VIAGGIO TRA I COLONI ALLA VIGILIA DELLA MANIFESTAZIONE DI TEL AVIV « Barak, in cinquecentomila cancelleremo la tua pace»
domenica 16 luglio 2000 La Stampa 0 commenti
inviata a TSAGOT
A Bet El come da Gaza o da Kohav Yaacov e in altre centinaia di
luoghi dai
nomi biblici si preparano gli striscioni, si contano gli autobus per
inondare di « no» Piazza Rabin a Tel Aviv, per assemblare, oggi,
domenica,
quella che Pinhas Wallerstein, il capo di 35 insediamenti del West
Bank nel
deserto della Giudea chiama già « la manifestazione dei 500 mila» .
« Sarà la
più grande manifestazione della storia d'Israele. Fermeremo Barak» .
Pinhas,
di mestiere agronomo, risponde alla cronista che lo accusa di andare
contro
la storia come se comunicasse i risultati di un teorema: spezza
l'argomento
e lo sottopone a una ricostruzione cognitiva e poi fissa
l'interlocutore
come dire: « Vedi? La pace non si fa: due più due fra quattro» . Ma non
si
aspetta che nessuno gli dia ragione e insiste: « La pace non ha
nessuna
chance, Barak non può né dividere Gerusalemme, né accogliere tre
milioni di
profughi. Può dar via le nostre case. Ma non può dare via il 100 per
cento
dei Territori; Arafat se non ottiene tutta la terra occupata nel 67,
West
Bank, Valle del Giordano, Gaza, Gerusalemme, vuole in cambio zone che
Barak
non può dare, perchè altrimenti ammette il principio di smembrare
Israele
dentro i confini del 48» . E' logico, ma non funziona: la voce di
Pinhas
suona sorda, la sua camicia bianca aperta sul collo disegna un
obsoleto
pioniere, ormai divenuto pericoloso. Barak farà i salti mortali per
tornare
comunque con un accordo. I ragionamenti del capo degli insediamenti
non
contengono la variabile « pace comunque» che è fondamento della
filosofia
occidentale odierna: due più due qui non fa quattro, Wallerstein
perché
tornino i suoi conti farà vedere a Israele i sorci verdi: « Prevedo
senz'altro una guerra civile, se Barak ci costringe» .
Il mondo guarda come reprobi alla gente dell'West Bank, di Gaza e
della
Valle del Giordano detta « coloni» , gente che si mette di traverso sui
binari
della storia; le televisioni riprendono sempre quelli che si
dondolano in
qualche preghiera nazionalista, oppure fanno vedere i dementi cattivi
che
vogliono uccidere il Primo Ministro. Esistono; si esercitano;
lanciano
maledizioni. Ma all'enorme maggioranza dei 200 mila abitanti
dell'West Bank,
quello che brucia è il senso di appartenenza, l'identità negata, il
pionierismo che il processo di pace ha sbriciolato loro fra le mani,
la
casa, il cortile e anche la paura antica e il sionismo antico che
Barak da
via a Camp David. IL settler oggi si sente un poveraccio in preda
alla
superbia buonista dei potenti. Come Momo Dor che vive sul cocuzzolo
di
Rimonim con altre cinquecento persone circa. Siede desolato nella
casa di
mattoni che ha costruito 17 anni fa per lui e sua moglie incinta. Ora
ha 4
figli. La mattina andava a guidare gli autobus della compagnia Egged,
gli
arabi tiravano i sassi dell'Intifada, erano agguati continui: « Io mi
sentivo
indispensabile al Paese, eravamo la famiglia numero 17 di 50 che poi
siamo
diventati; ho costruito con le mie mani anche la piscina comune,
anche il
tempio (ma nessuno qui è religioso) e l'asilo. Prima pensai che Begin
ci
avrebbe annesso, poi credetti in Shamir, anche Rabin fino all'accordo
di
Oslo era un soldato, avrebbe potuto anche lui.. poi piano piano da
eroi
siamo diventati ostacoli. Avevo fatto la guerra qui nel 67 ed era
allora
terra giordana. Ho visto morire molti compagni, qui ho avuto paura
che ci
buttassero in mare, tutti gli ebrei. Ho sempre desiderato, da allora
vivere
in mezzo a questo deserto. E' semplicemente un incubo che mentre io
ho
costruito qui la mia fabbrichetta di contatori per acqua in cui
lavorano i
Pilistyn del villaggio vicino, mentre i miei figli sono diventati
quattro,
mentre nella notti di calura in cui non si può dormire io dipingo i
miei
acquerelli in garage e entra l'aria del deserto, Barak dia via tutto
quello
che mi appartiene, il mio mondo, la casa del mio bambino, la
fabbrica. Credo
che resterò qui , anche con i palestinesi. Parlano molto di
risarcimenti,
molti sono pronti a prenderli.. ma non fa per me questa storia» .
Quando si entra in un insediamento, c'è sempre un giardiniere che
rastrella
sabbia, innaffia polvere, cura una improbabile serie di piantine
dentro
un'aiuola. Un condizionatore d'aria piuttosto primitivo soffia forte
sul
nostro viso nell'ufficio dell'organizzazione dei settler a Pfagot,
mentre
Pinhas Wallerstein, pallido, la mascella serrata, da ordini al
telefono come
fossero gli ultimi: « Consegnare i volantini personalmente; in mano;
verificare che ogni famiglia venga al completo, una per una, con i
bambini;
controllare le parole d'ordine sugli striscioni; e acqua, che ci sia
acqua
suoi pullman» . I settler hanno dichiarato guerra: sentono il fiato
sul
collo, tremano le fondamenta delle loro case arroccate in mezzo al
deserto
con i tetti rossi. Trema l'idea stessa del villaggio quasi
collettivista,
ultimo retaggio di un'Israele sognata, dei bambini che crescono
insieme
buoni, senza droga ne musica trans; si spenge il sogno della grande
Israele.
Ehud Barak stesso ha detto una volta « nella destra estrema io sento
una
combinazione di profondo fatalismo, di ansietà diasporica e di
messianismo,
avvolte in una fiera retorica nazionalista. C'è in questo una grande
contraddizione. Ma nelle emozioni, mi sento affine a loro» . Al Barak
ragazzo
sionista di un tempo, forse.
La presenza del deserto è avvertibile anche senza guardarlo da dentro
le
stanze calde. Il suo respiro ampio e mistico è una specie di continuo
memento dei limiti dell'uomo e dei suoi compiti, è come un debito
senza
fondo per i settler che costruiscono fra le pietre e si deliziano
della
bellezza dei tramonti nel deserto, si gloriano delle buiganvillee
viola e
delle ben ordinate aiuole e dei filari di viti fra le pietre, reggono
in
mano bandiere, costruiscono esistenze minimaliste nel cibo e nelle
vesti, un
po' californiane o kolkoziane, vite pulite, fedeli, popolate di
bambini e
verdure crude, salvo per gli ultrotodossi che sono però una minoranza
fra i
200 mila che cominciarono a spostarsi in quella che per loro era la
Giudea e
la Samaria, nel 67, sicuri di essere non solo legittimati dalla
storia, ma
persino apprezzati dagli arabi. « Io venni a vivere a Ofra diciassette
anni
fa « racconta il genetista Daniel Cassuto» proprio perché era
attaccata a
Ramallah e a altri villaggi, e per molto tempo ci siamo veramente
frequentati, palestinesi e ebrei. Non si capiva dove volgesse la
storia.
Poi, con l'Intifada tutto è cambiato. No, oggi non mi sono rimasti
amici fra
di loro. E io credo che la loro pace sia una parola per buttarmi
fuori di
qui. Pace per loro vuol dire: acquisizione. Poi, vorranno altre
acquisizioni: non posso dare un mandato a Barak di fare una pace che
darà
luogo a una nuova guerra» . « Dal suo punto di vista Wallerstein dice
« Arafat
fa semplicemente come fece Sadat a Camp David nel 78: vuole tutto in
cambio
di pace. Anche Assad seguiva lo stesso modello. Ma Arafat propone o
l'ingresso dei profughi, tre milioni secondo loro, o che noi li
riempiamo di
soldi mentre furono gli arabi a farli scappare. E noi non abbiamo 120
miliardi di dollari, e di questo si tratta. Il teorema
dell'impossibilità
lascia Wallerstein placato. Ma non si darebbe tanto daffare con gli
autobus
se non sentisse che c'è qualcosa che non va nei suoi calcoli.
Qualcosa che
ha a che fare col consenso, la globalizzazione, il danaro, il futuro
e
persino con l'etica moderna. I suoi autobus sono tanti, ma lui è
solo.
