Una festa triste anche per il « nemico»
mercoledì 16 maggio 2001 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
IL « Giorno della catastrofe» , ovvero quello della fondazione dello
Stato
ebraico, per i palestinesi e un po’ per gli arabi tutti, che hanno
fatto
dimostrazioni e bruciato bandiere israeliane nelle varie capitali del
Medio
Oriente, non è mai stato così ideologicamente marcato, così ben
organizzato
e impugnato come un’ arma. Il perché è logico: c’ è una guerra in corso
ormai
da sette mesi, quindi il vessillo antisraeliano viene sventolato più
in
alto. Ma forse Arafat si sarebbe aspettato, prima di volare al Cairo
ieri
pomeriggio, un numero maggiore di palestinesi in piazza, e magari,
dopo
esservi volato, un numero maggiore di attentati sul territorio
israeliano.
Invece il giorno della Nakba è stato in definitiva controverso,
ancorchè
carico di epos e di mito, da parte palestinese e anche da parte
israeliana.
Infatti anche gli ebrei hanno dovuto per forza e un po’ perversamente
celebrare l’ odio contro il loro Stato: c’ è stato nei media e fra la
gente un
fenomeno di convulsione spirituale, di ulteriore revisione della
propria
storia a partire dalla guerra d’ indipendenza, nel 1948, uno stupore
nel
vedere le proprie modalità politiche (i tre minuti in silenzio
sull’ attenti)
copiate identicamente; ma anche l’ odiosa sensazione di essere
circondati da
una convinzione invincibile. Israele, dice la Nakba, non è gradito
nell’ area
a nessun costo, a prescindere dalla sua politica.
E’ stato choccante per i cittadini israeliani ascoltare alla radio
decine di
proteste arabe e storie di sofferenza come quelle presentate dallo
scrittore
Wadiya Aawadde, autore del libro « Una memoria che non finirà mai» ,
una
collezione di testimonianze. Il giovane (ha 38 anni) ha detto: « La
sensazione che mi ha dato mettere insieme le storie di case
abbandonate,
alberi, nonni, genitori, è quella di uno scontro eterno, e solo
adesso, con
questa Intifada, ho capito che tutti i guai di oggi sono un seguito
di quel
‘ 48". Una dichiarazione paurosa per un israeliano: non fa piacere a
nessuno
che la propria data di nascita venga considerata da qualcuno,
soprattutto da
coloro con i quali si spartisce la terra in cui si vive, il « giorno
del
disastro".
« Dal loro enorme impegno nel celebrare la Nakba e dal nome che hanno
scelto
- dice per esempio nel premier Benjamin Netanyahu - si capisce che il
loro
unico sollievo, la loro riparazione del "disastro" sarebbe non un
trattato
di pace, ma la sparizione dello Stato d’ Israele". E Shimon Peres. « Il
passato ormai non può cambiarlo nessuno, cerchiamo almeno di
costruire un
futuro migliore. Arafat non dovrebbe compiere oggi lo stesso errore
che fu
la premessa della loro Nakba, ovvero il rifiuto di un accordo, di una
spartizione, come quella stabilita dall’ Onu nel ‘ 47 e che i Paesi
arabi
rifiutarono, invitando i palestinesi ad andarsene mentre ci
attaccavano; e
noi avevamo invece accettato di buon grado di convivere» .
I giornali palestinesi più importanti hanno dedicato molte parole di
contrizione a quei giorni di guerra. « Haaretz» riconosce che la
nascita
dello Stato d’ Israele fu uno choc insopportabile per il mondo arabo:
« Rappresentò il riapparire dell’ odiato imperialismo, l’ introduzione
dell’ elemento straniero, religioso e nazionale, nel cuore della
regione» . Ma
d’ altra parte, spiega, i guai che nacquero allora, in particolare il
problema dei rifugiati, « sono un risultato diretto della guerra
(voluta
dagli arabi), della visione dell’ ebreo come di un nemico, e
soprattutto del
rifiuto di accettare il piano di partizione dell’ Onu. E dopo la
sconfitta
gli Stati arabi continuarono per la loro strada... mentre i
palestinesi
seguitarono a portare il fardello della situazione» .
Negli anni passati, paradossalmente, ciò che ha enormemente convinto
i
palestinesi della possibilità di far tornare indietro le lancette
della
storia a una situazione pre-partizione, è anche l’ intenso lavoro
della
scuola dei « nuovi storici» israeliani, il cui più famoso esponente è
Benny
Morris: la sua tesi per cui parte dei palestinesi residenti nelle
zone di
guerra nel ‘ 48 non se ne andarono spontaneamente ma furono cacciati
sulla
punta del fucile, è stata amplificata fino a celare la guerra che era
in
corso, come se non fosse vero che i leader arabi indussero i
palestinesi a
non accettare nessun compromesso. Israele da anni esercita la sua
coscienza
su questa parte della vicenda e la insegna anche nelle scuole. I
palestinesi, come gli egiziani e i giordani, dovrebbero capire
insieme con
gli israeliani che il Medio Oriente può offrire solo soluzioni
imperfette ai
suoi abitanti. Né i confini biblici né quelli del ‘ 67 hanno un senso,
ma
solo quelli della buona volontà reciproca.