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Una tregua molto pericolosa

martedì 1 luglio 2003 Diario di Shalom 0 commenti
Dopo la guerra in genere la pace stende le sue ali sui contendenti, piena di dolore, ma con una sua dolcezza infinita. La speranza si posa sulle cupole e sulle case. Il nemico diventa un essere umano, con le sue miserie, la sua ricchezza, i suoi bambini. La sensazione di questa "hudna" di questa tregua così citata, così invocata, così blaterata dalle tv e dai giornali non è di questo genere: è piuttosto quella di un paravento posto a nascondere una grande confusione che deve restare nascosta. Lo spettacolo in questo momento deve infatti essere quello di uno sfondo fiorito per due protagonisti, israeliani e palestinesi, che di fronte al pubblico recitano i sorrisi, le strette di mano, il cessate il fuoco, gli sgomberi territoriali mentre ci sono due sole verità che traspaiono dai loro comportamenti. Il primo, il dolore di tanti morti; il secondo, la indispensabile scelta di restare all'interno di uno scenario geopolitico, quello del dopoguerra in Iraq, che non consente assenze o ritardi, altrimenti perdi il treno, o peggio. Intanto, è importante sapere cos'è una hudna per il mondo arabo, visto che Hamas ha affermato di accettarla sia pure per breve tempo: il profeta Maometto fece una leggendaria tregua di dieci anni con la tribù dei Quraysh che aveva controllato la Mecca per sette secoli. Nei due anni successivi, però, Maometto si riarmò e ad una piccola infrazione dei Quraysh lanciò la piena conquista della Mecca sconfigendoli. Nel '94 Arafat richiamò appunto la hudna di Maometto per descrivere il suo impegno nell'accordo di Oslo. Di fatto nel 2000, lo fa notare anche l'islamista Daniel Pipes, Arafat lanciò il suo assalto. Hamas adesso è stremato, è impaurito ed ha necessità di recuperare le forze. La sua tradizione nel dichiarare e rompere vari cessate il fuoco è nota, è successo una decina di volte e molti l'hanno pagata con la vita. Molti israeliani hanno dichiarato la pericolosità dell'accettazione di una hudna temporanea, spiegando che sarebbe invece necessario un impegno senza limite di tempo e quindi con una determinazione senza remore da parte dell'Autorità Palestinese di prendere la responsabilità della sicurezza nelle zone da cui Israele si ritirerà. A cominciare, secondo gli accordi, da Gaza e da Betlemme. Ma un impegno di questo genere è molto gravoso: chi si avventura in queste settimane a Gaza o a Betlemme si trova sotto gli occhi una realtà doppia. Da una parte, mi è capitato di incontrare ufficiali palestinesi di prima grandezza, come Abu Jihad (che a Betlemme è il capo della polizia preventiva alle dirette dipendenze del ministro degli Interni pupillo di Abu Mazen, Mahmoud Dahlan) che dichiarano senza remore la loro prontezza a fermare il terrorismo (nel nostro incontro lo ha chiamato così, col suo nome), la determinazione a controllare i check point, a mettere in prigione "chiunque violi la legge"; dall'altra parte però basta girare l'angolo e chiacchierare con due giovani gommisti all'angolo del campo profughi di Deheyshe per sentire uno di loro esclamare senza remore e con molta serietà: "Ho avuto quattro fratelli shahid, martiri (ovvero, ndr, terroristi suicidi), io stesso voglio esserlo un giorno. Gli ebrei devono tutti quanti morire o spostarsi di qui. Io li taglierei volentieri a pezzetti, e li mangerei con gusto". Ho riportato senza aggiunte le parole esatte; altri ragazzi incontrati per strada, meno espliciti, si limitano a dire che se la polizia dell'Autonomia li attaccherà, essi risponderanno con tutte le loro forze, anche col fuoco. Per ora Hamas agli occhi della gente è il grande vindice della sofferenza palestinese, per gran parte, anche se non per tutti, la bandiera di un futuro privo della presenza ebraica. Anche le Brigate dei Martiri di Al Aqsa, e la Jihad Islamica, con Hamas hanno grandi esitazioni a scegliere la tregua, che comunque, una volta scelta non cambia la cultura e i sentimenti del loro pubblico che si aspetta le consuete azioni, vero elemento di legame e di entusiasmo in un mondo le cui mura sono tappezzate dai ritratti degli shahid e le tv, i giornali, le scuole, ne cantano le lodi. Contro di loro una schiera più silenziosa di ragazzi che sognano una vita normale, un po' più visibili, un po' più espliciti nel condannare il terrorismo, e naturalmente molto determinati a chiedere a Sharon di agire finalmente: "Senza chiacchere, che se ne vada, che faccia qualcosa di pratico". Sono i ragazzi che dicono, anche a Gaza, di aspettarsi che Abu Mazen agisca anche lui, finalmente, per salvaguardare il loro futuro, per attuare la road map. Ma Abu Mazen, che aveva promesso al summit di Aqaba di combattere il terrorismo, successivamente ha intrapreso invece, proprio per cercare di non rovinare il suo già fragile rapporto con la base palestinese, un dialogo intensivo con Hamas, cercando non solo di convincerlo alla hudna ma, ciò che certo non lo ha rafforzato nella implacabile logica del Medio Oriente, di catturarne i consensi fino a portarli dentro il governo dell'Autonomia. Questo ha operato una promozione personale e concettuale dei terroristi e del terrorismo non solo, come di consueto, nella cerchia interna dell'Autonomia, ma agli occhi del mondo intero: infatti gli americani, il Quartetto tutto, Israele stesso si sono trovati a sperare nel consenso politico, nel "si" di un'organizzazione che è stata ripetutamente dichiarata terrorista, che si vanta di voler uccidere o cacciare da tutta la Palestina, ovvero anche da Israele (secondo le parole di Rantisi e dello sceicco Yassin) fino all'ultimo ebreo e che non ha mai dato nessun segno di riconoscere lo Stato Ebraico. Il fatto che Hamas sia stata trattata come un interlocutore, è di per sé molto pesante per le prospettive di un progetto di pace, per la stessa Road Map. Infatti l'idea di Bush è quella che ogni e qualsiasi processo di pace fra l'occidente e il mondo mussulmano sia basato sulla rinuncia al terrorismo indotta dalla democratizzazione delle istituzioni degli interessati, in questo caso della Autonomia Palestinese. Questo, nel caso della nostra hudna, non è accaduto, se non in misura infinitesimale e incerta, dato che comunque anche Arafat è sempre dietro il paravento fiorito, nella parte del burattinaio. La montagna è andata a Maometto, non c'è stata una sconfitta ma una velata istituzionalizzazione del terrorismo, anche se per il momento lo vediamo deporre le armi. La speranza è che questo abbandono momentaneo degli attentati ci sia davvero: più di ogni elucubrazione vale la pace di Israele. Noi non faremo come coloro che ogni volta che c'è un attentato, invece di interrogarsi sulla pena dei feriti, sullo strazio delle famiglie degli uccisi pongono domande sul pericolo, che dunque, potrà correre il processo di pace. Il processo di pace esiste quando il terrorismo viene meno. Noi ci interrogheremo sulla salute della gente e ne deriveremo la nostra soddisfazione, o meno, verso la Road Map. Fermo restando che essa deve essere onorata, sempre che il terrorismo lo consenta, anche dalla parte israeliana, con gli sgomberi e le facilitazioni promesse.

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