VIAGGIO IN UN VILLAGGIO ARABO DUE ANNI FA AVEVA VOTATO COMPATTO PER L’ ATTUALE CAPO DEL GOVERNO I palestinesi « traditi» dal premier Sche da bianca da quasi tutti i giovani
sabato 3 febbraio 2001 La Stampa 0 commenti
TIRA
LA moschea gialla e verde ha la cupola brillante come se l’ avessero
lucidata adesso. Tutta quanta Tira è netta e graziosa con le case
basse nel
paesaggio rurale piatto, la gente in strada verso la moschea (è
venerdì
mattina). Tira sta per giocare a Barak un brutto scherzo. Dei suoi 19
mila
abitanti arabo-israeliani, coloro che hanno diritto al voto
preferirono
Barak nel 1999. « Preferirono, allora» , sorride ansioso e ironico il
sindaco
laburista Khassem Khalil. Adesso, niente: sono un pugno di cittadini
per lo
più anziani quelli che ripeteranno la stessa scelta. Tutto il settore
arabo
della popolazione israeliana, circa un milione di persone, un po’
meno del
venti per cento della popolazione e il 14 per cento circa dei
votanti, sta
decidendo semplicemente se non andare a votare oppure optare per la
scheda
bianca. In pratica, di rovinare Barak.
Non importa se gli arabi sono stati da sempre una roccaforte della
sinistra.
Venerabile, magro, scuro come una noce sotto la kefiah bianca dice il
muhtar
(capo villaggio) Abdul Hai Ali: « Sono finiti i tempi in cui ci
tenevano
nella loro tasca» . Yossef Massarawa, anche lui un uomo d’ età , seduto
sotto
una tettoia all’ uscita della moschea, all’ ombra, con un bel gruppo di
vecchi
notabili, ci offre tè dalla cuccuma di rame e racconta: « Per 40 anni
ho
militato nel partito laburista (il Mifleget Avodà ; nda); portavamo la
gente
a votare uno a uno. Adesso se ci provo mi dicono: che cosa vuoi tu
col tuo
Barak? La polizia ha ucciso tredici dei nostri a Nazareth e a
Tiberiade in
ottobre durante i moti dell’ Intifada. Quando mai uccide gli
israeliani, per
esempio i religiosi o i coloni, che pure manifestano sempre in modo
violento?» « Anch’ io sto decidendo di non andare a votare» , se ne esce
con un
certo stupore di suo padre il ventitreenne figlio del sindaco,
Ibrahim: « Non
hanno aiutato mio padre che ha fatto tanto per Barak, il quale è
stato anche
nostro ospite tre volte. Le strade sono vecchie, la scuola è piccola,
l’ elettricità è pessima... E oltre a trattare i nostri villaggi, che
ormai
sono grandi città , come paesetti di seconda classe, e noi come
cittadini di
seconda classe, hanno anche ucciso tredici nostri fratelli...
L’ avesse fatto
Sharon, sarei meno infuriato... Ma Barak! Che tradimento!»
« L’ atteggiamento arabo-israeliano di fronte al voto - commenta il
mediorentalista israeliano professor Amnon Cohen, capo dell’ Istituto
Truman
per la Pace - è denso di segnali: il rifiuto di tornare a votare
Barak è una
forma di protesta generale. L’ Intifada ha rinfocolato l’ identità
palestinese, ma nello stesso tempo, giocando sul voto, gli arabi di
qui
chiedono di contare di più in quanto israeliani. Non sceglierebbero
mai,
quando ci sarà uno Stato palestinese, di andarsene. Ma vivono in un
Paese in
cui sono minoranza, uno stato ebraico che porta sulla bandiera la
stella di
David e nell’ Inno canta la nazione ebraica. Non fanno il servizio
militare,
ma hanno uomini nel governo, persino nella commissione per la
sicurezza.
Protestano giustamente per avere avuto uomini uccisi negli scontri,
ma sanno
di spaventare a morte la popolazione ebraica che teme un’ Intifada
dentro i
confini. Non hanno avuto tutto il supporto economico necessario, ma
il loro
balzo in alto è stato gigantesco, rispetto al punto di partenza. In
generale
a me sembra a tutt’ oggi che vogliano restare parte integrante,
seppure
controversa, del contesto nazionale» .
Poco lontano dalla moschea di Tira, in una scuola elementare, quattro
studentesse e uno studente dell’ università di Tel Aviv, molto
eleganti e
educati fanno il loro training pedagogico. Solo Karama, mora e ben
truccata,
dice che voterà Barak se saprà fare la pace. Per lei Israele, in
buona
sostanza, è accettabile, se lo è per i suoi fratelli in guerra. Gli
altri
non voteranno: per loro Barak e Sharon sono la stessa cosa. Parlano
di
diseguaglianza, di come l’ Università è più servita dalla parte
israeliana
che da quella araba; ma torna nelle loro parole soprattutto una
nostalgia di
lotta, un senso di colpa verso i fratelli più poveri dei Territori.
Sei
israeliano o no, in definitiva? « Lo sono e lo resterò , ma non mi ci
sento.
Mi sento arabo» , dice il ragazzo.
