VIVERE FRA I PALESTINESI PIÙ IRRIDUCIBILI: LA GIORNALISTA E SCRITT RICE AMIRA HASS RACCONTA LA PROPRIA ESPERIENZA TRA LINCIAGGI E DOLCEZZE Ho b evuto il mare di Gaza
venerdì 27 luglio 2001 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
RAMALLAH
NESSUNO che non viva qui può davvero capire quanto sia strano
vederla
arrivare di prima mattina da sola all'Hotel Best Eastern di Ramallah
non
scendendo da una macchina con la scritta « Press» che la difenda dagli
spari
o dai sassi (così fa la cronista), ma dall'angolo di casa sua a
Ramallah.
Amira Hass, corrispondente del quotidiano intellettuale d'Israele,
Ha'
aretz, non vuole sedere all'ombra del caffè dell'albergo, vuoto come
tutti
gli alberghi d'Israele e dell'Autonomia Palestinese in tempo di
guerra.
Soffriamo insieme sotto il sole che brucia già alle otto di mattina.
Al
chiuso lei si sente soffocare, e fuori non le importa di cuocere a
testa
nuda e di vedere la sua interlocutrice lacrimare: lei ama stare
all'aria
aperta. Dal 1993 vive pienamente e da sola con i palestinesi, prima a
Gaza,
al sud, e poi, dal ‘ 97, a Ramallah, nel West Bank, più vicina
all'Intifada
di Al Aqsa. Il giornale sapeva del suo rapporto di passione con Gaza,
che
aveva cominciato a frequentare con un gruppo di volontari della
« Linea Calda
dei Lavoratori» (come tradurre Workers'Hot Line) un'organizzazione
israeliana che rappresenta i lavoratori dei territori occupati contro
i
datori di lavoro israeliani. Le chiese di essere una vera
corrispondente del
periodo del processo di pace. Fu allora che cominciò a scrivere sulla
Striscia di Gaza e a entrare in uno stretto rapporto con i suoi
abitanti
tramite un'avvocatessa, Tamar Peleg, che la mise in contatto con i
suoi
clienti passati e presenti che avevano fatto causa a Israele per
violazione
dei diritti umani, incarcerazioni preventive, condanne penali varie.
Amira Hass, corporatura forte e sguardo severo, è diventata
nell'opinione
pubblica israeliana la maggiore avvocatessa della causa palestinese,
i suoi
articoli raccontano ingiustizie, miseria, donne e bambini, lavoro
perduto,
tempo sprecato ai check point, violenza che esplode e reazioni
rabbiose.
« Creatami una rete di contatti personali con la zona, quando la
dichiarazione dei principi firmata fra Israele e Arafat garantì ai
palestinesi Jerico e Gaza, mi fermai a Gaza a coprire per il giornale
il
passaggio di poteri all'Autorità palestinese. All'inizio vivevo da
nomade,
ospitata da amici. Poi affittai un appartamento con giardino nel
centro di
Gaza. Era bello là : i colori, le palme, gli odori, il mare e
soprattutto la
gente» . Adesso Amira Hass ha affittato, tra mille difficoltà , un
appartamento di tre grandi stanze a Ramallah. « Sognavo una vecchia
piccola
casa di pietra. Invece c'è voluto l’ ordine di un mio amico pezzo
grosso di
Fatah... Siamo in tempo di Intifada. Io da sola non riuscivo a
convincere
nessuno a prendere come inquilina una ebrea, per di più donna» .
Più di Ramallah, Amira Hass ama la patriarcale Gaza. Non è come
affezionarsi
a un qualunque posto di corrispondenza: Gaza è un epitome di
sfortuna, una
striscia di terra passata di occupazione in occupazione,
economicamente
straziata dalla sua appartenenza a un mondo che non riesce a
imboccare la
strada dello sviluppo, che gli stessi palestinesi del West Bank
considerano
straniera e grezza, dove l'integralismo islamico ha messo più radici
che in
ogni altra parte del mondo di Arafat, le donne vivono segregate, la
democrazia non si è mai vista, il potere della gerarchia palestinese
autocratica è molto vicino, il tasso di natalità è il più alto del
mondo, la
mortalità infantile è spaventosa, i soldati israeliani ai check point
sono
muraglie umane cui naturalmente non importa niente che gli israeliani
si
difendano dal terrorismo, e che vivano tragicamente questa
frammentazione
delle famiglie, questa perdita di tempo prezioso per guadagnare il
pane.
Per Amira, Gaza è bellissima: « Il calore della gente, la grande
voglia di
fare amicizia, il genuino fidarsi e aprire casa... Mi mancheranno per
sempre. Ho chiamato il mio libro uscito da poco Bere nel mare di Gaza
un po'
riecheggiando una frase di Arafat che invitava chi non accettava
l'idea
dell'indipendenza palestinese a “ andare a bere nel mare di Gaza” , e
un po'
perché c'è un detto egiziano per cui chi si abbevera alle acque del
Nilo vi
tornerà sempre. Io tornerò sempre a Gaza» .
Amira Hass ha quarantacinque anni e ne dimostra meno. Ha pelle chiara
e
capelli scuri. Non si toglie gli occhiali perché ha paura che gli
uomini si
accorgano che è graziosa. Le sopracciglia sono severe, lo sguardo
sospettoso. Molti israeliani sono come lei: moralisti, di sinistra,
figli
del bolscevismo. E' sola a Ramallah, era sola a Gaza. « Gli israeliani
la
vedono come una terra sconosciuta e pericolosa demonizzata da
intrighi
terroristi e fondamentalisti. Ogni ebreo che vi entra pensa di aver
bisogno
di un poliziotto che lo protegga. Io che non ho mai avuto paura, mi
ci sono
trovata come a casa» .
Amira Hass non teme per la sua vita, anche se adesso i rapimenti, gli
agguati e le uccisioni sono tanto frequenti da avere indotto Israele
a
bloccare l'ingresso dei suoi cittadini al di là dei posti di blocco.
Amira
racconta che le è sembrato logico e naturale cercare di capire a
fondo una
società di cui doveva raccontare la vita. Ma sa benissimo che c'è
molto di
più nella sua scelta di vivere nell'Autonomia Palestinese: c'è un
senso di
missione e di rimorso che è l'anima stessa della sinistra israeliana
adesso
esulcerata e stanca. « Io sapevo benissimo che Oslo non poteva
funzionare,
vedevo come la viveva la parte palestinese, con scetticismo, confusa
dalla
vaghezza della proposta, che gli stessi israliani non sapevano
formulare.
Non si diceva come uscire dalla miseria e dall’ oppressione, o dal
regime dei
posti di blocco che è peggiore della morte. La morte negli scontri ha
un suo
terribile senso... Non ha i tempi lunghi dell'umiliazione,
dell'attesa,
della frammentazione territoriale e umana...»
Ma il terrorismo deve pur essere fermato, è un problema molto
grande...
Amira Hass non ama attribuire colpe ai palestinesi. « Però non riesco
a
comprendere questa epopea della violenza che ormai dilaga nel culto
del
sangue e delle armi. Riconosco che le classi dirigenti hanno avuto la
colpa
di abbandonare il popolo a se stesso proprio negli anni di Oslo, anni
di
cambiamento in cui l'é lite ha avuto privilegi, limousine, permessi,
denaro,
viaggi e corteggiamenti internazionali, mentre la gente soffriva» .
Amira
Hass fa tutto da sola, in una società che delle donne se ne fa poco,
fuori
delle mura domestiche: niente amici la sera al ristorante o al
cinema,
niente concerti: « Certo non posso uscire e camminare da sola per
strada, non
invito molto a casa, oltretutto non cucino, gli amici israeliani ora
vengono
poco, semmai vado io dagli amici. In genere palestinesi. Ma quando io
sono
l'unica donna seduta a discutere di politica, mi sento, dico loro
scherzando, come un collaborazionista» .
Amira Hass ama Gaza perché le sembra un po' come lo Shtetl dei suoi
genitori, europei orientali di simpatie bolsceviche, ex religiosi
sopravvissuti all'Olocausto. « Erano i miei eroi, il mondo delle loro
idee
libertarie e di sinistra è stato ed è la mia ispirazione. Una volta
mia
madre, mentre marciava incolonnata verso la sua terribile sorte a
Bergen
Belsen, si imbattè in una folla di donne tedesche che si fermarono a
guardare la strana, disperata marcia che si svolgeva davanti ai loro
occhi.
Pe me, queste donne divennero un simbolo della repellente tendenza a
guardare stando da una parte e mi sono detta: « Io non guarderò mai
stando da
una parte» .
Lei paragona i palestinesi agli ebrei perseguitati dai nazisti? No, a
questo
Amira Hass non arriva: è l'astensionismo che vuole condannare. Parla
di sua
madre e di suo padre con grande dolcezza, come di una fonte nutritiva
dolce
e completa. Come vive senza famiglia? Amira Hass non ama parlare di
argomenti personali. « Fosse stato soltanto un legame biologico, non
mi
sarebbe bastato. Io amo la mia famiglia per ciò che mi ha
insegnato... Una
volta, proprio per l'educazione ricevuta, espulsi una bambina da un
gioco
collettivo perché giocava a uccidere gli arabi. Oggi (mio padre è
morto da
sei anni, mia madre da poche settimane) la mia famiglia è costituita
dai
miei amici. Li sento vicini, condividiamo pensieri e sentimenti» .
E cosa succede quando Amira Hass si trova nel luogo del linciaggio di
due
israeliani fatti a pezzi da quella folla che lei conosce così da
vicino, a
Ramallah? La giornalista di Haaretz reagisce raccontando che proprio
in quei
giorni lei era all'ospedale con la madre morente, che tornò poco
dopo, che è
stato un momento di grande crisi: « Anch'io ho quasi assistito a un
linciaggio, con la folla che gridava “ Yehud” , ebreo, a due
giornalisti
stranieri, e io che in arabo cercavo di spiegare alla polizia che li
doveva
mettere in macchina e portar via, cosa che poi fece... con la
complicazione
che io, più straniera degli altri, con il mio accento ebraico, in
macchina
non ci volevo entrare, perché io vivo qui, e io mi salvavo da sola...
Ho
sentito di nuovo la sofferenza della gente trasformarsi in odio, il
senso di
essere perseguitati trasformarsi in desiderio di vendetta, e ancora
ho
sentito le responsabilità degli intellettuali, che pensano per sé ,
che non
si mescolano...» . Si può spiegare? « Si può spiegare senza capire. C'è
la
psicologia di massa, la dinamica della folla, la paura, l’ impatto dei
funerali sulla gente...» . Tutto questo lei sarebbe pronta a
spiegarlo, da
giornalista, dal cuore della sofferenza degli abitanti degli
insediamenti
che hanno due morti ammazzati al giorno? Amira Hass risponde che i
coloni,
come lei li chiama, le interessano, la morte meno, non è un tema che
tratta
volentieri. Comunque, il suo tema, dice, è questo: i palestinesi.
Risposta
professionale, mentre gli occhi brillano di passione.