogna. Speriamo che si dimetta subito ». Per capire quale dolore porti la vicenda all’israeliano medio, bisogna comprendere sostanzialmente due punti: il primo riguarda Katsav stesso, che divenuto nel 2000 presidente a soli 54 anni, era nato nel ’45 in una città iraniana, aveva patito la fame con i suoi fin da bambino (era immigrato con la famiglia fuggendo alle persecuzioni a sei anni), aveva lavorato per costruire con le sue mani, insieme agli altri poveri immigranti pieni di fede nel futuro nella nuova nazione ebraica, le case e le strade di Kiryat Malachi, la cittadina di cui era diventato sindaco a soli 24 anni, eletto nelle file del Likud. Da allora, in un coppia che sembrava di ferro insieme a Ghila, un’insegnante piccola e grassoccia, che ha sopportato tutto con dignità e poche cadute di tristezza, che non ha mai abbandonato il suo uomo, ha ricoperto varie cariche ministeriali, ha incarnato il sogno di emancipazione di tanti ebrei mediorentali profughi dai Paesi d’origine, un sefardita quieto e signorile, una figura pacificante, un religioso senza fanatismi. Forse il suo basso profilo, il suo tono troppo basso, e qui veniamo al secondo punto, strideva tuttavia con la storia di grandi anime che sono state nel passato presidenti dello Stato di Israele, leader originali, speciali, simbolici della creativa del nuovo stato: i primi nomi che vengono in mente sono quelli di Chaim Herzog, una figura torreggiante come intellettuale e fondatore del sionismo, Yzchak Ben Zvi o Zalman Shazar, pionieri e saggisti autori di libri di storia e di teoria; oppure scienziati, politici, soldati, come Ephraim Katzir, Yzchak Navon, Ezer Weizman. Katsav con la sua storia di sacrifici che piaceva al popolo aveva battuto 67 voti a 53 la candidatura di Simon Peres, a sua volta un gigante, e aveva lasciato tutti stupefatti. Che dire oggi? Quando la storia esplose, era fresca la delusione per una classe dirigente che non aveva saputo vincere la guerra del Libano, e Katsav si è come confuso, mimetizzato nel senso di crisi generale che ha offuscato il Paese per diversi mesi. Adesso quel tempo ha ceduto il passo a un’accanita determinazione di emendarsi per prepararsi alle prossime sfide, come si vede dalla sostituzione rapida del capo di Stato Maggiore appena dimessosi con quello nuovo, Gabi Ashkenazi, e dalla dura messa in discussione anche di Olmert e di Amir Peretz. Israele chiede a gran voce che il Presidente metta via la maschera del business as usual che ha mantenuto fin qui, e che ceda alla richiesta della gente, che si lasci processare. Che si dimetta. Quando avrà luogo, non sarà un processo facile, si svolgerà probabilmente a porte chiuse, ma in Israele tutte le porte chiuse sono aperte alla stampa, e del giovane presidente che aveva tanto sofferto e che rappresentava una speranza per tanti che come lui hanno sudato e sanguinato per costruire Israele, si parlerà molto ancora, nei particolari certo, e inmodoscioccante. È ironico e triste ricordare il suo augurio all’inizio del suo mandato: «Con l’aiuto di Dio, cercherò di influenzare per il bene».