Fiamma Nirenstein Blog

Varsavia: nel giorno della Pasqua ebraica, l’ insurrezione. La lotta disperata nei ricordi di un protagonista 1943: il mio Ghetto contro i nazisti

martedì 6 aprile 1993 La Stampa 1 commento
TEL AVIV NON è certo facile incarnare la grande storia, a ogni passo essere un Muzio Scevola, un Bar Cochba, un Robespierre, un Garibaldi: Stefan Grayek, uno dei capi della rivolta nel Ghetto di Varsavia che ebbe luogo 50 anni fa, nel dì della Pasqua ebraica del 19 aprile 1943, porta la maestà del suo ruolo con scabra modestia. Il suo scenario odierno è un piccolo appartamento alla periferia di Tel Aviv, senza alcun orpello. I suoi capelli hanno i segni dorati di quell’ apparenza che gli consentiva di passare il muro del Ghetto alla ricerca di armi fuori dell’ inferno. La notte dal 15 al 16 novembre 1940 le forze germaniche che occupavano Varsavia elevarono il muro che doveva separare il quartiere ebraico dal resto della città sino alla sua completa distruzione. Dal 12 novembre ‘ 39 gli ebrei erano costretti a portare una banda con la stella di David sul braccio destro, le leggi già proibivano la vita civile ed economica, le violenze di massa decimavano la comunità ebraica più vasta d’ Europa. In una sola notte, nel gennaio del ‘ 40, 300 ebrei fra i membri della intellighenzia, professionisti, leader, furono arrestati e uccisi. Era solo l’ inizio: vasta concentrazione degli ebrei nel mondo racconta Grayek ; quando il Ghetto fu tagliato fuori dal consesso civile i tedeschi vi avevano già spinto dentro, nella prospettiva della decimazione, 450 mila persone, ammassate e sospinte da ogni angolo della Polonia. Ormai in certi edifici si stipavano fino a mille persone private di tutti i beni, devastate dal contagio delle malattie, dalla fame più radicale e dalla violenza dei tedeschi e dello Judenrat, la polizia ebraica, e dall’ antisemitismo selvaggio dei polacchi. Grayek assiste all’ inverosimile affollarsi dei suoi compatrioti ebrei nel ghetto anticamera della morte con occhi di ragazzo. Nato nel 1916, figlio di una famiglia benestante, conosce poco della religione, i suoi lo avviano all’ educazione laica del sognatore socialista sionista, gli fanno frequentare una scuola polacca, lo lasciano iscrivere al Dror, organizzazione il cui nome significa libertà in ebraico. Questa lingua è ormai non solo quella delle preghiere, ma anche quella del sogno della redenzione nazionale. Infatti Stefan fa anche parte del Poalei Sion, il partito detto del : non credevo mai di divenirne, a 24 anni, il segretario generale a causa dell’ esodo dalla Polonia dei miei superiori soprattutto verso l’ America. Quando, nel 1940, d’ ottobre, Emanuel Ringelblum invitò Grayek a una riunione di sole quattro persone, ancora l’ idea della cospirazione contro l’ occupante tedesco non ha preso la sua forma di lotta armata. L’ idea base di Ringelblum era una resistenza soprattutto intellettuale, che traducesse lo stupore senza confini per la reclusione nel ghetto e per l’ ormai evidente politica di sterminio in informazioni reciproche, in collegamenti fra gli ebrei della Polonia, in raccolta di materiali e di memorie che consentissero ai contemporanei e ai posteri di capire per agire Sinché il Ghetto non divenne una fornace nera di macerie bruciate, piene di mozziconi umani, una delle fondamenta della nostra rivoluzione seguitò a essere la cultura, sino al momento in cui cantare insieme o assistere alla lettura di una poesia in uno scantinato non fu più possibile perché i cantanti, gli attori, i poeti erano stati tutti deportati, o assassinati per strada... Ma prima che alle armi pensammo alla resistenza psicologica, alla resistenza civile. I tedeschi proibirono agli ebrei di studiare, e noi subito organizzammo scuole clandestine che venivano coperte dal lavoro degli shop, le officine in cui i tedeschi facevano lavorare per loro gli ebrei. L’ orrore quotidiano guardia e nei retrobottega i maestri insegnavano la storia, la letteratura, l’ ebraico, la matematica, pronti a disperdersi se si scorgeva la pattuglia tedesca. Organizzammo allo stesso modo centri di raccolta di abiti e mense popolari. La gente, ormai 380 mila persone, viveva un incubo separato, a parte: la vita era tutta nella nebbia che si scorgeva al di là del muro. Ogni giorno con un carretto, con una valigia, con un pezzo di pane in mano, la gente che giungeva da Lublino, da Lodz, da Cracovia, dalle campagne veniva stipata nel Ghetto di Varsavia. Vecchi, bambini, uomini senza più lavoro, e senza nessuna possibilità di trovarne mai più . La gente cominciò a morire come mosche, mentre un brusio di eccitazione affamata si levava dall’ area reclusa. Nel maggio 1941 gli ebrei nel Ghetto furono compressi dall’ arrivo di altre masse, sino a divenire 430 mila. Nel luglio i tedeschi schedano 17. 800 rifugiati malati di tifo, fra cui 3300 bambini. L’ orrore è ormai parte della vita quotidiana: dai tedeschi, dalle epidemie e dalla sfinitezza giacevano gli uni buttati sugli altri. Era impossibile trovar loro sepoltura, tanti erano. Ricordo la prima volta che vidi per terra una distesa di fogli di giornale e per un attimo non capii che sotto giacevano decine di cadaveri come fossero spazzatura. I carri funebri non tenevano il ritmo della morte. Lo stupore copriva spesso il dolore e la rabbia: era incredibile vedere i soldati picchiare e tormentare fino alla morte i vecchi, sembrava impossibile veder uccidere un bambino di sei anni che cercava di scavalcare il muro in caccia di cibo o che rientrava nascondendo del pane sotto la giacca. Incredibile vedere la propria madre trascinata alla Piazza di raccolta per essere portata a Treblinka. Le grandi deportazioni a cavallo tra il ‘ 41 e il ‘ 42 furono la molla per organizzare la lotta armata: sopravvivere: consideravamo ambedue le cose impossibili. Soltanto, volevamo scegliere di morire alla nostra maniera. Gli occhi dei ragazzi, tra i 15 e i 30 anni, che saranno i veri protagonisti della rivolta del Ghetto, erano spalancati sui massacri di Vilno, di Riga (37 mila vittime), sull’ apertura di Auschwitz e di Belzec. Il 22 giugno ‘ 42 il Consiglio ebraico di Varsavia pubblica l’ editto che sancisce la deportazione degli ebrei del Ghetto di Varsavia. Da giugno a settembre così efficace e terribile fu l’ azione dei tedeschi che alla fine della grande retata solo 60 mila ebrei restavano dentro le mura. Gli altri, trascinati con la forza o allettati dalla promessa di una forma di pane e di un vasetto di marmellata che li portava a autoconsegnarsi alla polizia, o semplicemente sfiniti, si dirigono alla Piazza da cui il treno li carica per Treblinka: Così vi andò mia madre, e anche mia sorella Henia. Ma Henia l’ ho ritrovata viva a Bergen Belsen dopo la guerra sulla scorta di informazioni fortunose. La portai a Parigi da un mio zio, ma dovetti tornare in Polonia per riprendere la lotta a fianco dei partigiani polacchi. Era il 1945. La decisione della lotta armata, dunque, viene con la notizia degli eccidi delle foreste di Vilno: sui tempi. Finché capimmo che l’ unico vero problema era: procurarsi le armi. Avanti e indietro di qua e di là dal muro, rischiando ogni volta la vita per trovare una pistola, un pugno di pallottole, un chilo di tritolo. Chiunque avesse un volto ariano, come Grayek e come tante belle ragazze sotto i vent’ anni, viaggiava tutta la Polonia sotto mentite spoglie rischiando la vita a ogni istante. Grayek e i suoi supplicano armi dalla Resistenza polacca che gliele rifiuta: rivolta, Varsavia intera ci avrebbe seguiti senza essere preparata. Infine il governo polacco in esilio a Londra ordinò ai suoi di darci 49 fucili, alcune decine di bombe a mano e qualche decina di chili di tritolo. Per far entrare le altre armi si usarono mille metodi: per esempio, nel grande shop di Shultz, in cui io lavoravo, c’ era un pentolone della mensa col doppio fondo: le donne vi lasciavano le pistole appena introdotte, e noi uomini le portavamo via. A noi era chiaro che non saremmo sopravvissuti. Ma di fronte a noi c’ era solo Treblinka, c’ era la morte per fame, per il capriccio di un tedesco ubriaco, per l’ antisemitismo dei nostri stessi compatrioti polacchi. Volevamo soltanto non morire disarmati e rendere difficile ai tedeschi la nostra distruzione. terrorizzato] Unificate le forze sioniste e socialiste, i combattenti giunsero al numero di circa 400, poi 500. Nei sotterranei più profondi s’ imparava a sparare: vita e d’ amore anche se per strada vedevamo scene che mente umana non può concepire: i neonati vivi nelle braccia delle madri morte, mucchi di bambini morti e intorno altri bambini che aspettavano il loro turno accovacciati per terra. Trecentomila ebrei erano già stati deportati, e sapevamo per certo, anche attraverso la stampa clandestina che non ci stancavamo di pubblicare, che presto sarebbe cominciata la seconda retata. Il 18 aprile ‘ 43 sapemmo che la Wehrmacht aveva ammassato le truppe intorno al muro, pronte all’ assalto. Io mi trovavo in Rua Leszno, nella zona degli shop di Shultz. Il mio gruppo era fatto di dieci ragazzi, maschi e femmine: sopravvivemmo in due. L’ altro vivo è Aron Karmi e abita a Tel Aviv. Ci avevano detto che i tedeschi non avrebbero toccato gli shop di Shultz, perché la loro produzione gli serviva ancora. Ma noi, quando udimmo i primi spari dal piano alto, che come tutti i gruppi avevamo scelto in modo da avere un punto di difesa avvantaggiato, buttammo giù due bombe a mano su una pattuglia tedesca che subito rispose al fuoco e ci costrinse alla ritirata. Ma, prima, avevamo fatto feriti e morti fra i tedeschi] Avevamo visto il volto del nemico terrorizzato da noi, dagli ebrei miserevoli che essi avevano destinato a morire come topi nel Ghetto o a Treblinka] Avevamo compiuto la nostra vendetta, e quella dei nostri compagni. Per una settimana i tedeschi cercarono invano di conquistare il Ghetto: l’ organizzazione ebraica combattente unitaria, Zob, perse nelle battaglie per strada quasi tutti i suoi ragazzi. polacchi durante la nostra rivolta fu perfetto, orribile... Sapevano tutto, vedevano tutto. Solo la memoria di alcuni giusti, che pure erano anche fra loro, mi consente oggi il perdono. E d’ altra parte anche nella Resistenza polacca, cui ci unimmo più tardi, trovai l’ antisemitismo di sempre. Per vincere la resistenza del Ghetto i tedeschi dettero fuoco a ogni edificio, casa dopo casa. Per giorni su tutta Varsavia volarono le ceneri eroiche dei ragazzi e delle ragazze uccisi con le armi in pugno o che, come il capo dello Zob Mordechai Anielewicz, si tolsero la vita per non cadere in mano tedesca. Mordechai aveva 24 anni e i suoi vollero seguire la sua sorte nel bunker comando di via Mila, al numero 18. pochi e troppo tardi godemmo della gioia della rivolta. Ma esisteva una rivolta ben più vasta e inespressa. Anche chi non ha fatto in tempo a colpire aveva in casa nascosta un’ ascia di ferro, un coltello per un ultimo gesto. Anche la madre che correva a strappare il bambino dalla strada e si faceva uccidere dalla ronda ha compiuto la sua rivolta. Il 2 ottobre il Ghetto era un cimitero di pietre fumanti. Fiamma Nirenstein

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daria anfelli , italia
 mercoledì 23 settembre 2009  13:21:18

gentile Fiamma, sento una necessita' morale di ricordare la complessita' della situazione della Polonia al momento dei fatti. Come giustamente fa notare lo sai storico Norman Davis, non si possono giudicare allo stesso modo gli eventi in un paese libero e in un paese schiacciato da una occupazione disumana. Lei sa bene, e sarebbe il caso di ricordarsi anche di loro, delle decine di migliaia di cittadini polacchi che hanno rischiato la vita, o sono stati uccisi o deportati per aver nascosto o aiutato gli ebrei durante la persecuzione nazista, cosi' come di quegli ebrei, le cui vicende sono ugualmente documentate dalla storia, che hanno venduto i loro servizi ai tedeschi, agendo contro i propri stessi fratelli. Non si tratta di casi isolati in entrambi i casi, e solo la coraggiosa analisi dei fatti, comoda o no, pemette di comprendere la Storia e fare tesoro della lezione, perche' tali orrori non possano piu' tornare. cordiali saluti. D.A.



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