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Tra ebrei e cristiani legame oltre i Papi

giovedì 24 aprile 2025 Il Giornale 2 commenti
Tra  ebrei e cristiani legame oltre i Papi

Il Giornale, 24 aprile 2025

Quando nel 1958 morì Pio XII, Papa Pacelli, il cui silenzio sulla Shoah era stato discusso in lungo e in largo, già lo Stato d’Israele, l’Anti Defamation League e il World Jewish Congress oltre a molti altre istituzioni ebraiche, approdavano a posizioni dubbiose, meno dure, meno convinte della responsabilità della Chiesa nella tragedia di cui, per altro, oggi in Israele si celebra la memoria in ogni angolo dello Stato degli Ebrei, con Israele, gli ultimi sopravvissuti, 200mila in tutto il mondo, 120mila in Israele. La condanna del Papa si fece meno dura, ma restarono con la memoria il dubbio e la discussione. Così, su quello che un famoso titolo definì “Il Papa di Hitler” si sono elaborate formule graduate di responsabilità. Però la responsabilità si connette, poco da fare, alla responsabilità storica della Chiesa nelle molteplici persecuzioni antisemite culminate nella Shoah. Tutte hanno intessuto miti di criminalizzazione del popolo ebraico, secondo la teoria antisemita della sostituzione. Gli ebrei per i crociati, per la Spagna cattolica, per i Papi che rotolavano nella pece e nelle piume gli ebrei del ghetto, e anche i roghi, i pogrom dell’est Europa... la matrice cristiana è sempre stata chiarissima e patente. Per questo Papi grandi e convinti che l’amore per la libertà a fronte dell’autoritarismo fascista, comunista, islamista venga dalla forza della tradizione ebraico cristiana fecondata dalla storia dell’occidente greco, hanno avuto molta cura del rapporto con gli ebrei, quelli dispaorici, quelli dello Stato d’Israele.
 
Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, hanno pensato e agito per questo. Papa Bergoglio, con la sua provenienza latinoamericana, la sua passione per il tema dell’immigrazione mista a quella degli oppressi ha privilegiato il rapporto molto contemporaneo e politico, immediato, col movimento di massa che ha preferito i palestinesi allo Stato Ebraico nella schematizzazione corrente. Ha visto i palestinesi come oppressi, Israele come oppressore. Ma era un errore fatale anche se si capisce il perché: è da tanto tempo che questo avviene, dal 1945. L’ideologia che poi si è riversata nell’ONU, nelle ONG, nel movimento woke oggi, su suggerimento comunista all’inizio, e poi sessantottino ha creato una potente mitologia demonizzatrice. Ci sono grandi masse che scambiano i diritti umani con l’idea che l’Occidente sia colpevole, che vada vituperato e affossato, in nome di principi superiori. In nome dei poveri. Ma i poveri non sono là: i violenti lo sono. La Chiesa sa che il mondo ebraico, compreso quello israeliano, è oggetto di un attacco violento. E la sua responsabilità storica verso questa minoranza perseguitata è una stella polare anche teologica. Gli ebrei sono comunque “fratelli maggiori”, e non hanno “tendenze dominatrici” come ha detto una volta Francesco, né sono sospettabili di  “genocidi”.
 
Francesco, suggerendolo ha pensato di servire gli oppressi, ma l’oppresso è Israele, su sette fronti diversi, dal 1948. E’ bene che il presidente Herzog abbia mandato le sue condoglianze, Israele è una nazione fra le altre, non importa se Hamas ha espresso il suo intenso dolore per la morte di Francesco, Israele sa che la Chiesa non appartiene a quello schieramento, né mai gli apparterrà. Sta con la libertà e la democrazia, come Israele e il mondo ebraico. I cattolici sono fratelli degli ebrei, il Vaticano fratello dello Stato ebraico in quanto occidentale. E’ giusto anche che il rabbino capo di Roma camminando le vie della città secondo le regole del Sabato, ritenga doveroso seguire il funerale. E’ gentile, è fair, è diplomaticamente consigliabile e sensato. La comunità ebraica che vive a Roma, è profondamente romana. In nessuna parte del mondo, un ebreo avvolgerà Gesù bambino nella mangiatoia in una bandiera con la Stella di David anche se Gesù era ebreo: nessuna appropriazione è legittima. Dovrebbe altrettanto dispiacere la menzogna evidente di un bambin Gesù avvolto nella kefiah, niente può essere, ieri ed oggi, più falso.
La fratellanza giudaico cristiana si basa sul valore della libertà. La prima libertà è quella di difendere la vita:bastava guardare le immagini terribili del 7 di ottobre, l’attacco degli zombie che urlavano “Allah hu Akbar”, mentre uccidevano gli ebrei per capire  dove stava il bene e dove il male. Il funerale è un saluto, non costa molto dedicarne uno a quel Papa, ormai malato e stanco, sperando nella ripresa, presto, di un dialogo indispensabile. Sul bene, e sul male. Il rapporto fra Ebrei e Cristiani prescinde da qualsiasi Papa. 

Israele in subbuglio contro Bibi. Bar ultima scusa per spodestarlo

mercoledì 23 aprile 2025 Il Giornale 0 commenti
Israele in subbuglio contro Bibi. Bar ultima scusa per spodestarlo

Il Giornale, 23 aprile 2025

 
Lo chiamano rivoluzione il sommovimento interno, la vertigine sotterranea continua che caratterizza la storia di Israele in questi lunghi mesi quanto la guerra su sette fronti. E’ una guerra sull’ottavo fronte contro Benjamin Netanyahu condotta da un vasto ambito di leader e di intellettuali anche di fama internazionale, e anche di soldati, che si ritengono offesi dal fatto che il modello Ben Gurion che ha creato tanti eroi liberali, soldati e contadini, studiosi di notte e di giorno alla difesa del confine, siano stati sostituiti per così tanto tempo da un leader certo di grande famiglia, di gravitas militare e intellettuale, ma di destra nella certezza che il popolo ebraico nel suo insieme, anche nella parte religiosa, abbia come compito principale soprattutto la difesa e lo sviluppo dello stato che compie 77 anni proprio in questi giorni e che è in pericolo di vita. La rivoluzione contro il primo ministro scelto da 11 anni dalla gente del popolo, dagli intellettuali, dai soldati, dagli economisti conservatori, da chi vuole riformare la struttura giudiziaria che è una bandiera della sinistra, ha trovato negli ultimi due giorni un nuovo capo determinato a guidare le folle dopo aver invece guidato per tanti anni i servizi segreti dell’interno, lo Shin Beth. Ronen Bar dopo essere stato licenziato ha consegnato un affidavit alla Corte Suprema, che ha dato molti segni di non sopportare Netanyahu e ha rimandato il licenziamento di bar. Netanyahu consegnerà un documento contrario giovedì. Quello di Bar è una dichiarazione di sfiducia e di accusa personale e politica cui già l’amplissimo fronte anti Bibi nel mondo si affretta a affiancarsi: si sa, Bibi è accusato di tutto, il contesto pacifista internazionale ne fa una figura che rifiuta di concludere la guerra per istinto bellicistico e opportunismo. Gli si contesta sempre una scarsa sensibilità verso i rapiti: ma la verità è che Netanyahu cerca, noncurante del governo dato che una volta senza problemi si è già giuocato l’uscita di Ben Gvir, di combattere Hamas fino alla vittoria mentre cerca con tutte le forze disponibili di recuperare i rapiti. Hamas non si accuccerebbe, non restituirebbe i rapiti di fronte a un cedimento, ma preparerebbe il prossimo 7 ottobre. Di fatto Bibi ha tolto la fiducia a Bar quando è stato chiaro che peggio non avrebbe potuto affrontare il 7 di ottobre, senza capire, reagire, avvertire. Lui stesso l’ha dichiarato.
 
I rapporti si sono fatti  sempre più tesi a causa di rivelazioni alla stampa di cui i due uffici si sono accusati, Bar ha fatto le mosse di attacco aspettandosi il licenziamento, ha approvato un’inchiesta, in cui il PM non è coinvolto, sul rapporto fra impiegati dell’ufficio del primo ministro e il Qatar,e poi ha accusato Netanyahu di volerlo licenziare per questo, mentre la decisione era presa da tempo. Bar dichiara nel suo affidavit anche di avere avvertito Netanyahu alle 5,15 di mattina dei movimenti sul confine; afferma di aver ricevuto dal Premier la richiesta di coprire la richiesta di non recarsi tre volte a settimana al processo a lui intentato; lamenta che Bibi gli abbia chiesto di sorvegliare cittadini coinvolti nelle manifestazioni di protesta contro di lui, facendo così dello Shabbah, dice Bar, una polizia personale. Sono accuse che fanno scudo a Bar che certo soffre per le spaventose responsabilità nel 7 di ottobre. Ha capito che la sua personale frustrazione era coperta dalla rabbia politica di Ehud Barak, Carmi Gilon , Avichai Mandelbit... alta nomenclatura, esempi di  centinaia che con la stessa determinazione accusano Netanyahu di essere un dittatore e ne chiedono la rimozione.
 
Netanyahu ha dichiarato che tutte le bugie verranno smontate: Bar, dice, ha fallito al cento per cento nel compito di avvertire lui e Gallant, la telefonata arrivò solo alle 6,15. Bar, si sostiene, ha detto che Bibi voleva cacciarlo molto prima del Qatargate; e Netanyahu chiese non di aiutarlo a posporre il processo, ma dopo le continue minacce di morte e i due missili sulla sua casa, di spostarlo in un luogo sicuro. Bar accusa Netanyahu di averlo voluto usare nello studiare le mosse dei leader della piazza, ma si sa che lo Shabbach ha sempre indagato i movimenti di destra come di sinistra, al tempo che Carmi Gilon era capo dello Shabbach Rabin fu ucciso da un fanatico di destra, nessuno vuol tornare a quegli errori fatali. Lo squillo di tromba di Bar comunque avrà l’eco che si aspetta, Netanyahu ancora deve stringere i denti sui sette fronti di cui non lascia la resa. Trump ieri gli ha telefonato per dirgli che gli USA sono con Israele: chissà se intendeva sull’Iran. Questo è quello che deve importare veramente a chi tiene a Israele    

 

Il senso della Pasqua di un popolo in guerra

sabato 12 aprile 2025 Il Giornale 2 commenti
 Il senso della Pasqua di un popolo in guerra

Il Giornale, 12 aprile 2025

“In ogni generazione qualcuno si leva per la nostra distruzione, ma Dio e lo spirito dei nostri combattenti ci salverà sempre”. Ripete anche questo il “seder” di Pasqua, Pesach, ovvero uno dei riti più antichi della storia della civiltà, in mezzo a mille altre verità sempiterne: ricorda, ricorda sempre chi eri per sapere chi sei, fummo schiavi e oggi e come se tu fossi uscito dall’Egitto. “Figli della libertà”, dobbiamo comportarci senza perdere mai di vista ciò che fummo, ripete il testo della Agadà, in cui si ripercorre la storia di come Mosè portò il popolo ebraico fuori dall’Egitto verso la libertà pratica e concettuale non solo dei suoi, ma del mondo. La libertà, l’etica, le società democratiche su di esse basate, definiranno nuovi confini grazie alla Torah, la Bibbia, quando Mosè nel deserto riceverà i dieci comandamenti dei quali oggi viviamo. Stasera intorno al tavolo le famiglie ebraiche portano con sé dolore e aspettative insieme all’ immensa determinazione a superare anche questa: “Abbiamo passato il Faraone, supereremo anche questa”, dice il testo mentre si spezza l’azzima che ricorda come il mare si aprì per il più folle dei miracoli, e sommerse l’esercito egiziano. E tutti gli ebrei del mondo con gli uomini di buona volontà avvertiranno il vuoto e pregheranno insieme per il ritorno dei rapiti e per i soldati che a Gaza combattono per loro e per sgominare definitivamente un nemico il cui odio per gli ebrei non ha limite in nessuna trattativa.

Mentre si bevono i quattro bicchieri del rito, da una parte si pensa alla odierna, nuovissima trattativa fatale fra gli americani e gli iraniani che dovrebbe, forse, portare a un accordo per la distruzione delle strutture nucleari, oppure allo scontro inevitabile, se il potere  messianico e brutale degli Ayatollah non abbandona il disegno ripetuto fino all’ossessione di distruggere Israele e il mondo occidentale. Dall’altra parte si tenta, sempre nelle ore di Pesach, di bloccare una mortale strada di collisione con Erdogan, il premier turco che adesso cerca di una base fissa in Siria per prendere possesso di una terrazza che lo doti di un inusitato potere di minaccia su Israele. La guerra, anche se gli Hezbollah e i Houthi sono indeboliti, è tuttora, a Pesach,nel calendario ebraico mentre si disegna la speranza di un mondo di rinascita. Gli Israeliani fra assassinati il 7 di ottobre e soldati uccisi hanno superato i duemila morti in un anno e mezzo, una cifra enorme per dieci milioni di abitanti. Le storie di incredibile valore che ogni giorno vengono alla superficie, di ragazzi che hanno scritto ai genitori o alla loro amata lettere in cui la consapevolezza, a volte la certezza finale, di rischiare la vita è unita alla volontà invincibile di non volere rinunciare a questo onore, è un unicum nella storia moderna.

Il rifiuto che essi combattono non è solo odio per Israele, ma per il mondo ebraico nel suo insieme: l’aggressione dell’antisemitismo politico rappresenta un pericolo di vita per tutti gli ebrei, ma oggi, al contrario che nel passato, ha di fronte i giovani leoni d’Israele. Il 96 per cento degli ebrei del mondo, scrive Nathan Sharansky, celebrano il seder di Pesach seduti al tavolo della tradizione nonostante la guerra. Sfidano la tempesta. Non rinunceranno mai. Abbiamo superato il faraone, supereremo anche questa.   

L' Iran con l'atomica è la minaccia globale

giovedì 10 aprile 2025 Il Giornale 0 commenti
L' Iran con l'atomica è la minaccia globale

Il Giornale, 10 aprile 2025

Buona parte dei media l’ha preso per una scena su cui fare un po' di spirito: Netanyahu si aspettava una grande accoglienza da parte di Trump dopo che l’aveva invitato a casa sua, e poi se non preso in giro, è stato messo in sottordine. Non gli ha dato lo sconto sui dazi, ha detto a un tratto che avrebbe cercato un accordo con l’Iran, l’ha lasciato secco. Quanto sia sbagliata questa valutazione l’hanno capito molto meglio dei media occidentali gli Ayatollah, che negli ultimi giorni hanno elevato misure di difesa armata in tutto il Paese, hanno dato interviste e fornito rifiuti a colloqui diretti, hanno minacciato di rappresaglie i Paesi arabi che forniscano basi di attacco contro Teheran, hanno cercato per la prima volta di mandare missili Jamal 69 che possono raggiungere l’Europa ai suoi proxi iracheni proprio mentre gli americani gli impongono il disarmo. Intanto, nella base in mezzo all’Oceano di Diego Garcia i bombers 6B sono stati parcheggiati con altre armi letali di lunga portata. Gli iraniani dal 2015, quando furono ripristinate le sanzioni mentre si aboliva l’accordo con Obama, sanno che è grazie al fatto che Netanyahu ha messo in testa al suo lavoro di salvaguardia dello Stato d’Israele la distruzione del loro programma nucleare; adesso la visita di Netanyahu alla Casa Bianca, tre giorni or sono, può essere il possibile epilogo della vicenda alla vigilia dell’assemblaggio della bomba, ormai agli sgoccioli.
 
Netanyahu e Trump sanno ambedue che la decisione iraniana di considerare la distruzione di Israele un caposaldo, non è dovuta né a biasimo né a odio personale: è la fede sciita che disegna la guerra all’Occidente, alla civiltà e alla cultura giudaico cristiana, come un imprescindibile dovere dello Stato Islamico, che prepara la redenzione del mondo tramite il dominio e la venuta del Mahdi. Di questo fa parte anche la costruzione di un futuro da shahid, che accomuna gli sciiti ai sunniti. Si uccide per Allah, si muore per Allah a migliaia, a milioni. Trump non ha sorpreso Netanyahu annunciando che vuole trattare, che vanitosa fantasia è questa: chi non lo farebbe fra i primi ministri di un Paese occidentale? La guerra, per il presidente Trump in particolare che lo aveva messo nel programma elettorale, è la seconda opzione. Tuttavia lo scopo è chiaro: l’Iran non può, non deve, non sarà nucleare. E deve accettare, dice Trump,le nostre proposte altrimenti pagherà un prezzo molto alto, “hell to pay”. Chi ha voluto leggere stupore nell’atteggiamento di Netanyahu seduto compostamente, dimentica che i due hanno parlato per ore, che Netanyahu non aveva ragione di obiettare alcunché, era d’accordo e l’ha ripetuto uscendo. Un presidente americano per la prima volta ha annunciato che userà la forza se Khamenei non ci sta: sabato, fra due giorni soltanto ci saranno colloqui in cui si vedrà se l’Iran vuol menare il can per l’aia per costruire la bomba. Ma tutti conoscono ormai l’Iran, Trump sa che non ci si può fidare si mezze promesse, che l’unico modo di evitare a Israele, all’Europa, agli USA, un chiaro e presente rischio atomico, è privarla degli strumenti per riprodurlo. L’Iran non ha mezzi termini, e l’unica strada è: o che consegni l’uranio e le strutture, o bombardarli. Non c’è esperto di Iran che non chiarisca che basta lasciare un capo della corda in mano agli ayatollah, perché sia sicura poi un’esplosione.
 
Trump ha parlato, Bibi l’ha ascoltato e certo gli ha anche descritto un Medio Oriente diverso, in cui proprio ieri gli Hezbollah offrono di consegnare le armi, Gaza e la Siria sono irriconoscibili, gli Houty sono a pezzi. La pace è in vista, ma l’Iran non può essere atomico. I due concordano. Oh, e I dazi? Sarebbe stato davvero strano che Trump il campione del business internazionale al primo ministro che gli chiedeva una sconto avesse detto di “Sì”: che avrebbe fatto allora, dopo, con tutti gli altri in coda dopo Israele? Doveva mostrare loro che nello shuk si fanno sconti solo a qualcuno? Non si fa così.     

Le visite a Orbán e Trump una sfida alla Cpi e all’Onu

domenica 6 aprile 2025 Il Giornale 0 commenti
Le visite a Orbán e Trump una sfida alla Cpi e all’Onu

Il Giornale, 06 aprile 2025

L’abitudine di dimenticare che la guerra di Israele è la risposta obbligata alle atroci azioni di Hamas che ne minacciano la distruzione, è molto simile a quella che in questi giorni sembra dominare i commenti sul viaggio di Netanyahu in Ungheria e sulla condanna, sua e di Orban, della Corte penale internazionale. Iuri Maria Prado ha scritto che è stata guardata anche dagli “eserciti del garantismo” come “ un centro di orientamento oracolare”. E’ così. Normalissimo, per la stampa che Netanyahu sia trattato da criminale di guerra. Anzi, va biasimato perché ha visitato Orban, la pecora nera dell’UE. C’è sotto una congiura autoritaria. Perché è logico, Israele si deve biasimare comunque: se si parla di guerra, si dimentica che Israele per sopravvivere deve, ed è fatica, sconfiggere Hamas... e si scatena un biasimo virtuoso e antisemita al contempo sugli aspetti umanitari (che Israele ha invece rispettato con cibo, avvertimenti, rispetto delle regole su cui le fake news danzano) e  sulle cifre (tutte supergonfiate,basta verificare le inchieste serie) dei morti. 

E ora se si parla di viaggio a Budapest, si dimentica, incuranti, il senso politico del viaggio di Netanyahu: toccare di nuovo in sicurezza il suolo Europeo, sfidare la Corte penale internazionale (Cpi) e la menzogna che essa rappresenta mentre Orbàn annuncia che la lascerà. Molti giornali, intanto, la citano come se questa istituzione avesse agito legalmente, non come se, e basta studiarne le carte, avesse tradito il suo compito per motivi politici; la decisione politica era quella di bloccare Israele, e quindi di condannarlo a perdere la guerra.  La Cpi, istituzione che ha accolto a pieno lo “Stato palestinese” fra i suoi membri, ha deciso di arrestare l’Unico capo di Stato democratico del Medio oriente col suo ministro della difesa, in parallelo con Sinwar, l’arci assassino. Prove insensate, testimoni di parte. Ma poca opposizione: qualcuno ha osato dire che non c’è giurisdizione (l’Italia e la Francia, per fortuna), e qualcuno non ci sta (la Cecoslovacchia, il Belgio...). Ma solo Orbàn e gli USA, sono usciti dal giuoco onusiano dell’attacco istituzionale a Israele, un giuoco largo, politico, “corrotto” come ha detto Netanyahu a Budapest. Da là Israele ha voluto suonare la squilla di una nuova legalità internazionale, fuori dell’ONU. Quale che sia la critica a Orban, non si può dismetterlo su questo tema, l’ONU è marcia quando si parla di Israele, e la Cpi è corrotta.  Come Gutierrez disse a suo tempo che l’orrore del 7 ottobre “non accade nel vuoto” per via di una inesistente “occupazione durata 75 anni”, così adesso si vuole scoprire un’internazionale di semidittatori, specie da quando si sa che il Primo Ministro Israeliano lunedì va a trovare Trump. E’ una bassa banalizzazione che nasconde il problema di una Cpi politicizzata e corrotta, e di un’ignoranza imbottita di pregiudizi sia su Netanyahu che su quello che accade in Medio Oriente. Netanyahu cerca in USA ora una tessitura internazionale nuova: Israele è, come tutto il mondo, investita dal problema dei dazi, va a discutere le sue soluzioni. Lo scenario mediorientale è del tutto nuovo: oltre ai rapiti e Gaza per cui si deve avviare una conclusione, non una ma due realtà diverse dal passato aspettano decisioni. Sull’Iran sciita, Trump soppesa distruggere le strutture atomiche e un accordo; sul fronte sunnita Turchia e Qatar sono bellicosi e ringalluzziti dai fallimenti del fronte sciita. Israele ha l’intenzione ma non le armi per tenere tutto a bada. 
 
La visita a Orbàn, che rimette sul tavolo le istituzioni internazionali, e poi gli USA America, progettano non una prospettiva autoritaria, ma una determinazione alla sopravvivenza. Non è ovvio, sembra. Non dice niente al cuore dell’Europa che non un solo Primo Ministro abbia esclamato di essere lieto che il capo dello Stato Ebraico sia tornato a calcarne il suolo, Nessuno che abbia voluto seguire Orban nell’invito? Che non senta il bisogno di dire finalmente che la Cpi deve essere almeno riformata? E allora, almeno non scandalizzatevi se Netanyahu va a trovare il Primo Ministro ungherese, e se Trump ha il buon senso di incontrare il piccolo Paese che si batte per la libertà di tutti dal terrorismo.  

 

Il rifiuto degli ebrei di sinistra lo certifica: l’antisemitismo ha soprattutto un colore

giovedì 27 marzo 2025 Il Giornale 3 commenti
Il rifiuto degli ebrei di sinistra lo certifica: l’antisemitismo ha soprattutto un colore

II Giornale, 27 marzo 2025

 
Israele, ovvero il ministro per la Diaspora Amichai Chikli, ha invitato i rappresentanti politici e culturali di tutto il mondo a una “Conferenza internazionale per combattere l’antisemitismo”. E’ fondamentale per Israele essere alla testa di questa battaglia: da anni ormai l’odio antisemita è la base della vasta congrega woke in cui “gli oppressi” combattono “gli oppressori”, ovvero:  vogliono distruggere Israele. Ormai è una valanga. L’odio più antico si è trasformato in piazza e nelle università in moderna contestazione di tutti i valori giudaico cristiani dell’Occidente. L’antisemitismo politico di massa è stata la sorpresa seguita alla strage del 7 di ottobre, è ormai ogni ebreo del mondo, di destra e di sinistra, religioso e laico, è minacciato. Israele combatte anche su questo fronte, cerca di prendere la leadership di questa parte della sua guerra, di allargare il fronte di lotta al mondo. E invita così sia i rappresentanti della sinistra che denunciano giustamente i pochi ma odiosi eredi dei nazifascisti,  che quelli della destra, per altro sempre più vasta in Europa, che non a caso indicano anche nell’islamismo radicale una delle centrali più attive, con la sinistra radicale, dell’antisemitismo contemporaneo. E’ sbagliato? Certo che no: tutti gli attacchi, i numeri, tutti gli studi, indicano che la strada è quella di affrontare il fronte dell’odio per Israele nelle aree delle università e delle piazze dove si terrorizzano gli ebrei in nome dell’odio antisionista. E’ ovvio. Ma una parte degli invitati, pochi giorni prima di oggigiorno dell’incontro, si è tirata indietro. Niente di nuovo: dal 7 ottobre i “no” inquietanti sono stati molti, da quello nel riconoscere gli stupri e le mutilazioni subiti dalle donne israeliane, a quello di denunciare l’assassinio dei bambini in fasce,  alla condanna chiara del 7 ottobre da parte di istituzioni come l’ONU. “Non accade nel vuoto” disse Guterres. Anche le condanne rovesciate sono state tante: per esempio, chiamare Israele genocida mentre genocida era ed è Hamas. Il rifiuto di andare della conferenza internazionale viene da chi sostiene che gli antisemiti veri siano i  rappresentanti della politica europea di destra, che gli invitati dunque siano odiosi antisemiti loro stessi, i francesi, i tedeschi, gli austriaci, gli ungheresi, proprio in quanto di destra. 
 
Ma allora, si sarebbe dovuto discutere, accusare, chiedere. L’antisemitismo è una malattia professata altrimenti non ha senso. Gli inviti a Gerusalemme sono stati larghi, se qualcuno voleva contestare la destra europea, non andando l’ha invece evitata compiendo un gesto di delegittimazione verso l’ospite, Israele.  Perché mai? Fra gli invitati compaiono figure significative come Jordan Bardella, presidente del National Rally francese, successore di Marine Le Pen, a sua volta succeduta al padre, lui si, antisemita, Jean Marie. Ma Marine ha ripetuto ad nauseam di disconoscere, rifiutare l’antisemitismo del vecchio fascista ormai defunto: fu lei a dire che “la Shoah è il maggiore scempio della storia”. E il 29enne Bardella, che del fascismo ha sentito parlare dai nonni, rispondendo al giornalista Eldad Beck ha detto che la sua scelta “è quella di un mio, un nostro impegno totale nella lotta contro l’antisemitismo”. Ma la sua riabilitazione come quella di Vox, spagnola, dei Democratici Svedesi, del partito olandese per la Libertà, hanno allontanato molti ebrei, così il presidente dell’European Jewish Congress Ariel Muzicant, l’Unione delle Comunità Italiane e di quelle Francesi neppure, il Capo rabbino d’Inghilterra… e altre organizzazioni. Sono tutti conglomerati importanti, abbastanza accorti da sapere bene che dato che la loro accusa è una presunzione di colpevolezza retroattiva, si manifesta nel presente soltanto contro Netanyahu, il contenuto è secondario. Quando sulla Stampa una storica scrive che l’estrema destra e gli evangelici si sono avvicinati non a Israele, quella che piace a lei, ma “all’Israele dei governi razzisti e antidemocratici come quello di Netnayahu” e per questo dice che al quella conferenza non si vuole riconoscere il vero antisemitismo ma “il presunto antisemitismo dell’ONU e delle Corti di Giustizia”, le sue osservazioni non consentono neppure una risposta sensata, tanto sono vuote. La democrazia in Israele splende intatta nel mezzo di scontri in cui ci si esprime fino all’ultima goccia; la persecuzione subita dall’ONU e di tutte le sue organizzazioni internazionali è ormai un proverbio, oltre che oggetto di mille studi stupefatti dal livello cui può arrivare l’odio antisraeliano. Alla Conferenza purtroppo non è andato nemmeno Bernard Henry Levy: descrive le sue ragioni in un pezzo così autoreferenziale, da risultare una autoaccusa a carattere psicoanalitico. Dice che sa benissimo che la destra in generale non è più antisemita, che Israele fa bene a cercare di aprire l’arco delle sue alleanze, ma il suo intuito, la sua eccessiva intelligenza, sapienza, riflessione.. gli suggeriscono di rifiutare l’invito. Cioè, un intellettuale ebreo non rinuncia alla cara immagine di 76 anni fa, quando l’antisemitismo si combatteva dalle trincee della resistenza? Ma ora non è più così. Quanto allo spirito ebraico che dovrebbe riconoscere le tendenza pericolose del nazionalismo. Anche di questo abbiamo sentito molto parlare. Ma creda gentile professore, la nobiltà del sionismo consiste proprio nella battaglia per cui cerca di salvare la  nazione ebraica in una dolorosa guerra di sopravvivenza. Giovani coraggiosi la combattono insieme, di destra, di sinistra, religiosi laici.
 
“Kill the jews” nelle piazze americane e europee l’hanno gridato soprattutto schiere di propal di sinistra, tutta la costruzione di un Israele immaginata come colonialista, razzista, genocida, ha le sue antiche origini nella costruzione stalinista antiamericana e antisraeliana… bastano due pagine di storia postbellica per impararlo. Poi, dagli anni ’60 l’odio antisionista si è identificato con quello contro gli ebrei e se n’è abbeverato con tutti i crismi delle tre D, Demonizzazione, Doppio standard, Delegittimazione. Il terrorismo ha accompagnato nl’antisemitismo. Questa è la storia. Con cautela Israele è arrivata a capire che a destra ormai ci sono anche molti amici. Anche Bardella.   

Le proteste senza sosta contro la linea Netanyahu

lunedì 24 marzo 2025 Il Giornale 1 commento
Le proteste senza sosta contro la linea Netanyahu

Il Giornale, 24 marzo 2025

Semmai un periodo nella storia italiana che, con tutte le maggiori, dovute differenze, ricorda questo momento in Israele, è quello della esplosione mediatica e popolare contro Silvio Berlusconi, quando metà Italia, e quasi tutti i media, non potendo accettare la svolta post resistenziale che indicava la strada della democrazia liberale e capitalista, mettendo da parte i totem e il potere consolidatosi dopo la resistenza, crearono un mito autoritario, una situazione di rivoluzione antigovernativa. Così è con Netanyahu: un gioco frenetico nelle piazze, sugli schermi, sui giornali contro il Primo Ministro, cerca semplicemente di spingerlo fuori dal suo ruolo, accusando di voler portare il paese al fascismo. L’ accusa profonda è quella di non essere di sinistra (anche se è difficile definirlo di destra, laico e internazionale com’è), di troppo lunga durata, e votato dagli ebrei sefarditi a fronte dell’origine bengurionista, socialista, europea, della nobile tradizione che vuole restare al comando. 

 
Una storia comune nel mondo democratico, ma molto più drammatica in un Paese in guerra che combatte per la sua sopravvivenza. In questi giorni la folla in piazza, mentre suonano le sirene e si combatte di nuovo a Gaza e al Nord, in cui i ragazzi di tutte le famiglie, di destra e di sinistra, rischiano la vita, ha il fine di indurre lNetayahu a rinunciare a licenziare il capo dello Shin Beth, i servizi dell’interno, Ronen Bar; e anche di far recedere la proposta di detronizzare il Procuratore Generale Gali Baharav Miara. Baharav Miara si è già pronunciata nella difesa di Bar, proibendo di licenziarlo, e in mille altre prese di posizioni che in scarsa sintonia col governo. La sua delegittimazione è complessa, prende tempo, per Baharav Miara si sono già raccolte molte firme di legislatori di primo piano, e questo  ha a che fare con la vicenda, molto complessa, della riforma del sistema giudiziario israeliano: Israele non ha una costituzione scritta, il suo sistema legale nasce da una rivoluzione nata sotto l’egida del giudice Aharon Barak, che ha arrogato al giudiziario poteri quasi illimitati di rovesciare praticamente tutte le decisioni del governo. Biara ha usato molto questo strumento politico illimitato, oggi in mano alla sinistra, e il governo Netanyahu si scontra ora di nuovo per la vicenda Bar. Mentre si grida all’attentato alla democrazia. Bar è stato un capo dello Shabbach sfortunato: molto classico nella sua visione che è quella di agire argutamente sul terreno specifico (eliminazioni, identificazioni, rifugi del terrorismo a Jenin come a Gaza), ma si è arenato sulla visione generale per un’impostazione molto classica: sopire e calmare. Questo modo di pensare ha portato a fraintendere del tutto i grandi momenti come quello dell’attacco del 7 di ottobre, le grandi scelte ideologiche del nemico sono state fraintese come momenti specifici del nemico, non ideologici di fondo, difficoltà da superare con aiuti, comprensione, lavoro politico. 
 
Così Bar e i suoi colleghi ancora al mattino alle 3,30 hanno sottovalutato ciò che si stava preparando sotto i loro occhi, e non lo hanno considerato degno di essere comunicato al Primo Ministro. Netanyahu, a sua volta ha le sue responsabilità ma non quella specifica delle mosse di quella mattina stessa: dal 7 ottobre dopo che Bar in molte occasioni ha conservato un atteggiamento diverso da quello molto belligerante del PM e un suo stile più accordo col ministro Gallant e con Biden che con Bibi, ha deciso da tempo di di porre fine alla loro collaborazione. All’accusa che Bar è stato licenziato perché aveva preparato le carte per un “Qatar Gate” che accusa un collaboratore nell’ufficio di Netanyahu di aver preso denaro da Doha, il PM ha risposto che è vero il contrario: dopo che si è concretizzata la scelta di dismetterlo dal suo ufficio, Bar avrebbe sfoderato l’arma qatarina. Di certo, in democrazia un impiegato dal governo, per quanto importante, non dovrebbe rifiutare la decisione di chi, eletto primo ministro, lo aveva arruolato. Spesso Israele affronta un esercito e dei servizi superpotenti che vogliono che la politica lavori per loro, invece che l’esercito per il governo. Ma Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente, ed è bene che metta da parte l’odio interno specie in guerra.   

 

Israele combatte per la sua salvezza nulla può fermarlo

venerdì 21 marzo 2025 Il Giornale 0 commenti
Israele combatte per la sua salvezza nulla può fermarlo

Il Giornale, 21 marzo 2024

Israele non ha nessuna altra scelta se non combattere questa guerra e rimettere in moto la restituzione degli ostaggi. Non ha potuto contare sul sostegno di nessuno, ma oggi il momento è buono per il sostegno americano, che prima non c’era. C’è invece il solito biasimo pieno di odio e di balle mentre Israele di nuovo combatte a Gaza, la solita richiesta inconsulta di cessare il fuoco e prepararsi a farsi macellare. Da Hamas, e poi da Hezbollah, e poi dall’Iran... ma stavolta non accadrà. Si è imparato qualcosa il 7 di ottobre anche sulla ripetitività del biasimo e del veleno che proviene dall’interno stesso di Israele. Ancora nell’ottobre del ’23, sui corpi ancora caldi dei bambini uccisi e delle donne stuprate e fatte a pezzi, il segretario di quella inutile organizzazione che è l’ONU, chiese il cessate il fuoco: già allora.

Adesso, di nuovo. La morte nei tunnel dei rapiti, la quieta ricostruzione del potere di chi aveva assalito Israele e di chi adesso sacrifica di nuovo i suoi figli per prepare, dichiaratamente, la nuova Shoah, non interessa quanto la coesione ideologica sul pacifismo autolesionista di un Occidente asservito a maggioranze in cui l’Islam è determinante.   Israele ha dovuto necessariamente di nuovo attaccare Hamas pena la ricostruzione di tutto l’asse dall’Iran ai Houty al Libano. L’attacco terrorista che sotto la cenere delle recenti sconfitte si rinfocola proprio sui rapiti, è sommerso da una marea di chiacchiere che hanno un solo cinico obiettivo: Netanyahu. E’ addirittura interessante quanto l’odio per questo leader accenda una luce accecante su una realtà che si fa fatica a affrontare: quando sei a rischio di vita, ti devi difendere. Gli attacchi a Gaza hanno come primo scopo quello di rompere il rifiuto di Hamas a restituire gli ostaggi e allungare i tempi per irrobustirsi di nuovo. Ieri, coi missili, Hamas  ha mandato di nuovo Tel Aviv nei bunker; dalla Giudea e dalla Samaria, centinaia di attacchi sia di hamas che della Jihad Islamica che di Fatah colpiscono ogni giorno. Le famiglie che protestano nelle strade temendo che lo scontro comporti un pericolo maggiore per i loro cari, hanno ragione nella loro angoscia. Ma l’obiettivo deve essere Hamas, non Netanyahu che ha ormai svolto mille trattative, tentato tutte le strade senza successo. Hamas non vuole.

Lo stallo di queste settimane ha reso decisive la sue richieste, aprire la fase che finisce nella conclusione del conflitto restando al potere e godendosi le migliaia di prigionieri assassini liberati, senza dare niente in cambio, mentre ricostruisce armi, tunnel, uomini, insomma la ricostruzione del prossimo sette di ottobre. Bibi ha agito di sorpresa, sfidando l’opinione pubblica, e non è facile:  chi dice lo fa per salvare il governo recuperando Ben Gvir, ignora che Netanyahu ha già i voti per governare senza di lui. Chi poi sostiene che licenzia Ronen Bar perché indaga sul suo ufficio e i rapporti col Qatar, non sa che per quanto la magistratura odi il primo ministro, sia stato già escluso un suo coinvolgimento diretto in un’indagine che semmai viene a puntino proprio per Bar che, capo dei servizi segreti dell’interno, lo Shin Beth, ha le responsabilità più immediate del 7 di ottobre. Certo una indagine politica e militare completa dovrà aver luogo presto; ma in democrazia esiste la differenza fra leader eletti e leader scelti dagli eletti, che devono rispondere a chi attua la nomina pena la cesura del rapporto. Se  Netanyahu non viene riconosciuto il potere di affrontare il potere degli alti funzionari,è perché il suo colore politico non è quello giusto. Non va bene. Ma Israele combatte per la salvezza, ha imparato finalmente a farlo, e nessuna chiacchiera potrà fermarlo ormai. Quanto al numero dei palestinesi uccisi, a parte che la fonte è Hamas, quindi non credibile, non uno sarebbe morto o morirebbe se Hamas avesse consegnato, o consegnasse, i rapiti. 

La pressione su Hamas e un messaggio all'Iran. La forza di Bibi (e Trump)

mercoledì 19 marzo 2025 Il Giornale 1 commento
La pressione su Hamas e un messaggio all'Iran. La forza di Bibi (e Trump)
Il Giornale, 19 marzo 2025
 
Arafat una volta disse alla cronista: il deserto cambia continuamente di forma, ma la sabbia resta sempre la stessa in quantità e qualità. Parla, come sempre, della sabbia della guerra e del terrorismo. Difficile dire se siamo di fronte all’apertura dei “cancelli dell’inferno” che Trump ha minacciato, ma certo si disegna oggi uno scenario che scavalca i confini della guerra che Israele affronta di nuovo nella Striscia. Riappare la necessità di combattere su più fronti l’odio che ha avuto il suo apice il 7 ottobre, ma che conta su un vasto arco di nemici di Israele che gli promettono la morte. Mentre Israele torna a combattere, suonano le sirene, ieri, per un missile proveniente dallo Yemen, 2000 chilometri di distanza. Gli Houty da quando si è concluso il cessate il fuoco attaccano, mentre la Siria, il Libano sono ben lontane dall’essere quiete. L’Iran getta su tutto la sua ombra. Israele lo sa: deve combattere fino a sgominare il pericolo mortale. La novità: Trump gli guarda le spalle e non solo, finalmente identifica Israele non come un problema, alla Biden, ma come l’unica forza positiva.Ma prima dello scenario internazionale, lo sguardo su queste tre settimane mostra uno stillicidio di proposte da parte dei mediatori israeliani e di Steve Witkoff, incaricato di Trump, dopo la gaffe di Bohler, di portare Hamas a rilasciare qualche ostaggio anche dopo la conclusione della prima fase dell’accordo che per un miracolo di pazienza ha portato a casa 27 esseri umani distrutti, ma vivi. 
 
E’ la volta di cercare di trattare per tre, per cinque, per uno, senza entrare nella seconda fase che Netanyahu rifiuta, perché prevede che Hamas in sostanza resti a Gaza armato, al potere, a ripristinare il suo progetto di distruzione dello Stato Ebraico, come ripete di voler fare e come scritto nella sua carta. Tuttavia Hamas dice di no, vuole che Israele gli consegni la pace che lo lascia al potere. Ma sullo sfondo, avviene qualcosa: gli Houty reagiscono all’embargo su Gaza con attacchi missilistici contro Israele che vanno in parallelo col blocco del Mar Rosso e 160 attacchi a navi americane che gli Stati Uniti non possono accettare. Questo, mentre lo sponsor degli Houty, l’Iran, si rifa’ vivo sotterraneamente in Siria, in Iraq, nel West Bank, con gli Hezbollah. Israele blocca con l’esercito la situazione di aggressività plurima con una presenza sia diplomatica che militare mai vista prima, affronta anche il rischio di una nuova ISIS in Siria. Trump dunque prende la sua posizione sugli Houty andando molto oltre: da questo momento ogni loro azione di guerra verrà considerata, diretta responsabilità iraniana: ”Nessuno ci caschi” dice Trump nel suo  profilo Truth "la sinistra gang di delinquenti basati in Yemen e odiati dalla gente sono stati creati e mantenuti dall’Iran… che fa la vittima innocente dicendo che ha perso il controllo dei terroristi... ma non è vero, dettano ogni mossa e forniscono loro le armi... l’ Iran verrà ritenuto responsabile... e le conseguenze saranno terribili…”. 
 
E’ chiaro che gli stessi concetti valgano per il rapporto dell’Iran con tutti i suoi proxy: Hamas, Hezbollah.. Da Hamas all’Iran, la sabbia cambia forma, ma la sostanza è la stessa: terrorismo, e anche pericolo atomico per quel che riguarda gli Ayatollah. Certo Trump non ha dimenticato che la sua proposta di parlare, di recedere dalla costruzione della bomba, è andato inascoltato e anzi respinto con minacce. La resa dei conti può essere vicina. Più chiara di tutte, mentre ancora si cerca di imporre a Hamas di cercare una via d’uscita restituendo i rapiti, la bionda portavoce di Trump che ha detto: “Gli attacchi di Israele sono coordinati con noi, il Presidente non ha paura di stare dalla parte del nostro amico e alleato”. Il seguito, in queste ore.  

La memoria trasferita nel deserto

giovedì 13 marzo 2025 Il Giornale 5 commenti
La memoria trasferita nel deserto

Il Giornale, 13 marzo 2025

Qual è la risposta da parte dei cittadini di un quartiere bene della capitale d’Italia se un’istituzione indispensabile per l’integrità morale del Paese, ovvero il cantiere del Museo della Shoah, viene coperto di escrementi, di svastiche, se una testa di maiale vi viene depositata, se frasi inneggianti a Hamas e all’odio per Israele e gli ebrei lo sfregiano?

È la stessa reazione che hanno avuto in varie città d’Europa i passanti che hanno strappato i manifesti coi volti dei bambini Bibas, della loro mamma Shiri, dei rapiti e degli assassinati da Hamas. Questo hanno fatto i cittadini di Via Torlonia firmando un disgustoso esposto che chiede di spostare il museo “in un’altra area a Roma, più ampia e meno popolata”. Nel deserto. Hanno paura. Della memoria del maggior crimine contro l’umanità della storia non gli interessa nulla, li preoccupa che si possa disturbare la loro passeggiata. Non chiedono di perseguire i delinquenti, di acchiapparli, tantomeno di difendere la memoria della Shoah, che certo non riguarda solo gli ebrei. Anzi, adesso che (scrivono proprio così) il 7 ottobre 2023 ha segnato una svolta, si rivaluti “il momento storico e geopolitico”.

Per loro non è quello dei 1200 innocenti uccisi solo perché ebrei, ma quello che deve cancellare la costruzione del Museo della Shoah. Benvenuto all’antisemitismo perbene. Il comune deve cancellare la delibera, chiedono, la storia della Shoah è pericolosa per la salvaguardia della quiete del quartiere. Chissà se una lettera così vile sarebbe stata scritta se si fosse trattato di un museo sul femminismo vandalizzato, o dell’islam, o dell’immigrazione… la gente di Villa Torlonia non sarebbe intervenuta per salvaguardare nobilmente la pluralità? Ma gli ebrei… non è di moda cercare di capire chi sono gli oppressi e chi gli oppressori, l’antipatia per Israele a cena si porta molto. La Shoah la vadano a ricordare più in là, tanto più che oggi opprimono i palestinesi.

Dunque, il manifesto coi bambini Bibas i firmatari lo avrebbero strappato; quello con un gatto perduto invece lo avrebbero studiato, annotando il numero di telefono dei proprietari infelici.     

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