VIAGGIO TRA I PALESTINESI CHE ASPETTANO LA SPARTIZIONE A Gerusalemme Est, « capitale» di Arafat Speranze, sogni e timori nel grande quartiere di Shuafat
martedì 25 luglio 2000 La Stampa 0 commenti
DA un momento all'altro può cambiare tutto. Dopo 32 anni, la grande
rivoluzione: potremmo entrare a far parte dello Stato Palestinese. La
parola
chiave che esprime i miei sentimenti è : ambivalenza. Lo desidero, e
nello
stesso tempo ho paura, una paura maledetta» . Gli occhi orientali
brillanti
come specchi neri, Ali Klebo, professore di antropologia
all'Università di
Al Quds, ovvero Gerusalemme in arabo, mi fa strada nella sua casa
spaziosa,
ornata di arazzi beige e rosa fatti fare al Cairo, di grandi poltrone
morbide, della luce di Gerusalemme che entra a fiotti. La sua è una
delle
famiglie più antiche di Gerusalemme, il suo spirito geniale di
scrittore e
pittore ne fa un intellettuale pirotecnico.
Fuori è molto caldo nel quartiere di Shuafat, 20mila persone delle
200mila
circa che dovrebbero, se la pace va in porto, passare ad Arafat.
Dalla Città
Vecchia, sono pochi chilometri che attraversano alterni quartieri
arabi e
israeliani, mondi diversi e alieni che lasciano pochi dubbi a chi
pensasse
che la capitale di Israele non sia una città profondamente divisa non
solo
fra due popoli, ma fra Occidente e Oriente; non solo fra religioni,
ma fra
culture, costumi, politiche abissalmente lontani. Fra Shuafat e il
successivo quartiere di Beith Hanina, anch'essa ormai quasi promessa
a
Arafat, c'è una continuità assoluta nella polvere e nel generale
degrado,
un'unica disperante immagine di città araba che non sgombera i mucchi
di
spazzatura e negli spazi lasciati alla natura fa crescere stoppie
gialle
invece di aiuole.
« Gli israeliani nel ‘ 67 hanno annesso la terra, e non i cittadini -
spiega
Klebo -. Non hanno mai creduto veramente di doversi prendere la
responsabilità del nostro benessere come di quello degli ebrei. Ci
hanno
negletto e discriminato. Da noi non esiste postino che consegni le
lettere,
né spazzino che pulisca sistematicamente le strade. Ogni poliziotto,
in
situazioni di tensione, ti può bloccare per ore mentre vai a casa. Se
compri
una casa o inauguri un business, nessuna banca ti fa credito. Ci
considerarono, quando presero Gerusalemme nel ‘ 67, ospiti
indesiderabili.
Gente che forse un giorno se ne sarebbe andata. Solo quando sei
malato ti
curano con una passione che sfiora il paradosso. Mia moglie ha
partorito
Aida, che ora ha quattro anni, in una clinica israeliana in cui era
trattata
come una regina. Durante l'Intifada, te le davano quasi fino a
ammazzarti,
poi ti portavano all'ospedale e ti coprivano di cure e affettuosità » .
Ride
amaro, Alì , e ci offre un caffè fatto con la macchinetta italiana.
Per la strada, a Beit Hanina, un ragazzo di poco più di vent'anni,
bello,
alto e bruno sente arrivare il grande momento: « Lo spero con tutto il
cuore,
è meraviglioso pensare che presto tutto qui sarà nostro, ma il
momento non
sarà perfetto finché tutta Gerusalemme non tornerà nelle nostre
mani» . Cosa
vuoi dire, anche la città ebraica moderna? « Certo, anche il Quartiere
Tedesco, anche Rehavia: anche là i palestinesi sono stati cacciati
dagli
ebrei nel '48» . Il ragazzo è un giovane funzionario del Fatah, e
vuole
diventare un uomo politico nel futuro Stato. Grandi speranze. Ma Alì
non
mostra nessuna tenerezza. Anzi, si arrabbia: « Ho visto la vita di mio
nonno,
di mio padre e poi la mia invase dalla lotta continua dei Palestinesi
con i
più svariati nemici: turchi, inglesi, ebrei. Io voglio vivere oggi,
adesso.
Ho costruito faticosamente la mia gioia quotidiana, il gusto per la
società
mista, le mie corse al mare che da qui, se non ci chiudono la strada,
dista
quaranta minuti. Ho sempre vissuto perché Gerusalemme diventi quello
che già
è , una città palestinese. Ma Arafat non rientra nel mio ideale, no e
ancora
no. I suoi uomini scorrazzano con le limousine, la sua polizia
spadroneggia,
i soldi scorrono come rena nelle mani dei bravi di Arafat, la
corruzione è
dilagante, e anche l'incapacità nel gestire la cosa pubblica è
lampante.
Rifiuto - dice Ali fiammeggiante - che questo accada a mie spese. Con
tutti
i guai che abbiamo, pure questa è un società sviluppata, abituata se
non
altro a infuriarsi perché le regole democratiche degli israeliani non
vengono applicate anche a noi. Arafat ci deve presentare un
programma, non
deve limitarsi a liberarci dagli ebrei. La sua società è basata
sull'arricchimento di una é lite: non gliene importa niente della
gente» .
Anche nelle strade circostanti i mercanti di mobili e di carne, i
fruttivendoli e le donne con il fazzoletto candido sul capo sono
cauti, ma
preoccupati. Non hanno nessun potere di veto sulle decisioni dei
grandi, né
del resto vogliono restare sotto il potere israeliano. « Prima di
tutto, che
ci chiedano che cosa vogliamo. E l'eventuale accordo, che Arafat lo
sottoponga a un referendum. Che ci garantisca una città aperta:
voglio
andare al teatro o al ristorante con mia moglie in qualsiasi zona.
Voglio
frequentare i miei amici. E che mi dichiari la sua fedeltà all'idea
dei
diritti umani, alla libertà . Molti qui vivono una vita moderna in cui
ogni
uomo ha un volto e un carattere: il mio migliore amico è un
disegnatore di
moda ebreo di Tel Aviv. La mia vita senza di lui sarebbe
tristissima» . Anche
Barak però deve dar conto ai residenti di Shuafat, Beit Hanina, Abus
Dis:
« Ho pagato a Israele le mie tasse, ho versato i contributi per la
pensione,
la disoccupazione, la mutua: non ho nessuna intenzione adesso, a 47
anni, di
ricominciare da zero. E quindi propongo, e non sono certo solo, di
continuare a versare comunque i contributi agli israeliani, e che
loro mi
ricompensino in termini di servizi» . Ma più di tutto, il professore
paventa
altri sassi, quelli di un muro che divida la città . Gerusalemme non
ha un
cuore di pietra, insiste desolato, ma un cuore umano.