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VIAGGIO NEL VOTO DI ISRAELE. 8. Si vota nello Stato ebraico, un giorn o di suspense per l'Occidente e gli arabi moderati Il verdetto su Peres e sulla pace Premier grande ma poco amato: favorito per 2 punti

mercoledì 29 maggio 1996 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV NOSTRO SERVIZIO È all'ultimo respiro la prova che oggi Israele affronta, il testa a testa fra Peres e Netanyahu. Il verdetto che Shimon Peres aspetta dalle elezioni di oggi è doppio e triplo: si tratta per lui della creatura della sua leadership e di quella di Rabin, il processo di pace, e quindi del destino del Medio Oriente. Si tratta anche del verdetto che la storia darà sulla sua opera. Ma infine, e forse soprattutto, si tratta di un desiderio che Peres ha sempre inseguito e mai raggiunto, e rispetto al quale è ancora un perdente: la conferma dell'amore del suo popolo, che gli ha sempre negato il plebiscito di una fiducia personale come quella che invece incoronò la carriera di Yitzhak Rabin. Peres vuol sapere, oggi, se la sua immagine di padre della patria, al pari di Ben Gurion o di Rabin, è finalmente accettata dagli israeliani, se gli è permesso ascendere alla simpatia popolare, all'affetto, oppure se seguiterà a perseguitarlo lo stigma che da sempre lo accompagna: un leader bravissimo, capace di mille acquisizioni, ma benvoluto appieno solo dalla comunità internazionale. Amato da Clinton, dai leader europei, accolto anche sentimentalmente dai leader arabi come Arafat, re Hussein, dal re del Marocco, dai sultani e gli sceicchi delle plaghe più lontane del mondo musulmano fino a ieri nemico. Eppure qui non amato; anzi, ritenuto un sognatore prepotente, disposto a tutto pur di imporre le sue utopie; un politico capace di qualsiasi manovra; talvolta persino un millantatore di promesse che non si possono mantenere; e un intellettuale che vive nel gelo della mente piuttosto che nel calore del cuore. Rabin disse di lui, ai tempi in cui fra di loro non esisteva quel sodalizio che è stato essenziale per la politica di pace, che riteneva Peres capace di ogni , di qualsiasi brutto scherzo. Golda Meir, Moshe Sharet, Menachem Begin, tanti fondatori dello Stato lo accusarono fin dalla giovinezza di non essere affidabile, di essere moralmente sfuggente, di non avere l'integrità necessaria a divenire un leader patriottico fino in fondo. Di tenere, in sostanza, solo per sé e per la propria bella intelligenza. Uno dei delfini di Peres, Yehud Barak, ex capo di stato maggiore e ministro degli Esteri, in questi mesi lo ha aiutato a impostare gran parte della campagna elettorale alla conquista del titolo ideale di : affidabilità morale, nel campo della sicurezza, nel campo militare. Perché le mille operazioni geniali di Shimon Peres, l'autentica collezione di doni che dal 1923, quando giunse a 13 anni in Palestina dalla Polonia col nome di Shimon Perski, Peres portò con sé , non lo fanno tuttavia perdonare da una falla biografica fondamentale: a differenza di Rabin e di quasi tutta la leadership israeliana, Peres non ha nessuna storia militare di scontro sul campo, non ha medaglie, non ha combattuto neppure nella guerra d'indipendenza. Ben Gurion però gli aveva già affidato allora grandi responsabilità , e proprio nel campo degli armamenti; ma soltanto a tavolino. Tuttavia fu il giovane dagli occhi brillanti e i modi europei a procurare la massima parte delle armi con cui la guerra fu vinta, comprandole dalla Cecoslovacchia, importandole di nascosto dalla Francia. E mentre fondava una rivista letteraria, fu Peres a costruire anche le prime fabbriche che avrebbero prodotto autonomamente i jet dell'aeronautica militare. Nessuno poteva crederci; solo il sognatore della piccola città di Vishniva. I primi jet uscirono dalle officine a tempo di record, sotto gli occhi stupefatti di tutti i detrattori del giovane politico. Fu Peres ad acquistare e organizzare le strutture indispensabili per costruire l'arma nucleare d'Israele, il reattore di Dimona. Fu sempre Peres a ordinare, quand'era ministro della Difesa, l'azione di salvataggio degli ostaggi di Entebbe. Peres, da primo ministro nel governo di coalizione nel 1984, fece uscire dal Libano l'esercito israeliano intrappolato; Peres rase al suolo un'inflazione del 200%. E benché negli anni fra il '74 e il '77, ministro della Difesa nel governo Rabin, fosse favorevole a una politica d'insediamento nei Territori occupati, pure fu lui il primo a incontrare di nascosto negli Anni 80 re Hussein a Londra; lui a spingere Rabin nel '92 a fidarsi dei palestinesi. Perché dunque oggi Peres, che ha dato a Israele un benessere economico senza precedenti e una simpatia internazionale inusitata, affronta Netanyahu, certo un personaggio di non grandissimo rilievo, testa a testa? Il suo vantaggio, esiguo, per gli ultimi sondaggi sarebbe di soli due punti. Perché questo destino, benché Peres - come ripete la sua campagna elettorale - abbia tutte le carte in regola sia per fare la pace che per difendere il Paese? Dopo la morte di Rabin infatti la sua resistenza messa a dura prova ha tenuto in ogni campo. La sua sfortuna è stata quella di trovarsi alle prese con un terrorismo aggressivo e penetrante, completamente nuovo nella storia d'Israele, il terrorismo degli integralisti islamici suicidi fattosi avanti proprio mentre Peres disegnava il sogno del nuovo Medio Oriente. Un sogno che è apparso dunque a molti come un vanaglorioso soliloquio. Peres si trova anche di fronte un mondo religioso che ha ancora tutti i suoi conti storici aperti con la leadership socialista del Paese. Il destino di Peres, inoltre, è quello di cercare di conquistare un mondo che benché ormai corra verso la pace è squadrato e difensivo; Peres invece ha uno sguardo morbido e ambiguo. Ma ormai la sua segretezza? e anche la sua ambiguità , sono agli occhi di gran parte di Israele lo specchio di quella pace cui qui si anela, e di cui si è cominciato a gustare la dolcezza. Fiamma Nirenstein

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